Milano, 1932: il mondo agricolo si fa pubblicità
Di qua una mano che spreme un succoso limone, dalle mille proprietà, compresa quella di assicurare «un giorno in più di vita», di là un ammiccante giovane che, a colazione, addenta felice una fragrante mela; di qua una raffinata signora che invita a mangiare frutta, rigorosamente italiana, traboccante da un grande cesto, buttato lì ad arte, di là un’atletica signora americana che, con poche abili mosse, complice l’aiuto di una corona di arance, senza tanti convenevoli, sconfigge l’influenza. E poi un trionfo di pomodori ed agrumi, belli da vedere, ma anche ottimi «scudi alla vostra salute». La nascente pubblicità made in Italy si confronta con la più rodata industria pubblicitaria americana, in un match colorato a suon di frutta e sorrisi. Gente felice che, con un semplice morso, trasuda salute e dispensa consigli. Siamo nel 1932 e per la prima volta, all’interno del Padiglione agricoltura della Fiera campionaria di Milano, viene allestita la Mostra internazionale della pubblicità per il consumo dei prodotti agricoli. L’iniziativa, realizzata dalla Confederazione nazionale fascista e dall’Istituto nazionale dell’esportazione, ha lo scopo di mostrare come «l’azione di propaganda a mezzo della pubblicità svolta nelle forme più varie ed efficaci è senza dubbio il mezzo migliore per incrementare i consumi». L’esigenza è quella di promuovere i consumi interni, ma anche di sostenere le «esportazioni ortofrutticole con una vasta azione di pubblicità all’estero, rivolta a valorizzare determinati marchi e a creare l’ambiente per un più vasto consumo» [Calzecchi Onesti 1932, 310-11]. A farla da padrone e da maestri in questa kermesse sono i manifesti americani, in particolare quelli promossi dai produttori californiani, organizzatissimi nella vendita e nell’esportazione, ma anche capaci di portare avanti «una pubblicità clamorosa». L’occasione è di quelle importanti e anche la grafica italiana tira fuori i suoi assi. In primo piano ci sono i lavori degli artisti Tito Corbella ed Erberto Carboni. Quarantasette anni, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, allievo di Ettore Tito, il pontremolese Tito Corbella non esita a scomodare le “sue signore borghesi”, solitamente ritratte su cartoline in comode pose, e le porta alla Fiera di Milano. In testa rimane un vezzoso copricapo stile anni Venti, ma anziché nascondersi maliziosamente dietro drappeggi, qui le donne di Corbella si trasformano in abili venditrici.
Chi dipinge molto efficacemente la frutta è il parmigiano Erberto Carboni, autore di diversi manifesti esposti in mostra. Poco più che trentenne, diplomato all’Istituto di Belle Arti “Paolo Toschi” di Parma, grafico pubblicitario e illustratore di riviste come “Emporium”, Carboni si è da poco trasferito nella città lombarda. Ha in tasca un prestigioso contratto di collaborazione con lo studio di Antonio Boggeri, uno dei primi maestri della comunicazione in Italia. Il 1932 è un anno fortunato per Carboni. La sua frutta ha molto successo, fioccano le commissioni e, da qui in avanti, l’artista parmigiano diverrà un habitué della Fiera milanese, all’interno della quale allestirà anche i padiglioni di Motta e Navigazione italiana (1937), di Montecatini e dei Prodotti chimici (1939). Dalla seconda metà degli anni Trenta e fino agli anni Sessanta, il nome di Carboni si legherà anche a importanti campagne pubblicitarie di aziende come Motta, Barilla, Bertolli e Pavesi. Peraltro è a firma di Carboni anche la copertina della rivista “Italia agricola” del marzo 1932, dedicata alla cooperazione e contenente l’articolo di Antonio Calzecchi Onesti dedicato alla mostra milanese. Non solo frutta, a Milano: in questa Fiera campionaria del 1932 basta entrare nel padiglione organizzato dal Comitato nazionale per il latte per vedere una mostra di bozzetti di propaganda per il consumo. In linea con la politica autarchica del regime, l’invito a bere latte in grande quantità arriva da un bambino che, evidentemente goloso e soddisfatto, affonda il suo viso in una grande scodella.
La creatività dei grafici emiliano-romagnoli
C’è grande fermento pubblicitario nella Milano degli anni Venti e Trenta. Nel 1922 prende avvio la prima scuola italiana di pubblicità, promossa dalla Camera di commercio e, sul modello americano, viene fondata, grazie a Luigi Dal Monte, l’agenzia pubblicitaria ACME-Dal Monte. Due anni dopo, un gruppo di grafici e dirigenti industriali fonda un’associazione pubblicitaria che propone tutte le novità sulla rivista “Pubblicità”. Il lavoro c’è e, dai primi anni Venti in poi, è tutto un fiorire di agenzie. Nel 1930 parte la Enneci di Nino Caimi che, per primo, realizza campagne pubblicitarie collettive di un’intera categoria di prodotti (ad esempio lo zucchero). L’inventiva esce dagli studi e trova spazio nelle varie mostre dedicate specificamente alla grafica di settore.
Ma se Milano è, senza dubbio, la capitale della nascente industria pubblicitaria, il contributo degli artisti emiliano-romagnoli allo sviluppo delle nuove tecniche pubblicitarie è davvero rilevante. Alla Fiera campionaria di Milano del 1920 espone i suoi primi manifesti il bolognese Giuseppe Magagnoli. Non c’è che dire, migliore vetrina non poteva trovare. Classe 1878, già rappresentante in Italia dell’editore parigino di affiches Vercasson, Magagnoli, che diverrà anche responsabile della rivista “Il pugno nell’occhio”, ha da poco fondato la Maga, destinata a divenire, nel giro di pochi anni, la più importante agenzia pubblicitaria italiana (e lo rimarrà fino alla fine degli anni Venti).
Lo studio “Les affiches Maga” riesce a raccogliere i migliori cartellonisti del momento che lavorano per l’agenzia in esclusiva: da Achille Mauzan a Marcello Nizzoli, ai fratelli Mario e Severo Pozzati. La novità dell’organizzazione Maga è di proporre un «approccio diverso, da agente-direttore artistico, che poteva offrire in esclusiva alle aziende oltre al proprio lavoro, le firme di altri cartellonisti, con stili molto diversi ma di sicuro valore grafico e di certa efficacia persuasiva» [Cimorelli e Piazza (eds.) 2015, 19]. Nel 1921 il bolognese apre una succursale a Parigi, coadiuvato dal pittore cartellonista bolognese Severo Pozzati. Quest’ultimo viene da Comacchio, ove è nato nel 1895. Diplomato all’Accademia di belle arti di Bologna, avviato alla carriera di grafico come collaboratore di Magagnoli, Pozzati diviene uno dei più importanti cartellonisti di quel periodo, e dà un contributo fondamentale al passaggio dalla funzione tendenzialmente decorativa del manifesto a quella più persuasiva della comunicazione.
Legato allo studio Maga è anche Marcello Nizzoli, autore poliedrico, grafico, designer e architetto, che alla Fiera di Milano sarà spesso presente come cartellonista, ma anche come architetto e progettista di stand (sua è la copertina del catalogo generale della mostra del 1931). Nato a Boretto, in provincia di Reggio Emilia, nel 1887, dopo essersi diplomato all’Istituto d’arte “Toschi” di Parma, inizia a farsi conoscere presto seguendo diversi filoni artistici e lavorando tra architettura, pittura, arti minori e design. Disegna elementi tessili ed intensifica la sua attività di grafico, partecipando nel 1920 al concorso per le copertine della rivista “Emporium”. Nel 1921 si trasferisce stabilmente a Milano, ove ha modo di avviare proficui contatti con gli industriali lombardi. Nei primi anni Venti inizia a cimentarsi con la cartellonistica e del 1924 è l’inizio della collaborazione con lo studio Magagnoli per il quale realizza manifesti pubblicitari per importanti ditte, come la OM (Officine meccaniche) e la Campari.
Un altro importante artista di quel periodo è sicuramente Adolfo Busi. Nato a Faenza nel 1891, formatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, diviene un importante cartellonista, segnalandosi in particolare per la sua collaborazione con le Officine Grafiche Ricordi, per le quali cura l’allestimento dello spazio espositivo alla I Mostra del cartellone e della grafica pubblicitaria. Sue sono le belle pubblicità della Crema Ducale di Parma e dell’Amaro Buton. Questa pubblicità reclamizza le bontà della storica distilleria di liquori Buton, nata a Bologna nel 1820, che propone distillati di grande successo, l’Amaro Felsina, ma anche la Crema Cacao, il Cognac Buton e la Coca boliviana.
La Fiera campionaria di Milano
A metà strada tra le Esposizioni universali e le mostre di settore, la Fiera campionaria di Milano, avviata nel 1920, diviene ben presto lo specchio di una società in continuo cambiamento, dello sviluppo dei nuovi prodotti e marchi. Segni e decorazioni, totem, carri che portano in giro il “nuovo che avanza”: tra i padiglioni si respira un clima di crescente operosità e di rinascita economica, solide basi di quello che diventerà, durante i successivi anni sessanta, il “miracolo economico” dello sviluppo italiano [Cimorelli e Piazza (eds.) 2015, 7].
In un contesto in cui l’industria manifatturiera è ancora predominante, le nuove macchine industriali e i mezzi per comunicare e scrivere si intrecciano con l’assaggio delle eccellenze dell’industria della trasformazione alimentare. La Fiera di quegli anni è anche l’indicatore di come il comparto dell’industria pubblicitaria si stia strutturando e sviluppando; è la traduzione della presenza dell’industria e del commercio nelle molteplici vesti che la pubblicità, la grafica, la cartellonistica, le inserzioni e la comunicazione più in generale offrono alle aziende. [Cimorelli e Piazza (eds.) 2015, 17]. Se già nel primo dopoguerra molte aziende iniziano ad introdurre all’interno dei propri comparti settori dedicati alla pubblicità e alla promozione, è a partire dagli anni Venti che la réclame diviene una realtà importante nel costume e nella società. Con un occhio al modello americano, inizia a diffondersi la consapevolezza dell’importanza della persuasione pubblicitaria. In questo periodo scendono in campo molti artisti e cartellonisti, nel cui lavoro viene a cadere la funzione decorativa dell’immagine dipinta e prevale una diversa consapevolezza dell’insieme delle fasi dell’azione pubblicitaria [Cimorelli e Piazza (eds.) 2015, 22].
In questa stagione tra le due guerre è possibile osservare anche una diversa forma di relazione tra aziende ed artisti. Se agli albori era il cartellonista a mettere a disposizione il proprio talento verso le necessità commerciali, ora sono le aziende, come moderni mecenati a selezionare un artista e ad affidargli un ampio spettro di iniziative e azioni promozionali. È un atteggiamento nuovo ed anticipatorio di tendenza. Rende unico l’approccio pubblicitario e fortemente distinguibile l’immagine aziendale. In questo modello emergono anche le istanze per una gestione più avanzata ed unitaria degli elementi coreografici che compongono l’immagine di una moderna industria. Non solo quindi la pubblicità come arte della persuasione, ma l’idea di una corporate, di un sistema coordinato di segni e segnali, che infondono personalità e identità ad ogni azione aziendale [Cimorelli e Piazza (eds.) 2015, 20].
L’occasione della Fiera, come accennato, è importante ed anche le aziende emiliano-romagnole partecipano, mettendo in mostra le eccellenze: i prodotti dell’industria del packaging e dell’industria delle macchine agrarie e per il confezionamento dei prodotti alimentari. Scorrendo i cataloghi degli anni Trenta incontriamo, nel Padiglione della meccanica, la bolognese Acma (Azionaria costruzioni macchine automatiche), che confeziona prodotti dolciari; la Bubba di Piacenza e la Landini di Reggio Emilia e le Officine meccaniche piacentine che, nel 1930, presentano un originale carro-serbatoio per il trasporto di vini e mosti. Da Parma arrivano gli impianti per la lavorazione delle conserve, da Modena gli svecciatoi silenziosi Rovatti e Zanfi; da Reggio Emilia le macchine per turaccioli e ancora da Bologna le “bottiglie turacciolo con dispositivo per versare liquidi in quantità” di Ferruccio Tosi e le macchine per pastifici targate Zamboni. Nel padiglione dei brevetti fanno bella mostra gli spremi-limoni/agrumi, portati dal ferrarese Mario Vayra. Nei padiglioni dedicati all’alimentazione è possibile gustare il meglio delle specificità regionali: dai salumi piacentini ai vini di Bertinoro, dal doppio concentrato di pomodoro ai prodotti caseari, senza dimenticare i dolci, dalla spongata al cioccolato Helvetia di Reggio Emilia alle ciambelle Giovanni Panini di Modena. E, prima di fare un salto al padiglione del turismo dove la riviera romagnola è ben rappresentata, ci si ferma a gustare le “vongole in condimento” della Saicma di Cattolica.
L’agricoltura in Emilia Romagna e il ruolo della Federconsorzi
Anni Venti e Trenta: tempi di inchieste, non solo alimentari. Anche l’agricoltura è sotto osservazione. Nel periodo tra le due guerre la Federazione italiana dei Consorzi agrari pubblica sulla sua rivista quindicinale “Italia agricola” una serie di monografie dedicate a varie agricolture regionali. Nel 1927 escono due numeri dedicati a Agricoltura emiliana e a Romagna rurale. Un’attenzione particolare è riservata ai nuovi sviluppi delle coltivazioni industriali. Il reggiano Emilio Morandi, direttore della Federconsorzi dal 1906 al 1925, afferma con sicurezza che «la rivoluzione agraria emiliana si è basata su tre punti essenziali: la bonifica delle terre, la larga e buona coltivazione dell’erba medica e l’introduzione di larghe superfici delle coltivazioni così dette industriali». Ed in particolare si sofferma sulla «frutticoltura esercitata con metodi industriali e resa capace non pure di produrre a basso prezzo per il consumo interno ma di alimentare forti correnti di esportazione con frutta sceltissima» [Morandi 1927, 130, 132].
Nel numero di Romagna rurale, la frutticoltura locale è additata come esempio di sviluppo. In particolare quella di Massalombarda:
dette vita a specie commerciabili, perché furono studiati i mercati, i trasporti, i mezzi di conservazione dei prodotti, perché si seppe arrivare alla distribuzione di questi nel tempo e nello spazio, perché si sostituì a colture industriali, allora poco redditive, colture arboree redditivissime, perché s’impose alle province contermini e in Italia, perché modificò l’anima dei suoi lavoratori (coloni e braccianti) [Bellucci 1927, 688].
Le vicende dell’agricoltura emiliano-romagnola ci raccontano la storia di idee in via di diffusione. A partire dal primo Novecento, grazie anche ad una efficace integrazione tra agricoltura, istituzioni e propaganda agraria, parte un importante processo di sviluppo. All’origine c’è l’idea che le condizioni offerte dalla tecnica possono far superare qualsiasi difficoltà ambientale; il risultato sperato è quello di estendere l’integrazione di coltivazione ed allevamento oltre le zone irrigue, mediante l’introduzione delle rotazioni alla Norfolk e l’attivazione del circuito foraggio-bestiame-letame-cereali. È in questo periodo che l’agricoltura regionale scopre le foraggere e i prati stabili, i concimi e le nuove coltivazioni industriali come il pomodoro, la barbabietola da zucchero e il tabacco. Questo nuovo sviluppo si concretizza lungo tre direzioni: l’allevamento integrato bovino-suino che, con il ciclo della lavorazione del latte, porta la produzione casearia ai massimi livelli; il settore conserviero che integra stabilmente la produzione dei campi alla produzione delle fabbriche di pomodoro; la coltivazione della barbabietola da zucchero e l’impianto degli zuccherifici. La nuova fisionomia territoriale risulta segnata, soprattutto nella zona irrigua e semirrigua, dalla diffusione dei prati artificiali coltivati a trifoglio o erba medica, dalla comparsa delle piante industriali, dall’estendersi dei fossi e condotti per l’irrigazione, dalla progressiva sparizione dai campi degli alberi che lasciano il posto a più estese distese prative. In collina le moderne cantine divengono il simbolo della centralità della coltura della vite, mentre in pianura le stalle, preminenti nella gerarchia funzionale del “sistema cascina”, i caselli e le fabbriche di pomodoro e di lavorazione della barbabietola si configurano come segni tangibili di un nuovo sistema locale specializzato per prodotto. Negli anni tra le due guerre si definirà, specificamente nel settore alimentare, un trend di progressivo consolidamento.
Come ha evidenziato Vera Zamagni, quella emiliano-romagnola è una
agricoltura ricca e diversificata, un’agricoltura che ha sostenuto un potere d’acquisto non trascurabile da parte delle classi possidenti e dell’imprenditoria agraria nei confronti di un artigianato che mantenne vive le sue tradizioni; che ha generato flussi di commercio al di fuori della regione, abituando la gente ai rapporti con l’esterno; che ha ispirato diffusi movimenti di cooperazione e di sindacalismo, in difesa della posizione dei braccianti e delle categorie più diseredate; che ha sempre incentivato la trasformazione dei prodotti della terra, dando origine a quell’industria alimentare che ha allevato talenti imprenditoriali sulla grande dimensione (affitto) e sulla piccola dimensione (mezzadria) [Zamagni 1997, 128].
Un’importante funzione in questo sviluppo è svolta dalla Federazione italiana dei consorzi agrari, fondata a Piacenza nell’aprile 1892 da un gruppo di uomini, da Giovanni Raineri a Luigi Luzzatti, da Enea Cavalieri a Prospero Ferrari, con formazioni e caratteri molto differenti, accomunati dalla convinzione che le associazioni cooperative di acquisto e le banche popolari potessero essere i possibili motori del processo di modernizzazione in Italia. La sede della Federconsorzi rimane a Piacenza fino al 1932, anno in cui è trasferita a Roma. Per quaranta anni le vicende di questa istituzione si legano strettamente alla storia del territorio regionale e diventano un importante luogo/laboratorio di apertura alle nuove frontiere dell’agricoltura. Fertilizzanti artificiali, macchine agricole, anticrittogamici e semi selezionati: dirigenti e tecnici della Federconsorzi svolgono un ruolo di primo piano nella diffusione d’innovazioni tecniche decisive per l’agricoltura di quegli anni. A Piacenza arrivano tecnici molto preparati, molti dei quali formatisi nelle Scuole superiori di Agricoltura di Milano, Pisa e Portici. Ad operare nella sede della Federconsorzi sono uomini dalla straordinaria mobilità professionale e territoriale, capaci di affrontare e conoscere le più differenti situazioni agricole presenti nel contesto agrario nazionale. Molti di loro si sono formati alla Scuola superiore di Agricoltura di Milano fondata da Gaetano Cantoni. Proprio qui si creano rapporti di condivisione della cultura agraria ed amicizie che si traducono, tra l’altro, nella collaborazione alle iniziative organizzative ed editoriali della Federconsorzi, grazie anche alla centralità della figura di Giovanni Raineri. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento Giovanni Raineri riesce a trasferire la direzione della rivista “Italia agricola” a Piacenza e contemporaneamente fonda il “Giornale di agricoltura della domenica”. Le due testate - la prima destinata agli scritti di attualità scientifica economica e tecnica, la seconda dedicata alla cronaca politica e all’informativa propagandistica - cui collaborano i più importanti agronomi del tempo, divengono presto i “massimi diffusori” delle scienze agrarie a livello nazionale. Si apre uno spazio di utili notizie, spesso di vivaci polemiche, di suggerimenti in tutti i settori agricoli e delle industrie associate. L’attività editoriale della Federconsorzi, prevalentemente gestita a partire dagli anni Venti, dal Ramo editoriale della Federconsorzi (Reda), ha molta visibilità anche all’interno delle Fiere. La Federconsorzi sarà sempre presente alle rassegne milanesi della Fiera, esponendo sia macchine che prodotti editoriali.
E per illustrare le copertine delle proprie pubblicazioni, la Federconsorzi si rivolge ad importanti illustratori. Tra i più noti del periodo piacentino ricordiamo, ad esempio, Luigi Martinati e Alfredo Capitani. Martinati, allievo dell’Accademia fiorentina di Belle Arti, si dedica per un lungo periodo all’illustrazione pubblicitaria, disegnando tra il 1923 e il 1941 manifesti di vario soggetto (pubblicità commerciali, turistiche, per manifestazioni). Lavora a Roma ricoprendo la carica di direttore artistico della Igap (Impresa generale affissioni pubblicità) con la quale collaborano anche Marcello Dudovich e Nizzoli.
Alfredo Capitani, dopo aver frequentato l’Accademia inglese di Belle Arti di Roma, inizia a lavorare presso i teatri nell’allestimento di ambienti per il palcoscenico. Nel 1919 apre uno studio per la realizzazione di manifesti pubblicitari, entrando in contatto con altri pittori con i quali collabora nella preparazione di allestimenti per sale cinematografiche come grandi manifesti murali e pitture cinematografiche. In quel periodo conosce Luigi Martinati con il quale fonda una società per il lancio di pellicole, la Maralca. Il nome della società compare anche come “firma” di alcune copertine della Federconsorzi. Luigi Martinati e Alfredo Capitani, assieme ad Anselmo Ballester, fonderanno a Roma lo studio BCM, una società dedicata esclusivamente alla produzione di manifesti pubblicitari di film che produrrà, nel secondo dopoguerra, un numero considerevole d’immagini di impronta realista. Un forte rapporto di collaborazione con la Federconsorzi è anche quello con il già citato artista parmigiano Erberto Carboni.
Una nuova identità territoriale del cibo
La Fiera campionaria di Milano è sicuramente importante anche per comprendere come, mentre l’agroalimentare si va sempre più affermando come settore produttivo, estremamente frammentato ma via via sempre meglio caratterizzato da crescenti impieghi di capitali, da accelerazioni tecnologiche, da forti concentrazioni di manodopera e di strutture [Capatti, De Bernardi e Varni (eds) 1998, XVIII], negli anni tra le due guerre mondiali inizia a definirsi una nuova identità territoriale del cibo.
I tempi sono maturi anche per la messa a punto delle prime mappe regionali dedicate ai prodotti alimentari. Nel 1928, nel corso di una riunione al Rotary club di Milano, alla presenza del sottosegretario all’Agricoltura Arturo Marescalchi, nasce l’idea di un’inchiesta su prodotti e piatti tipici della penisola. Il progetto viene realizzato tra il 1929 e il 1930, grazie all’iniziativa del Touring club italiano che coordina e gestisce l’invio e la raccolta di questionari. Il prodotto finale, nel 1931, è la Guida gastronomica d’Italia, nella quale «risorse agricole, prodotti tipici artigianali ed industriali, specialità alimentari e culinarie, nella denominazione dialettale e nella traduzione italiana, vengono individuate e descritte in una Italia divisa in province» [Capatti 1998, 787]. In questa guida l’attenzione è tutta per lo straniero che può bearsi delle bellezze architettoniche ed artistiche del nostro paese, ma deve anche tornarsene a casa con lo «stomaco soddisfatto». È l’idea di un paese in cui il benessere si costruisce anche a tavola:
le gioie della mensa sono tra le più schiette, sane, naturali, ed atte ad accomunare gli uomini, a renderli miti, a fare più intimi i dolci vincoli attorno al desco famigliare; ma anche perché, nella varietà grandissima di cibi e di maniere di prepararli, da paese a paese, sta, fra noi, una delle caratteristiche tradizionali delle popolazioni così da costituire un elemento del costume, forse anche a relazioni etniche e psicologiche. [Touring club italiano 1931, 4]
Attivo promotore di questa iniziativa, poi presa in carico dal Touring club italiano, è Arturo Marescalchi. Nato a Baricella, in provincia di Bologna, nel 1869, diplomatosi alla Regia Scuola di viticoltura ed enologia di Conegliano, attivo pubblicista ed editorialista agrario, deputato al parlamento dal 1919 al 1934, è Sottosegretario per l’agricoltura dal 1929 al 1935. Con una tale regia l’Emilia Romagna non può che avere un occhio di riguardo in questa pubblicazione. La guida ci racconta che gli abitanti della regione hanno la «nomea d’essere forti mangiatori, amanti di una cucina improntata alle più vigorose tonalità di sapori». Difficile resistere a fumanti piatti di tagliatelle, lasagne, pappardelle, tortellini e cappelletti, tortelli e tortelloni o ad una «minestra da cucchiaio con brodi succolenti, di cui il più spesso polli e tacchini fanno le spese» o a «minestre asciutte variamente condite con intingoli o con ragù, a confezionare i quali intervengono raffinate combinazioni di carni diverse, di fegatini di salumi, di conserve di pomodoro». Il buongustaio si destreggia tra condimenti, formaggio grana, salumi e frutta. Il tutto rigorosamente innaffiato con i vini generosi «espressi dalle uve di collina».
Una decina d’anni più tardi sarà lo stesso Marescalchi a dare alle stampe per Garzanti una Storia dell’alimentazione e dei piaceri della tavola, nella quale, tra l’altro, ricorda le eccellenti uve da tavola del piacentino, le pesche dell’imolese e del cesenate, la frutta pomacea di Massalombarda, le ciliegie di Vignola e Cesena, le angurie e i meloni a Gualtieri, i fragoloni di Ferrara, gli asparagi di Cesena e i funghi a Borgotaro [Marescalchi 1942, 141].
Nei primi anni Trenta esce anche una carta dell’Italia gastronomica: il manifesto è commissionato dall’Ente nazionale per l’industria turistica (Enit) al pittore romagnolo Umberto Zimelli. Nato a Forlì nel 1898, formatosi all’Accademia di belle arti di Ravenna, allievo di Giovanni Guerrini, è soprattutto noto come abile ceramista e apprezzato docente alla Scuola professionale d’arte e all’Umanitaria di Milano e all’Istituto superiore industrie artistiche di Monza. La Carte des principales spècialités gastronomiques des régions italiennes parla francese perché è principalmente destinata ai forestieri. Zamponi, formaggi, cotechini, fumanti paste e vini romagnoli punteggiano la regione Emilia Romagna in una carta dai confini geo-gastronomici ancora poco definiti.
Il processo che porta ad una nuova identità territoriale del cibo risulta influenzato progressivamente da molteplici fattori, dalle trasformazioni che intervengono in campo produttivo-distributivo alle fiere e alla pubblicità. Mentre si va via via intensificando il nesso tra alimentazione, sviluppo agrario e industrializzazione, la rappresentazione grafica degli alimenti e dei prodotti acquista un’importanza fondamentale: prodotti e cibi divengono protagonisti di una nuova comunicazione commerciale che informa e forma gli italiani su che cosa sarebbe meglio acquistare e mettere in tavola. Dietro le scelte commerciali che spingono ad una nuova riconoscibilità del prodotto ci sono intraprendenti industriali e famosi illustratori che costruiscono la grafica con il loro inconfondibile stile. Manifesti ed inserzioni si rivolgono ad un pubblico variegato: se i pomodori e i limoni effigiati da Erberto Carboni sono alla portata di tutti, la “crema ducale” di Parma raffigurata da Adolfo Busi è per tasche decisamente più capienti.
Nel moderno racconto pubblicitario s’incontrano molte storie, alcune delle quali abbiamo voluto proporre in un itinerario che, espresso anche grazie alla forza delle immagini, va dagli spazi estesi della Fiera di Milano fino ai tavoli delle redazioni delle riviste della Federconsorzi.
Ringraziamenti
Si ringrazia la Fondazione Fiera di Milano ed in particolare il dottor Andrea Lovati, curatore dell’Archivio Storico, per la grande professionalità e disponibilità mostrate nel corso della ricerca. Il volume La fiera di Milano. La pubblicità dell’industria italiana 1920-1940, edito dalla Fondazione nel 2015, ha costituto un ottimo spunto per l’avvio e la strutturazione della presente ricerca. Un ulteriore ringraziamento va al personale della Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli di Milano.
Bibliografia
- Bellucci A. 1927
- I progressi dell’agricoltura romagnola nell’ultimo venticinquennio, in “Italia agricola”, 12.
- Calzecchi Onesti A. 1932
- Pubblicità collettiva per il consumo di determinati prodotti del suolo, in “Italia Agricola”, 3.
- Capatti A. 1998
- Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla seconda guerra mondiale, in Capatti A., De Bernardi A. e Varni A.(eds.) 1998, Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, Torino: Einaudi.
- Cesarani G. 1988
- Storia della pubblicità in Italia, Roma-Bari: Laterza.
- Cimorelli D. e Piazza M. 2015
- La fiera di Milano. Pubblicità dell’industria italiana (1920-1940), Milano: Fondazione Fiera.
- Falabrino G. 2001
- Effimera & bella. Storia della pubblicità in Italia. Venezia 1691-Roma 2001, 2 ed. aggiornata in occasione del Congresso nazionale della pubblicità, Roma, ottobre 2001, Cinisello Balsamo: Silvana.
- Marescalchi A. 1942
- Storia dell’alimentazione e dei piaceri della tavola, Milano: Garzanti.
- Molinari Pradelli A. 2002
- Città illustrate. Storia del manifesto pubblicitario in Emilia Romagna, Bologna: L’inchiostro blu.
- Morandi E. 1927
- Realizzazioni e prospettive dell’agricoltura emiliana, in “Italia agricola”, 4.
- Touring Club Italiano 1931
- Guida gastronomica d’Italia, Milano: Touring club italiano.
- Zamagni 1997
- Una vocazione industriale diffusa, in Finzi R. (ed.) 1997, Storia d’Italia. Le Regioni. Dall’Unità ad oggi. L’Emilia Romagna, Torino: Einaudi.