1. Premessa

Il tema del profugato dopo Caporetto, rimasto a lungo in ombra negli studi sulla Grande Guerra, è stato affrontato per la prima volta in modo organico da Daniele Ceschin che ha messo in luce la rilevanza di una vicenda che «costituisce per certi versi un unicum nella storia dell’Italia unita» [Ceschin 2006, XI] [1].

L’esodo di 600.000 persone dalle terre occupate dall’esercito austro-germanico rappresentò la principale tragedia collettiva vissuta dalla popolazione civile durante la Grande Guerra. Anche per gli italiani che non erano direttamente coinvolti nella vicenda il dramma dei profughi si caricò di molteplici significati:

I fuggiaschi riparati in Italia diventarono in qualche modo il ritratto della zona occupata, l’emblema di una guerra ora vicina e presente, nella quale alla dimensione militare si era aggiunta una dimensione civile difficilmente decifrabile perché imprevista. La loro vicenda e, in maniera diversa, l’occupazione austro-germanica diventarono drammi ad un tempo circoscritti e collettivi nel dramma più ampio della guerra [Ceschin 2006, XI].

Lungo tutta la penisola, in centri grandi e minori, l’arrivo improvviso di migliaia di persone comportò uno sforzo straordinario da parte delle Prefetture e delle amministrazioni locali per realizzare una complessa opera di assistenza, determinò la nascita di comitati per i profughi, diede vita ad una mobilitazione patriottica delle comunità coinvolte che furono chiamate ad impegnarsi per garantire accoglienza e ospitalità, sostegno materiale e morale.

Il fenomeno del profugato si presta dunque ad indagini sui contesti locali che possono offrire spunti interpretativi di portata più generale. Un caso interessante è quello di Modena, dove dopo Caporetto transitarono circa 30.000 persone provenienti dalle terre invase, metà delle quali si stabilì nel capoluogo e in altre località della provincia sino alla fine della guerra.

Questo saggio ricostruisce alcuni aspetti della vicenda dei profughi nel territorio modenese: l’attività di assistenza, il rapporto tra i profughi e la comunità modenese, il nesso tra solidarietà e patriottismo; i problemi e le condizioni materiali di vita dei profughi; le polemiche sull’opera dell’Alto commissariato per i profughi. La ricerca è basata sull’analisi di diverse fonti: il bollettino “Pro profughi”, organo del Comitato profughi di Modena, poi trasformatosi in Patronato, che uscì dal novembre del 1917 all’aprile del 1919; una relazione sulla gestione del Patronato pubblicata dopo la guerra; articoli della cronaca modenese del quotidiano “La Gazzetta dell’Emilia” e del settimanale socialista “Il Domani”; alcuni documenti dell’Ufficio di Gabinetto della Prefettura conservati presso l’Archivio di Stato di Modena.

L’intento è quello di fornire un primo quadro di riferimento in funzione di ulteriori ricerche che dovrebbero approfondire l’interpretazione del profilo del profugato e del ruolo svolto dagli attori istituzionali, politici e sociali attraverso la consultazione di altre fonti (Archivio Centrale dello Stato, Archivio provinciale, Archivi comunali, varia pubblicistica locale, stampa cattolica ecc.).

2. L’opera di assistenza e il bollettino “Pro Profughi”. Tra solidarietà e patriottismo

Tre giorni dopo la rotta di Caporetto i primi gruppi di profughi giunsero a Modena con ogni mezzo di trasporto, «a gruppi ed alla spicciolata», «famiglie intere e persone sole» [2]; nei mesi successivi oltre 30.000 persone provenienti dalle terre invase transitarono per la città, punto nevralgico di congiunzione ferroviaria delle linee del Veneto attraverso Bologna e Verona [Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 4]. Come molte altre località italiane, Modena si trovò ad affrontare una situazione imprevista e drammatica in un contesto segnato dalle estreme difficoltà dell’emergenza bellica. 

Al loro arrivo i primi profughi furono ospitati nella chiesa di Sant’Agostino, nello stallo di sosta del nuovo mercato bestiame e nei locali della Casa del soldato; alcuni furono costretti a trascorrere la notte «alla belle étoile» [3].

La Prefettura diede disposizioni per l’organizzazione dell’accoglienza alla Stazione ferroviaria:

All’arrivo dei treni si dovrà provvedere immediatamente al rifocillamento dei profughi mediante brodo, pane e salame e latte in preferenza ai bambini. I malati dovranno essere subito visitati dal medico Provinciale […] per le eventuali misure da prendersi. […] Qualora […] i profughi debbano scendere dal treno per sostare in attesa della formazione di un altro treno, dovranno essere temporaneamente collocati nei due padiglioni predisposti alla stazione e di tutti si dovrà fare subito un preciso elenco da trasmettere alla Prefettura [4].

L’amministrazione locale, che già forniva assistenza a numerosi esuli, dovette far fronte agli impegni previsti dalla legge che assegnava ai Comuni il compito di garantire ai profughi aiuto alimentare, un alloggio, i controlli sanitari, un sussidio per i più bisognosi [Montella 2008, 74].

Il Comune di Modena, guidato dal Sindaco Giuseppe Gambigliani Zoccoli e da una Giunta formata da liberali e cattolici moderati, «promosse immediatamente ogni provvidenza intesa ad un pronto soccorso» e, in accordo con la Prefettura, delegò ad un Comitato il compito di coordinare l’assistenza [5]. Il Comitato stabilì la propria sede nella Sala del fuoco del Palazzo comunale e affrontò anzitutto l’urgente problema della sistemazione dei profughi.

Le famiglie abbienti furono alloggiate in ville nei dintorni di Modena messe a disposizione dai proprietari. Alcuni profughi trovarono ospitalità presso «famiglie di ogni classe», altri furono accolti presso l’Istituto San Filippo Neri e in scuole e opifici trasformati in dormitori [6]. Nei mesi successivi le famiglie più bisognose, che non erano in grado di pagarsi un affitto nemmeno con il sussidio erogato dallo Stato, furono ospitate anche in ricoveri collettivi come le colonie nelle quali l’organizzazione dell’alloggio, del vitto e dei servizi di assistenza era autogestita. In provincia di Modena alle due colonie già esistenti che accoglievano un migliaio di profughi trentini se ne aggiunsero altre 18, in media una ogni due Comuni [Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 8-9].

Un’emergenza particolarmente drammatica era quella dei bambini che si erano dispersi nella disordinata fuga dalle zone di guerra o erano stati smarriti dai loro genitori durante il viaggio. La stampa locale raccontava di «turbe di bambini scalzi, laceri, scarmigliati» che vagavano «nelle piazze in cerca non solo del babbo o della mamma, ma pure del tozzo di pane e del vestitino che li ripari dalla rigidità della stagione» [7]. L’intervento della Giunta comunale, del Comitato profughi, della Croce rossa americana e delle associazioni religiose consentì ai bambini senza famiglia o malati di ricevere ricovero e assistenza in ospizi e collegi, in alcuni locali del castello di Guiglia e in una colonia di Sestola. [8]

Per l’assistenza medica la Croce verde mise a disposizione un ambulatorio chirurgico e alcuni medici prestarono volontariamente la loro opera. Nell’ufficio del Comitato profughi ogni giorno «una squadra di volonterose signore» accoglieva i nuovi arrivati, provvedeva ai bisogni più urgenti, curava la corrispondenza con le famiglie rimaste nei paesi invasi. Un gruppo di volontari si dedicava alla registrazione e alla ricerca dei profughi, diffondendo notizie e fotografie sui dispersi. Altri membri del Comitato erano impegnati, di concerto con l’Assessorato al lavoro del Comune, nella raccolta delle domande e delle offerte per il collocamento della manodopera. Una sezione dell’associazione si occupava dell’assistenza ai soldati sbandati che affluivano numerosi nella provincia modenese [9].

Per sostenere le spese, il «tenue sussidio governativo» fu arricchito da una sottoscrizione promossa dal Comitato, che in breve tempo raccolse 100.000 lire donate da «enti pubblici, nobili cittadini, borghesi, maestranze operaie» [10].

Il 30 marzo del 1918 il Comitato profughi si trasformò in Patronato assumendo una nuova configurazione giuridica. Il Patronato nasceva come emanazione dell’Alto commissariato per i profughi, l’organismo istituito nel novembre 1917 presso la Presidenza del Consiglio con il compito di provvedere all’assistenza dei profughi di guerra e di occuparsi degli interessi collettivi delle terre occupate. Il decreto legislativo 3 gennaio 1918, n. 18, istituiva un Patronato in ogni comune nel quale si trovassero profughi di guerra; la nuova istituzione, che era in parte sovvenzionata dallo Stato, doveva occuparsi di molteplici aspetti dell’attività di sostegno agli esuli, dalla raccolta dei fondi all’acquisto di generi di consumo, dalla cura dei bambini e degli anziani al collocamento della manodopera, dalla tutela legale al controllo sull’erogazione dei sussidi [Ceschin 2006, 92].

Nei Comuni dove già esistevano Comitati che funzionavano con buoni risultati il Prefetto poteva attribuire ad essi il titolo di Patronato, mantenendone anche l’organizzazione. Era questo il caso di Modena, dove il nucleo principale del Patronato era costituito dagli stessi membri del Comitato profughi. Del Comitato esecutivo facevano parte il Sindaco Giuseppe Gambigliani Zoccoli, l’ingegnere Emilio Giorgi, il dottor Camillo Monelli, il cavalier Geminiano Aggazzotti, l’avvocato Mario Amorth, il maestro Bindo Pagliani, Giovanni Bertoni, Elisa Tardini Teggio; Cesare Viaggi, direttore della “Gazzetta dell’Emilia”, e Adolfo Di Rovetti, funzionario della Prefettura; Melchiorre Roberti, giurista padovano, docente alla Facoltà di legge dell’Università di Modena e principale animatore del bollettino “Pro Profughi”. Come rappresentanti dei profughi erano stati nominati alcuni esponenti del notabilato veneto e friulano: il conte Pietro Tiepolo, gli avvocati Giacomo Guarnieri e Ermete Tavasani, Anna Rossi-Pistorelli [11].

Oltre al Patronato modenese esistevano diversi comitati nei Comuni della provincia modenese; altri si erano formati per organizzare i profughi in base alla loro provenienza regionale, friulana o veneta. Questa rete, sorta spontaneamente o per iniziativa degli enti locali, doveva tutelare circa 16.000 persone che si erano rifugiate stabilmente nella provincia modenese, 7.400 nel solo capoluogo [12].

Un punto di riferimento fondamentale per il coordinamento di queste attività era il bollettino “Pro profughi”, l’organo ufficiale del Comitato e poi del Patronato modenese, pubblicato tra il novembre del 1917 e l’aprile del 1919. In parte distribuito gratuitamente ai profughi, in parte «bandito dagli strilloni a ciò che costa[va], secondo le esigenze dell’ora», il periodico aveva una tiratura di 500 copie a numero e usciva con una periodicità quindicinale [13].

Il giornale dava largo spazio alla pubblicazione di lunghe liste nominative dei profughi che avevano trovato una sistemazione in provincia, con l’indirizzo degli alloggi presso il quale erano ospitati, e di quelli che erano ricercati perché ancora dispersi. Una particolare attenzione era rivolta alla ricerca dei bambini; la redazione affiancava ai loro nominativi una breve descrizione o una fotografia per facilitare il riconoscimento e il ricongiungimento con le famiglie.

Varie rubriche erano dedicate a notizie di diverso tipo che potevano essere utili ai profughi (dalle domande e le offerte di lavoro ai problemi dell’alloggio e dell’assistenza medica, dal recupero dei bagagli al rimborso delle spese di viaggio, dalle informazioni sulla corrispondenza che giaceva presso l’ufficio del Comitato a quelle sulla concessione di crediti, ecc.). Tramite il giornale le persone e gli enti interessati erano inoltre costantemente informati sull’attività del Patronato e dell’Alto commissariato per i profughi e trovavano resoconti sulle iniziative parlamentari che riguardavano i diversi aspetti della situazione del profugato. Una specifica rubrica riportava le cronache delle iniziative realizzate da comitati di altre località italiane e dava conto del dibattito che si sviluppava tra i profughi nei convegni promossi da associazioni e amministrazioni locali. Nei primi mesi del 1918 il giornale iniziò a diffondere anche notizie sulle terre invase raccogliendo articoli della stampa veneta e friulana e testimonianze dirette.

I corsivi e i commenti del bollettino collocavano la vicenda dei profughi all’interno di un discorso patriottico, in sintonia con la propaganda ufficiale finalizzata a rafforzare il fronte interno. Rappresentato come una totalità priva di differenze di classe, il profugato diventava una categoria nella quale si condensava il senso di una patria ferita ma pronta a rialzarsi. Per rafforzare il legame simbolico fra gli esuli e la patria in guerra, il giornale si avventurava in un’analogia tra le ferite fisiche dei soldati e quelle affettive e materiali patite dai profughi. Al pari dei mutilati i profughi erano «doloranti per la guerra» perché avevano lasciato «lembi» dei loro affetti e dei loro averi nei «focolari spenti» e nelle «case rovinate». [14]

Anche la simbologia religiosa si prestava ad una retorica di questo tipo. L’esilio dei profughi era paragonato alla settimana di passione di Cristo, che era stata preceduta dalla festa delle palme (quando erano state «riscattate Gradisca e Gorizia, Aquileia e Grado e Monfalcone») e a cui sarebbe seguita la Pasqua della resurrezione, ovvero la vittoria e il ritorno dei profughi nelle loro terre grazie alla perseveranza degli italiani «nella resistenza, nel sacrificio, nella fede» [15]. Don Giuseppe Chiarelli, l’assistente ecclesiastico dei profughi modenesi, evocava la vicenda degli «Ebrei esuli in Babilonia» e dell’«antico Tobia profugo anch’egli», invitando ad avere coraggio perché era la patria a richiedere ai profughi questo sacrificio [16].

La stessa attività di assistenza si caricava di significati patriottici. L’«ardore benefico» del «febbrile» lavoro svolto a sostegno degli esuli veniva presentato come l’«umile ma non indegno compimento del sacrificio dei soldati nostri» e il luogo nel quale si riuniva il Patronato – la Sala del fuoco del Palazzo comunale – suggeriva l’idea dell’«altare sacro della Famiglia», simbolo della «casa cara» che il «valore delle armi» avrebbe presto ridonato ai profughi [17].

Il bollettino del Patronato modenese rappresentava i profughi come persone che sopportavano con dignitosa compostezza la loro dolorosa condizione, che non imprecavano contro la guerra e rispettavano la patriottica consegna del silenzio:

Nella grande sventura che vi ha colpito, nessuno ha mai udito da voi una parola, un lamento per l’avverso destino, mai un’imprecazione contro la guerra […]. In quei giorni terribili e dolorosi invece di essere, come il tedesco sperava nella sua errata visione, un elemento di discordia […] o di ribellioni, voi avete con la composta dimostrazione dei vostri dolori riuniti gli animi, fuse le energie, sollevate in alto le menti depresse! [18]

La rovinosa sconfitta di Caporetto veniva minimizzata come un episodio dovuto ad «un attimo di nostra debolezza» e nello stesso tempo trasfigurata in un evento «che aveva tuttavia concepito il miracolo di ridare all’Italia tutta la sua forza» [19]. Punto di precipitazione delle vicende belliche italiane, Caporetto era la catabasi che preludeva alla rinascita della nazione nella vittoria contro i «barbari invasori».

Il territorio invaso veniva idealizzato come un suolo «purissimo» violato oscenamente dalla violenza del nemico contro le donne, i bambini, gli ospedali, i monumenti [20]. Le notizie che provenivano da quelle terre erano enfatizzate «per tener viva la fiamma del sacro odio» contro «l’aquila grifagna», contro «i turchi e i tedeschi» che nella loro «furia devastatrice» portavano «ingiustizie, soprusi, incendi, uccisioni» [21].

Alla costruzione di un analogo racconto patriottico sul profugato contribuivano i principali giornali modenesi, dalla “Gazzetta dell’Emilia” al “Panaro”, allineati alla campagna propagandistica del governo. L’unica voce dissonante era quella del settimanale del Partito socialista modenese, “Il Domani”. Schierato su posizioni di intransigente rifiuto della guerra, il giornale veniva accusato di insensibilità o addirittura di tradimento e di tedescofilia. In realtà, fermi su un neutralismo di principio, i socialisti modenesi erano «fortemente preoccupati per l’eventualità di un’invasione ed occupazione del paese, perché ciò avrebbe significato la perdita delle conquiste fatte in tanti anni di dura lotta, distruzioni, fame, violenze contro gli inermi» [Degli Esposti 2012, 232-233]:

Per questo possiamo respingere con coscienza tranquilla le accuse che i nostri avversari ci muovono, e riaffermare che il nostro partito, memore del suo passato e pienamente conscio della gravità del presente, proseguirà fermamente la sua strada. Propugnatore dell’autonomia di tutti i popoli, [censura] non compirà alcun atto che possa facilitare l’attentato conquistatore che attualmente si sferra sull’Italia, e serberà inalterabile fede a quei principi di libertà, di fratellanza internazionale che sono la sua ragione d’essere e la certezza del suo trionfo [22].

Di fronte all’arrivo dei profughi il settimanale invitava i militanti ad impegnarsi per dare un fraterno aiuto a coloro che più di altri erano vittime delle violenze della guerra. I socialisti modenesi si richiamavano alle «deliberazioni del gruppo parlamentare della Confederazione del Lavoro» che aveva proclamato «il dovere di fare ogni sforzo per rendere meno dura la condizione dei profughi». [23]

Alla concezione paternalistica dell’assistenza intesa come beneficenza veniva contrapposto un intervento nel segno della solidarietà di classe [Ceschin 2006, 73-74; Procacci 1985, 282]. A Carpi la Camera del lavoro organizzò un convegno dal quale scaturì la decisione di istituire un Comitato operaio di solidarietà con gli esuli. I partecipanti al convegno deliberarono di devolvere una giornata di lavoro a favore del fondo dei profughi, di mettere a disposizione gli Uffici di collocamento e le sedi delle Camere del lavoro per facilitare «ai fratelli disgraziati occupazione e lavoro», di fare pressione presso le autorità affinché avviassero opere pubbliche «atte a rendere più facile […] l’occupazione» [24].

«Il Domani» diede inoltre risalto ad una proposta avanzata dal dottor Rodolfo Benati in una lettera inviata alla “Gazzetta dell’Emilia”. Per affrontare il problema dell’assistenza e della cura dei bambini l’esponente socialista riteneva necessaria l’istituzione di un’apposita “Casa per i bambini” ispirata ai metodi di Maria Montessori.

Una “Croce Bianca” la quale accoglierebbe per assisterli e salvarli – in un ambiente sereno di calma e di distrazione – questi figli della guerra, questi piccoli traumatizzati o feriti psichici, questi poveri bambini i cui dolori, le angosce morali, i disagi nervosi sono accresciuti dall’abbandono dei genitori […]. A Modena non mancano valentissimi neurologi e psichiatri che certamente risponderebbero all’appello per la riuscita di tale iniziativa mettendosi come vorrebbe la Dott.ssa Montessori alla direzione di questa “Croce Bianca” cui dovrebbe certamente sorridere il successo se le Autorità competenti […] vorranno darle tutto il loro appoggio [25].

Come notava con rammarico la redazione del giornale socialista, questa proposta, nonostante la sua rilevanza, era però caduta nel vuoto [26].

3. I problemi e le condizioni materiali dei profughi

Nell’aprile del 1918, presentando il bilancio del Comune, il Sindaco di Modena elogiava «l’opera vigorosa spiegata a favore dei profughi per la protezione dei quali ben può dirsi che nulla si lasciò intentato attingendo largamente al contributo dei concittadini in opera, in denaro, in alloggi e nelle più svariate forme» [27].

L’efficacia della complessa attività di assistenza promossa a Modena da una pluralità di soggetti istituzionali e sociali era riconosciuta anche da quei profughi che manifestavano pubblicamente il loro ringraziamento. In una lettera alla “Gazzetta dell’Emilia” un esule veneto descriveva «la patria del Tassoni» come un luogo che aveva accolto i profughi con «un senso di fratellanza addirittura ammirevole» e una maestra friulana ringraziava coloro che avevano steso «la mano pietosa che soccorre e solleva» [28].

Questi giudizi, che vanno letti nel contesto della propaganda tesa ad esaltare la compattezza patriottica della comunità, restituivano un quadro parziale della situazione. Lo stesso bollettino del Patronato riconosceva l’esistenza di numerosi problemi irrisolti e invitava ad una maggiore generosità nell’assistenza materiale in particolare dei ceti popolari. Oltre a proprietari terrieri, industriali e professionisti erano giunti a Modena operai, impiegati, facchini, tipografi, domestiche, sarte, commesse, dattilografe, fabbri, muratori, braccianti, carbonai, stallieri, fornai: un universo variegato di individui con poche risorse o privi di reddito, assillati dai problemi materiali della vita quotidiana, preoccupati di ricevere il sussidio, disorientati di fronte ai meccanismi burocratici che regolavano l’assistenza [29]. Come nota Daniele Ceschin, se per le persone agiate l’esperienza del profugato si traduceva nei disagi che riguardavano tutti gli sfollati, per le classi popolari e per alcune categorie professionali, come i dipendenti pubblici, l’esilio comportava una marginalità sociale che rasentava l’indigenza [Ceschin 2006, 141] [30].

La situazione dei profughi era aggravata dal malcontento che serpeggiava nella popolazione modenese provata dal peso della guerra. Dopo mesi di convivenza con gli esuli, l’iniziale partecipazione spontanea e diffusa dei cittadini al loro dramma si era progressivamente attenuata; tra la primavera e l’estate del 1918 in città si avvertiva la crescita di varie forme di diffidenza e ostilità verso i nuovi arrivati. Questo atteggiamento emergeva ad esempio dalla lettera inviata da un profugo al suo municipio di origine nella quale l’autore manifestava il desiderio di ritornare al suo «paesello», si lamentava perché non trovava lavoro, deplorava il comportamento dei modenesi che «ci tacciano di profugacci, che mangiano il loro pane […] e altri simili epiteti che ci rammaricano e ci umiliano» [Battistello 2007, 145]. Con toni analoghi, la redazione di “Pro Profughi” lamentava che si guardasse «al fratello profugo come ad un essere ingombrante, piombato tra noi a disturbare le nostre comode abitudini, a far rialzare il prezzo delle merci, a rendere scarse le domande alimentari» [31].

Uno dei problemi principali che provocava attriti tra la popolazione residente e i profughi era in effetti quello della distribuzione degli alimenti:

Quando alla porta delle botteghe e degli enti dei consumi si affollano profughi e cittadini si sentono discorsi che non vogliamo riportare, ma che suonano male; talvolta anche imprecazioni e lagni perché i profughi mangiano il pane ai cittadini. Quasi non fossimo tutti italiani; tutti figli di una stessa madre; tutti uniti nel medesimo destino! [32]

In un contesto che rischiava di alimentare i contrasti – dopo Caporetto lo stato degli approvvigionamenti era peggiorato e le autorità erano state costrette ad un maggiore interventismo nella politica annonaria – il Patronato proponeva di istituire cooperative di consumo per i profughi «separando questi dal resto della popolazione e togliendo la causa di tanti attriti e di pene talvolta disgustose» [33].

Anche la questione del lavoro era al centro delle preoccupazioni dei profughi. L’Assessorato al lavoro del Comune interveniva nella dinamica della domanda e dell’offerta operando come Ufficio di collocamento della manodopera. [34] Molti profughi non riuscivano però a trovare un impiego o dovevano adattarsi a lavori diversi rispetto a quelli che avevano sempre svolto.

Per quanto riguarda le donne, il lavoro veniva prevalentemente offerto alle profughe più giovani o nubili che trovarono occupazione come sarte o nei lavori domestici o nelle industrie legate alla commesse di guerra. Per le profughe che avevano vincoli famigliari le possibilità di trovare un lavoro erano invece minime. A causa della loro condizione di madri, il massimo a cui potevano aspirare era un impiego a domicilio nella confezione di indumenti civili e militari; in particolare per queste donne il Patronato di Modena creò scuole e laboratori di cucito e di confezione di calzature [Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 17-18].

Oltre all’alimentazione e al lavoro, il problema principale per i profughi rimaneva quello degli alloggi che il Patronato modenese definiva «grave» e «quasi insolubile» a causa dell’elevato numero di ospiti rispetto alla popolazione locale, della presenza di numerosi militari, dell’incomprensione da parte di molti cittadini dei «bisogni eccezionali» del momento [35].

La penuria delle abitazioni disponibili per i profughi era tale che nel febbraio del 1918 alla stazione di Modena comparve un cartello, a firma del presidente del Comitato di assistenza civile, nel quale si vietava a coloro che provenivano dalle terre invase di soggiornare in città «essendo esauriti gli alloggi pubblici e privati». Il divieto di accogliere nuovi esuli «più volte ripetuto dalle autorità» ebbe «poca efficacia pratica»; molti profughi riuscivano a introdursi in provincia «con ogni sorta di piccoli artifici, e una volta entrati era difficile allontanarli» [Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 5] [36].

Otto mesi dopo il loro arrivo a Modena, delle 1.600 famiglie che si erano fermate in città «moltissime» vivevano «nelle umide stanze del sottosuolo, nei freddi solai, in locali malsani di antica malafama» «peggiori di stalle», in soffitte e stanze senza finestre, dove si ammassavano «dieci dodici persone» [37].

Il Comune aveva disposto che tutti gli appartamenti e le ville vuote fossero messe a disposizione per alloggiare famiglie di profughi e militari; i capifamiglia iscritti nei ruoli della tassa di famiglia per una somma superiore a 3.000 lire erano obbligati a mettere a disposizione dell’Autorità pubblica tutte le stanze non occupate nelle proprie abitazioni. Per garantire la regolarità nell’assegnazione degli alloggi, i proprietari non potevano ospitare persone senza l’approvazione del Patronato e l’autorizzazione della Prefettura e dovevano comunicare agli uffici pubblici se l’abitazione era stata concessa a titolo gratuito o sulla base di un canone di affitto. Più volte il Comune e la Prefettura intervennero per richiamare al rispetto di queste norme, che venivano violate da molti cittadini. Poiché l’ospitalità non si era dimostrata all’altezza delle aspettative, le autorità furono costrette a ricorrere a numerose requisizioni forzate di alloggi [38].

Di fronte alle lamentele dei proprietari, il Patronato difendeva questa decisione «dolorosa ma necessaria»; anche chi militava «nelle file più conservatrici» non poteva rimanere insensibile di fronte al contrasto tra le famiglie dei profughi costrette a vivere in condizioni di grave ristrettezza e i palazzi del centro di Modena, che rimanevano chiusi o nei quali abitavano «uno o due fortunati possessori» [39]. Non era tollerabile l’esistenza di case «imboscate»:

In questo momento non ve ne deve essere nessuna, mentre abbiamo intere famiglie […] riunite in una sola stanza o lasciate in un albergo con grave spesa per i Patronati. Sappiamo che si invoca dai pavidi proprietari l’intervento delle autorità superiori, ma noi siamo pronti a pubblicare i nomi, per l’onore di Modena! [40]

Era inoltre indispensabile fissare un prezzo equo degli affitti al fine di evitare le speculazioni da parte dei privati; in seguito all’afflusso in città di migliaia di persone il valore dei canoni era infatti lievitato favorendo la «mala pianta dello strozzinaggio a danno dei profughi» [41].

I problemi della sopravvivenza quotidiana – alloggio, approvvigionamenti, lavoro – si intrecciavano con la questione del sussidio, una delle più controverse e difficili da risolvere. 

Dopo Caporetto il Ministero degli Interni aveva disposto che, come per gli altri profughi presenti in Italia, a tutte le persone che provenivano dalle terre invase fosse concesso un sussidio giornaliero, che poteva essere aumentato a seconda delle circostanze. Su questa base, alla fine del 1917 a Modena erano 1.900 i profughi che ricevevano un sussidio [42]. Successivamente, con una circolare emanata nel gennaio del 1918, il governo introdusse un sussidio alimentare a carattere continuativo per i profughi bisognosi [Ceschin 2006, 101]. 

Molte polemiche furono suscitate dalla presenza di profughi agiati che godevano del sussidio. La redazione di “Pro Profughi” lamentava la presenza di «troppi profughi» che costituivano «il disdoro dei loro confratelli» ed erano oggetto «di giuste critiche e recriminazioni»:

Ve ne sono di quelli che fanno il mestiere di profugo, sollecitando sussidi dovunque, scroccando, senza averne assoluto bisogno, il fitto di casa, e tutto quello che possono – salvo frequentare i teatri, i cinematografi e bighellonare di caffè in caffè […]. Non mancano i viveurs, gli elegantoni e le…dame che fanno ostentazione di lusso [43].

Con diverse circolari ai prefetti l’Alto commissariato decise di intervenire per raccomandare di reprimere gli abusi sospendendo immediatamente il sussidio a coloro che non ne avevano diritto; nello stesso tempo, il governo incitava al lavoro tutte le persone abili, comprese quelle più povere. Secondo il Patronato di Modena le circolari che raccomandavano di «sferzare gli oziosi» erano arrivate «un po’ tardi»:

Noi abbiamo sempre sostenuto che i profughi non devono stare oziosi […] la patria domanda aiuto: ciascuno deve dare la propria attività negli impieghi civili, nelle officine, negli stabilimenti, nell’agricoltura. […] la mobilitazione civile è venuta […] per risolvere in parte il problema dei profughi i quali non possono, e nella loro maggior parte non vogliono, vivere lungamente a carico della pubblica beneficenza […]. Fra essi c’è molta gente che non chiede che di lavorare e non trova quella qualità di lavoro adatta e remunerativa, che sia spinta per uscire dall’ozio doloroso [44].

Al di là della retorica patriottica e delle invettive contro gli “oziosi”, i problemi reali dei profughi rimanevano in buona parte irrisolti. Come si è visto, molti erano rimasti disoccupati o avevano ripiegato su lavori malpagati oppure avevano rinunciato a cercare un’occupazione per timore di perdere il sussidio o di vederselo ridotto. La già ricordata circolare del 10 gennaio 1918 prevedeva infatti che se le entrate di una famiglia, compresi i proventi del lavoro, avessero superato le 600 lire mensili, i Patronati dovevano intervenire per adottare le opportune riduzioni. Questo aspetto della norma, che lasciava ampia discrezionalità ai Patronati, provocò numerose lamentele da parte dei profughi e accuse di disparità di trattamento [45].

Le proteste dei profughi crebbero nell’estate del 1918 dopo la pubblicazione di un decreto legge che stabiliva di fatto la soppressione del sussidio. L’applicazione del decreto venne rinviata alla conclusione delle operazioni di censimento, ma il malcontento non diminuì. Come sottolineava “Pro Profughi”, gli esuli dalle terre invase avevano certamente peggiorato le loro condizioni economiche ed era quindi chiaro che «il modesto sussidio, lungi dall’essere sufficiente a vivere», non riusciva nemmeno a reintegrare le spese sostenute dai profughi e il continuo aumento del costo della vita. Togliere, ridurre o commisurare il sussidio al reddito da lavoro significava creare delle «sperequazioni odiose»; era necessario invece fare «una rigorosa epurazione dei ricchi e facoltosi» che riscuotevano indebitamente il sussidio e darlo alle persone bisognose che ne avevano indiscutibilmente necessità, come gli operai, i pensionati, gli impiegati pubblici [46].

4. Le polemiche sull’Alto commissariato per i profughi e l’organizzazione dell’assistenza

Secondo il Patronato modenese le carenze nell’opera di assistenza non dipendevano solo dalle difficoltà oggettive del momento o dall’insensibilità di una parte dei cittadini. Le responsabilità ricadevano anche sull’Alto commissariato per i profughi che si dimostrava inadeguato sul piano politico e organizzativo.

In modo perentorio “Pro Profughi” affermava che «nelle persone che lo costituiscono, nelle forme di amministrazione, nell’organizzazione generale dell’assistenza» l’organismo voluto dal governo non aveva funzionato «come richiedeva il grave momento» e risultava «quasi più dannoso che utile per i profughi» [47]. L’assenza di una direzione unitaria, di norme fisse e chiare e la pletora di organismi che si occupavano del soccorso agli esuli produceva una dispersione di forze e un’inefficienza della macchina burocratica:

Comitati locali, Ministero dell’Interno e Prefetture, Comitato parlamentare veneto, Commissariato dell’emigrazione, Altro Commissariato dei profughi con relativi ispettori viaggianti, Sindaci dei Comuni invasi o sgombrati, Commissari prefettizi, Comitati particolari costituiti dai profughi stessi, tutti si diedero a lavorare non con un unico indirizzo, ma con un’attività spesso disordinata e che non raggiungeva punto lo scopo e con grave dispendio di tempo e di denaro. […] Si sfrondi degli inutili rami l’albero rigoglioso, si sopprimano pure senza pietà opere, uffici, comitati inutili, che intralciando l’opera dei più attivi, sciupano attività, tempo e denaro. Uniamo le forze, non disperdiamole! [48]

In materie delicate come il censimento e i sussidi si succedevano circolari, telegrammi, istruzioni emanate da diverse autorità in un «continuo dire, disdire, contraddire» [49].

A complicare «la già ingombrante magistratura per i profughi» si aggiungeva la «ridda» di Commissari prefettizi nominati dall’Alto commissariato per i Comuni invasi o sgomberati. Questi incarichi si moltiplicavano e assorbivano denaro pubblico, istituendo forme surrettizie di sussidio e incarichi pubblici parassitari:

Da principio queste nomine prefettizie […] vennero mantenute nel giusto numero; interi gruppi di paesi, intere regioni ebbero un solo Commissario prefettizio. Adesso si è cominciato a moltiplicare il numero, è si è finito ad assegnare ad ogni paese, ad ogni comune un proprio Commissario prefettizio. Si rileva ad esempio il caso di paesi i cui abitanti sono quasi interamente rimasti nel luogo natio, che hanno la fortuna di avere al di qua del Piave un proprio Commissario! I quali naturalmente finiscono per fare poco o niente per i concittadini; qualche cosa però per se stessi, se non altro, l’immunità dal servizio militare coronata da una non disprezzabile diaria. Ai Commissari prefettizi fissi, dirò così, si sono aggiunti anche i viaggianti, gli ispettori; intanto il denaro invece di andare a favore dei profughi, va a favore…degli altri [50].

Anche i profughi ospitati a Modena avevano sperimentato direttamente l’inefficienza degli ispettori inviati dall’Alto commissariato; in visite rapide e improvvisate alla colonia modenese i funzionari governativi si erano preoccupati più «di definire questioni personali» che di ascoltare le esigenze degli esuli [51].

“Pro Profughi” aveva accolto con favore la decisione del governo di articolare l’assistenza sul piano locale attraverso l’istituzione dei Patronati. Questi organismi, in contatto con le specifiche realtà del profugato, potevano seguire «il ritmo quotidiano» della vita degli esuli, «penetrarne l’infinita amarezza» e «constatarne i bisogni innumerevoli», ma la loro opera doveva essere supportata da un’efficiente struttura statale [52]. Facendosi interprete delle proteste dei profughi, il bollettino modenese sosteneva perciò le iniziative delle associazioni e dei parlamentari veneti e friulani che chiedevano una riforma dell’Alto commissariato. A capo dell’organismo dovevano essere poste «energie fattive e feconde, non legate a nessun interesse» che non fosse quello dei profughi; l’Alto commissariato avrebbe dovuto semplificare le procedure di assistenza e dare forza e autonomia ai Patronati «sopprimendo […] ogni inutile ingerenza di organi che coi profughi non avevano nulla a che fare» [53].

Nell’estate del 1918 la paventata soppressione del sussidio continuativo provocò una crisi all’interno dell’Alto commissariato e le dimissioni dei suoi massimi dirigenti, Luigi Luzzatti, Giuseppe Girardini e Salvatore Segrè. Commentando questa vicenda, “Pro Profughi” attaccò direttamente Luzzatti («nel momento dell’invasione il nome prescelto dal Governo sembrava desse affidamento di grandi promesse; ma per varie ragioni l’opera sua venne a mancare quasi del tutto»); all’anziano uomo politico veneziano si concedeva solo l’attenuante dell’età che non l’aveva favorito nello svolgimento delle molteplici attività previste dal suo incarico [54].

Con toni polemici spesso molto aspri, che in alcuni casi provocarono l’intervento della censura, il bollettino modenese seguì anche la discussione sulla legge per il risarcimento dei danni subiti dai profughi nelle terre invase. Questo provvedimento incontrava forti opposizioni fondate su una costruzione giuridica che equiparava le perdite dei profughi a quelle sofferte da chi era stato vittima di eventi naturali come le inondazioni o i terremoti. “Pro Profughi” contestava questa tesi sostenendo che mentre le catastrofi naturali erano fenomeni indipendenti dall’uomo che «recavano danno al proprietario» e nessun beneficio, la guerra era stata votata «con deliberazione dei poteri supremi dello Stato nell’interesse generale di tutta la Nazione in vista di un grande bene da raggiungere o di un grande male da evitare» [55].

L’elaborazione di un progetto di legge venne affidata dall’Alto commissariato ad un’apposita commissione che fissò come criteri la risarcibilità dei danni alle persone, ai beni immobili e in parte a quelli immobili; speciali commissioni di accertamento dovevano verificare l’attendibilità delle richieste di risarcimento [Ceschin 2006, 96]. Aderendo alle richieste che provenivano dagli ambienti del profugato, i rappresentanti degli esuli sostenevano invece, con argomenti patriottici, la necessità di risarcire integralmente tutti i danni subiti dalle popolazioni delle terre invase:

Gli abitanti delle regioni di confine concorrono e concorreranno come gli altri nei tributi di sangue e di denaro, per di più sopportano con animo generoso specialissimi strazianti dolori; e tutto ciò per compiere il loro dovere verso la Patria; ripugnerebbe però in alto grado al senso rettamente inteso della giustizia e dell’equità che non si approvasse con una legge concreta il principio che nei danni di guerra essi debbono pagare un contributo eguale agli altri cittadini e non invece enormemente superiore [56].

Il diritto al risarcimento dei danni, riconosciuto con il decreto legge 8 giugno 1918, n. 780 «al fine di restaurare la ricchezza nazionale e la piena efficienza produttiva delle terre invase», solo al termine della guerra si tradusse in una legge che accoglieva le principali richieste delle associazioni dei profughi [Ceschin 2006, 97]. 

Nei primi mesi del dopoguerra “Pro Profughi” si dedicò al problema del lento e difficile ritorno dei profughi nelle terre liberate, evidenziando le situazioni problematiche legate alle operazioni di rimpatrio. Con il trentaseiesimo numero uscito il 15 aprile 1919 il bollettino sospese le pubblicazioni, quando ormai la maggior parte dei profughi erano rientrati nelle loro terre. La redazione si congedava dai lettori augurandosi che «l’aiuto pubblico e privato» non venisse meno perché «i paesi liberati» avevano ancora «immensi bisogni da soddisfare, diritti imprescrittibili da far valere» [57].


 

Bibliografia

Battistello S. 2007
Profughi nella Grande Guerra, Valdagno: Gino Rossato Editore
Bianchi B. (ed.) 2006
La violenza contro la popolazione civile nella Grande Guerra. Deportati, profughi, internati, Milano: Unicopli
Ceschin D. 2006
Gli esuli dopo Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Roma-Bari: Laterza
Corbellini R. 1999
I profughi friulani dopo Caporetto, in Accademia Udinese di Scienze Lettere ed Arti-Archivio di Stato di Udine, I friulani durante l’invasione. Da Caporetto a Vittorio Veneto, Udine: Arti Grafiche Friulane
Corni G. 1989
L’occupazione austro-germanica del Veneto nel 1917-18: sindaci, preti, austriacanti e patrioti, “Rivista di storia contemporanea”, XVIII, 380-408
Degli Esposti F. 2012
Perché la pace, perché la guerra. Pacifismo e interventismo a Modena durante la Grande Guerra, in Degli Esposti F., Bertucelli L. e Botti A. (eds.), I conflitti e la storia. Studi in onore di Giovanna Procacci, Roma: Viella
Ellero E. 2001
Storia di un esodo. I friulani dopo la rotta di Caporetto 1917-1919, Pasian di Prato: Lithostampa
Giorgi E. e Roberti M. 1921
Per la consegna di una targa di bronzo al Comune di Modena a nome dei profughi veneti, Modena: Ferraguti & C.
Isnenghi M. 1997
La Grande Guerra in Id. (ed.), I luoghi della memoria, vol. I, Strutture ed eventi dell’Italia unita, Roma-Bari: Laterza
Montella F. 2008
Una provincia in guerra (Modena 1914-1918) in Montella F. e Carrattieri M., Modena e provincia nella Grande Guerra, Mirandola: Gruppo Studi Bassa Modenese
Muzzioli G. 1993
Modena, Roma-Bari: Laterza
Procacci G. 1985
Aspetti della mentalità collettiva durante la guerra. L’Italia dopo Caporetto, in Leoni D. e Zadra C. (eds.), La grande guerra. Esperienza memoria immagini, Bologna: Il Mulino
Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921
Modena: Ferraguti & C.

 

Risorse

DEP Deportate, Esuli e profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile,  Università Ca’ Foscari-Venezia
http://www.unive.it/dep
DEP, Daniele Ceschin, La condizione delle donne profughe, 1, luglio 2004
http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=19926
DEP, Profughi, legislazione e istituzioni statali nella Grande Guerra, a cura di Matteo Ermacora 5/6, dicembre 2006
http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=30342
OS Officina della storia, Scheda sul fondo della Direzione generale di PS, Profughi e internati di guerra (1915-1920), a cura di Annamaria Ruggiero 2012
http://www.officinadellastoria.info/magazine/index.php?option=com_content&view=article&id=246
Lezione seminariale tenuta da Daniele Ceschin 11 febbraio 2014. Ciclo di incontri “Verso la Grande Guerra”, Istituto veneziano per la storia della Resistenza
http://filstoria.hypotheses.org/tag/daniele-ceschin
Intervista a Daniele Ceschin Caporetto, refugees, exile. Interview with the Italian historian Daniele Ceschin – World War I Bridgs
http://www.worldwarone.it/2014/03/caporetto-refugees-exile-interview-with.html

Note

1. Cfr. anche Bianchi 2006. Sulla popolazione civile veneta durante l’occupazione austro-germanica si veda Corni G. 1989. Tra gli studi di carattere locale cfr. Corbellini 1999 e Ellero 2001.

2. Aiutiamo i profughi!, “Gazzetta dell’Emilia”, 3-4 novembre  1917, 1.

3. L’arrivo di altri profughi, “Gazzetta dell’Emilia”, 4-5 novembre  1917, 1.

4. Archivio di Stato di Modena (d’ora in poi ASMo), Gabinetto di Prefettura (d’ora in poi GP), b. 137, f. 161, Profughi varie 1917-1919, Servizio profughi alla stazione ferroviaria. Ordine di servizio, s.d. Un “posto di ristoro” era già attivo presso la stazione per assistere i soldati di passaggio, i malati e i feriti di guerra.

5. Relazione dell’opera del Comitato modenese all’onorevole Comitato parlamentare veneto, “Pro Profughi”, 6, 7 gennaio 1918, 74.

6. Ivi, 74-75.

7. Da Sassuolo, “Il Domani”, 24 novembre 1917, 2.

8. Relazione dell’opera del Comitato modenese cit., 75; La salute dei bambini a Guiglia e a Sestola, “Pro Profughi”, 22, 15 settembre 1918, 338.

9. Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921,18-19. La presenza di un alto numero di soldati caratterizzava la provincia modenese, coinvolta nell’opera di riorganizzazione dell’esercito attraverso appositi centri di riordinamento organizzati per arma e specialità;  furono creati un campo per la Fanteria a Castelfranco Emilia e uno per l’Artiglieria a Mirandola; il Deposito Bombardieri era dislocato a Sassuolo [cfr. Montella 2008, 60-75].

10. Due parole, “Pro Profughi”, 2, 20 novembre 1917, 13; Relazione dell’opera del Comitato modenese, cit., 75.

11. La costituzione del Patronato Profughi, “Pro Profughi”, 12, 13 aprile 1918, 169.

12. I dati si riferiscono alle rilevazioni del Patronato modenese cfr. Il problema degli alloggi dei profughi a Modena, “Pro Profughi”, 18, 13 luglio 1918, 284 e Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 24. Secondo il censimento realizzato dal Ministero per le Terre liberate nel novembre 1918 a Modena i profughi erano 9.506 [Ceschin 2006, 247]. Oltre a Modena, i centri della provincia che raccoglievano il maggior numero di profughi erano Carpi (1.300) e Mirandola (1.000), cfr. il documento della Provincia di Modena, s. d., ASMo, GP, b. 137, f. 161, Profughi varie 1917-1919.

13. Cfr. il corsivo di apertura di “Pro Profughi”, 1, 15 novembre 1917, 7; e la presentazione del bollettino in Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 19.

14. XXIV maggio 1915-1918, “Pro Profughi”, 15, 24 maggio 1918, 221.

15. Pasqua di Profughi, “Pro Profughi”, 11, 30 marzo 1918, 153. 

16. Ai profughi di Modena. Una parola amica, “Pro Profughi”, 15, 24 maggio 1918, 219.

17. La Sala del fuoco, “Pro Profughi”, 4, 19 dicembre 1917, 41.

18. A Voi, o Profughi, “Pro Profughi, 5, 1 gennaio 1918, 57.

19. La vita delle terre invase. Documenti, racconti, notizie diverse, “Pro Profughi”, 11, 30 marzo 1918, 155; XXIV maggio 1915-1918, cit., 221.

20. Viva San Marco!, “Pro Profughi”, 6, 7 gennaio 1918, 73.

21. La vita nelle terre invase. Documenti, racconti, notizie diverse, “Pro Profughi”, 14, 15 maggio 1918, 202; e 15, 24 maggio 1918, 222.

22. J. Cristophe, Sotto il maglio dei fatti, “Il Domani”, 10 novembre 1917, 1.

23. Vita del partito. Assemblea della sezione socialista, “Il Domani”, 15 dicembre 1917, 3.

24. La Camera del Lavoro di Carpi per i profughi, “Il Domani”, 24 novembre 1917, 2.

25. Per i figli dei profughi, “Il Domani”, 24 novembre 1917, 1-2.

26. Per la Croce Bianca, “Il Domani”, 15 dicembre 1917, 2.

27. Relazione del sindaco di Modena sul bilancio preventivo del Comune, “Gazzetta dell’Emilia”, 22-23 aprile 1918, 1.

28. Modena e i profughi, “Gazzetta dell’Emilia”, 20-22 maggio 1918, 1; L’anima dei profughi, “Gazzetta dell’Emilia”, 10-11 novembre 1917, 1. Nel 1921 i profughi veneti che erano stati ospitati nel territorio modenese consegnarono una targa di bronzo al Comune di Modena in segno di riconoscenza [Giorgi e Roberti 1921].

29. Sulla composizione sociale del profugato modenese cfr. Elenco dei profughi collocati entro tutto il 12 dicembre 1917, “Pro Profughi”, 4, 19 dicembre 1917, 41.

30. Su questo aspetto cfr. anche Isnenghi 1997, 296-297.

31. Problemi e questioni riguardanti i profughi, “Pro Profughi”, 16, 8 giugno 1918, 238-239.  Anche i soldati sbandati creavano problemi nei rapporti con la popolazione locale [Montella 2008, 80-81; Muzzioli 1993, 151]

32. Problemi e questioni riguardanti i profughi. La questione dell’alimentazione, “Pro Profughi”, 12, 13 aprile 1918, 173.

33. Ivi, p. 174.

34. Nel complesso tramite l’Assessorato trovarono un’occupazione 413 persone [Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 17].

35. Cronachetta modenese. Il problema degli alloggi, “Pro Profughi”, 23, 30 settembre 1918, 354.

36. Oltre a tentare di contenere l’arrivo di nuovi profughi, la Prefettura aveva chiesto al Ministero degli Interni di procedere allo sgombero almeno parziale dei profughi «per ragioni di ordine politico e di sicurezza […] evitare cioè il contatto delle truppe con elementi non sicuri» vista «la permanenza in provincia di numerose truppe dei Campi di riordinamento e di Enti militari» (ASMo, GP, b. 137, fasc. 161, Profughi varie 1917-1919, lettera del Prefetto di Modena al Ministero degli Interni, s. d.).

37. Il problema degli alloggi dei profughi a Modena, “Pro Profughi”, 18, 13 luglio 1918, 284-285.

38. La requisizione degli alloggi, “Gazzetta dell’Emilia”, 9-10 novembre 1917, 1; Per l’assegnazione degli alloggi ai profughi, “Gazzetta dell’Emilia”, 14-15 novembre 1917, 1; Per chi affitta a profughi, “Gazzetta dell’Emilia”, 2-3 marzo 1918, 1; Abitazioni per i profughi. R. Prefettura di Modena, “Pro Profughi”, 16, 8 giugno 1918, 230.

39. Cronachetta modenese. Il problema degli alloggi, cit., 354.

40. Problemi insoluti riguardanti i profughi. Gli alloggi, 12, 13 aprile 1918, 172.

41. Ivi, 173.

42. Alcune cifre statistiche della vita cittadina nell’anno 1917, “Gazzetta dell’Emilia”, 2-3 gennaio 1918, 2.

43. Problemi e questioni riguardanti i profughi, “Pro Profughi”, 16, 8 giugno 1918, 239.

44. Problemi insoluti riguardanti i profughi. Mobilitazione civile e profughi, “Pro Profughi”, 12, 13 aprile 1918, 171.

45. Tante province, tante sentenze…, “Pro Profughi”, 23, 30 settembre 1918, 342-344. Il Patronato di Modena aveva stabilito un criterio secondo il quale il sussidio giornaliero doveva garantire un’equa integrazione del guadagno; era stata infatti definita una tabella che prevedeva un minimo ed un massimo di sussidio inversamente proporzionale alle entrate dei profughi ed in ragione diretta del numero dei membri di ciascuna famiglia [Relazione-gestione del Patronato Profughi di Modena 1921, 12].

46. Problemi e questioni riguardanti i profughi. Il sussidio alimentare, “Pro Profughi”, 17, 22 giugno 1918, 254. Secondo i criteri stabiliti dalla circolare del 10 gennaio ai dipendenti pubblici in molti casi veniva negata la concessione del sussidio, cfr. La soppressione del sussidio agli impiegati profughi, “Pro Profughi”, 18, 13 luglio 1918, 287-288.

47. L’importante Convegno delle Presidenze dei Comitati di profughi delle terre invase, “Pro Profughi”, 18, 13 luglio 1918, 271; Problemi e questioni riguardanti i profughi, “Pro Profughi”, 14, 15 maggio 1918, 206.

48. Non disperdiamo le forze, “Pro Profughi”, 8, 11 febbraio 1918, 106.

49. Tante province, tante sentenze…, “Pro Profughi”, 23, 30 settembre 1918, 343.

50. Voci di profughi, “Pro Profughi”, 10, 20 marzo 1918, 138. Cfr. anche La solita ridda dei Commissari prefettizi, “Pro Profughi”, 13, 27 aprile 1918, 187.

51. Notiziario, “Pro Profughi”, 15, 24 maggio 1918, 228.

52. Problemi e questioni riguardanti i profughi, “Pro Profughi”, 16, 8 giugno 1918, 238.

53. L’importante Convegno delle Presidenze dei Comitati di profughi delle terre invase, cit., 271.

54. Luigi Luzzatti, “Pro Profughi”, 20, 20 agosto 1918, 296-298.

55. Il risarcimento dei danni di guerra, “Pro Profughi”, 16, 8 giugno 1918, 234.

56. Ivi, 235.

57. Ai nostri lettori, “Pro Profughi”, 36, 15 aprile 1919, 539.