I sindacalisti (identificati generalmente con i socializzatori) sono concordemente indicati come una delle componenti più rilevanti della Repubblica sociale italiana. Essi godono di una caratterizzazione relativamente omogenea, oscillante tra l’immagine classica dei frustrati o degli appartati che accarezzavano l’idea di un fascismo finalmente di sinistra; e quella dei continuatori del rilancio di appannate istanze sociali, a cui il regime era ricorso nell’ultimo tratto della sua parabola. Gli uni e gli altri, fino a lì, avevano trovato formidabili ostacoli nella corona, negli imprenditori e, soprattutto, nella eccessiva burocratizzazione subita a causa dei lacci corporativi.
Tuttavia il radicalismo sociale, le opzioni ideologiche che sembrano accomunare queste visioni sono, a mio giudizio, decisamente insufficienti ad esaurire il profilo del sindacato fascista in versione repubblicana che, in questo modo, viene confinato in un ruolo sostanzialmente velleitario. Rimangono invece in ombra le influenze esercitate proprio da quella struttura corporativa in cui lo Stato (e il sindacato) era stato inquadrato a ridosso dello sforzo totalitario e bellicistico della seconda metà degli anni Trenta [Lupo 2000]; struttura che si rimodellò e si adeguò nelle contingenze belliche, per arrivare poi fin dentro Salò (e anche oltre) giocando un ruolo rilevante per la stabilità della fragile Repubblica di Mussolini.
Questo almeno per quanto riguarda contesti spiccatamente rurali come quello ferrarese. Perché un’altra rilevante parzialità degli studi viene dalla prevalente attenzione al settore industriale. Eppure l’incidenza dell’agricoltura non è trascurabile per la tenuta economica e politica del fascismo prima e durante la sua conclusiva esperienza repubblicana, quando l’efficienza produttiva delle aziende capitalistiche della Bassa padana costituirà un elemento di prima grandezza, agli occhi dei tedeschi, per accordare una certa legittimità al nuovo Stato.
1. Nelle campagne della Rsi
Dall’autunno 1943, l’obiettivo prioritario dell’alleato-occupante fu il totale sfruttamento dell’economia italiana e, con la progressiva perdita dei granai dell’Europa orientale, un ruolo decisivo acquisì l’agricoltura. Ogni comando militare territoriale era infatti dotato di una sezione alimentazione e agricoltura con uffici esterni in ogni provincia e il suo personale, almeno in Emilia Romagna, assunse un rilievo superiore a quello di qualsiasi altra sezione (precettazione manodopera, produzione bellica, ecc…) [Collotti 1975, 357].
Tuttavia, nel complesso rapporto di poteri interno alla macchina d’occupazione tedesca, Rudolph Rahn riuscì ad imporre a lungo a questo dipartimento limitate facoltà d’intervento. Questo si inseriva nella strategia del plenipotenziario nazista disponibile ad affidare alla nascente repubblica fascista il piano amministrativo, allo scopo di ottenere un consenso minimo, ossia il mantenimento tranquillo e tollerante della popolazione [Klinkhammer 1993, 185].
In agricoltura questo significò conservare all’elefantiaca struttura corporativa italiana compiti cruciali relativi al controllo della produzione, della gestione alimentare e della manodopera. Enti economici, consorzi agrari, istituti di credito, associazioni tra produttori, uffici e consigli provinciali erano solo gli elementi principali di un sistema pubblico capillarmente distribuito nelle campagne fin dalla seconda metà degli anni Trenta [Franck 1990], che continuò a funzionare; e dove il padronato continuò a conservare posti-chiave ed ampi margini di autonomia. Negli anni di guerra questa discrezionalità si era tradotta nella parziale elusione dei piani colturali in connessione col regime dei prezzi e col prosperare del mercato clandestino, senza tuttavia rappresentare mai, almeno nella bassa Pianura Padana, una messa in discussione del tessuto corporativo. Il prefetto di Ferrara, nelle sue relazioni al ministero, rilevava impotente la duplicità del fenomeno. Nell’ottobre 1941 aveva segnalato la riduzione delle superfici a grano che
gli agricoltori tendono a giustificare […] colle difficoltà di approvvigionamento del carburante per le arature meccaniche e con la deficienza di mano d’opera. A concorde avviso degli organi tecnici, invece, il fenomeno è da attribuirsi alla ricerca di più cospicui redditi mediante investimenti a coltura di canapa, patate, cipolla ed altro ancora. Non manca l’assidua vigilanza da parte di tutti gli Organi pubblici e la Federazione Fascista è pronta ad adottare provvedimenti di natura politica a carico degli agricoltori iscritti al partito […], peraltro la deficienza di altri mezzi coercitivi impedisce di risolvere totalitariamente il problema.
Nella relazione di dicembre tuttavia affermava
che avendo gli agricoltori generalmente e con spontaneità conferito il grano all’ammasso fino dall’epoca del raccolto non può presumersi che, dalla pur solerte attività dei Comuni e degli altri Organi interessati, siano stati apportati all’ammasso ulteriori quantitativi di grano di importo largamente giovevole al consumo nazionale [1].
Ancora il 10 settembre 1943, l’ammasso del grano ferrarese risultava di 1.172.084 quintali a confronto dei 964.651 del Mantovano, altra provincia dove le consegne avvenivano con grande regolarità [Cavazzoli 1995, 45]. E alla fine del 1944, quando ormai tutti i consumi gravitavano intorno al mercato nero, le quote erano ancora di oltre un milione di quintali per il grano e di 50.000 per il granturco [2], mentre le aziende riuscivano ancora ad approvvigionarsi ai prezzi controllati dal consorzio agrario.
Gli stessi profitti delle elusioni ai piani colturali e del mercato nero rientravano comunque nel circuito corporativo attraverso il costante incremento dei titoli di Stato e dei depositi della cassa di risparmio. Solo all’8 settembre erano seguiti due mesi di accaparramento e imboscamento, che avevano causato alla banca una drastica emorragia di depositi ed operazioni. Poi
la situazione si capovolge davvero, con il netto notevole riafflusso di depositi tanto da aversi in poco più di un mese e mezzo da fine d’anno, un rientro effettivo di ben 14 milioni. Rientro che sta proseguendo anche nel corrente mese di gennaio [Carife 1944, 8].
La solidità delle colonne portanti della struttura corporativa locale, incardinata sul lungo corso della discrezionalità padronale, rimaneva come elemento determinante di continuità: in grado di continuare a controllare il settore agricolo (e quindi in buona misura la società locale) anche nell’eclissi dei poteri pubblici; in grado di proporsi come fondamento di qualsiasi struttura amministrativa, anche di quella confusamente organizzata dalla Rsi. Ce lo confermano le parole con cui il presidente del consorzio estense – forte di una capillare organizzazione provinciale e di un bilancio di 156 milioni di vendite, 350 di ammasso e quasi 4 milioni di stipendi e salari – concludeva la sua relazione al capo-provincia della Rsi, Enrico Vezzalini, appena insediatosi:
gli amministratori sono convinti che anche in avvenire, qualunque siano gli avvenimenti politico-economici che possono verificarsi nella Nazione la quale sta attraversando momenti così decisivi per la sua sorte, la vita del Consorzio possa offrire agli agricoltori ed al paese i benefici della sua attrezzatura [3].
2. Il Sindacato fascista dei lavoratori dell’agricoltura
Ciò non significa che, nell’ambito delle aspirazioni totalitarie del regime, non avessero trovato spazio percorsi di effettiva centralizzazione burocratica, tendenze a correggere i poteri corporativi puntando a limitare i soggetti privati. Nel contesto autarchico e nella svolta bellicistica il sindacato dei lavoratori agricoli, con Rossoni ministro dell’Agricoltura, si era visto accrescere incarichi e poteri. Nel 1938, il vecchio capo del sindacato fascista aveva creato i consorzi provinciali tra i produttori dell’agricoltura – organizzati in dieci settori produttivi e inquadrati in una federazione nazionale - in cui furono fatti confluire, sotto la guida dei presidenti dei sindacati provinciali agricoltori e dei segretari di quelli dei lavoratori agricoli, tutti i preesistenti enti consortili, con l’eccezione dei consorzi agrari. Questi venivano però eretti a enti morali e sottratti alla gestione diretta degli agricoltori, esclusione giustificata con le necessità dell’economia di guerra [4]. Se la distinzione tra grande possidenza e vertici delle Unioni agricoltori era sovente formale, vicepresidenze di consorzi, commissioni di controllo e consigli di amministrazione bancari si aprivano ora ai funzionari del sindacato dei lavoratori che cominciarono a premere anche per l’ingresso nei consorzi di bonifica [5].
Nel nuovo contesto mutavano i compiti sindacali, sempre meno legati alle funzioni tradizionali di tutela [D’Attorre 1992, 61] e più volti a realizzare «quella autodisciplina dei produttori che è l’originalità del sistema corporativo, destinato a trasformare la struttura dell’economia italiana».
Abbiamo superato – dichiarava Annio Bignardi – quella prima fase strettamente sindacale nella quale noi ci trovavamo di fronte in una contrapposizione di interessi, frutto di una mentalità ormai scomparsa anche dalla categoria dei datori di lavoro oltreché da quella dei lavoratori. Oggi noi ci accingiamo ad affrontare un nuovo compito in un nuovo settore dell’attività corporativa sindacale. A torto ciascuno di noi potrebbe pensare che il compito che ci spetta sia delimitato dalla discussione di un contratto di lavoro […] di una pratica di assistenza e di previdenza […] dalla conclusione del tesseramento […] Il concetto che deve ispirare il compito nostro è [ciò] che il Fascismo richiede alla categoria dei produttori, e questo concetto è che ognuno di noi, ogni lavoratore, si sente nel grande organismo della Nazione italiana, un essere che dà un apporto alla evoluzione della produzione, che dà qualcosa di se stesso al di là degli interessi individualistici, di un salario […] per assicurare all’Italia di Benito Mussolini un contributo concreto a quella che si chiama autarchia [6].
Le funzioni essenziali assegnate alle Unioni dei lavoratori erano quelle del controllo della produzione e, soprattutto, della mobilitazione della manodopera, compito delicato e decisivo quanto altri mai nelle grandi aree a lavoro salariato di cui il Ferrarese, con i suoi oltre 100.000 braccianti, rappresentava indubbiamente uno snodo nevralgico.
Qui, la gestione sindacale riposava soprattutto su consolidate continuità di uomini e meccanismi che risalivano anche alle preesistenti organizzazioni socialiste, e avevano comunque spesso attraversato tutto il ventennio [7]. La continuità degli uomini era essenzialmente legata all’esiguità dei ceti medi presenti nelle campagne, al loro ridottissimo livello culturale, quindi alla scarsità di elementi adeguati a ricoprire la carica. L’Unione era capillarmente articolata su 9 ispettorati di zona, 20 rappresentanze comunali e 130 frazionali; i suoi fiduciari erano sempre di estrazione autoctona, venivano spostati poco e quasi sempre solo nella provincia; erano mezzadri, piccoli agricoltori e piccoli impiegati, insomma uscivano quasi sempre da gruppi socialmente contigui ai loro organizzati; gente a cui l’appartenenza alla gerarchia sindacale garantiva uno status magari di tono minore, ma sempre localmente importante.
La continuità dei meccanismi faceva riferimento a collocamento, imponibile di manodopera e compartecipazione [Cazzola 1988]: soprattutto i primi due erano conquiste delle lotte prefasciste che, in queste realtà, non furono mai del tutto soppresse. In aree ad alti tassi di disoccupazione erano questi i compiti sindacali più cruciali. Essi erano assolvibili con l’esperienza, oppure alla violenza squadrista doveva accompagnarsi un minimo livello d’istruzione per compilare registri e tabelle dove erano annotate le richieste di manodopera, la composizione di circa un migliaio di famiglie bracciantili e la ripartizione delle giornate lavorative. Funzioni da svolgere in ogni caso con equilibrio e secondo codici riconoscibili dai lavoratori che, pur piegati anche violentemente agli interessi agrari, continuavano a riconoscere al sindacato un certo ruolo di rappresentanza.
Pur nell’ambito delle strettoie imposte dal regime fascista – scrive il bracciante e dirigente comunista Spero Ghedini –, si riusciva a difendere e a mantenere certe posizioni e a salvaguardare, entro certi limiti, i diritti dei lavoratori: nel caso specifico il diritto all’imponibile di manodopera, che gli agrari, nonostante tutti i tentativi fatti, non riuscirono mai ad annullare completamente. Anche la gestione democratica del collocamento della manodopera, ufficialmente affossata, sotto sotto persisteva in una certa misura. Per l’imponibile, era lo stato di miseria che spingeva ad esercitare forti pressioni sul sindacato fascista, per ottenere un certo numero di giornate di lavoro nel tardo autunno e nell’inverno. Del resto le posizioni acquisite nel corso dei lunghi anni di lotta, prima della guerra e immediatamente dopo, erano così profondamente radicate che la stragrande maggioranza di noi si trovava concorde e unita nel premere perché le giornate di lavoro venissero concesse e fossero equamente distribuite [Ghedini 1983, 44-5].
Anche se, probabilmente, non è lecito allargare troppo i livelli di consapevolezza politica delle masse operaie ferraresi, erano in ogni caso questi i termini di un’integrazione passiva che consentiva una misurata conflittualità e ribadiva un consapevole sforzo di controllo dall’interno, sfruttando proprio meccanismi mentali e comportamenti acquisiti dai lavoratori nelle lotte d’età prefascista quando il collocatore, attraverso la sua facoltà di distributore del lavoro, era divenuto sovente il punto di riferimento dell’intera comunità [Crainz 1994]. Certo questa continuità era anche pesantemente incrinata da violenze e malversazioni [Preti 1980] e la sterilizzazione corporativa aveva finito per allontanare quei vecchi organizzatori che più faticavano a gestire gli abusi padronali e le decurtazioni salariali che caratterizzarono gli anni della crisi economica. Esistevano però anche molte piccole pratiche assistenziali che contribuivano a rafforzare il legame tra fiduciario e lavoratori. In definitiva, ciò che veniva continuamente messo in rilievo dai dirigenti sindacali non era tanto il merito degli abusi, ma la necessità di dargli una forma contrattata. Il lavoro, fosse pure poco e malpagato, doveva però continuare a consentire un criterio di distribuzione egualitaria. Era a questo che il bracciante poteva guardare per misurare l’onestà e la competenza dei propri rappresentanti; era a questo che i carabinieri prestavano attenzione considerandolo elemento chiave dell’ordine pubblico, e motivo fondamentale per la rimozione o la conferma dei sindacalisti [Parisini 2011].
Con l’ingresso in guerra, organizzazione corporativa e sindacato avrebbero dovuto rappresentare dunque per lo Stato fascista i due più validi strumenti, almeno in agricoltura, di mobilitazione delle masse e di disciplinamento e coordinamento delle risorse [Pepe 1996]. Ben nota è naturalmente la macroscopica sproporzione tra quanto il regime progettò e quanto fu effettivamente realizzato nel contesto bellico [De Felice 1990].
Né furono mai portate a compimento quelle istanze di «unità di comando e di organizzazione» avviate da Rossoni e di nuovo invocate, a partire dal 1941, da autorevoli esponenti degli apparati sindacal-corporativi come Ettore Frattari [8]. Tuttavia sul piano delle risorse, pur a fronte di una disastrosa gestione a livello nazionale, l’area basso-padana fu caratterizzata, come s’è detto, da una buona funzionalizzazione produttiva. Secondo le rilevazioni del Ministero dell’Agricoltura della Rsi, i margini di profitto delle aziende cerealicolo-zootecniche, ancora nell’annata 1943-1944, si mantennero ai livelli di quelli del 1938, l’anno di uscita dalla crisi, e questo senza tenere conto delle entrate del mercato nero; e tanto nel 1943 quanto nel 1944 province come quelle di Ferrara, Cremona, Brescia, Mantova e Rovigo continuarono a consegnare puntualmente agli ammassi rilevanti quote dei propri raccolti cerealicoli [Della Valentina 1982, 66].
La manodopera rurale aveva invece conosciuto abbastanza rapidamente un peggioramento della sua condizione legato alla mobilità e alla precarizzazione a cui era costretta dal rialzo del costo della vita e dal blocco dei salari. Le misure compensative sarebbero dovute venire, attraverso il sindacato, dal collocamento, dall’allargamento dell’assistenza mutualistica, dal rispetto dei patti stipulati, dall’estensione dei contributi previdenziali. In realtà, un’applicazione relativamente inefficiente delle misure e la discrezionalità padronale costituirono limiti decisivi a queste misure in tutte le principali aree bracciantili, dalla Padania alle Puglie [Altamura 2018].
La diffusione di un certo malcontento si accompagnò però rapidamente al profilarsi della carenza di manodopera. I richiami alle armi e il temporaneo trasferimento in Germania avevano dapprincipio arrecato sollievo alla pesante disoccupazione, ma ora a questi si aggiungevano i continui spostamenti dal settore rurale a quello industriale meglio pagato. Da una parte gli agricoltori reagirono sindacalmente lamentandosi col prefetto, dall’altra, individualmente, cominciarono a concedere aumenti salariali sottobanco per accaparrarsi manodopera [9]. A fine 1941 gli accaparramenti erano già diffusi.
A questo punto, sotto l’incalzare delle contingenze belliche e dei comportamenti padronali, gli spazi sindacali apparivano pericolosamente erosi da molteplici e contrapposte pressioni, non ultime le minacce di mobilitazione da parte degli stessi lavoratori, mentre il presidio del collocamento veniva posto chiaramente a rischio di svuotamento. Contrastare adeguatamente questa tendenza era la condizione chiave per mantenere la manodopera rurale all’interno degli assetti dati, e soprattutto per conservare al sindacato la propria centralità all’interno dell’ordinamento corporativo. L’Unione ferrarese procedette allora arrivando, quando possibile, a contrattualizzare come occasionali quegli accordi, conducendoli così nel proprio alveo oppure, davanti alle repressioni pretese dal prefetto, invocando una propria motivata neutralità:
il fatto che qualche agricoltore, constatando la difficoltà di procurarsi la mano d’opera necessaria alla lavorazione del suo terreno, ha ritenuto utile offrire ai lavoratori un compenso superiore alle tariffe in vigore, esula dalle possibilità d’azione di questa organizzazione sindacale. Questa Unione, avendo più e più volte tentato di far comprendere i benefici derivanti, sia al datore di lavoro che al lavoratore, dal sistema di conduzione a compartecipazione, non ritiene né opportuno né giustificabile un intervento diretto ad impedire ai propri rappresentati il conseguimento di guadagni più adeguati al costo della vita [10].
A questi rapporti corrispondevano di volta in volta le sempre più allarmate reazioni del prefetto.
Compito dell’organizzazione sindacale è quello di seguire, indirizzare e avvicinare i lavoratori, massime quando per superiori esigenze vengono coattivamente avviati al lavoro ed in gruppi notevoli, poiché proprio in questi momenti è indispensabile l’azione di persuasione, di guida e di appoggio [11].
In risposta a queste pressioni il nuovo segretario provinciale, Marco Calura, poteva sottolineare piuttosto l’aspetto chiave della questione, e cioè che non era stato «finora portato turbamento alcuno all’azione di distribuzione della manodopera»; riassumendo poi con precisione le reali coordinate entro le quali si muoveva il sindacato:
lo sfasamento tra salari bloccati e costo della vita va quotidianamente accentuandosi con il sopra accennato aumento [ufficiale od arbitrario] dei prezzi di tutti i prodotti di prima necessità, rendendo la situazione ancor più tesa e difficile e pregiudicando assai la possibilità di mantenere la disciplina nel collocamento della mano d’opera attraverso una sia pur attiva opera di persuasione od una pressione morale intesa a richiamare i lavoratori ad una maggiore comprensione delle necessità del momento […] Ad aumentare la confusione degli spiriti si aggiunge spesso l’atteggiamento indisciplinato di molti datori di lavoro i quali, preoccupati di procurarsi la mano d’opera loro necessaria, offrono spontaneamente maggiorazioni salariali. È evidente che i lavoratori mal sopportano di essere poi collocati presso altre aziende per il normale salario. La cosa è stata già da molto tempo da noi superiormente segnalata, ma poiché non si è posto un freno sin dall’inizio, si è oggi venuto a costituire uno stato di fatto del quale non si può non tener conto. La verità è che la quasi totalità degli agricoltori corrisponde attualmente tariffe maggiorate e che pertanto si incontrano notevolissime difficoltà a collocare i lavoratori presso quelle aziende che non hanno adottato una tale linea di condotta [12].
Quando il 25 luglio il regime cadde, la provincia ferrarese, come molti altri di quei territori basso-padani [Insmli 1969, 28], rimase calma, avvolta nel massimo fervore dei lavori agricoli. L’inflazione stimolò le semine spingendo in alto prezzi e profitti, gli ammassi presso il Consorzio agrario si mantennero regolari, la Cassa di risparmio a fine agosto realizzò una quota mai raggiunta prima di depositi. E Calura poté affermare:
in nessuna località i lavoratori agricoli hanno manifestato ostilità o comunque malanimo verso la loro organizzazione o verso i Fiduciari Sezionali. Solo nell’Argentano sono avvenuti fatti incresciosi, dovuti ad elementi della provincia di Ravenna. In altre località piccoli incidenti o manifestazioni di proposito ostili sono stati determinati […] da lavoratori dell’industria o da altri elementi non facenti parte di questa organizzazione [13].
3. Nella Repubblica sociale italiana
Non ci sono dubbi che il sindacato abbia rappresentato anche per la Rsi un elemento chiave di stabilità in una provincia dove i lavoratori agricoli, alla fine del 1944, si sarebbero aggirati intorno alle 130.000 unità, praticamente un terzo della popolazione locale.
Per la verità tutto il tempo della Repubblica fu attraversato dal dibattito sul ruolo che avrebbe dovuto assumere il sindacato. All’interno delle sue gerarchie si affermò la necessità di autonomia dal partito e si presero le distanze dalla mediazione istituzionale imposta dallo Stato corporativo [Parlato 2000, 304]. Intanto il Consiglio dei ministri del 25 novembre 1943 ne riformava la struttura dando vita alla Confederazione generale del lavoro, della tecnica [e poi] delle arti (Cglta), e vi sanciva l’eliminazione delle rappresentanze padronali. Tutte le confederazioni dei lavoratori venivano ribloccate, come prima del 1928, in un corpo unico [Galanti 1949, 22].
Sotto accusa era in primo luogo la burocratizzazione corporativa. Per uscirne, si diceva, occorreva recuperare la funzione fondamentale della lotta di classe, andare verso il rinnovamento rivoluzionario della socializzazione le cui forme però, per lo meno in agricoltura, rimanevano piuttosto indeterminate.
Ma se questi sono echi di alcune delle posizioni più significative dell’ampia e diffusa discussione che impegnò a lungo la pubblicistica di Salò [Ganapini 1999, 390], altri erano in effetti i termini reali su cui si misuravano le funzioni sindacali, almeno nelle province agricole, molto più connesse all’aspetto tutto pratico dell’eventuale ricaduta della riforma sui processi economici in corso. Alla pubblicazione del decreto sulla Gestione socializzata dell’impresa il 12 febbraio 1944 fece seguito, dieci giorni dopo, una circolare del Ministero dell’Economia corporativa che avvertiva che occorreva «di fatto mantenere tutte le istituzioni collegate con il preesistente ordinamento economico-sindacale», onde «evitare che una complessa serie di istituti venga soppressa prima ancora di avere previste tutte le riforme da realizzare nel campo giuridico e in quello pratico» [14].
Solo nel gennaio 1945 la Cglta prese effettivamente corpo, quando ormai la Repubblica giocava disperatamente le sue carte sociali. Fin lì, le esigenze imposte dalla guerra, il peso condizionante della presenza nazista, la necessità di conservare un minimo di organizzazione nelle campagne, la drammatica problematica di approvvigionare i centri urbani avrebbero costituito la prima, decisiva linea delle questioni con cui misurarsi.
Proprio il 12 febbraio del resto il “Corriere padano”, il giornale fondato da Italo Balbo e fatto riaprire da Vezzalini, precisava:
nel settore dell’agricoltura le provvidenze e le realizzazioni del regime fascista hanno già da tempo stabilito, con lo sviluppo delle forme di conduzione associata, di cui la mezzadria è tipica, e con la legislazione sulla bonifica integrale, le condizioni necessarie per l’attuazione dei postulati della Repubblica Sociale, per il progresso tecnico nel settore dell’Agricoltura italiana. Dunque non ci saranno nell’agricoltura le grosse novità preannunciate per l’industria, che si avvia a una completa socializzazione [15].
Nella realtà dei fatti il ruolo del sindacato rimase quello fin dal principio connesso alle esigenze belliche in ambito corporativo: controllo per quanto possibile della produzione e gestione della manodopera, funzioni sempre vitali per l’esistenza e la credibilità dello Stato fascista. Funzioni per nulla semplici visto che, alle difficoltà portate dalla guerra, si assommavano ora quelle derivate dalla presenza di innumerevoli organizzazioni civili e militari italiane e, soprattutto, tedesche dedite all’arruolamento di lavoratori, con competenze e poteri dalle delimitazioni spesso incerte. A questo si aggiungano le azioni dei capi provincia che, davanti alla crisi della rete distributiva, premevano per controllare direttamente la produzione e il collocamento delle risorse nella crescente frammentazione dei territori. In questi ambiti era perciò frequente l’invasione delle funzioni, la gestione autonoma delle nomine, dei prezzi e il collocamento dei prodotti sul mercato, l’uso spregiudicato di tutte le risorse disponibili. Alla fine del gennaio 1944, Pavolini doveva scrivere ai capi delle province e ai commissari federali che, «anche a causa delle incerte comunicazioni postali e telefoniche», nominavano o sostituivano i dirigenti sindacali, «senza interessare preventivamente i rispettivi Commissari Confederali» [16]. E, in luglio, il ministro dell’Agricoltura Moroni lamentava apertamente «la disgregazione assoluta tra centro e periferia», e che di fatto ormai «ogni provincia va per conto suo» [Klinkhammer 1993, 248].
Naturalmente anche nel contesto corporativo, l’azione del centro risultava debole e frammentata. Solo in primavera il Ministero dell’Economia corporativa assumeva un profilo definito sotto la guida di Angelo Tarchi, ma rimaneva in aperto contrasto con il nuovo Commissariato del Lavoro, creato il 7 dicembre 1943, di cui il ministro invocava il controllo.
Le vecchie Confederazioni, la nuova, peraltro soltanto annunciata, lo stesso Ministero dell’Economia per molta parte delle sue funzioni, si trovarono improvvisamente surclassati dal nuovo ente. In realtà gli scopi veri della costituzione del Commissariato furono quelli di accentrare in un organismo unico, autonomo e soprattutto agile, talune funzioni che la particolare situazione del momento rendeva delicatissime [Galanti 1949, 53].
Per parte sua il commissario Ernesto Marchiandi, sostenuto dai tedeschi, definiva senza mezzi termini l’Economia corporativa «Ministero della plutocrazia, espressione della Confederazione degli industriali e del capitalismo» [Borghi 1993, 374].
In questa cornice di continuità delle funzioni e di debolezza dei poteri centrali, il ribloccamento poteva anche essere letto come ripresa delle aspirazioni alla crescita dei poteri sindacali, invocata attraverso un allargamento di quelle funzioni pragmaticamente mantenute anche dalla Repubblica, nel quadro di una sostanziale conferma degli assetti corporativi. Si tratta, ritengo, di un arricchimento del quadro interpretativo, a cui fanno da sfondo quelle istanze di razionalizzazione tecnocratica della gestione delle risorse in guerra già avanzate da Frattari nel 1941 [Parisini 1998]. A proposito della nascita della Cglta, il direttore dell’Unione agricoltori ferrarese commentava:
È un atto tipicamente rivoluzionario che decisamente e senza equivoci supera la vecchia espressione del sistema dualistico del lavoro e del capitale che per troppi anni ci eravamo illusi, o volevamo illuderci di aver superato […] Tutti coloro che si occupano di questioni agricole si sono ormai da troppo tempo domandati il perché nel campo dell’agricoltura debbano agire e molto spesso interferire, sovrapponendosi, i seguenti Enti: Organizzazione sindacale degli agricoltori, dei lavoratori dell’agricoltura e dei tecnici agricoli, Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Associazione nazionale degli Enti economici dell’agricoltura con i rispettivi uffici di accertamento, Associazione dei bieticoltori, Ufficio provinciale della cerealicoltura, viticoltura, fibre tessili, zootecnia, orto-florofrutticoltura, olivicoltura, pastorizia, sezioni agricola e pastorale del C.P.C., Consorzio agrario con tutte le sezioni, sezione UMA, Ufficio piante oleaginose, ecc…, per non ricordare che gli enti più importanti. Di chi le decisioni e le responsabilità? Di tutti e di nessuno. Il problema presenta una soluzione semplice […] Infatti rispolverando ed applicando i principi della legge 3 aprile 1926, n. 563, si può e si deve dare all’organizzazione sindacale, a quell’organizzazione cioè che deve e dovrà rendere conto al Partito e allo Stato, la responsabilità assoluta dell’azione non solo nel campo strettamente sindacale, ma anche in quello tecnico-economico. Si potrà avere lo scioglimento di tutti gli Enti […], un unico organismo forte e potente che con la sua attrezzatura potrà giungere fino all’ultimo casolare […] In conclusione mentre al centro dovranno rimanere in vita le singole branche economiche, in periferia si dovrà poter far capo ad un unico Ente [17].
In queste considerazioni – del resto abbastanza diffuse –, complici i vuoti del centro e la frammentazione territoriale, la lotta alla burocratizzazione corporativa assumeva un respiro tutto periferico, in diretta relazione ad altre istanze, uguali e contrarie, provenienti dal padronato impegnato a rivendicare ai consorzi agrari, di cui aveva recuperato il controllo dal 1942, l’integrale disciplina del settore.
E allora? – si chiedeva a breve giro e sullo stesso foglio, il direttore del Consorzio ferrarese, uomo strettamente legato all’agraria locale – Occorre tagliare i rami secchi, abbandonare ciò che non è proprio di detto istituto e perfezionare quanto gli appartiene perché sia l’Ente economico provinciale dell’agricoltura. Molti enti economici affliggono agricoltori e agricoltura [18].
In ogni caso non è comunque questa la strada che la Repubblica prese in quei mesi. Le esigenze belliche, quelle di sistematica caccia alla manodopera da parte dei tedeschi, quelle altrettanto primarie di stabilizzazione contribuirono a mantenere sullo sfondo tanto il problema della riorganizzazione corporativa in chiave di accentramento sindacale, quanto quello di una svolta socializzatrice.
4. Cambiamento e continuità
Tutto questo non significa che non ci siano stati dei cambiamenti. Si trattò però di mutamenti nei limiti consentiti dalle contingenze belliche, piuttosto distanti da intenti social-rivoluzionari, e comunque decisamente in linea con quanto già era avvenuto durante il regime.
Ciò che il governo repubblicano aveva in mente per i lavoratori agricoli era chiaramente delineato dal commissario provinciale della Cglta, Calura, nel presentare il nuovo contratto di compartecipazione:
I criteri seguiti sulla scorta dell’esperienza fatta e delle segnalazioni ricevute dai lavoratori sono stati, nella compilazione del nuovo accordo, i seguenti: effettiva partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda e non semplice remunerazione del lavoro eseguito; maggiore chiarezza nei rapporti tra imprenditore e compartecipante, con esclusione quindi di ogni spesa a carico del lavoratore; istituzione di una rappresentanza sindacale in ogni azienda; attribuzione in proprietà al lavoratore della sua quota-parte del prodotto; estensione ai compartecipanti familiari di tutte le prestazioni assicurative e previdenziali, compresi gli assegni familiari […] Altri problemi di vasta mole per la categoria non esistono, in quanto la maggior diffusione della compartecipazione ed i perfezionamenti che al contratto verranno apportati costituiscono una vera e propria forma di socializzazione, oltre la quale non sarebbe né equo né opportuno andare per il momento [19].
Il tenore della discussione sindacale era ora su basi socialmente più avanzate, anche se riecheggiava più che altro conquiste già raggiunte che proprio il fascismo aveva provveduto ad annullare. E tuttavia i termini di questa discussione erano solo apparentemente più realistici dei grandi dibattiti sul sindacato unico o sulla socializzazione. Di fatto gli agricoltori continuavano in parte ad eludere l’imponibile, e da più parti veniva segnalata la decisa tendenza a disdettare i contratti di mezzadria e compartecipazione per trasformarli in conduzioni dirette in economia, «forme di conduzione che il momento particolare rende più favorevoli» [20].
Tuttavia è la struttura stessa del sindacato a subire significativi mutamenti. Nella stessa primavera 1944, la riapertura dei fasci nella provincia aveva segnato un crescente travaso dei quadri sindacali di base verso il Pfr. Erano i combattenti più o meno giovani delle varie guerre fasciste, ma soprattutto quegli squadristi entrati negli anni Venti che ora trovavano l’occasione per un più confacente rientro nel partito. I vuoti che così si aprivano, la volontà di impedire eventuali influssi degli scioperi operai, l’influenza del dibattito sull’elettività delle cariche sindacali portarono entro aprile a una raffica di riunioni in tutta la provincia, in cui i lavoratori elessero i propri segretari frazionali e comunali. I quadri bassi e intermedi ne risultarono quasi totalmente modificati, mentre quelli provinciali rimanevano sempre indicati dall’alto e potevano conservare le stesse continuità con cui avevano attraversato i quarantacinque giorni.
Tuttavia, un’analisi attenta dei nuovi ingressi ci rimette immediatamente in linea con le tendenze consolidate, collegate alla complessità del ruolo sociale in gioco. L’età media è elevata: pochissimi tra i nuovi fiduciari erano nati dopo gli anni Dieci, e quasi la metà entro il secolo precedente; meno di un terzo era iscritto al Pfr, con l’eccezione del sindacato impiegati di aziende agricole dove i tesserati al partito erano più della metà [21]. Tra i profili individuali ricostruiti, ricorre di frequente quello di lavoratori comunque appartenenti alla comunità e stimati dai compagni; oppure vi è la riemersione di chi, entrato nel sindacato fascista, ne era uscito con la sterilizzazione corporativa tornando semplicemente nei ranghi dei lavoratori, e quindi non si era staccato dalla comunità di provenienza [Ghedini 1983, 54].
A caratterizzare gli uni e gli altri erano perciò il solido legame con l’ambiente e la sperimentata capacità di assolvere a quelle funzioni economiche e sociali che ho già evidenziate. È questo che consentirà a diversi di loro (anche squadristi) di vedersi rieletti dai compagni anche nei primissimi anni del dopoguerra, questa volta nelle file delle organizzazioni di sinistra.
Questi uomini avrebbero avuto il potere di orientare anche politicamente la loro comunità ma, per età e formazione, essi replicavano le caratteristiche del sindacalismo prefascista su cui si era innestata la spoliticizzazione operata dal regime. Erano uomini più propensi a cercare di mettere a frutto la precarietà di norme e istituzioni, a governare quelle strategie della sopravvivenza che avevano progressivamente il sopravvento [22].
In questi mesi non mancarono scioperi per ottenere aumenti salariali, stimolati anche dalle alte tariffe praticate dalla Todt. Le richieste dei lavoratori vennero di nuovo direttamente o indirettamente assecondate, tanto che Marchiandi, a fine maggio, denunciava le continue deroghe locali ai patti salariali avallate dai sindacati e talvolta dai capi provincia [23].
Inoltre la presenza dei fiduciari nelle commissioni per la precettazione della manodopera permetteva di evitare l’invio in Germania per lavoro o la chiamata per l’esercito di Salò, magari con l’arruolamento preventivo nella Gnr [24].
Limitata attenzione avevano invece le parole d’ordine promosse dalla Resistenza organizzata che apparivano nella maggioranza estranee al contesto locale, come nel caso del rifiuto degli ammassi, visto che compartecipanti, coloni e anche diversi piccoli proprietari e affittuari trattenevano legalmente tutta o quasi la produzione o la parte ad essi spettante. Oppure come nel caso del sabotaggio della trebbiatura, che giungeva in un momento in cui parecchie famiglie di lavoratori erano ormai senza grano.
Di fatto, i sindacalisti continuarono ad esercitare la loro funzione di mediatori tra braccianti e poteri fascisti rimanendo, nonostante le aspre turbolenze in atto, all’interno di funzioni e assetti dati. Il sindacato poteva in questo modo continuare a controllare con una certa efficacia le masse lavoratrici; così come i principali enti consortili continuavano sostanzialmente a garantire l’accesso alle risorse locali.
La Repubblica ottenne dunque, come d’altra parte certificano le relazioni dei suoi capi-provincia [25], una certa stabilità in queste campagne, quasi proprio in ragione della incontestabile debolezza del suo centro. Abbastanza distanti dai tratti confusi del dibattito che contrapponeva socializzazione a corporativismo, o di quello che faceva del produttore il consapevole protagonista della vita economica, sociale e politica della nazione, le stesse burocrazie sindacali più propriamente fasciste, pur al chiaro tramonto del loro dominio, potevano in qualche modo rivendicare la saldezza dei propri assetti che venivano da lontano. Così, all’ormai tardivo atto di nascita della Cglta e con l’occhio quasi rivolto all’imminente dopoguerra, Calura, sostenendo la necessità delle cariche elettive e l’inderogabile pilastro del collocamento, affermava:
ritengo necessario far qui rilevare la situazione della provincia di Ferrara, in cui sin dal periodo prefascista, l’organizzazione dei lavoratori ha sempre avuto una capillarizzazione estesa ad ogni frazione della provincia. Ciò in parte per le condizioni ambientali, in parte per un’elevata maturità politico-sociale dei lavoratori in parte per il fatto che nel pur vasto territorio della provincia esistono solo 20 comuni. D’altra parte esiste già in provincia un’attrezzatura soddisfacentissima, che occorrerebbe solo mantenere in efficienza. Infatti in ogni frazione funziona una Sezione Sindacale dei lavoratori dell’agricoltura, cui è addetto un funzionario in organico dipendente dalla U.P.F.L.A. Si chiede che questi funzionari rimangano al loro posto con i compiti sinora loro attribuiti, per assicurare a tutti i lavoratori quella continuità di assistenza di cui abbisognano. È necessario che tale capillarizzazione sia mantenuta anche perché i lavoratori sono da tempo abituati a rivolgersi al Sindacato frazionale per qualunque necessità e, sopprimendo questo, facilmente se ne allontanerebbero a poco a poco definitivamente [26].
Il presente contributo è una rielaborazione rivista ed ampliata della relazione presentata al convegno “I molti territori della Repubblica fascista. Amministrazione e società nella RSI”, Ferrara 27/28 settembre 2017. A fronte dell’impossibilità di sottoporre il testo ad un processo di double blind peer-review, i curatori hanno optato per una revisione preliminare da parte del relativo discussant di sessione.
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La Resistenza a Ferrara, Bologna: Clueb
Note
1. Archivio di Stato Ferrara (d’ora in poi ASFE), Prefettura, Riservato di Gabinetto (d’ora in poi PREF., RIS. GAB.), cat. 30, b. 139, Relazioni mensili.
2. Promemoria del ministro dell’Agricoltura Moroni al Duce del 15 aprile XXIII (1945), in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 53, b. 182, f. C.
3. Relazione del 14 dicembre 1943, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 53, b. 191, f. Consorzio agrario provinciale.
4. «Una organizzazione obbligatoria e totalitaria quindi, generalizzata a tutte le province, sotto la direzione e il controllo insindacabile del partito e delle gerarchie sindacali» [Guzzini 1954, 1018]. Si veda inoltre Bertini 1999.
5. N. Cavallazzi, I consorzi di bonifica, in “Il Versuro”, 15 novembre 1939.
6. A. Bignardi, Autarchia come politica proletaria, in “Il Versuro”, 1 gennaio 1940. Bignardi era il segretario dell’Unione ferrarese dei lavoratori agricoli (Upfla); nell’ottobre 1941 divenne presidente della Confederazione nazionale dei lavoratori dell’agricoltura (Cfla) in sostituzione di Vincenzo Lai.
7. A. Bignardi, Il rapporto annuale dei Dirigenti Sindacali dell’Unione lavoratori dell’Agricoltura, in “Il Versuro”, 15 novembre 1939.
8. Mi riferisco appunto alle relazioni inviate al ministro dell’Agricoltura dal direttore nazionale del Consorzio tra i produttori, Ettore Frattari (divenuto poi, nel gennaio 1942, presidente della Confederazione agricoltori), contenute in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Segreteria particolare del duce, carteggio ordinario, b. 2439 Segreteria, f. 552802.
9. Rapporto dei carabinieri al prefetto del 27 maggio 1941, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 34, b. 156, f. Anno 1941.
10. Relazione del segretario dell’Upfla [Unione provinciale fascista dei lavoratori dell’agricoltura] al prefetto dell’11 aprile 1941, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 34, b. 156, f. III, sf. Argenta – malcontento operai.
11. Riservata del prefetto al segretario dell’Upfla del 26 luglio 1942, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 34, b. 156, f. V, sf. Precettazione mano d’opera.
12. Relazione Organizzazione Capillare del segretario Upfla alla Federazione dei fasci di combattimento del 13 aprile 1943, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 30, b. 432, f. Unione provinciale lavoratori dell’agricoltura.
13. Relazione al prefetto del 31 luglio 1943, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 30, b. 145, f. Sindacati 1943.
14. Circolare del 22 febbraio 1944, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 30, b. 145, f. I, sf. Ispettorato provinciale del lavoro. Sugli orientamenti del ministro Tarchi tesi «a restituire piena legittimità all’edificio corporativo» cfr. Ganapini 1999, 374.
15. L’agricoltura e la repubblica, in “Corriere padano”, 12 febbraio 1944.
16. Circolare del 27 gennaio 1944, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 30, b. 258, f. II, sf. Segreteria PFR: circolari.
17. R. Ghelardoni, Orientamenti, in “Ferrara repubblicana”, 6 dicembre 1943. Al 25 luglio 1943 Ghelardoni era il direttore dell’Unione agricoltori ferrarese. Aveva aderito alla Rsi mantenendo il proprio incarico e assumendo anche quello di componente del triumvirato federale, composto da altri due responsabili sindacali, Calura e Cesare Borellini, segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’industria.
18. A. Ravaglioli, I consorzi agrari nella Repubblica sociale, in “Ferrara repubblicana”, 12 dicembre 1943.
19. Verbale della riunione del 14 maggio 1944, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 34, b. 156, f. Anno 1944, sf. Rappresentanze sindacali: elezioni.
20. Lettera di Vezzalini del 6 maggio 1944, in ASFE PREF., RIS. GAB., cat. 53, b. 417, f. Produzione agricola, sf. Disdette agricole.
21. Gli specchi con tutti i dati sono in ASFE, vedi nota 19.
22. L’unico caso differente di cui ho notizia risale al novembre 1944, quando viene arrestato Renato Scalambra fiduciario sindacale di Le Venezie, sospettato di capeggiare un’organizzazione comunista sorta nei primi mesi dell’anno. «Iniziata l’istruttoria – informa un rapporto della Questura – si accertava che […] la maggior parte dei contadini aveva aderito a quell’organizzazione». Cit. in Quarzi, Tromboni 1980, 41.
23. Circolare a tutte le Confederazioni sindacali e ai capi delle provincie del 31 maggio 1944, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 34, b. 156, f. anno 1944, sf. Assenze arbitrarie dal lavoro.
24. In proposito le segnalazioni contenute in ASFE, PREF., RIS. GAB., b. 144, f. Carteggio fascista, sf. GNR.
25. Per cui, cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Divisione Affari Generali, RSI 1944-1945, b. 4, f. Situazione politica delle province. Ferrara.
26. Lettera al commissario nazionale della CGLTA del 9 febbraio 1945, in ASFE, PREF., RIS. GAB., cat. 30, b. 431, f. Nuovo ordinamento sindacale.