Risulta indubbiamente evocativo e per più prospettive – politiche, sociali, economiche, culturali – dedicare la 6ª edizione del Convegno sulla storia digitale (Auditorium Fondazione di Piacenza e Vigevano, 8-10 marzo 2018), ai temi del lavoro e dei lavoratori.

Cento anni fa, con la fine del primo conflitto mondiale, prendeva avvio la mutazione antropologica fondamentale del XX secolo, l’egemonia del sistema di produzione industriale-capitalistico, la distruzione dell’universo rurale, la trasformazione dei contadini in soldati, delle contadine-casalinghe in operaie. Un anno prima, la rivoluzione bolscevica pareva incarnare il sogno di una società in cui la gestione del potere sarebbe stata dei lavoratori, per i lavoratori, liberati dallo sfruttamento, restituito il lavoro alla sua essenza di atto creativo. Immediatamente se ne diffondeva il mito, persistendo indipendente dagli esiti contraddittori della rivoluzione sovietica e delle condizioni reali di esistenza dei lavoratori nello “stato dei lavoratori”, ad alimentare nuove, insopprimibili speranze di riscatto.

Settanta anni fa, il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione italiana che mette al centro il lavoro in quanto condizione di cittadinanza, come diritto e come dovere, e conserva, in una formulazione innovativa e democratica, quella stessa tradizione utopica. Il lavoro, “fondamento” della legge primaria dello stato, è il portato di una classe politica consapevole della storia e capace di conferire prospettive ai problemi.

Cinquanta anni fa, con la stagione dei movimenti del ’68 fiorisce un dibattito intenso, diffuso, ricchissimo sulle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, che impegna le migliori menti e, accompagnando le grandi lotte operaie che danno le ali ai sindacati, conduce, in una fase economica di problematica transizione e ineguali opportunità di benessere, a importanti riforme sociali. Il pensiero femminista si arricchisce di nuove prospettive. L’ecologismo, la salute dei produttori e la salvezza della terra diventano negli anni seguenti temi centrali della riflessione e obiettivi di mobilitazione giovanile.

Dieci anni fa, ormai chiuso il Novecento, il neoliberismo, dopo la grande trasformazione tecnologica che ha mutato nel profondo i modi, i luoghi, i processi, i soggetti della produzione, entra in una fase di crisi tutt’ora presente e i contraccolpi della recessione mondiale sulle economie nazionali e famigliari, sugli spostamenti di popolazioni da esso indotti sembrano rimettere il tema del lavoro al centro dell’interesse collettivo. Ma questa uscita dalla “invisibilità” è solo apparente.

Mai come oggi il lavoro – come assenza, ricerca, orientamento, delocalizzazione, sfruttamento, pensionamento, avvio, costo, risorsa, e sempre fatica, ansia, impegno – è stato al centro delle nostre preoccupazioni, del dibattito politico nazionale e internazionale, persino incluso in una recente riforma scolastica nazionale, che lo contempla in “alternanza” con la scuola. E mai come oggi sono di difficile applicazione gli strumenti intellettuali per comprenderne le dinamiche, per definirne i caratteri, conoscerne gli effetti, coglierne le direzioni di cambiamento e di modificabilità, come mettono bene in luce le rare e preziose occasioni di dibattito promosse da associazioni emerite come la Società italiana di storia del lavoro (Sislav). In nessuna scuola, il curricolo prevede la storia del lavoro e dei lavoratori, o la messa a tema degli effetti dell’ultima mondializzazione economica, dei flussi di danaro, merci, uomini e donne che provoca, delle soggettività sociali e professionali che ne scaturiscono, come se questi non fossero conoscenze imprescindibili per aiutare i giovani a “orientarsi nel mondo del lavoro”, come continuamente si predica!

In altri termini, il caos informativo non stimola, bensì deprime le possibilità di conoscenza, di autonomia e di scelta dei soggetti in quanto cittadini-lavoratori. L’affastellarsi delle parole, degli slogan, delle ricette elettorali, della vulgata economicista catturano il nostro sguardo e ci impediscono di vedere, dietro il dito che dovrebbe indicarla, la luna. Per “vedere”, abbiamo bisogno di osservare i fenomeni da molti punti di vista, di mettere a fuoco intersezioni illuminanti ma spesso ignorate fra ambiti di studio apparentemente lontani eppur costitutivi della riproduzione dell’esistenza in tutti i suoi aspetti, che siano il rapporto con la natura, sotto forma di ricaduta ecologica delle pratiche lavorative, la considerazione della complessità delle dinamiche globali, così come Gregory Bateson le intendeva, con cui rimettere nella giusta prospettiva storica e analitica il fenomeno migratorio, o la capacità di osservare il panorama postindustriale delle nostre città, i suoi “vuoti” di fabbriche arrugginite e i suoi “pieni” di enormi scatole di cemento contenitrici di merci e uomini telecomandati.

Rivolgere l’attenzione alla storia del lavoro sollecita un’indagine storico-genealogica, che sappia svelare, attraverso la ricostruzione delle dinamiche, anche l’origine, la natura, gli esiti dei modelli interpretativi utilizzati. In tal senso, sul piano metodologico dunque, e non solo come allargamento dell’interesse a nuovi “oggetti” di studio – le lavoratrici, i lavori di cura – il dialogo con le prospettive di genere portato al convegno da diverse studiose della Sis (Società italiana delle storiche) costituisce un fondamentale elemento di stimolo nell’ottica ormai consolidata della flessibilità delle categorie interpretative, della interdisciplinarietà e transnazionalità delle prospettive.

L’engendering (“in-generare”) – l’inclusione della storia di genere nella storia del lavoro –, consente l’analisi storico-critica delle categorie analitiche universalistiche, rivelandone il potere performativo, degli stereotipi sessuali riferiti alle mansioni professionali, persino della formazione di serie storiche e statistiche da cui trarre previsioni economiche o occupazionali. L’attenzione alle fonti soggettive anche in discipline, come l’economia, da sempre reputate prevalentemente quantitative e asessuate, induce il superamento delle dicotomie sfera pubblica-privata, razionale-sentimentale, tempo di vita-tempo di lavoro con risultati importanti sul piano di una conoscenza delle dinamiche del mercato, delle modalità organizzative del lavoro, delle forme di qualificazione, etc. più aderenti alla storia dei lavoratori e delle lavoratrici e alle loro esperienze reali di vita. Ma soprattutto, abbiamo sentito la necessità, sia per comprendere che per trasmettere la storia, di aprire le pagine dei poeti, osservare le tavole dei pittori, ripercorrere le scene dei film, riascoltare le canzoni di lotta. Dovremo entrare nei musei della civiltà contadina, della storia industriale per far emergere che la storia è stata storia del lavoro e dei lavoratori.

Per provare l’impresa, l’Istituto di storia contemporanea di Piacenza (Isrec) ha chiesto perciò a una ventina di storici, che hanno aderito con interesse ed empatia - storici della società, dell’economia, della politica, del diritto, dell’antropologia, della cultura, dell’arte –, di aiutarci a “pensare” alle dimensioni odierne del lavoro in rapporto alle esistenze reali dei lavoratori, confortati dal contributo collettivo del Comitato scientifico e grazie all’aiuto venuto dai partner – la Fondazione Micheletti e l’Istituto per la storia dell’età contemporanea (Isec), anzitutto, ma anche tutti gli istituti della rete nazionale del “Parri” – e dai patrocinatori ricordati sul programma (scarica il programma). Ci auguriamo che lo sforzo in tal senso possa, almeno in parte, raggiungere l’obiettivo.