1. Premessa

Fare un bilancio del ciclo di incontri tematici Materiali resilienti. Una lunga storia di ordinarie eccezioni. Donne al lavoro tra storiografia e narrazioni si è rivelato da subito un compito piuttosto arduo. L’iniziativa, organizzata dall’Archivio di Stato di Bologna (Asbo) e dall’Associazione il Chiostro dei Celestini, con il contributo dell’Anai Emilia-Romagna e della Fondazione Argentina Bonetti Altobelli, ha infatti coinvolto più di 30 relatori e una dozzina di istituzioni culturali pubbliche e private nei sette appuntamenti che si sono svolti tra il 28 novembre 2014 e il 22 maggio 2015.

Il punto di forza di questa serie di incontri, realizzati secondo una formula già collaudata nel precedente ciclo dedicato alle Storie di ordinaria eccezione. Vite di donne tra disagio, trasgressione e sovversione in età moderna e contemporanea (15 novembre 2013 – 7 marzo 2014), è stato quello di mettere insieme donne e uomini di diverse generazioni con competenze trasversali, studiose e studiosi di varie discipline, i quali si sono confrontati sul tema ancora incandescente delle donne alla prova del lavoro, in un percorso che si è snodato dal medioevo alla contemporaneità, reso vivo dalla lettura delle fonti realizzata dall’attrice Marinella Manicardi.

Proprio la presenza di un interprete costante, parte in causa a ogni incontro, ha costituito un segno distintivo, un tratto caratterizzante di Materiali resilienti e, prima ancora, di Storie di ordinaria eccezione: la fisicità e la gestualità dell’attrice hanno difatti esercitato una funzione evocativa, quasi tragica, in quanto incarnazione delle testimonianze del passato, e hanno richiamato costantemente e materialmente all’attenzione del pubblico la questione del corpo femminile.

Obiettivo di questo breve contributo è tentare di restituire quell’efficacissima interazione che si è innescata tra gli interventi dei relatori e le interpretazioni dell’attrice, realizzando un ipertesto capace di legare la narrazione scritta con le riprese audiovisive delle letture di Marinella Manicardi e, al contempo, di offrire la possibilità di fruire della riproduzione digitale dei documenti citati e drammatizzati. Si tratta di un tentativo ambizioso e, come già detto, non semplice, ma anche un’opportunità di realizzare un interessante esperimento volto alla valorizzazione e alla divulgazione delle fonti archivistiche conservate presso l’Archivio di Stato di Bologna e i numerosi enti che hanno partecipato all’iniziativa.

I temi trattati sono stati numerosi e osservati da diverse angolature. Risulterebbe quindi poco opportuno in questa sede offrire un ragguaglio su tutti gli argomenti, tentativo che si ridurrebbe a un breve e fugace cenno a ciascuno di essi. Al contempo risulterebbe ugualmente arduo fare un’unica operazione di sintesi di tutte le puntate del ciclo di conferenze. Si è scelto dunque di affrontare solo alcuni dei principali punti nodali e degli interrogativi cui sono stati chiamati a rispondere con il loro contributo i relatori che hanno partecipato all’iniziativa.

Il primo dei temi centrali di Materiali resilienti è che le donne hanno sempre lavorato. Si è trattato di capire in quali professioni e in quali settori fosse concentrato il lavoro femminile, ma soprattutto quale tipo di riconoscimento quel lavoro potesse avere da un punto di vista economico, sociale e politico. La riflessione si è inoltre orientata sulle “storie d’eccezione”, su figure emblematiche di donne intellettuali o artiste, per approdare poi al tema della partecipazione a forme di mutualismo e di sindacalismo, nel tentativo di approfondire le interazioni tra le rivendicazioni per la tutela dei diritti.

Un problema trasversale a tutte le tematiche affrontate ha riguardato le fonti. Partire da un Archivio di Stato e dalla documentazione in esso conservata è stato opportuno oltre che necessario. Avvicinandosi alla contemporaneità si è rivelato tuttavia indispensabile allargare lo sguardo verso altre tipologie di fonti e di conservatori, in particolare sindacati e associazioni femminili, e rivolgersi alla ricchezza e alla varietà della memorialistica, del lascito orale, dei nuovi supporti audiovisivi, dei ritagli di stampa, dei volantini di propaganda, delle immagini dei manifesti, dei cori dei canti di lavoro, della fiction letteraria e filmica, persino dei social media di oggi.

2. Le donne hanno sempre lavorato

Se le donne hanno sempre lavorato e, in misura minore ma significativa, anche studiato o almeno aspirato a farlo, il ciclo di incontri ha provato a indagare i motivi che hanno reso e rendono sempre sfuggenti e, talvolta, palesemente contraddittori, i dati che le riguardano. Le donne hanno difatti agito nel mondo del lavoro in maniera “fluttuante” a causa di fattori biologici e delle complicazioni socioculturali che inevitabilmente ne sono conseguite. Certamente sono subentrate agli uomini o, quantomeno, hanno fatto irruzione nella vita pubblica in momenti storici di grande frattura sociale ed economica: guerre, crisi, processi migratori interni ed esterni.

Se l’assunto di partenza di Materiali resilienti è che le donne hanno sempre lavorato, la domanda successiva che i relatori si sono posti è stata dove abbiano lavorato. Un luogo di lavoro femminile privilegiato, ieri come oggi, è certamente la casa: non ci si riferisce semplicemente all’ingente mole di lavoro domestico che ha gravato e grava, per diverse ragioni, sulle spalle femminili (lavoro ovviamente non remunerato e di ardua quantificazione, che non garantisce potere e visibilità sulla scena pubblica), ma specificamente al lavoro domiciliare che muta periodicamente le sue forme e puntualmente si ripresenta. Il lavoro domiciliare, il più delle volte nascosto e vissuto all’ombra della tutela maritale, è divenuto saltuariamente visibile in situazioni di conflitto portate davanti all’autorità pubblica, come la lettura di un estimo tardo medievale ha aiutato a dimostrare.

Lettura del 28 novembre 2014, tratta da Asbo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Serie II, Quartiere Porta Procola, Cappella di San Domenico, 1315-16, b.166, c.66.

Le donne hanno poi continuato a lavorare, in povertà e solitudine, anche in età moderna, e in particolare nella Bologna settecentesca, ben rappresentata dai documenti catastali dell’Asbo e dagli stati delle anime parrocchiali, esercitando, oltre al proprio diritto alla sopravvivenza, anche forme del tutto inedite di pre-mutualismo femminile, nell’ambito di mestieri umili, servili e, molto spesso, legati all’economia della seta, che poi diventerà in generale il settore tessile. Un ambito quello legato alla produzione dei tessuti che ricorre frequentemente nella storia del lavoro femminile, che vede le donne posizionarsi alternativamente in casa e fuori, e nel quale si sono avute le prime fortunate forme di auto-imprenditorialità.

Lettura del 19 dicembre 2014, tratta da F. Iacobelli, M. Manicardi, La Maria dei dadi da brodo. La storia industriale di Bologna tra romanzo e teatro, Bologna: Pendragon 2013, pp.34-6.

Lettura del 19 dicembre 2014, tratta da Asbo, Legato, Censimento di famiglie distinte per parrocchie, 1796, Parrocchia di Santa Maria delle Muratelle, foglio n.6.

Il pregiudizio morale ha sempre accompagnato l’operato femminile, in particolar modo quando le donne hanno lavorato fuori dall’ambito domestico, costituendo quasi un elemento destabilizzante per la popolazione maschile. L’introduzione in epoca napoleonica di forme di lavoro semi-coatto in funzione riabilitativa, da esercitarsi in luoghi-riformatorio, come i discolati, o in opifici istituzionalmente controllati, come le case di lavoro e di industria, rivolti principalmente a quella parte di popolazione disagiata, che veniva definita anche “oziosa e vagabonda”, è indicativa di un certo controllo sociale che, tuttavia, è divenuto a volte insperata risorsa di supporto, legittimazione, protezione e formazione, rispetto a un altrove potenzialmente ostile e deregolamentato.

Lettura del 19 dicembre 2014, tratta da Asbo, Casa Provinciale di correzione, 1831, b.56, fasc. “Manzini Teresa”, rapporto dell’Ispettore politico del 25 luglio 1831.

Per lungo tempo, tuttavia, la stragrande maggioranza delle donne di estrazione sociale medio-bassa non ha avuto accesso alla formazione professionale o all’istruzione. L’apertura di convitti femminili a loro rivolti, ben inseriti in un modello pedagogico virtuoso, concepito per trasmettere coesione sociale, civismo, patriottismo e senso del dovere, ha segnato in qualche modo un punto di svolta.

Lettura del 20 febbraio 2015, tratta da Asbo, Provveditorato agli Studi di Bologna, Serie I, b.43, Bando di ammissione alla Scuola Normale delle allieve maestre di Bologna, 1860.

L’unità d’Italia ha indirettamente rappresentato per le donne, spesso già impegnate più di quanto si creda nelle vicende risorgimentali, un forte momento di emancipazione dalle mura domestiche. Il nuovo stato aveva la necessità di unificarsi linguisticamente e culturalmente, di ridurre le distanze esistenti tra le diverse aree del paese, di affermare la propria egemonia e pervasività anche nel sistema delle infrastrutture e, soprattutto, di recuperare il divario di sviluppo capitalistico con il resto d’Europa. Iniziarono rapidi e traumatici processi di industrializzazione e terziarizzazione condotti in prima persona dallo stato, nonché processi di intensa urbanizzazione.

Lo sviluppo capitalistico italiano (e non solo) fece dello sfruttamento di manodopera minorile e femminile, intercambiabile, a bassa specializzazione e sottopagata perché ipoteticamente sempre legata a dinamiche di economia familiare contadina, una formidabile leva propulsiva. Lo stato si servì inoltre dell’entusiasmo e dell’abnegazione femminili per alfabetizzare il paese da nord a sud ed espandere il sistema delle telecomunicazioni. Per quel particolare momento storico assurgono al rango di fonti le epopee letterarie legate alle figure quasi archetipiche della maestra e della telegrafista, riprese nella duplice variante: dimesse e ai limiti dell’indigenza, oppure disinibite e “dannunziane”. Di fatto masse di giovani nubili, senza famiglia al seguito, si spostarono per lavoro all’interno del paese, determinando inevitabilmente significativi cambiamenti di costume.

Le fonti provenienti dagli archivi di questure e prefetture, con la loro pretesa di oggettività, ci restituiscono i soprusi morali cui erano soggette le ragazze meno fortunate cui toccava di servire nelle case della nascente borghesia, o gli incidenti che occorrevano nelle fabbriche e negli stabilimenti pirotecnici, di certo privi di qualsiasi elementare misura di sicurezza, e ci raccontano dei sussidi che le maestre erano comunque costrette a chiedere perché i loro salari erano insufficienti a provvedere alle esigenze delle famiglie d’origine.

Lettura del 20 febbraio 2015, tratta da Asbo, Prefettura di Bologna, Gabinetto: b.709, Relazione dei carabinieri al prefetto del 20 febbraio 1889; b.911, Relazione del questore al prefetto del 18 maggio 1895; b.983, Relazione del questore al prefetto del 26 febbraio 1899; b.1020, fasc. De Witt Maria.

3. Le storie d’eccezione

Se, nonostante tutti i problemi di visibilità e incidenza politica, le donne hanno pur sempre lavorato, sono anche esistite forme di lavoro cognitivo, artistico, imprenditoriale e intellettuale che hanno visto l’affermarsi di una tipologia femminile diversa, in grado di esercitare anche una forma di pensiero critico più o meno esplicito sulla condizione femminile e di porre il problema di strutture organizzative concepite specificamente per le donne. È il tema delle donne d’eccezione o, sarebbe meglio dire, autosufficienti, che hanno ecceduto la norma per levatura morale e intellettuale, per posizionamento sulla scena pubblica e internazionale. Lo spettro di competenze e convinzioni etiche e politiche di queste donne è diversificato, ma il tratto comune è la consapevolezza dell’importanza di lasciare testimonianza scritta o autobiografica, non tanto sulle proprie vicende personali, quanto rispetto alle proprie convinzioni, al punto di arrivare a fondare giornali di opinione.

Lettura del 23 gennaio 2015, tratta da I. Oddone Bitelli, Donna moderna, “Donna socialista”, 22 luglio 1905.

Grandi sorprese ha riservato poi il mondo delle donne di spettacolo, soprattutto per la capacità di esercitare, almeno dal punto di vista della vita pubblica e della carriera professionale, una vera e propria leadership imprenditoriale, con alterne vicende, invece, sul piano strettamente privato.

Lettura del 23 gennaio 2015, tratta da Asbo, Atti dei notai, Pilla Carlo Ignazio, 12 febbraio 1749, Testimonianza di Lorenzo Zandonati ad istanza di Francesca Cuzzoni.

Altro prototipo di donna eccezionale, nel senso di eccellenza nel primato morale, nonché figura di successo in quanto patronessa, benefattrice e proto-imprenditrice, è la contessa Lina Bianconcini Cavazza, cui si deve l’istituzione di un ente dai forti connotati femminili, con sede a Bologna nel palazzo di famiglia, ma noto a livello internazionale: l’Ufficio per le notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare, che aveva il duplice fine di rispondere alle richieste delle famiglie dei militari impegnati al fronte durante la Prima guerra mondiale e di sollevare o, quanto meno, coadiuvare in questo servizio gli uffici ministeriali e militari e le prefetture.

Lettura del 20 febbraio 2015, tratta da F. Andrè, Bononia docet! Una visita a S. E. la contessa Lina B. Cavazza, “Il giornale italiano”, 9 Gennaio 1916.

Il conflitto mondiale aprì grandi spazi occupazionali alle donne, a cominciare dalle fabbriche di guerra per la produzione di munizioni fino ai servizi pubblici essenziali, ma finì paradossalmente per ridurre gli spazi di elaborazione e di comune sentire che si erano venuti a creare anche tra donne di estrazione sociale e culturale diversissima. Esperienze di mutualismo, di auto-organizzazione e di auto-formazione, a partire dall’impegno delle dame benefattrici, ma anche esperimenti che erano andati crescendo ed espandendosi sulle embrionali tematiche dello stato sociale e della tutela della maternità, grazie ad un dibattito acceso e ricco di sfumature, furono irrimediabilmente travolte dal primo grande conflitto totale della storia. Le divisioni causate dalle diverse posizioni sull’entrata dell’Italia nella guerra mondiale e successivamente l’ascesa al potere del fascismo segnarono una brusca frenata nell’elaborazione teorica e quasi un azzeramento delle esperienze organizzative. È un dato di fatto che, a causa della riconversione delle fabbriche dagli usi bellici e dell’avvio, anche da parte di forze vicine al movimento dei lavoratori, di una violenta campagna per il ritorno a casa delle donne (che pure avevano preso il posto dei soldati e dei defunti), in qualche modo l’avanguardia delle lotte rivendicative femminili si spostò nei territori rurali. Qui si fondarono cooperative di consumo e di lavoro che furono centri anche di aggregazione ed elaborazione e che videro un grande protagonismo femminile e un’istintiva ostilità al nascente movimento dei fasci.

In quel contesto spiccano per rilevanza gli scritti e le vicende biografiche di donne impegnate nelle organizzazioni politiche e sindacali, sebbene a dominanza e caratterizzazione ancora prevalentemente maschili. Donne che sapevano imporre uno sguardo critico sulle realtà associative e caldeggiavano sempre l’autonomia della componente femminile. È il caso ad esempio della grande agitatrice e intellettuale Argentina Altobelli. La rilevanza di figure come la sua non risiede tuttavia nell’anticonformismo o in un qualche genere di straordinario talento, bensì nel desiderio di elaborare e trasmettere un modello perseguibile e condivisibile di pedagogia, di lotta, di formazione al lavoro e di difesa dei diritti civili.

Lettura del 20 marzo 2015, tratta da A. Altobelli, Il voto alle donne, “La Squilla”, 17 marzo 1906; Id., Abitazioni coloniche, “Avanti!”, 24 novembre 1901.

Oltre a spezzare un possibile filo di sorellanza e a dividere i diversi soggetti in campo, il fascismo operò una vera e propria cesura, o almeno tentò di farlo, sul fronte della trasmissione della memoria storica e documentaria, specie di natura cooperativa e sindacale, evento del resto ben preconizzato e descritto dalla stessa Altobelli.

Lettura del 20 marzo 2015, tratta da A. Altobelli, Fascista proletario, “La Terra”, 1 maggio 1922.

4. Sindacalismo e mutualismo

Tuttavia la presunta spinta propulsiva fascista non solo si infranse sugli scogli della disfatta bellica, ma, tra le altre cose, anche sulle contraddizioni inerenti un certo immaginario familiare e femminile. Le virtù assai resilienti della massaia rurale non bastarono a reggere una società spaesata, svegliatasi bruscamente da un sogno revanscista e decimata nelle sue migliori risorse giovanili e maschili. Le donne furono chiamate a tenere insieme quel che restava del corpo sociale e produttivo, specialmente a partire dal 1943, e lo fecero con grande decisione e spirito di sacrificio, che non fu semplice dedizione femminile e patriottica, ma tenacia combattiva e attitudine alla lotta, in senso rivendicativo e resistenziale ampio, allargato a tutta la società. Se molto si è discusso anche di recente in ambito femminista sullo scorretto approccio celebrativo alla relazione tra “donne e guerra di liberazione”, definita sbrigativamente e riduttivamente in termini di “contributo”, basato sul mito fondativo della “staffetta”, dal nostro punto di vista è risultato molto più produttivo porre l’accento sullo spostamento progressivo delle masse femminili dal cosiddetto “antifascismo esistenziale”, cosi ben descritto dallo storico Giovanni De Luna, a una aperta ostilità che non ebbe paura di manifestare la sua carica sovvertitrice a partire dalle fabbriche del settore meccanico riconvertite al settore bellico, dalle campagne, dove proseguì l’epopea ribellista delle mondine, dai luoghi di aggregazione della società, come piazze e mercati, attraverso un rischioso e capillare lavoro di distribuzione di stampa che potremmo definire femminista oltreché clandestina.

Lettura del 17 aprile 2015, tratta da Archivio centrale dell’Unione donne italiane (Udi), Archivio cronologico 1943-1980, b.1, fasc.1, Volantini dei Gruppi di difesa della donna del novembre 1943 e del maggio 1944.

Nonostante poi la fine della guerra avesse portato con sé un discutibile processo di pacificazione nazionale, una diffusa voglia di normalità familiare e di ricostruzione sociale ed economica, con tratti di acceso conservatorismo che avrebbe voluto emarginare progressivamente l’elemento femminile dalla scena pubblica, per le donne italiane si aprì un lungo fronte di lotta al fianco delle classi popolari italiane che le vide impegnate su molteplici versanti. Primo fra tutti, naturalmente ma non solo, il tema del voto. Ma anche le rivendicazioni lavorative e i temi del welfare e della maternità. Non solo le donne cercarono di non tornare a casa, ma tentarono di avanzare e ottenere ciò che non era stato conquistato in precedenza. Si tennero strette le loro specificità e la loro autonomia anche se non si ipotizzavano ancora forme organizzative separatiste in senso stretto. Le donne cercarono di sfruttare i varchi di rinnovamento che la vicenda resistenziale aveva aperto nella società italiana, inserendosi con molte contraddizioni personali e una a dir poco vivace dialettica pubblica e privata nelle organizzazioni politiche e sindacali, quantunque queste fossero ancora segnate da una cultura prettamente maschilista.

Le donne fecero leva su una diffusa fame di cultura, di consapevolezza, di miglioramento dei livelli medi di istruzione, spesso favorite, nonostante tutto, dalla adesione a partiti e organizzazioni di massa, all’epoca in grande fermento di formazione e di consolidamento. Sebbene il divario nei livelli di istruzione e nelle mansioni fosse generalmente ancora elevatissimo rispetto alla popolazione maschile, nei territori emiliano-romagnoli non mancarono tuttavia molteplici e significative figure femminili all’interno delle istituzioni e delle camere del lavoro, che operarono in funzione a loro volta maieutica per altre donne e che si batterono per il conseguimento di misure, servizi e provvedimenti volti ad alleviare le fatiche della condizione femminile alle prese con il triplice carico lavorativo, familiare e di militanza.

Che poi la società nelle sue strutture di controllo fosse ancora particolarmente spaventata dall’iniziativa femminile, nonché dalle forze politiche che si richiamavano ai valori progressisti, lo si evince dai consueti rapporti di polizia, che raggiunsero alti livelli di misoginia e di mistificazione quando si trattò di riferirsi a donne come Tilde Bolzani, totalmente emancipate nel loro operare da qualunque influenza affettiva maschile.

Lettura del 17 aprile 2015, tratta da Asbo, Questura di Bologna, Gabinetto, Atti della cat. A8, Defunti di recente, b.1, fasc. Bolzani Clotilde.

A proposito della riflessione sulle fonti storico-documentarie che ha attraversato i vari interventi di Materiali resilienti e che la storia di genere sottopone sempre in qualche modo a prove di elasticità di lettura per via delle forme disparate e popolari che queste testimonianze assumono legate anche alla evoluzione dei tempi (a differenza ad esempio della documentazione di natura pubblica, cristallizzata dal legame con il complesso sistema dell’apparato burocratico-amministrativo, per lungo tempo precluso alle donne), dobbiamo osservare come in particolare gli anni Settanta rappresentino una sfida ardua anche per le storiche più accorte e volonterose. Se il fascismo e la guerra hanno rappresentato una duplice profonda ferita inferta al corpo di tutta la società italiana, anche a causa dei vuoti e delle dispersioni documentarie generate, la fase dei vorticosi cambiamenti che investì a tutti i livelli negli anni Settanta il mondo del lavoro e la condizione femminile soprattutto nella sua coscienza e consapevolezza, vede un altrettanto difficile reperimento di fonti storiche ufficiali.

Non basta difatti riferirsi per quei frangenti ad archivi sindacali e di partito per trovare le testimonianze dei rilevanti mutamenti che interessarono la condizione femminile a partire dal desiderio delle donne di emanciparsi fino in fondo da ogni possibile forma di autorità e autoritarismo maschile, non solo nei rapporti sociali in generale e nella vita privata in particolare, ma anche nei confronti delle classiche organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro. Atteggiamento di fronda nei confronti delle organizzazioni tradizionali, diffusa pratica orizzontale e rifiuto del leaderismo, allargamento a macchia d’olio dei problemi di vita e di lavoro, dalla fabbrica alle aule delle 150 ore, e poi ancora al consultorio, al quartiere, alle piazze e alle pareti di casa: sono tutti elementi che rendono molto frammentario e non organico, o addirittura volatile, tutto il materiale che riguarda i coordinamenti femminili, eterodossi rispetto ai loro corrispettivi maschili. Grandissima fu l’attenzione femminile in quel momento alla salute in fabbrica e nel territorio. Fu dalle elaborazioni delle lavoratrici che principalmente vennero avanti temi fino a quel momento assenti dagli interessi sindacali, e che riguardavano una sensibilità inedita alla qualità della vita e del lavoro e alla conciliazione dei loro tempi. Diritti di cittadinanza, medicina delle donne, riflessioni che potremmo definire ecologiste, diventarono patrimonio condiviso in maniera assolutamente orizzontale e collettiva.

Lettura del 22 maggio 2015, tratta da F. Bocchio, A. Torchi, L’acqua in gabbia. Voci di donne dentro il sindacato, Milano: La Salamandra 1979, pp.182-7.

Lettura del 22 maggio 2015, tratta da Archivio della Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl) - Unione sindacale territoriale (Ust) di Bologna, Rapporti con l’esterno, Rapporti con le federazioni di categoria Cisl e unitarie, Tessili e abbigliamento, fasc.1968.

La donna degli ultimi anni del XX secolo, che finalmente cominciava a sentirsi, se non proprio liberata, almeno protagonista della sua vita e, in qualche modo, identificata dal suo lavoro, sembra tuttavia leggermente sbiadita e in affanno nel ruolo di figura chiave di cambiamento ed evoluzione positiva del mondo del lavoro, di fronte al perdurare del divario salariale, all’apparente insormontabilità di determinate barriere sociali, culturali e psicologiche e alle crisi economiche sempre più virulente e prolungate cui viene sottoposto il sistema dello stato sociale. La diffusa precarizzazione, le ondate migratorie, i conflitti culturali ed etnici sempre più aspri, la competizione economica sempre più accesa, rendono oggi difficile per le donne mettere in campo come obiettivi complessivi di sistema quei miglioramenti qualitativi della vita per tutti cui si aspirava universalisticamente negli anni Settanta, anni apparentemente così lontani, seppure storicamente vicinissimi.

I segnali che ci arrivano dalle punte più avanzate della critica storica, sindacale, antropologica e sociologica del XXI secolo, epoca in cui persino un post su Facebook, un veloce tweet, la creazione di un blog, costituiscono testimonianza ed espressione di pubblica opinione, e in cui forme ambigue di lavoro delocalizzato, telematizzato e subappaltato convivono e si accavallano, accomunate dal ridimensionamento dei diritti collettivi, sono davvero contraddittori. E non potrebbe essere altrimenti, ora che anche il lavoro cognitivo viene sottopagato, e capire, distinguere e organizzare, diventa difficilissimo.

Materiali resilienti ha ospitato sia gli studi e le testimonianze di chi ha parlato di una sorta di “ritorno a casa” delle donne, alla ricerca di un rinnovamento delle forme di lavoro domiciliare che possa condurre verso esperienze di auto-imprenditorialità, sia le riflessioni di chi ha prefigurato un ritorno in forma cooperativa alle attività della terra. Le sfide che il sindacato si trova oggi ad affrontare sembrano dunque molto complesse, a partire dai numerosi casi di discriminazione o di molestie, affrontati con strumenti e sportelli dedicati ma sui quali è stato difficile poter raccogliere e analizzare dati. Ci si è ancora una volta affidati all’esperienza diretta dei testimoni impegnati ad esempio sul fronte dello sfruttamento nel settore logistico (ossia del facchinaggio), il quale costituisce un settore con una forte presenza di manodopera femminile oltreché prevalentemente legato al mondo cooperativistico.

A chiudere il cerchio dei Materiali resilienti, con un altamente simbolico ritorno a forme quasi pre-industriali di lotta e di solidarietà femminili, è stata la testimonianza di una donna-madre-lavoratrice, che con la sua capacità di conciliare cura domestica, occupazioni precarie e autoimprenditorialità e con la sua opera di raccolta di storie di lavoratrici, grazie anche agli strumenti del datajournalism, rappresenta tuttavia una figura ultra-contemporanea.

Lettura del 22 maggio 2015, tratta da Via del mare racconta. Lo stabilimento di Foggia dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato tra datajournalism e memoria, in http://viadelmareracconta.it/category/donne-di-carta/.


Risorse on line

Programma del ciclo di incontri Materiali resilienti
http://archiviodistatobologna.it/sites/default/files/ASBO/allegati/novit%C3%A0/lavoro_femminile_pieghevole.pdf