“Storia in città”, rassegna organizzata per il secondo anno consecutivo dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma (Isrec), si configura come un’occasione di contatto tra il mondo della ricerca universitaria e quello della scuole e la cittadinanza, attraverso un impianto improntato alla storia internazionale e all’“alta divulgazione”. Al centro dell’edizione 2018 è stato il ‘68 – in occasione del 50esimo anniversario – interpretato tuttavia nelle sue manifestazioni e venature globali. Sono state abbracciate tre diverse aree geografiche, alcune delle quali parzialmente inesplorate rispetto alle narrazioni consolidate del ‘68 in Occidente. In particolare, si è scelto di concentrarsi sulla Cina, sull’Est Europa e sugli Stati Uniti.

Nel primo incontro, avvenuto venerdì 14 settembre, sono stati ospiti Claudia Pozzana e Alessandro Russo (Università di Bologna), in dialogo con Domenico Vitale (Isrec Parma). L’incontro, presieduto da Carmen Motta (vice presidentessa Isrec Parma), ha avuto al suo centro la storia recente del gigante asiatico nelle sue connessioni con l’Europa, e in particolare con l’Italia: dalle relazioni culturali stabilite dopo la fine del Celeste impero, fino ai più articolati rapporti maturati durante e dopo la rivoluzione comunista cinese. Nell’ambito di questo excursus storico, i relatori si sono soffermati sulla figura di Mao Tse-Tung e sull’esperienza storica della Rivoluzione culturale, ragionando sull’influenza che questi hanno avuto sul ‘68 italiano. Parafrasando la nota pellicola di Marco Bellocchio del 1967, La Cina è vicina, dall’incontro è emersa l’immagine di un paese che, sebbene con modalità diverse nel corso dei decenni, ha sempre mantenuto un rapporto di prossimità con l’Italia. Da questa prospettiva geografica, essa veniva spesso semplicemente intesa come “luogo altro”, portatrice di suggestioni, idealizzazioni, ma anche fraintendimenti. Pozzana e Russo hanno sostenuto come quel rapporto, nel ‘68 italiano, si tramutò per alcuni movimenti politici e studenteschi in un’improvvisa, spesso superficiale, infatuazione, esauritasi con altrettanto rapido disinnamoramento nel giro di pochi anni.

Nel secondo incontro (mercoledì 26 settembre) Claudio Vercelli (Università cattolica del Sacro Cuore, Milano), conversando con Teresa Malice (Isrec Parma) e Susanna Braga (vice presidentessa Isrec Parma), si è concentrato sugli avvenimenti di quell’anno a Est come contraltare delle manifestazioni, più conosciute, avvenute nell’Europa dell’Ovest. Vercelli ha parlato di “‘68 incompreso”, in ragione della discrepanza e della percepita distanza, da una prospettiva occidentale, di forme e modi impiegati nella richiesta di cambiamento. Mentre nei regimi di socialismo reale dei paesi satelliti e delle democrazie popolari la natura delle sommosse fu sostanzialmente di stampo riformista, in un’ottica di disgelo interno dei partiti al potere, e di concessioni dall’alto, non così avvenne ad Ovest, dove, al contrario, i movimenti si configurarono dal basso come forma di opposizione rivoluzionaria ai governanti. Partendo da questa differenza sostanziale, lo storico ha riflettuto su alcuni temi, sia specifici della situazione ad Est, sia trasversali all’Europa divisa dalla cortina di ferro. In relazione alla parte orientale, si è concentrato sulla questione della differenza, sostanziale e non solo formale, tra la dissidenza e l’opposizione nei sistemi a partito unico o unificato, e sul caso studio di Praga, della sua primavera, del ricambio interno al Partito comunista impresso da Dubček, ma anche della rapida normalizzazione del cambiamento da parte del potere sovietico. Tra i temi trasversali, invece, Vercelli ha individuato l’aspetto generazionale: i principali motori di movimenti e sommovimenti, da entrambe le parti, furono i giovani, e in particolare la prima generazione interamente postbellica, sebbene con maggiori difficoltà ad Est, dove la stagnazione nel ricambio politico, le cooptazioni dentro il sistema monopartitico e un sistema sostanzialmente cristallizzato bloccarono in modo significativo la possibilità di una rottura netta.

Nel terzo e ultimo incontro (mercoledì 3 ottobre) Ferdinando Fasce (Università di Genova) si è concentrato sugli anni Sessanta negli Stati Uniti. Conversando con Carlo Ugolotti (Isrec Parma) e Attilio Ubaldi (presidente Isrec Parma), Fasce ha sottolineato due aspetti essenziali nell’approccio al ‘68 statunitense: il primo relativo alla necessità di un allargamento della prospettiva temporale, abbracciando la definizione, ormai consolidata in ambito storiografico, dei “lunghi anni Sessanta”; il secondo legato alla natura generazionale dei sommovimenti. Il relatore ha cioè sottolineato come, per capire il ‘68, sia necessario partire da una serie di cambiamenti, solo apparentemente conformisti, nella cultura materiale e nei riferimenti degli Usa in quel decennio (di cui Fonzie e “Happy Days” possono essere assurti a simboli), per arrivare al movimento dei diritti civili per le minoranze etniche e le donne e, in seguito, a una nebulosa di movimenti rivendicativi di varia natura che proseguì anche negli anni Settanta, sebbene in un sempre difficile equilibrio tra le istanze di sommovimento politico e sociale e la (im)possibilità di una loro istituzionalizzazione. «La questione è che non si può trasformare un vulcano in un grattacielo» è un’affermazione, retrospettiva, di un leader studentesco di allora – metafora visuale che Fasce ha utilizzato per spiegare la costante dialettica tra l’impeto di cambiamento “dal basso” e le ambiguità nella sua diffusione verso le strutture del potere istituzionale. È questa la chiave interpretativa centrale per comprendere gli Usa degli anni ’60 e ’70: la mancata corrispondenza tra rivendicazioni dal basso e dall’alto ha condotto, per lo studioso, ad ambiguità e mancanze nella società americana, che ancora oggi non ha pienamente incorporato le istanze di quei movimenti degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Razzismo e sessismo sono ancora all’ordine del giorno.