In Emilia-Romagna il secondo dopoguerra si è qualificato come “grande cesura” nella storia d’Italia del Novecento. Le discontinuità e la rottura col regime fascista sono state forti, e la Resistenza ha prodotto l’emersione di un ceto politico che ha voluto affrontare i problemi del presente in modo radicalmente nuovo rispetto al passato. Nacquero così, e progressivamente si rafforzarono, strategie e percorsi amministrativi caratterizzanti al punto da divenire poi, in tempi successivi, indicati nel loro insieme come “modello emiliano”. Nel campo universitario, la rottura con il passato volle essere altrettanto netta, specie sul piano valoriale, come dimostrò la scelta di un docente ebreo, l’antifascista Edoardo Volterra, come rettore dell’università più antica del mondo occidentale, quella di Bologna, dopo la vergogna delle epurazioni dettate dalle leggi razziali fasciste, che avevano colpito lo stesso Volterra. Ma nella nuova fase che si apriva nel 1945, i problemi innanzitutto materiali da affrontare erano enormi, e la possibilità di riuscirvi era legata all’aiuto statale e alla collaborazione tra atenei ed enti locali.

Riguardo ai danni subiti, il quadro non si presentava in modo omogeneo: pur gravemente ferita dal conflitto, Ferrara lo fu meno rispetto a Bologna e a Modena, e comunque si riprese facendo leva sulle proprie forze. Lo sottolineava il rettore, Felice Gioielli, che nel 1952 ricordava come la propria università «dopo il conflitto, coi suoi mezzi del proprio bilancio e solo con modesti contributi dello Stato, [aveva] saputo provvedere alle impellenti necessità dell’assestamento edilizio» [Università degli Studi di Ferrara 1959, 138], in una panorama contrassegnato ancora da scarsa collaborazione con le autorità cittadine.

Molto più grave si presentava la situazione a Bologna dove, a causa del conflitto, l’ateneo aveva subito danni notevoli tanto nelle strutture edilizie, con circa il 10% degli immobili andati distrutti, quanto nella strumentazione scientifica, gravemente danneggiata dagli eventi bellici [Tega 1987, 499; Malfitano 2013, 900]. La ripresa delle attività, in un contesto difficilissimo anche per la città e in penoso contrasto con il fulgido periodo degli anni prebellici, si presentava tutto in salita.

La situazione modenese non era molto dissimile, aggravata da una scarsità di mezzi di lunga data. A sette anni dalla fine del conflitto la “Casa dello Studente” era ridotta alla sola mensa e solo nel 1952 l’ateneo poté permettersi l’acquisto di un edificio, un evento che non si ripeteva addirittura dal lontano 1895 [Università degli studi di Modena 1953, 10].

Il percorso che si sviluppò e si intrecciò tra le università e gli enti locali fu dettato in gran parte da questa infelice condizione di partenza. I fondi stanziati dai primi governi post-bellici risultarono insufficienti a causa della generale condizione di prostrazione in cui versava il Paese. D’altro canto, in prosecuzione di un fenomeno di longue durée nella storia italiana, la loro fu una distribuzione “a pioggia”, frutto di una mancata progettualità strategica. Tutti i rettori mossero critiche più o meno pacate in questo senso [1], lamentando l’esiguità delle risorse a fronte dei bisogni. Per esempio, nell’aprire dell’anno accademico 1950-51, il rettore dell’Università di Modena si spinse ad affermare che «gli assegni ministeriali per il miglioramento del materiale scientifico e di laboratorio […] costituiscono un’entità meschina rispetto alle esigenze degli istituti» [Università degli Studi di Modena 1952, 8].

A colmare almeno in parte le lacune intervenne il sostegno erogato dagli Stati Uniti attraverso l’ European Recovery Program (Erp), il cosiddetto Piano Marshall, non sempre però in maniera equivalente per tutti: nel caso dell’ateneo ferrarese, tra il 1951 e il 1957 giunse materiale il cui valore superava abbondantemente i sessanta milioni di lire, e che si rivelò di fondamentale aiuto per la sua ripresa [2], tanto più che dal governo si lesinavano gli stanziamenti: nel 1947, una circolare ministeriale invitava a rivolgersi agli enti locali per non gravare troppo sul bilancio statale [Malfitano 2013, 902].

In linea generale, tra amministrazioni locali e atenei la strada di una collaborazione più o meno stretta era segnata: per ripartire le università avevano bisogno del loro sostegno, mentre gli enti locali richiedevano le competenze scientifiche e tecniche provenienti dal corpo accademico per stimolare la riattivazione del tessuto produttivo locale. Grazie a questo rapporto reciprocamente vantaggioso, si innestarono scambi proficui che, se da un lato furono il frutto di una situazione contingente gravemente emergenziale, dall’altro offrirono un primo importante contributo al successivo sviluppo economico e sociale dei territori interessati. Si tratta, in ogni caso, di percorsi tutti da individuare, ma che furono tutt’altro che semplici da costruire: per esempio, nel 1950 il rettore dell’Università di Modena si lamentava che l’ateneo non poteva sperare di vivere con le «elemosine» del Piano Erp e del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) e che, piuttosto, avrebbe dovuto essere lo Stato a far pressione sugli enti locali per contribuire «alla soluzione dei nostri problemi vitali con sovvenzioni adeguate» [Università degli Studi di Modena 1952, 9].

Anche nel caso felsineo, i rapporti tra l’ateneo e la giunta guidata da Giuseppe Dozza non furono facili. Il mondo universitario manifestò una certa gelosia rispetto alla propria autonomia e inizialmente il rapporto con gli enti locali, pur rappresentando il riannodarsi di una lunga tradizione, avvenne più obtorto collo che per esplicita convinzione. D’altronde, il rettore che diede una forte impronta all’ateneo bolognese guidandolo dal 1950 al 1956, e ancora dal 1962 al 1968, Felice Battaglia, era un liberale cristiano che nulla aveva da spartire con il pensiero comunista. Tuttavia, la sua vasta cultura, il desiderio di restituire a Bologna un ruolo consono alla sua enorme tradizione e la piena consapevolezza delle lacune nel campo delle attrezzatura che affliggeva la sua università, lo spinsero a cercare un dialogo con il Comune fin dai primi mesi del suo rettorato, nel 1952.

Fu uno sforzo che negli anni seguenti avrebbe dato importanti risultati, sfociati in primo luogo nella convenzione del 25 febbraio 1954. Sottoscrivendo quel documento, il Comune, la Provincia, la Camera di commercio, la Cassa di risparmio, la Banca del Monte, il Credito romagnolo, la Banca popolare rispondevano all’appello del rettore per assicurare un futuro degno della sua fama all’ateneo cittadino, in termini di attrezzature adeguate e spazi consoni alla sua importanza. Tra le misure previste vi era quella di concedere all’università i terreni vicini alla sede di Palazzo Poggi e quelli all’incrocio tra via Belle Arti e via Zamboni, fino a viale Filopanti, al fine di realizzarvi la nuova sede di Economia, l’ampliamento dell’Istituto di Geologia, la costruzione della sede di Lettere e Filosofia, l’Istituto di Matematica e un collegio femminile. Era un progetto ambizioso, che trovò immediata applicazione con l’inaugurazione della nuova sede di Economia, alla presenza del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, il 15 ottobre 1955. Il periodo di grande fervore inaugurato sotto Felice Battaglia conobbe un’altra tappa decisiva l’anno successivo, con l’approvazione della legge del 31 luglio 1956, n. 1085 per la Sistemazione edilizia dell’Università di Bologna, fortemente sostenuta dai parlamentari locali e fondamentale per il successivo incremento delle dotazioni dell’università.

Forse meno altisonante, per le dimensioni più ridotte dell’ateneo, ma comunque molto lineare e positiva risultò la collaborazione tra municipio e università nel caso di Ferrara. Fu l’amministrazione comunale, negli anni Cinquanta, a stanziare «cospicue somme per la sistemazione del Museo di Storia Naturale affinché possa essere aperto al pubblico» [Università degli Studi di Ferrara 1959, 6], cosa che avverrà due anni più tardi [Università degli Studi di Ferrara 1959, 237]; inoltre, nel 1952, grazie al sostegno del Comune e all’intervento dei parlamentari ferraresi, iniziò a intravedersi la soluzione per «il completamento della Facoltà medica». Questo tema era d’altro canto una spina nel fianco per il prestigio dell’università: gli studenti potevano seguire a Ferrara i soli primi tre anni, poi a causa della mancanza di locali idonei erano costretti a seguire altrove i restanti corsi, laureandosi in altri atenei. Il problema troverà un esito felice nel 1954, grazie ad un accordo con l’Ospedale di Sant’Anna. In quello stesso anno, il Comune cedette «in uso una parte dei locali del palazzo Pareschi» a favore del corso di Matematica e Ingegneria [Università degli Studi di Ferrara 1959, 413]. Nel frattempo, nel 1952, la facoltà di Scienze si era arricchita del corso di Scienze biologiche.

Sono anni in cui il rapporto tra Comune e Ateneo diede a Ferrara importanti risultati. La svolta avvenne nel 1954, con la creazione del Consorzio per il potenziamento dell’Università, fortemente voluto dall’amministrazione comunale e provinciale. La creazione del nuovo ente era stata preparata da un convegno, organizzato ancora una volta dal municipio, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica. Al progetto aderirono anche l’Arcispedale Sant’Anna, la Cassa di risparmio, l’Unione industriali e, con un contributo una tantum, il Consorzio nazionale canapa. Il Consorzio ferrarese creò una sinergia notevole a tutto vantaggio delle strutture universitarie cittadine, assicurando un contributo annuale non inferiore ai 9.000.000 di lire [Università degli Studi di Ferrara 1959, 413-14].

Il coinvolgimento delle istituzioni e degli enti locali fu da ascrivere in buona parte all’abnegazione e all’abilità del rettore Gioielli, che trovò interlocutori attenti ad ascoltare le esigenze dell’Ateneo, comprendendone il ruolo decisivo che poteva giocare nel panorama locale. Le amministrazioni infatti riconobbero e cercarono le competenze del mondo accademico, riconoscendone l’importanza per agevolare il superamento delle difficoltà del dopoguerra. E dell’operato dell’università, puntualmente, ne diede conto il rettore:

Degna di particolare nota è l’attività scientifica posta in essere da alcuni Istituti al fine di affrontare alcuni problemi di grande importanza per la Provincia. Così l’Istituto Botanico, in collegamento con il Centro di studi sperimentali della Fondazione «Navarra», ha iniziato ricerche sulla natura dei territori di bonifica. L’Istituto di Mineralogia, d’accordo con gli Enti locali interessati, ha affrontato il problema del Metano. Dal Direttore dell’Istituto di Radiologia, Presidente della Sezione Ferrarese della Lega contro i tumori, sono state portate a termine le trattative […] per la costituzione in Ferrara di un Centro di studi per la cura dei tumori, la cui sede principale sarà presso l’Arcispedale di Sant’Anna [Università degli Studi Ferrara 1956, 189].

Come se non bastasse, l’anno successivo vide la creazione della Fondazione intitolata a Serafino Cevasco, «compianto presidente della Società produttori zucchero», con lo scopo di ripristinare la Scuola di perfezionamento per l’industria dello zucchero e la divulgazione scientifica [Università degli Studi Ferrara 1956, 217].

Al momento in cui il Gioielli disegnava il quadro appena descritto, le strutture portanti delle campagne emiliane erano coinvolte in profondi mutamenti che ne sconvolgevano la fisionomia e la produzione. Il ferrarese non faceva eccezione, anzi, viveva momenti di forte tensione: negli ultimi anni del fascismo il numero dei braccianti, già elevato, era addirittura aumentato; l’applicazione della riforma agraria avrebbe provocato duri scontri tra i non numerosi contadini che ne usufruirono e il bracciantato che ne restò escluso [3]. In un momento in cui le campagne erano ancora colpite dalle conseguenze della guerra e la disoccupazione era in crescita per la distruzione completa dello zuccherificio di Pontelagoscuro, la bonifica si rivelava una questione fondamentale per l’economia ferrarese. La produzione del metano avrebbe attirato capitali esterni, e la creazione di un grande centro industriale per la sua produzione ad opera della Montecatini sarebbe diventato un elemento caratterizzante per l’economia locale.

Si trattò di un processo dalla durata tutt’altro che breve, che vide una buona collaborazione tra enti locali e università. Valga l’esempio della sede del rettorato: nel 1958 il sindaco Spero Ghedini e il nuovo rettore Giuseppe Olivero, subentrato a Gioielli, raggiunsero un accordo per una donazione in «uso perpetuo» all’università del palazzo di Renata di Francia, a lungo occupato da sfollati negli anni postbellici [4].

A Modena, invece, la situazione era differente: per un certo numero di anni l’amministrazione locale e l’università si mossero con minore convinzione sul piano della collaborazione, che si rivelò pertanto più faticosa e meno strutturata da accordi organici. Non senza fatica si trovò l’intesa per la riattivazione del “Dispensario celtico”. La giunta comunale aveva in animo di «provvedere direttamente alla [sua] gestione», ma l’assenza di locali idonei e le ristrettezze di bilancio, che ne impedivano il mantenimento, la costrinsero ad affidarsi all’università, con la quale stipulò una convenzione che prevedeva «un compenso annuo» di complessive 53.000 lire. Tuttavia, si specificava nella delibera, la convenzione sarebbe stata sciolta non appena il Comune fosse stato in grado di sostenerne il mantenimento [Comune di Modena 1946, 216-220]. La giunta comunale aderì invece con convinzione alla creazione, nel 1951, della facoltà di Scienza agraria [Comune di Modena 1946, 521], ma in occasione dell’apertura dell’anno accademico 1952-53, il rettore Paolo Gallitelli lamentò che «l’Università attende da anni» il contributo «dell’Amministrazione provinciale e dell’Amministrazione comunale» [Università degli Studi di Modena 1955,15].

In comune, gli atenei ferraresi e modenese avevano le dimensioni modeste, l’offerta formativa ancora limitata e un numero non elevato di studenti: a fronte dei circa 13.000 studenti dell’Università di Bologna nel 1946 [Malfitano 2013, 901], nel caso di Ferrara si passa dai 645 iscritti del 1940 ai poco più di 1.500 nell’arco di un quindicennio [Centro Interuniversitario per la storia delle Università italiane (ed.) 2004]; a Modena, «per i 17 anni che corrono dal 1945 al ‘62 la media» è di poco più di 3.000 [Mor, Di Pietro 1975, 541].

Nella Modena del dopoguerra la disoccupazione, che colpisce soprattutto le campagne, raggiunge livelli talmente elevati da far dubitare non pochi osservatori sulle concrete possibilità di ripresa economica [Magagnoli 1994]: passa da 25.000 nel 1946 a 44.000 nel 1950, fino a 50.000 nel 1955, collocandola entro le prime otto province italiane a più alta percentuali di disoccupati [Muzzioli 1993, 296]. La strada scelta dalla giunta comunale per fronteggiare il problema procedette non tanto attraverso una collaborazione con l’ateneo, quanto piuttosto con la creazione dei “villaggi artigiani”, che si svilupperanno nei decenni successivi e fungeranno da volano all’artigianato diffuso e alla piccola e media impresa [Rinaldi 1992, 125-147]. Si trattò però di un percorso tutto interno alla giunta comunale e ai partiti di sinistra, al quale l’università non fu chiamata a partecipare. Se è vero che la giunta sostenne la creazione della facoltà di Scienza agraria per impulso sia dei ministeri governativi, sia per venire incontro alla richiesta dei «numerosi lavoratori agricoli» che auspicavano il «miglioramento quantitativo e qualitativo della nostra produzione agricola» [Comune di Modena 1951, 521], gli enti locali indirizzarono gli sforzi maggiori all’istruzione tecnica, in stretta connessione con l’evoluzione economica del circondario:

Quello della formazione − che è anche formazione tecnica e professionale − a Modena era stato un terreno principe dello sviluppo nel secondo dopoguerra, affrontato con determinazione e lungimiranza da un’amministrazione locale che non si era limitata a riconoscere i limiti delle proprie competenze istituzionali, ma aveva sfruttato tutti gli interstizi legislativi per creare opportunità alle proprie capacità progettuali: fu così dato avvio non solo a scuole tecniche di alto profilo ma anche ad un sistema di istruzione offerto ai bambini dai tre mesi di età. Istruzione − non assistenza − perché nel progetto dell’amministrazione comunale di Modena i servizi all’infanzia miravano ad accompagnare lo sviluppo del bambino in un contesto di pratiche democratiche di partecipazione e di apprendimento, di condivisione di valori e di reciprocità [Russo, Natali 2008, 4; Muzzioli 1993, 388].

Il ritardo nella collaborazione tra le amministrazioni modenesi e l’università è attribuibile agli sforzi economici e ai tempi necessari ai vari progetti di mettersi in moto e produrre risorse. Il sostegno non estemporaneo all’università arriva più tardi rispetto a Bologna e Ferrara, ma arriva. È infatti del 1958 la stipula di una convenzione che porta alla nascita di un Consorzio tra ateneo, amministrazione comunale e provinciale, in sostituzione di quella del 1924 che elargiva contributi assolutamente insufficienti per un ateneo che ormai superava i 4.000 iscritti.

Nel frattempo, la vita dell’università fu sostenuta – oltre che, naturalmente, dagli stanziamenti governativi, che pure erano aumentati – da un rapporto sempre più stretto con altri soggetti presenti sul territorio. Le donazioni da parte degli istituti di credito della città e del circondario, dalla Camera di commercio e i finanziamenti provenienti dal mondo dell’industria crearono un’intesa che fu fortemente sostenuta dal rettore:

Tengo […] a sottolineare in modo particolare una prima offerta all’Università, da parte dell’Associazione industriali di L. 300.000 e una serie di contributi da parte dell’OCI Fiat, Fiat Grandi motori, Orsi, Martinelli, Fonderie Corni […] per complessive Lire 1 milione 180 mila lire. Ripeterò fino alla sazietà che la vita delle industrie non può rimanere ancora avulsa, in questa città, della vita degli studi. Da questa fucina escono i giovani che domani entreranno nelle loro fucine: ed è nel supremo interesse delle industrie stesse che i giovani trovino nella sede di studio le migliori condizioni di vita, i più accurati insegnamenti, le più moderne attrezzature. Modena si è fatta in questi ultimi lustri città industriale. Non vorranno questi potenti complessi venir meno al confronto [con altri centri industriali] [Università degli Studi di Modena 1955, 11-12].

Nell’accenno al processo di industrializzazione che interessava la città, il rettore coglieva il dato di fondo di un percorso allora agli esordi, l’affermarsi dell’industria metalmeccanica, destinata a divenire nel tempo il fiore all’occhiello dell’economia locale [Rinaldi 1992]. In questo contesto, il vero assillo di tutti i rettori che si susseguirono dal dopoguerra alla guida dell’università modenese fu il Policlinico, di cui si discusse abbondantemente, ma la cui costruzione procedette lentamente. Solo dopo la creazione del Consorzio, nel 1958 i lavori ebbero un’accelerazione decisiva grazie alla continuità dei fondi stanziati, per essere poi completati nel 1963.

In generale, gli anni Cinquanta furono proficui e portarono a una serie di realizzazioni: nel 1953, presso la Facoltà di giurisprudenza di Ferrara, sorse il “Centro di documentazione e studi per l’Unione Europea”, «autentica anticipazione di un processo che dai trattati di Roma del 1957 ha portato, passo dopo passo, a quelli di Maastricht del 1991 ed all’adozione dell’Euro come moneta unica europea» [Fabbri 2004]. A Modena, il giovane Giuseppe Dossetti, già titolare della cattedra di Diritto ecclesiastico fin dall’anno 1946-47, riusciva a far partire anche un corso in Diritto ecclesiastico e fin dal 1953 vagheggiava, senza successo anche se l’idea venne tenuta in considerazione per un triennio, l’attivazione di una facoltà di Scienze politiche [Tavilla 2013, 117]; sempre a Modena, l’ateneo stipulava numerose convenzioni: con l’ospedale cittadino, con la Cassa di Risparmio della città per la gestione del patrimonio dell’università, con il Manicomio giudiziario e quello di Reggio Emilia «per la consegna di salme di condannati per ragioni di insegnamento e di studio» [Università degli Studi di Modena 1956, 183-219]; mentre quattro anni più tardi la creazione del Consorzio universitario garantì fin da subito l’entrata di somme undici volte superiori rispetto agli anni precedenti: attorno ai 15 milioni nel 1958 [Università degli Studi di Modena 1960, 21]. L’università di Modena si stava quindi rafforzando e poteva guardare al futuro con una certa fiducia.

Da parte sua, l’università di Bologna considerò con preoccupazione l’irrobustirsi degli atenei vicini, sebbene avvenisse lentamente e su dimensioni comunque di gran lunga inferiori. Giudicò la loro presenza un fattore di concorrenza pericoloso, che minacciava il proprio ruolo preminente. Battaglia avvertì immediatamente il rischio, scagliandosi contro la mancata programmazione degli insediamenti universitari, che determinava effetti a suo dire paradossali a livello nazionale, ma soprattutto regionale:

Dobbiamo dire – denunciava il rettore – che la moltiplicazione delle Facoltà e degli Istituti universitari in città vicine a Bologna, come del resto nelle più lontane regioni d’Italia, moltiplicazione caotica e senza regola, dovuta a contingenti e locali sollecitazioni politiche, non è fatta per tranquillizzarci. Si negò e si nega a Bologna che pur la richiese da venti anni e la richiede la Facoltà di magistero, sebbene qui ci siano tutte le condizioni a che maestri e scolari affluiscano, a che tale scuola si svolga all’ombra della gloriosa Facoltà di lettere e dei suoi Istituti e delle sue biblioteche e la si dà al Veneto e alle Marche, la si dà dico a tutte le regioni d’Italia spesso in vero e proprio doppione; ma poi quant’altre Istituzioni nella sola Valle padana, spesso a mezz’ora di auto dal nostro centro! [Malfitano 2013, 209].

Battaglia non era personaggio da rimanere inerte di fronte a quella che veniva percepita come una sfida da parte delle consorelle di Modena e Ferrara e quindi, al di là degli strali pubblici, rispose con nuove fondamentali opere che servivano a ribadire il primato bolognese, a partire dalla nuova facoltà di Magistero, che ebbe un immediato successo. Il rettore rinsaldò inoltre i legami con quello che era un tradizionale bacino di utenza dell’università felsinea, le città romagnole, che in buona parte entrarono nel Consorzio interprovinciale universitario, creato già nel 1935, rafforzando il legame esistente e garantendosi contemporaneamente grazie alle quote sociali la possibilità di nuove concrete attuazioni. Assicuratosi così la “copertura del territorio” a est di Bologna, lavorò poi per ravvivare il plurisecolare profilo internazionale dell’università. Su questo fronte vantò successi considerevoli con l’apertura nel 1955 della filiale italiana della Johns Hopkins di Baltimora e impostando il progetto della facoltà di Scienze politiche [Malfitano 2013, 910].

Il superamento delle emergenze ricostruttive postbelliche e i mutamenti del panorama economico degli anni Cinquanta in Emilia-Romagna, che produssero smottamenti anche forti, spinsero sempre più amministrazioni locali e università a incontrarsi e trovare forme sempre nuove di collaborazione. Si prenda ad esempio per il modenese il caso dei fiumi Secchia e Panaro, soggetti a frequenti tracimazioni, che costituivano un problema complesso per le amministrazioni impegnate a contenerne le minacce: per fronteggiare il problema, gli enti locali si avvalsero delle competenze attive nell’ateneo [5].

L’incontro tra la “pianificazione” degli amministratori locali e il bagaglio culturale del sapere universitario – il corso di laurea in Scienze biologiche sorse nel 1958 – fu foriero di stimoli innovativi. La facoltà di Economia e commercio ne fu, forse, il risultato più significativo, tanto più che nacque senza il concorso dello Stato, ma per lo sforzo congiunto della municipalità, dell’amministrazione provinciale e della Camera di commercio [Università degli Studi di Modena 1971, 23]. L’idea di istituire la facoltà fu prospettata per la prima volta nel 1964, ma furono necessari quattro anni di trattative e di proposte per arrivare alla sua apertura nel 1968. Economia e commercio nacque nel mezzo del clima effervescente e gravido di rinnovamento della contestazione studentesca, e in quel contesto, sebbene non sempre in sintonia con le scelte delle amministrazioni locali, avrebbe vissuto momenti di grande fervore intellettuale e di ricerca.

Non vi è dubbio che fossero maggiori gli aspetti che accomunavano gli atenei di Modena a Ferrara rispetto a quello di Bologna. Come si è detto, le dimensioni: «Non tra i minori vantaggi della Università media – sosteneva il rettore di Modena Fabio Lanfranchi aprendo l’anno accademico 1955-56 – son quelli della vita raccolta, dei docenti assiduamente in sede, della lezione fatta, dell’esame curato, della tesi approfonditamente discussa». Ma la dimensione ridotta era uno svantaggio su altri piani, a partire da quello dei rapporti internazionali. Il reinserimento nel circuito culturale europeo ed internazionale dopo il crollo di un regime ventennale e delle sue influenze sul mondo della cultura, avvenne lentamente e con maggiori difficoltà dove le dimensioni degli atenei erano minori. L’isolamento, quanto meno parziale, a cui il fascismo aveva condannato il Paese, fu una zavorra poderosa, il cui peso diminuì lentamente.

Anche l’ateneo bolognese dovette impegnarsi parecchio, come il rettore Battaglia lamentò, per recuperare posizioni nel contesto internazionale [Malfitano 2013, 905], ma a soffrire maggiormente sul piano della circolazione delle idee erano gli atenei ferrarese e modenese. Lo spoglio delle pubblicazioni dei docenti testimonia la tortuosità di questo percorso: professori dell’università di Ferrara pubblicavano saggi su riviste spagnole e tedesche, in un momento in cui la permanenza della dittatura franchista in Spagna ne accentuava l’isolamento e la cultura scientifica tedesca soffriva di una profonda emarginazione a causa del passato nazista. D’altra parte, il numero degli studenti stranieri che studiavano nei due atenei – al contrario di Bologna – era esiguo [6].

Ciò nonostante, non tutti i fili risultavano interrotti. A Modena giunsero ad insegnare docenti che portavano contatti allacciati precedentemente con università inglesi, e che poi inviarono i propri allievi più promettenti a Cambridge e Oxford per soggiorni di studio. Erano percorsi che sarebbero diventati forieri di sviluppi futuri e di impatto sul contesto non solo locale, quando gli atenei ottennero forme di assestamento definitive.

Il primo quindicennio post-bellico si qualificò, dunque, come un periodo di ricostruzione e forte rilancio degli istituti universitari, impegnati nella risistemazione edilizia dei propri istituti e nell’ampliamento dell’offerta formativa, nel quadro di una collaborazione attiva con i soggetti più importanti presenti sul territorio: dagli enti locali agli istituti di credito o alle realtà produttive più sensibili. Se da questo punto di vista la prova poté dirsi superata, proprio l’evoluzione economica e sociale innescata dal “boom economico” fece sì che nuovi problemi si presentassero presto all’orizzonte.

Le università italiane del secondo dopoguerra erano strutture accessibili quasi esclusivamente ai ceti medio alti di sesso maschile – le donne frequentanti e laureate erano poche. Borse di studio e agevolazioni che favorissero l’istruzione superiori ai giovani in condizione disagiata erano del tutto insufficienti, sia dal punto di vista quantitativo, sia per quanto concerne gli importi. Tutti e tre gli atenei si giovarono del supporto di borse elargite da privati (così come incrementarono per questa via il proprio patrimonio librario, artistico e di strumentazione scientifica), ma per quanto lodevoli sotto il profilo delle intenzioni, non poterono invertire una situazione che aveva radici profonde e caratteri strutturali. L’affacciarsi del nuovo quadro economico e le dinamiche che lo provocarono e che esso, a sua volta, moltiplicò, allargarono poco alla volta la fascia d’utenza della popolazione studentesca. L’istruzione superiore sarebbe divenuta un fattore sociale di massa solo dopo il movimento studentesco del Sessantotto, ma le prime avvisaglie sono percepibili già negli anni precedenti. E tuttavia, ancora una volta, ciò risponde a verità molto più per il genere maschile che per quello femminile: per le donne «la situazione incomincia a cambiare radicalmente [solamente] a partire dagli anni Settanta e in un decennio l’occupazione femminile registra una crescita considerevole» [Bianco 2004].

Il fine udito dei rettori colse questi sentori, lamentandosene. Non videro infatti positivamente l’ampliarsi della domanda di partecipazione universitaria, perché era molto complicato per le loro istituzioni adeguarsi velocemente ai nuovi tempi: l’affollamento delle aule rischiava di mettere a soqquadro il lavoro della comunità scientifica, che poteva ben progredire soltanto finché il rapporto numerico tra docenti e studenti non fosse mutato eccessivamente. Può essere preso ad esempio, ma il discorso vale per tutti e tre le università, quanto affermava il rettore Olivero dell’ateneo ferrarese già nel corso della relazione inaugurale per l’anno 1957-58. Dopo essersi compiaciuto per la diminuzione degli studenti fuori corso e felicitato per l’aumento di coloro che riuscivano a tenere il ritmo degli esami, proseguiva in questi termini:

Del resto la ragion d’essere e la vitalità di questo studio non esigono affatto di appoggiarsi a criteri quantitativi. Che il numero sia potenza è – almeno nell’ambito degli studi – un paralogismo. […] Deve essere ben chiaro che sono qui ricevuti con la più aperta simpatia quei giovani che qui giungano animati dall’intendimento di seri studi. Chè se invece taluno, pensando di poter approfittare di taluni momenti di congiuntura, mai abbia supposto di venire a Ferrara per ottenere qui qualche non giustificato vantaggio, altrove preclusogli, spero che costui già si sia disingannato e abbia compreso che l’Università di Ferrara non è luogo di tappa per siffatte avventure, non è un locus minoris resistentiae. Non lasceremo compromettere il buon nome di Ferrara nel campo degli studi [Università degli Studi di Ferrara 1959, 398].

Il dato di fondo era l’aumento del numero degli iscritti i quali, non trovando adeguata ricezione negli atenei, cominciava ad esercitare una pressione sul mondo accademico destinata ad aumentare col tempo. Fu ciò che accadde per esempio a Bologna, nel corso di laurea in Geologia, dove il numero degli iscritti aumentò rapidamente, a fronte di un numero di docenti e di personale di servizio improvvisamente carente [Malfitano 2013, 914].

Tuttavia il rettore Olivero, sia pur confusamente, percepiva il mutamento di clima in arrivo. Il disagio degli studenti non era solamente imputabile alla inadeguatezza delle strutture [7]. Nel Paese, in quegli anni, case editrici innovative come Feltrinelli a Milano e Einaudi a Torino erano dedite a colmare il ritardo culturale lasciato dal fascismo con la pubblicazione di opere, per lo più straniere, che circolavano a fatica in ambito accademico. Lo spoglio delle lezioni inaugurali mostra chiaramente la distanza di almeno una parte del mondo accademico dai problemi concreti della società, che andava rinnovandosi e mutando. Le idilliache e tradizionali immagini di università simili a chiostri, in cui un ristretto e fedele numero di studenti lavorava di concerto con il “maestro”, ammesso e non concesso fosse realmente esistita, cominciò ad essere smentita da una gioventù figlia e partecipe di una modernizzazione che teneva lo sguardo rivolto al futuro [8].

Il dato di fondo è la radicale diversità degli attori che andavano incontrandosi. Il mondo giovanile risentiva degli influssi culturali promossi dai mass media (dal cinema alla musica). Dall’altra parte, il mondo universitario si mostrava restio alle innovazioni:

L’Università italiana degli anni ’50 restava, nella sua sostanza, quella fascista: una struttura uniforme e centralizzata, intrinsecamente connessa a un apparato di potere autocratico e gerarchizzato sia sotto il profilo dell’appartenenza sociale che sotto quello della formazione culturale. Un’Università che attraverso il filtro dell’idealismo gentiliano, perpetuava la dicotomia, introdotta dalla legge sull’istruzione di Gabrio Casati nel 1859, fra cultura classica e formazione tecnica, secondo schemi ben radicati nelle scuole “secondarie”, che proponevano nel liceo classico la scuola “formativa” per eccellenza e propedeutica agli studi superiori. Un sistema contraddistinto da una chiusura selettiva degli accessi e da una forte rigidità strutturale interna, determinata dal sopravvivere di meccanismi connaturati al mantenimento di una Università di élite, statica nella composizione soggettiva e nei contenuti del sapere impartito e discriminante [Romano 1998].

È curioso vedere, ad esempio, nel caso ferrarese, che mentre sotto la spinta del mutamento proveniente dal basso l’università si apprestava a meglio attrezzarsi per accogliere il numero di studenti che era iniziato a lievitare, cominciassero a circolare voci favorevoli all’introduzione del numero chiuso [Fabbri, 2004]. In realtà l’ateneo ferrarese continuò a svilupparsi negli anni successivi mantenendo saldo il lavoro di concerto con le istituzioni locali. Tra il 1959 e il 1965 proseguirono le trattative per acquistare dal Comune palazzo Tassoni, che con palazzo Renata di Francia e la “Casa dello studente” doveva andare a costituire il primo nucleo della città universitaria. In relazione a questo, si cominciò anche a parlare della disponibilità dell’amministrazione provinciale a cedere l’area dell’Istituto provinciale per l’infanzia – elemento di cerniera e di raccordo della città universitaria – nella quale palazzo Tassoni doveva divenire collegio universitario [Università degli Studi di Ferrara 1963, 16].

Lo stesso dicasi per Bologna dove, nel mezzo di un clima che cominciava a mostrare i primi segni di fermento, con una serie di scioperi e proteste, assieme ad altre realizzazioni di rilievo, venne aperta nel 1964 la facoltà di Scienze politiche:

un traguardo raggiunto dopo anni di impegno, ancora una volta grazie all’ampia disponibilità del Consorzio interprovinciale. Va segnalato in particolare lo sforzo della Provincia e del Comune di Bologna, che la consideravano una sorta di investimento che avrebbe facilitato la formazione della futura classe dirigente cittadina; la prima contribuisce coprendo il 22% delle spese, il Comune per il restante 78% [Malfitano 2013, 919].

L’impressione generale della situazione degli atenei dalla metà degli anni Sessanta in avanti è quella di istituzioni che, nonostante l’impegno, l’erogazione pressoché continua di servizi e strutture che dovevano fare i conti con un sostegno spesso inadeguato da parte dello Stato e con amministrazioni ed enti locali che disponevano di risorse limitate, faticarono a tenere il passo della scolarizzazione che andava aumentando, e che era portatrice di richieste nuove che mal si inserivano nella struttura storica delle università italiane. Dalla fine degli anni Cinquanta i contatti culturali internazionali degli atenei si erano moltiplicati, il numero di studenti che usufruivano di borse di studio all’estero era aumentato, l’aggiornamento dei temi trattati nei corsi e nelle lezioni si era avviato, ma risultava ancora troppo poco per placare la sete di rinnovamento di una popolazione studentesca cresciuta enormemente e vogliosa di cambiamento.

Se il ruolo di Bologna negli avvenimenti del Sessantotto fu di grande importanza, nel caso ferrarese e modenese la contestazione fu poco compresa e, per alcuni anni, per motivi di sicurezza, le inaugurazioni dell’anno accademico non si tennero. È quanto trapela dalla relazione del rettore dell’ateneo ferrarese Angelo Drigo inviata al Ministero nel gennaio 1969: nella quale illustrò la situazione legata alle contestazioni degli studenti, inizialmente incentrate su problemi ideali, anche se impostate in modo velleitario e con scarsissimo seguito tra gli studenti stessi, a suo dire. Gradatamente però queste rivendicazioni decaddero, tanto che «dagli ideali degli scorsi anni i contestatori sono scesi ormai, almeno a Ferrara, a banali richieste di riduzione del costo degli studi universitari, e ciò malgrado che l’Università italiana sia considerata, nel quadro mondiale delle Università, praticamente gratuita».

Non risultava diverso il caso di Modena, dove si riteneva che gli studenti si muovessero più sotto la spinta della situazione generale che per autonomo spirito di iniziativa. E tuttavia, in uno sforzo di comprensione delle loro ragioni, il rettore, Lorenzo Spinelli, ammetteva lo scarto tra istanze sociali e arretratezza delle istituzioni nazionali, a partire da quelle universitarie. «Ci rendiamo ben conto come la società italiana in genere sia ancora immobilizzata dall’inadeguatezza delle sue strutture», affermava nell’inaugurare l’anno accademico 1967-68 «e come, fra tutte le strutture, l’Università sia quella che appare più antiquata, più separata, più chiusa» [Università degli Studi di Modena 1971, 24]. Nel caso modenese, dove le contestazioni, nonostante alcuni momenti di tensione, si erano verificate senza debordare nell’illegalità, il rettore riconosceva il ruolo propositivo e propulsivo svolto dagli studenti e la spinta da essi impressa al rinnovamento degli studi con seminari, incontri di studio e programmatici tenuti anche con gli organi accademici [9].

È implicito, in questi riconoscimenti, il significato storico della contestazione: quello di aver sollevato problemi ormai ineludibili, di aver aperto la strada all’interesse e alla verifica del funzionamento non solo dell’università italiana, ma di tutta una serie di strutture fino a quel momento, di fatto, inaccessibili (ospedali, manicomi, carceri, esercito, ecc.). Si trattava di una serie di aperture e di nuove sensibilità che comunque non incidevano, o lo fecero solo marginalmente, sugli assetti politici regionali, dove la solidità delle giunte e delle amministrazioni non venne scalfita [10]. Si apriva però una nuova fase – in buona parte ancora da studiare – che per le università, in regione come nel resto d’Italia, significò l’inizio di un periodo di difficile ricerca di un altro equilibrio, tutto da costruire, che accogliesse le esigenze provenienti dalla società, e dai giovani in particolare, e dall’altro consentisse agli atenei di continuare a svolgere il proprio delicato ruolo di luogo principe per la formazione superiore.


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Note

1. Per il caso bolognese, si veda: Malfitano 2013, 902 ss. Per i casi ferrarese e modenese, si possono confrontare le relazioni inaugurali dei rettori negli Annuari.

2. Si vedano gli annuari degli anni accademici dal 1950-51 al 1957-58 in Università degli Studi di Ferrara 1959.

3. Per uno sguardo di insieme sui mutamenti in agricoltura in questi anni, si veda: Crainz 1994. Specificamente per il ferrarese cfr. Lotta di classe nelle campagne ferraresi nel secondo dopoguerra 1981.

4. Archivio Storico Comunale di Ferrara, Carteggio Amministrativo, Titolario “Istruzione Pubblica”, b. 35, fascicolo “Concessione in uso perpetuo alla Università del Palazzo Renata di Francia e lavori di restauro del medesimo”, foglio 14 e Allegati, nonché “Verbale del Consiglio Comunale», seduta del 9 giugno 1958.

5. Una di queste fu quella di Mario Bertolani, geologo e docente di Petrografia presso l’ateneo cittadino, studioso delle materie prime e dei materiali ceramici ed anche Consigliere provinciale e Presidente della Società dei naturalistici e matematici di Modena.

6. Per Modena, cfr. Mor, Di Pietro 1975, 556.

7. Permane un problema reale che alimenta malcontento in ambito studentesco, si veda la relazione del rettore Lorenzo Spinelli per l’anno accademico 1967-68 [Università degli Studi di Modena 1970, 23].

8. Il panorama – e non poteva essere altrimenti, del resto – non è identico ovunque. A Modena, le lezioni di Sebastiano Brusco, uno dei fondatori della Facoltà di Economia e commercio, riscuotono grande successo: «Resta memorabile tra i partecipanti il ricordo delle sue lezioni in cui spiegava con linguaggio semplice e efficace che cosa è l’economia», [Russo, Natali 2008, 3].

9. Sul Sessantotto a Modena, cfr. Rinaldi 1996.

10. Cfr. De Bernardi 2003 e la bibliografia ivi contenuta.