1. Cura educativa dell’infanzia e colonie estive a Bologna tra Ottocento e Novecento

Dalla seconda metà dell’Ottocento in Italia e in Europa si diffuse una battaglia culturale promossa da medici, politici e amministratori contro le malattie, come la tubercolosi, che conducevano alla morte intere fasce di popolazione, specie infantile. Sorsero così istituzioni deputate alla cura, assistenza ed educazione dell’infanzia malaticcia, soprattutto quella predisposta alla tubercolosi, quali le colonie estive e le scuole all’aperto, localizzate in spazi salutari sui monti, al mare o in prossimità dei fiumi e attrezzate per lo sviluppo di pratiche igieniche e didattiche specifiche [D’Ascenzo 2018]. Come già emerso in sede storiografica, l’eco delle iniziative condotte dal pastore zurighese Hermann Walter Bion in Svizzera fin dal 1876 giunse anche a Bologna e fu la Società degli insegnanti della provincia di Bologna a sviluppare un dibattito per l’avvio di colonie scolastiche estive al fine di offrire la possibilità di un soggiorno di vacanza rigenerante agli alunni e alunne poveri e gracili delle scuole elementari cittadine. Questa sensibilizzazione condusse alla nascita delle colonia scolastica montana di Castiglione de’ Pepoli nel 1889 e di Pavana (Sambuca Pistoiese) nel 1909, alle quali dedicò particolare energia Alberto Dallolio già assessore all’Istruzione tra 1883 e 1889 e poi sindaco della città dal 1891 al 1902. Le colonie montane furono poi trasformate in ente morale nel 1910 e proseguirono la loro attività per tutto il primo Novecento insieme alla colonia Manservisi a Castelluccio di Porretta [D’Ascenzo 1997, 191-194; D’Ascenzo 2006, 203-204; Lucchi 2013] sopravvivendo alla Seconda guerra mondiale e continuando ad operare anche nel secondo dopoguerra, nel quadro di una progressiva lenta affermazione del welfare state [Giulianelli 2012; Lögfren 2001; Minesso 2011]. Nel 1912 era inoltre sorto a Rimini l’Ospizio marino provinciale di Bologna, poi intitolato all’illustre clinico Augusto Murri, progettato dall’ingegnere Giulio Marcovigi nel 1911 sul modello di padiglioni-dormitori collegati da passaggi longitudinali per la circolazione interna ed uso ludico [Balducci 2013].

Particolare attenzione fu dedicata alle forme di assistenza e cura dell’infanzia durante la Grande guerra dalla Giunta socialista di Francesco Zanardi e dall’assessore all’Istruzione Mario Longhena, con l’istituzione di educatori, ricreatori, scuole all’aperto, colonie di varie tipologie, nonché l’avvio della colonia di Casaglia nel 1919 [D’Ascenzo 2006; D’Ascenzo 2018; D’Ascenzo 2019]. Durante il fascismo le scuole all’aperto e le colonie cittadine continuarono la loro attività, subendo la progressiva fascistizzazione imposta dal regime, almeno a livello ufficiale. La colonia di Casaglia, gravemente danneggiata dal bombardamento del 1944, continuò ad operare anche nel secondo dopoguerra, ricostruita nella sua struttura e soggetta alla massima cura delle autorità comunali ed oggi scuola primaria statale intitolata a Mario Longhena, che ne aveva progettato l’avvio e sostenuto la riapertura dopo la guerra con grande determinazione.

La progressiva fascistizzazione della scuola e della società coinvolse dunque anche le colonie scolastiche e vide impegnato il Partito nazionale fascista nell’avvio di nuove colonie estive, sia montane sia marine, come forma di occupazione del tempo libero infantile [Franchini 2009], libero dalla scuola ma non libero davvero, considerato che le colonie del Ventennio, sorte soprattutto lungo la riviera romagnola e toscana [Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna 1986; Jocteau 1990; Pivato 2023], occupavano completamente il tempo in una complessa e razionale organizzazione dall’alba al tramonto. Nelle colonie del fascismo, che furono occasione di ricerca di nuove soluzioni edilizie ed architettoniche [Balducci 2005; Balducci, Orioli 2013; Balducci 2013; Balducci 2019; Balducci, Bica 2007; Mucelli 2009], lo spazio ed il tempo dei bambini e delle bambine fu definito in maniera rigorosa, puntuale, totalitaria [Salustri 2014; Salustri 2019; Salustri 2021]. All’entrata in colonia i bambini dovevano consegnare gli effetti personali - sostituiti da indumenti uniformi e numerati - erano smistati in una squadra di 20-25 componenti, era loro assegnato un posto letto nelle camerate e un posto fisso al tavolo. Le routine scandivano le giornate: sveglia mattutina ad orario fisso, igiene personale nei tempi stabiliti, colazione, alzabandiera, passeggiate, elioterapia, idroterapia, ginnastica, pranzo e riposo pomeridiano e notturno imposto, in un controllo e disciplinamento costante della mente e dei corpi, reso esplicito anche nelle cerimonie di accoglienza delle varie autorità in visita, occasione di manifestazione della potenza del regime. Si definiva così una sorta di modello pedagogico autoritario e massificante simile a quello dei collegi e che, ben oltre la sola dimensione igienica e profilattica, mirava al controllo ideologico delle masse [Mira 2019; Orlandini 2019], come espresso anni dopo dai funzionari addetti alle scuole all’aperto e alle colonie i quali, già attivi durante il regime, continuarono ad operare nella nuova stagione repubblicana [D’Ascenzo 2018].

Anche le colonie del Comune di Bologna subirono la stessa sorte, ancor più quelle volute dalla Federazione del Fascio bolognese. Dopo una prima esperienza avviata nel 1921 dal Fascio femminile di Bologna a Riccione, il 1 agosto 1932 sorse la colonia di Miramare a Rimini, eretta nell’arco di un solo anno su iniziativa del Fascio di Bologna lungo il litorale tra Rimini e Riccione, su una superficie di 18.335 metri quadri e col progetto dell’ingegnere Idelbrando Tabarroni per circa 1.200 bambini. Il 15 agosto avvenne l’inaugurazione ufficiale della colonia, denominata Decima legio – dal nome conferito alla città di Bologna da Mussolini in onore della legione con cui Giulio Cesare aveva conquistato la Gallia – alla presenza dell’onorevole Leandro Arpinati e di vari podestà della provincia, cui seguì la visita del Duce pochi giorni dopo. Rigida disciplina militare, formazione di corpi sani, “bonificati” da malattie e gracilità, plasmati per il regime e per la Patria erano gli obiettivi del fascismo, che proseguiva così nella fascistizzazione della gioventù e del Paese [Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna 1986, 134-136; Luminasi 1932]. Nel 1941 la colonia cessò di funzionare, adibita ad ospedale militare dell’Esercito per i reduci dalla Russia, e nel 1943 passò dalla gestione della Gioventù italiana del littorio (Gil). Dopo l’armistizio del 1943 l’esercito abbandonò la colonia, che passò alla gestione dell’Opera nazionale balilla di Bologna. Fu utilizzata dai tedeschi, poi dagli Alleati e infine dall’Alto commissariato della Gioventù italiana [Pivato 2023; Ruggeri, Russo, Villa 2019].

2. Le colonie del Comune di Bologna nel secondo dopoguerra e la pupilla Bolognese

Nel secondo dopoguerra l’Italia repubblicana si ritrovò dinanzi ad una situazione molto complessa anche a causa della perdita di docenti, della distruzione materiale degli edifici scolastici e delle stesse colonie, come riferito dal Ministero della Pubblica istruzione:

Prima della guerra esistevano […] circa 1000 colonie estive (marine e montane), 30 colonie permanenti e 48 scuole all’aperto speciali con 226 classi. Si avevano inoltre 15 sezioni di scuole materne all’aperto. Alla fine della guerra risultavano distrutte, danneggiate o occupate arbitrariamente quasi tutte le Colonie estive [Ministero della Pubblica istruzione 1950, 68].

L’opera di ricostruzione fu avviata velocemente, pur nei limiti delle risorse economiche e strutturali, unitamente ad un ripensamento del modello pedagogico dell’educazione e scuola all’aperto, così come delle specifiche colonie, con l’ingresso dei Centri d’esercitazione ai metodi dell’educazione attiva (Cemea) in Italia [Libretti Baldeschi 1996] che nei corsi per i monitori di colonia introducevano le metodologie didattiche attive fondate sulla gestione democratica, sulla cooperazione educativa, sulla centralità del bambino e non della disciplina autoritaria alla base dell’organizzazione degli spazi, dei tempi e delle attività precedenti. Come emerso in sede storiografica [Comerio 2020; Comerio 2023; Frabboni 1971; Pironi, Salustri 2023] la trasformazione del modello pedagogico della colonia da luogo di isolamento e segregazione, autoritario e massificante ad un modello più puerocentrico e democratico quale “comunità educativa” fu molto lenta. Vi furono alcuni primi casi isolati d’avanguardia, seguiti da un dibattito acceso, nazionale, agli inizi degli anni Settanta [Comitato italiano per il gioco infantile 1973] nel quadro di una riflessione più ampia sul tempo libero infantile e la nascita del tempo pieno, caratterizzato, comunque, nelle pratiche igieniche ed educative, più da lunghe persistenze che discontinuità.

A livello locale, nel Comune di Bologna, dopo la Liberazione fu costituto il nuovo Consiglio comunale, mentre Giuseppe Dozza, partigiano ed esponente di punta del Partito comunista bolognese, veniva nominato sindaco. Dozza guidò le sorti della città dal 1945 al 1966, in due successivi mandati, delineando le politiche della ricostruzione. Furono anni di slancio ed entusiasmo per la rinascita morale e civile, caratterizzati dall’ampia partecipazione pubblica, dalla ricerca del pareggio di bilancio e dalla conflittualità con le forze statali per l’autonomia amministrativa, anni contraddistinti dalla necessità di una ricostruzione materiale e della rete assistenziale e scolastica, come indicato dallo stesso Dozza nella relazione inaugurale:

Quali erano le condizioni della scuola all’indomani della Liberazione! Le fognature distrutte in molti punti e rese quasi inutilizzabili, le strade del forese in parte ridotte a campi arati e quelle cittadine sconvolte in più punti ed ingombre di macerie, immondizie ed altro, l’acquedotto funzionante con limitatissima quantità d’acqua, il gas e l’illuminazione cittadina mancanti completamente, le scuole distrutte, lesionate ed occupate da truppe, da profughi e da ospedali, gli uffici sinistrati in parte e sparsi in diversi fabbricati, le abitazioni distrutte e lesionate in grandi quantità [1].

All’Assessorato all’Istruzione, che si occupava della gestione degli edifici scolastici, degli educatori, dei doposcuola, delle scuole materne, delle scuole all’aperto, delle colonie e della formazione professionale, fu nominato dapprima Domenico Comandini e in seguito Giovanni Elkan, entrambi della Democrazia cristiana. Dall’aprile 1946 al 23 agosto 1948 l’incarico fu assegnato al professore socialista Giacomo Donati, poi per il successivo triennio 1948-1951 a Renato Tega, uno dei principali esponenti del socialismo emiliano, maestro antifascista nella Bologna del Ventennio, protagonista della Resistenza, deputato alla Costituente e promotore dell’introduzione del metodo Montessori in città durante il suo mandato [D’Ascenzo 2016]. A partire da giugno 1951 fino al novembre 1960 la direzione dell’Assessorato all’Istruzione fu affidata a Giuseppe Gabelli, già docente antifascista al liceo classico Galvani di Bologna, autore di manuali scolastici e primo assessore comunista all’Istruzione di una città che intendeva porsi all’avanguardia nella questione assistenziale ed educativa come vero laboratorio nazionale negli anni della Guerra fredda [D’Ascenzo 2016; Orlandini 2022].

Assessore all’Assistenza e beneficenza fu nominato Giuseppe Beltrame, medico molto noto e particolarmente apprezzato per l’impegno profuso nella cura dei partigiani durante la Resistenza. Iscritto al Partito comunista, eletto nella lista Due torri, fu ininterrottamente consigliere ed assessore per cinque mandati dal 1945 al 1967, fino al giorno della sua morte, commemorato con grande fervore in Consiglio comunale [2] e sostituito poi dalla più celebre Adriana Lodi. All’interno della Giunta, in sinergia con i vari assessori che si succedettero negli anni del suo mandato [D’Ascenzo 2016], Beltrame si prodigò nei confronti di tutte le forme di assistenza, comprese le colonie, in piena collaborazione con l’Assessorato all’Istruzione.

Il Comune di Bologna ereditava le colonie preesistenti, sorte a fine Ottocento, in età giolittiana e durante il fascismo e cercò subito nuove soluzioni in una situazione difficile e di emergenza, avviando una politica culturale ed educativa tra continuità e discontinuità nel corso del tempo. Con lentezza furono riaperte le colonie estive comunali montane e cittadine, tra cui Casaglia, così come le scuole all’aperto nate negli anni precedenti e dirette da Maria Chiara Serra, figura di spicco dell’educazione all’aperto cittadina fin dalla sua prima esperienza nella scuola Fortuzzi nel 1917 [D’Ascenzo 2018].

Nello stesso periodo in città la cura dell’infanzia fu oggetto di grande attenzione da parte di enti e soggetti politici diversi come l’Unione donne italiane (Udi) vicina al Partito comunista e il Centro italiano femminile (Cif) vicino alla Democrazia cristiana, oltre all’azione della Pontifica opera di assistenza (Poa). Proprio uno dei principali protagonisti della politica educativa e assistenziale del Comune in età giolittiana, poi antifascista e presidente della Costituente, cioè Mario Longhena, fu incaricato fin dal 1945 dal sindaco Dozza di presiedere un Comitato:

Che vuole ridare alla città l’antico vanto di ricchezza di Colonie estive ed invernali per i bimbi poveri e gracili, ed intende federarsi con tutte le istituzioni similari che hanno carattere profilattico ed assistenziale. Perciò, mentre farà opera perché tutti gli edifici eretti in periodo fascista a questo scopo – colonie marine e colonie montane – siano ceduti ad esso, promuoverà un’intesa fra tutti gli Enti che mirano a far migliori le future generazioni [3].

Promuovendo così il rilancio delle colonie comunali, con piena conoscenza della questione:

Bologna, per volere tenace dei suoi Amministratori negli anni precedenti al fascismo aveva creato a sé una magnifica attrezzatura di colonie, ed ogni anno dispensava a migliaia di bimbi il beneficio di cibo ottimo, di aria pura e di assistenza materna. Fra le Colonie dominava quella di Casaglia, che fu conservata, con qualche riduzione e modificazione, anche durante il periodo fascista. Ma nel 1944 la bella colonia, colpita da bombe, mentre ancora vi sostavano bimbi, è stata devastata miseramente. Ora un cumulo di macerie s’aduna là dove essa maestosa di ergeva. Venuta la liberazione a me tornò la nostalgia dell’antica gloria bolognese e decisi di far qualcosa. Ne parlai con chi negli anni lontani aveva collaborato con me e fu stabilita un’adunanza. Le cose sulle prime andarono un po’ lente ed incerte, ma avendo il Sindaco Dozza designato me a presiedere il piccolo Comitato, questo insieme con me risolse subito di aprire una Colonia con le tende offerteci generosamente dal Commissario della C.R.I. [Croce Rossa Italiana] prof. Scaglietti, e nacque la Tendopoli di Casaglia, mentre a S. Vittore s’apriva la colonia omonima mercè l’interessamento della signorina Gardini […] ed ora siamo alla vigilia dell’apertura della Colonia invernale che sorgerà sul Colle dell’Osservanza presso Villa Aldini [4].

Tale Comitato era molto “ecumenico” poiché costituito dai rappresentanti delle principali forze politiche e culturali cittadine: le signore Gardini dell’Azione cattolica, Delfiume del Cif, Leoncavallo del Partito socialista, Fravolini del Sindacato magistrale, una non precisata rappresentante dell’Udi e come tesoriere l’ispettore delle scuole elementari nel Comune cioè il professor Arnaldo Cocchi, figura di spicco della storia scolastica cittadina fin dall’età giolittiana, già direttore delle scuole elementari comunali [D’Ascenzo 2006; D’Ascenzo 2013]. Le difficoltà non mancarono se la maestra Giovanna Gardini, consigliere comunale della Democrazia cristiana, che aveva già presentato un’interpellanza il 24 aprile 1947 [5], lamentava che le cifre raccolte dal Comitato tra i privati fossero insufficienti e si rendesse necessario un impegno diretto del Comune in modo da assicurare cura educativa all’infanzia bolognese:

Sono 8750 i bimbi che sono stati ammessi alla refezione scolastica. La refezione scolastica si chiuderà alla fine del mese e a fine giugno le scuole si chiuderanno. Dove andranno questi bambini che appartengono alle classi meno abbienti, bimbi che non hanno certo il babbo o la mamma che possa provvedere loro una villeggiatura al mare o in montagna? Io sono stata in questo Comitato fin dal suo sorgere e so che questo ha fatto di tutto per poter raccogliere i fondi ricorrendo a feste di beneficenza ecc. Ma purtroppo queste feste sono state insufficienti. Sarebbe stato molto bello che la cittadinanza bolognese avesse risposto con gesto spontaneo e avessimo potuto raccogliere i fondi per provvedere seriamente all’assistenza dei bambini. Viceversa feste e raccolte hanno fruttato pochissimo. Sarebbe una storia purtroppo dolorosa da raccontare quella del Comitato! Ci sono bambini che aspettano da molto tempo, che sono stati già visitati, famiglie che si sono lusingate mentre non si è potuto proseguire perché non vi sono basi concrete. Si fanno bellissimi castelli sulla sabbia, ma poi tutto crolla. Desidero chiedere se il bilancio ha contemplato questa necessità. So che il Sindaco si è molto interessato e preoccupato di questo [6].

Il 22 maggio 1947 una lettera al Comitato delle colonie informava dei contatti presi con le autorità militari inglesi per ottenere la cessione della colonia marina di Miramare di Rimini, ormai detta Bolognese, descriveva in modo puntuale lo stato dell’edificio dopo le vicende belliche e l’uso come ospedale:

1) Esternamente i tre fabbricati si presentano in ottime condizioni, mentre all’interno di quello centrale si notano diverse distruzioni specie agli infissi ed all’intonaco sia delle pareti che dei soffitti. Molte camerate sono state ridotte con muri divisori mentre nel complesso i vari servizi igienici sono rimasti inalterati e si presentano in ottime condizioni.
2) Manca l’allacciamento all’energia elettrica dato che attualmente questa è stata fornita da un gruppo elettrogeno che gli inglesi hanno installato nel cortile.
3) La cucina è intatta ed è l’unico oggetto di nostra proprietà che sia sopravvissuto alle peripezie della guerra.
4) La colonia ci verrà restituita completamente spoglia di ogni arredamento dato che parte del materiale lettereccio è di proprietà del Comando inglese e parte di Ospedali Civili italiani dai quali fu prelevato con regolari ricevute.
5) La colonia ospita attualmente diversi reparti di malattie infettive, perciò, sarà necessario procedere ad una disinfezione molto accurata e laboriosa.
Ritengo pertanto che la prossima stagione estiva non si possa usufruire del fabbricato centrale ma esclusivamente del fabbricato annesso il quale si presenta in condizioni ottime e non bisognevole di alcun lavoro all’infuori di una leggera disinfestazione. Nel fabbricato predetto potrebbero trovare posto 150 bambini circa mentre con una opportuna divisione si potrebbe usufruire di alcuni locali posti al piano terreno del fabbricato centrale ed attualmente occupati dalle cliniche oculistica e odontoiatrica e sistemare così un altro centinaio circa di bambini [7].

Nei mesi successivi il Comitato venne via via assorbito nelle sue funzioni direttamente dal Comune. La colonia di Miramare passò sotto il controllo dell’Alto commissariato della Gioventù italiana, erede della Gil, fu in parte riaperta e proseguirono i lavori di risistemazione, con il recupero dei mobili da uffici e da camerate, dei letti, ma anche di lenzuola, materassi, asciugamani, teloni da spiaggia e quegli oggetti che raccontano della cultura materiale delle colonie marine dell’epoca, necessaria al funzionamento concreto, con puntuale rendiconto delle spese [8]. Un dattiloscritto di appunti per il sindaco cominciava a porre la questione cruciale della proprietà e delle diverse competenze sulla colonia di Miramare, questione destinata poi a diventare un vero problema per il Comune:

Avvicinandosi la data di chiusura della Colonia Marina di Miramare, sarebbe necessario tracciare fin d’ora, a grandi linee, il programma futuro che il Comune intenderà svolgere nel prossimo inverno per l’eventuale ripristino totale e per preparare l’attrezzamento necessario relativo all’estate 1948 [e] innanzitutto è indispensabile mettere in luce gli aspetti più urgenti del problema [9].

La questione fu temporaneamente risolta nel 1949 con una Convenzione triennale per l’uso della colonia stipulata tra Comune di Bologna e Commissariato nazionale della Gioventù italiana. Considerato che il Comune aveva già avviato lavori di sistemazione e la riapertura fin dal 1947 la Convenzione era retrodata al 1947 quindi con scadenza 31 maggio 1950 «salvo eventuali proroghe da concedersi a giudizio esclusivo del Commissariato Nazionale per la Gioventù Italiana» [10]. A questo atto seguì la delibera sull’assegnazione del personale alla colonia di Miramare: 46 persone di cui il direttore prof. Carlo Nanni, quattro pediatre, lavandaie, “uomini di fatica” e “donne tuttofare” [11]. La nomina di Nanni, ex ufficiale dell’esercito, confermava il modello gestionale e pedagogico della colonia di Miramare, ora “bonificata” dal fascismo ma non dalle sue prassi:

La direzione generale della Colonia di Miramare è nelle mani del professor Carlo Nanni, il prof. Nanni è un vecchio soldato, già alto ufficiale. Abituato alla disciplina militare e al peso della responsabilità, non è solo far concessioni quando si tratta di assolvere scrupolosamente ad un incarico. Considera la regola valida per se stesso e per tutti gli altri che con lui collaborano al perfetto funzionamento della Colonia. Comandava dei soldati; oggi, da ormai dieci anni, dirige una comunità che, tra ragazzi e assistenti, sfiora le mille unità, un vero reggimento. Del militare il prof. Nanni ha la severità, del medico la scienza, essendo libero docente in microbiologia. Il suo metodo di direzione della Colonia consiste fondamentalmente nell’“essere sul posto”: siano questi gli uffici o le cucine, le camerate o i refettori, la dispensa o le tende sulla spiaggia. Noi lo abbiamo visto sul bagnasciuga, a dirigere il bagno in mare dei ragazzi percorrendo tutto il fronte della Colonia, cronometro alla mano, e dando i segnali dell’entrata e dell’uscita in acqua delle varie squadre [Cecchini 1957, 46].

Fig. 1. L’ex colonia Bolognese, Miramare di Rimini, fronte spiaggia [foto Mirella D’Ascenzo, 2023].
Fig. 1. L’ex colonia Bolognese, Miramare di Rimini, fronte spiaggia [foto Mirella D’Ascenzo, 2023].

3. La vertenza sulla colonia di Miramare “bolognese” e il passaggio alla gestione “del cardinale”

Nel 1957 iniziò un lungo contenzioso tra il Comune di Bologna, la Gioventù italiana e la Curia bolognese sulla colonia di Miramare di Rimini, a cui il Comune aveva già dedicato notevoli energie e impegno economico [Cattaneo 2018; Ruggeri, Russo, Villa 2019]. La vicenda si colloca nel periodo degli anni Cinquanta, caratterizzati, come noto, dal clima generale della Guerra fredda a livello mondiale e del contrasto tra forze socialcomuniste e democristiane in Italia, come a Bologna, dove il controllo dell’educazione della gioventù da parte dei partiti era una questione di potere culturale e politico. Particolarmente tra 1957 e 1960 a Bologna dopo le elezioni del 1956 siglate dalla vittoria del Partito comunista e dalla sconfitta della Democrazia cristiana con Giuseppe Dossetti. Secondo la versione ufficiale del Comune, il 4 ottobre 1957 il commissario della Gioventù italiana, Giovanni Valente, disdettò il contratto di affitto della colonia di Miramare con il Comune di Bologna, chiedendone la riconsegna entro fine mese [S.A. 1958, 7]. Qualche giorno dopo l’assessore Beltrame domandò alla Gioventù italiana di rivedere le sue decisioni, sottolineando proprio le ingenti spese sostenute dal Comune per la manutenzione ordinaria e straordinaria degli stabili e degli impianti. Il commissario della Gioventù italiana giustificò la disdetta sostenendo che:

La Gioventù Italiana, quale Ente di diritto pubblico con finalità assistenziali proprie non può rinunziare all’uso delle attrezzature di una proprietà in favore di altri Enti. Nulla vieta comunque che la Colonia venga riservata al Comune di Bologna per l’assistenza dei propri amministrati, pur restando fermo che la gestione venga condotta dalla “Gioventù Italiana”: potrebbe rendersi di pubblica ragione, nelle forme da concordare, che la colonia ospita bambini del bolognese assistiti a spese del Comune di Bologna. [S.A. 1958, 8].

Ai primi di dicembre 1957 seguì un colloquio nel quale il Comune chiese di acquistare la colonia, ma ne ottenne soltanto l’utilizzo per il 1958 «salvo una più stretta collaborazione con la Gioventù italiana per la gestione ed un aumento del canone di affitto» [S.A. 1958, 9]. Il commissario Valente, senza informare il Comune, procedette invece su strade diverse e il 18 gennaio 1958, previo consenso del Ministero del Tesoro, fu firmato l’atto di vendita della colonia per 200 milioni di lire al cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna «per le opere di assistenza all’infanzia ed alla gioventù della Diocesi di Bologna» [S.A. 1958, 10]. Ignaro della compravendita, a fine dicembre il sindaco Dozza chiese formalmente un nuovo contratto d’affitto e la vendita della colonia di Miramare al Comune di Bologna, sollecitando nel mese successivo una risposta. Nel marzo 1958, preoccupato dal prolungato silenzio, il sindaco si rivolse alla sede provinciale della Gioventù italiana segnalando «le inevitabili ripercussioni negative che tale situazione potrà determinare sui programmi di assistenza climatica estiva già predisposti per il corrente anno» [S.A. 1958, 11] e contemporaneamente sollecitando l’intervento del prefetto. Giunto a conoscenza della trascrizione del contratto di compravendita, il Consiglio comunale autorizzò il sindaco a ricorrere agli organi giurisdizionali contro la vendita, poiché ritenuta «viziata da illegittimità» [12]. Seguì l’invio del ricorso del 16 aprile al Consiglio di Stato contro la compravendita, poiché la Gioventù italiana avrebbe dovuto chiedere prima il parere del Consiglio di Stato e procedere ad un’asta pubblica, non esistendo ragioni per procedere a trattativa privata. Peraltro, il Comune ricordava di aver versato un congruo canone alla Gioventù italiana per l’uso della colonia, oltre a 100.000.000 di lire per riparare l’edificio dopo la guerra. In seguito, la Giunta provinciale amministrativa (Gpa) di Bologna, che rappresentava l’organo governativo di vigilanza sugli atti amministrativi, ordinò il rinvio della delibera comunale del 31 marzo, chiedendo ulteriore documentazione [S.A. 1958, 12-15]. Solo il 19 aprile, secondo la ricostruzione ufficiale del Comune di Bologna, il commissario della Gioventù italiana informò il Comune di Bologna di aver già stipulato a gennaio formale atto di compravendita della colonia con l’Arcidiocesi di Bologna poiché essa garantiva «un pieno adempimento delle esigenze spirituali e materiali della gioventù» [S.A. 1958, 16], sollecitando pertanto la tempestiva riconsegna dell’immobile da parte del Comune al fine di eliminare «ogni intralcio per la più efficiente assistenza dei bambini del bolognese sin dalla prossima stagione estiva» [S.A. 1958, 16].

Sempre combattivo, in una lettera del 3 maggio indirizzata al nuovo commissario nazionale della Gioventù italiana, il sindaco sottolineava come le colonie marine e montane bolognesi, e quella di Miramare in particolare, per la presenza in tre turni di quattro settimane di 2.400 bambini, rappresentassero una parte consistente dei servizi assistenziali comunali per l’infanzia e per questo non si riteneva opportuno rinunciare al ricorso in atto, già proposto al Consiglio di Stato. Infatti il Comune aveva già concluso le operazioni di natura organizzativa ed evidenziava le difficoltà di un trasloco almeno per tutto il 1958 [S.A. 1958, 17].

Al Consiglio comunale si oppose anche la Gpa di Bologna con continui rinvii sulla decisione di legittimità di ricorso del Consiglio comunale al Consiglio di Stato, contro cui si scagliò la maggioranza nel Consiglio comunale del 22 settembre 1958, chiedendo l’autorizzazione a procedere nei vari ricorsi. Contrario all’orientamento della maggioranza fu il voto della minoranza democristiana con le motivazioni esplicite della capogruppo Angiola Sbaiz: «purtroppo, questa questione è stata trascinata da qui, fuori di qui, in modo talora virulento, dal terreno suo proprio di carattere giuridico ad un terreno squisitamente politico, con attacchi a istituzioni che noi cattolici non possiamo consentire» [13].

Con un provvedimento del 29 ottobre la Gpa finalmente assunse una decisione, ostile però al Comune, cioè di non approvare la delibera del Consiglio comunale del 31 marzo, al fine di impedire che la magistratura potesse decidere sulla legittimità della vendita della colonia di Miramare alla Curia bolognese. Ciononostante, il 9 dicembre il Consiglio comunale deliberò di autorizzare il sindaco a proporre ricorso gerarchico al Ministro dell’Interno contro la decisione della Gpa [14] e, in seguito al rigetto, nella seduta del 23 giugno 1959 confermò il ricorso al Consiglio di Stato. Anche in tale occasione si consumò un nuovo scontro politico e il consigliere democristiano Toffoletto chiariva in modo esplicito che «qui non è affatto vero che la funzione pubblica di questa colonia sia sottratta alla città: è assicurata alla città in una forma diversa che io personalmente e molti altri della cittadinanza ritengono migliore e che dia molto più affidamento» [15].

Nel luglio 1960, l’assessore Crocioni comunicò di aver ricevuto richiesta di sfratto da parte della colonia di Miramare e di aver affittato un’altra colonia per l’anno in corso, mentre nel frattempo si era provveduto con una delibera - ancora all’approvazione della Gpa - ad acquisire il terreno per la costruzione di una nuova colonia. Inoltre, riferì che il pretore di Rimini aveva ritenuto di rendere esecutiva l’ordinanza di sfratto, riservando però tutte le eccezioni del Comune e mandando il caso al Tribunale di Forlì, il quale peraltro con una sentenza di pochi giorni prima aveva dichiarato illegittimo il provvedimento di sfratto. Era una vittoria parziale, l’assessore così auspicava «questo primo elemento di giustizia che ci viene dai tribunali italiani avrà un seguito [...], sia pure lentamente, noi riusciamo ad ottenere che la giurisdizione italiana riconosca che questa ormai antica battaglia del Comune è una battaglia per la giustizia» [16].

Nonostante la Corte di appello di Bologna avesse confermato nel dicembre del 1961 la legittimità del provvedimento di sfratto da parte della Gioventù italiana, nell’aprile 1962 il Comune propose un ricorso in Cassazione poiché:

La ragione per cui noi abbiamo ritenuto fosse indispensabile andare in Cassazione è che ci sono pendenti attualmente non uno ma due ricorsi, o per meglio dire due discussioni in sede giuridica: una è davanti al Consiglio di Stato per il problema amministrativo, l’altra, che è questa, dal punto di vista strettamente civilistico. Il Pretore di Rimini ha ritenuto di convalidare lo sfratto rimandando però al Tribunale di Forlì l’esame del merito e quest’ultimo ci ha dato ragione. Contro questa sentenza il Cardinale di Bologna è andato in appello e la corte d’appello ci ha dato torto. Il problema giuridico di fondo è questo: siamo di fronte a un contratto di locazione o siamo di fronte a un contratto anomalo? Nel primo caso la procedura di sfratto era legittima, nel secondo non lo era [17].

Il contenzioso si trascinò per diversi anni con la richiesta di rimborso delle spese sostenute dal 1948 da parte del Comune [18], compresi gli interessi maturati e le spese legali [19], ma terminò solo con la soppressione dell’ente Gioventù italiana a metà degli anni Settanta [20].

Nel frattempo, come raccontano anche le fonti orali, la colonia era già passata alla gestione da parte della Curia bolognese e, come ricordato da Angelica Trotta, frequentante dal 1960 al 1966:

Non mi ricordo, invece, che il Sindaco Dozza venisse in Colonia, anche se quando andavo io era ancora in carica. Quanto al fatto che la Bolognese fosse considerata di destra, ho ricordi vivi che lo confermano. Abitavo in San Donato, quartiere del tutto scarlatto, e nel mio palazzo c’erano un paio di famiglie che facevano molta propaganda per il PCI e una signora commentò un’estate con mia madre: «Certo che se non potete fare altro, mandatela pure dai preti» [Ruggeri, Russo, Villa 2019, 92].

4. L’impostazione pedagogica della colonia di Miramare, tra storia e memorie

Nel 1950 al nuovo regolamento della colonia di Miramare seguì la nomina del personale con il nuovo direttore Carlo Nanni, ex ufficiale dell’esercito, confermando la continuità del modello organizzativo e gestionale paramilitare della colonia stessa. Un’interessante conferma della persistenza del modello pedagogico della colonia di Miramare, la Bolognese, era fornita nel 1958, in termini ovviamente enfatici, ritenuta «la migliore di tutta la riviera adriatica [nella quale] sono applicati tutti i più avanzati suggerimenti che finora la scienza ha elaborato nel vasto campo dell’assistenza all’infanzia» [Cecchini 1957, 48], con 133 persone addette di cui 38 vigilatrici provenienti dagli educatori cittadini, 16 camerate, una modernissima lavanderia meccanica, apparecchi televisivi e una biblioteca. La routine era sostanzialmente la medesima del periodo fascista e prevedeva la sveglia alle ore 7, un’ora di igiene personale, la colazione e dalle 9 alle 12 attività in spiaggia con passeggiata e ginnastica respiratoria, il bagno in mare dalle 10,45 se le condizioni lo permettevano, altrimenti una sirena a martello suonata dal direttore segnalava il ritorno nell’edificio. Dopo il rientro e l’igiene, era consumato il pranzo, cui seguiva il riposo pomeridiano dalle 14 alle 15,30, di nuovo pulizia personale e poi la merenda alle 16, con ulteriore tempo in spiaggia fino alle 19, poi il rientro, la cena e «dalle 21 in poi sui tutta la Colonia regna[va] il silenzio perfetto» [Cecchini 1957, 47].

Anche i racconti sull’esperienza in colonia, vere e proprie memorie educative capaci di restituire la complessità di una storia e memoria collettiva, descrivono la vita quotidiana della Bolognese sia d’epoca fascista sia repubblicana a gestione “Dozza” e poi “del cardinale”, e arricchiscono la conoscenza storica della colonia stessa con l’individualità dei ricordi, che oscillano tra un’emozione complessiva di tipo positivo e gioioso oppure di tristezza come per Enzo Biagi:

Ci ho pensato. Ho visto il mare, per la prima volta, dopo le elementari. Colonia della Decima Legio, Rimini. Balilla. Grado: capo squadra. Se ci ripenso, sento un acuto odore di marmellata gelatinosa, in mastelli. La merenda tra quei capanni. Con tutta quella sabbia; almeno ci fossero i cammelli, pensavo. Non so nuotare, e anche adesso faccio finta di giocare con i bambini che si tirano il pallone verso la riva. Mio padre venne a trovarmi la domenica, con il treno popolare. Portava camicia, cravatta e giacca. Non si slacciò neppure il colletto. Ci sedemmo in un angolo, noi due soli. Aveva, infilata in tasca, una bottiglia di birra. “Hai sete?” mi domandò. Io mi vergognavo un poco, i miei compagni ci stavano osservando; era goffo, impacciato, così poco balneare, e dissi di no. “Sei contento?” mi chiedeva. “Vi divertite?”. A me sarebbe piaciuto tornare a casa, andare a Bologna con lui, ma aveva pagato 120 lire, il medico aveva detto che era una buona cura per la gola, disse che l’acqua salata e lo iodio facevano bene e gli raccontai che avevo vinto la gara di corsa. In valigia, gliela mostrai, c’era la medaglia, con il duce con l’elmetto [Ruggeri, Russo, Villa 2019, 48].

Fig. 2. L’ex colonia Bolognese, Miramare di Rimini, particolare dello stemma del Comune di Bologna [foto Mirella D’Ascenzo, 2023].
Fig. 2. L’ex colonia Bolognese, Miramare di Rimini, particolare dello stemma del Comune di Bologna [foto Mirella D’Ascenzo, 2023].

Ma anche di solitudine e dolore: «non sono riuscita, durante il soggiorno, a guarire il dolore per la lontananza da casa, ma direi che nessun adulto mi ha aiutata a superarlo e neppur e il contesto si prestava. In sostanza non ricordo di essermi divertita, anzi ricordo di esser stata in castigo!» [Ruggeri, Russo, Villa 2019, 99]. Fino ai progetti di fuga:

Fu allora forse che con alcuni amichetti progettammo la fuga dalla Colonia. Tutte quelle imposizioni, i divieti, il dover chiedere il permesso (senza la sicurezza che sarebbe stato accordato) per tutto, anche per andare in bagno, tutta questa aria di regime, a me e ad alcuni altri, aveva fatto crescere la voglia di scappare… di evadere! Avevamo studiato la recinzione e avevamo scoperto che nell’angolo nord-est alla base interna c’erano grossi sassi che avrebbero agevolato lo scavalcamento. Iniziammo a fare delle scorte, nascondendo alimenti, prevalentemente biscotti. Guardando fuori dai finestroni della sala dormitorio, ci rendiamo conto che uscendo sulla statale, nei pressi della Colonia Novarese, c’è un sentiero che ci potrebbe portare fino ai binari della ferrovia. Sappiamo che seguendo quei binari e dirigendoci verso destra, con pazienza, possiamo arrivare a Bologna, o meglio, dai nostri genitori. La progettazione piano richiede diversi giorni e nel frattempo alcuni di noi abbandonano l’idea. Tra tentennamenti vari arrivano gli ultimi giorni di Colonia e allora decidiamo tutti di annullare la fuga [Ruggeri, Russo, Villa 2019, 69-70].

Dai ricordi affiorano le fasi del ritrovo per la partenza davanti alla scuola elementare De Amicis a Bologna per poi recarsi alla stazione dove, al saluto delle autorità, i bambini e le bambine venivano caricati sul treno che li avrebbe portati in colonia, con qualche biscotto in tasca e il corredo fornito dalla famiglia con il numero identificativo. Le memorie raccontano in maniera corale l’arrivo in colonia, lo smistamento nelle squadre, rigorosamente distinte per sesso, l’avvio nelle camerate e le pratiche igieniche quotidiane, nonché gli ampi refettori dove consumavano il pasto, gli odori e la vita da spiaggia, per alcuni felicemente trascorsa tra giochi, passeggiate, raccolta di conchiglie e bagni, per altri invece noiosa e priva – in molti casi – dell’accesso reale al mare. Vivaci appaiono i ricordi delle vigilatrici assegnate alla colonia, alcune descritte come figure terribili per disciplina imposta ed altre più materne e gentili. Le memorie vive raccontano le cerimonie in occasione delle visite delle autorità, sia che fosse la gestione comunale di Dozza sia quella del cardinale Lercaro, a cui i piccoli ospiti partecipavano per dovere, non per convinzione, a siglare una continuità del modello organizzativo e pedagogico tra il Ventennio fascista e il nuovo corso del secondo dopoguerra:

Quando eravamo sistemati sull’attenti, cominciava la cerimonia dell’alzabandiera. La cosa era azionata da un maschietto, selezionato non so con quali criteri, aiutato da un adulto. Intanto che il vessillo saliva noi cantavamo con molta foga “Fratelli d’Italia”. Forse dopo seguiva una preghiera, ma quello che ricordo con certezza è che la direttrice spesso si affacciava e ci dava delle informazioni sulle attività della giornata. Avevo giù sentito alla radio il modo in cui parlava il Duce e trovavo molte assonanze con la direttrice. Questo me la faceva apparire come una specie di despota che poteva disporre di noi come meglio voleva. Però era una suora e mi convinceva che proprio per questo non poteva essere cattiva come Mussolini. Eppure quando partiva con “Bambini questo è un altro giorno che il Signore ci manda…”, e a seguire le informazioni per la giornata, con quella sua voce retorica e altisonante, era una precisa via di mezzo tra il Duce e uno speaker di un documentario del Istituto Luce!» [Ruggeri, Russo, Villa 2019, 86].

Dalle memorie non appare traccia di una possibile innovazione organizzativa e pedagogica della colonia di Miramare, nonostante l’avvio dei dibattiti già agli inizi degli anni Sessanta su una rinnovata organizzazione del tempo libero infantile e delle colonie da un modello militare ad un modello di comunità educativa più libero per i piccoli ospiti [Comitato italiano per il gioco infantile 1973; Frabboni 1971]. Non si nota una reale discontinuità delle pratiche educative nella colonia di Miramare dalla gestione fascista della Decima legio a quella comunale comunista della Bolognese e a quella cattolica del cardinale se non il cambiamento delle autorità presenti e del contenuto ideologico delle pratiche comunitarie dei canti e degli inni, a testimonianza della persistenza, di una vera lunga durata di un’organizzazione autoritaria, militaresca e massificante delle colonie nel secondo dopoguerra e che in molti casi rimase presente anche nella metà degli anni Settanta, come può testimoniare anche chi qui scrive.

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Note

1. Archivio storico del Comune di Bologna (d’ora in poi ASCBO), Atti del Consiglio comunale di Bologna (d’ora in poi CC), 19 dicembre 1945.

2. ASCBO, CC, 31 agosto 1967.

3. ASCBO, Gabinetto del Sindaco, Atti del Gabinetto, 1946, b. 8, dattiloscritto Riapertura colonie estive, carte tre, s.d. firmato M. L. (presumibilmente Mario Longhena).

4. Ibidem.

5. ASCBO, Carteggio amministrativo, titolo XIV, Rubrica 3, Sezione 2, b. 3098, fasc. Colonie, Lettera di Giovanna Gardini del 24 aprile 1947.

6. ASCBO, CC, 12 maggio 1947.

7. ASCBO, Gabinetto del Sindaco, Atti del Gabinetto, 1949, b. 25, fasc. Colonie 1947-1948, Lettera al Comitato per le Colonie, 22 maggio 1947.

8. ASCBO, Gabinetto del Sindaco, Atti del Gabinetto, 1949, b. 25, fasc. Colonie 1947-1948, Colonia di Miramare, Rendiconto al 9 agosto1947.

9. ASCBO, Gabinetto del Sindaco, Atti del Gabinetto, 1949, b. 25, fasc. Colonie 1947-1948, Appunti per il signor Sindaco, 10 settembre 1947.

10. ASCBO, CC, 24 ottobre 1949.

11. ASCBO, CC, 29 agosto 1950.

12. ASCBO, CC, 31 marzo 1958, Ricorso agli organi giurisdizionali contro il contratto di compravendita della Colonia Bolognese di Miramare di Rimini.

13. ASCBO, CC, 22 settembre 1958, Deduzioni all’ordinanza 2 luglio 1958 della G.P.A. relativa alla deliberazione consiliare 31 marzo 1958 di proporre ricorso al Consiglio di Stato contro gli atti del procedimento di alienazione della Colonia Bolognese di Miramare di Rimini.

14. ASCBO, CC, 9 dicembre 1958, Determinazione di ricorrere in via gerarchica al M. I. avverso il provvedimento 28 ottobre 1958 della G.P.A. di disapprovazione della delibera consiliare 31 marzo 1958.

15. ASCBO, CC, 23 giugno 1959, Determinazione di proporre ricorso al Consiglio di Stato contro il decreto 4-6-1959 del Ministro dell’Interno di rigetto del ricorso gerarchico del comune avverso il provvedimento 29-10-1958 della G.P.A. di disapprovazione della delibera consiliare 31-3-1958.

16. ASCBO, CC, 29 luglio 1960, Comunicazione in merito alla causa per la Colonia di Miramare.

17. ASCBO, CC, 2 aprile 1962, Ratifica della sottoindicata deliberazione assunta dalla Giunta Municipale, coi poteri del Consiglio comunale nella seduta del 31 marzo 1962.

18. ASCBO, CC, 28 dicembre 1965, Determinazione di agire giudizialmente avanti il Tribunale di Roma contro il Commissariato della Gioventù Italiana al fine di ottenerne la condanna al pagamento, a favore del Comune di Bologna, della somma di Lire 26.050.000.

19. ASCBO, CC, 18 febbraio 1972, Determinazione di proporre domanda di arbitrato nei confronti del Commissariato della Gioventù Italiana per ottenere la condanna al pagamento della somma di Lire 26.050.000, nonché delle spese del giudizio arbitrale.

20. Legge n. 764 del 18 novembre 1975, Soppressione dell’ente Gioventù italiana, in Gazzetta Ufficiale n.13 del 16 Gennaio 1976.