1. Le repubbliche partigiane e la memoria di pietra
La memoria delle Repubbliche partigiane sembra avere lasciato pochissime tracce materiali sui territori in cui queste esperienze presero corpo. Nei primi anni successivi alla fine del conflitto, i segni posti per commemorare e rappresentare quegli episodi non differirono dalle modalità usate per ricordare la Resistenza come fenomeno generale, orientate a celebrare caduti in battaglia o vicende luttuose come rastrellamenti, fucilazioni, rappresaglie ed eccidi. La retorica utilizzata attinse a immagini cristiane: nei testi delle lapidi ritornano parole come “martirio”, “sacrificio”, mentre nelle forme si scelsero composizioni che rimandavano alla croce e alla deposizione.
Emblematico è il caso di Alba – liberata e amministrata dai partigiani dal 10 ottobre al 2 novembre 1944 – dove nel 1947 si scelse di utilizzare per commemorare i caduti nella Resistenza la copia di un gruppo statuario creato quarant’anni prima come monumento funerario dallo scultore Leonardo Bistolfi: figure allegoriche del Dolore, la Giustizia, la Giovinezza e la Maternità vi appaiono sormontate da una croce. Su disposizione del governo, il gruppo venne donato alla municipalità e trasferito dalla Galleria d’arte moderna di Roma alla Chiesa di San Domenico della città piemontese [1]. Questo esempio mostra come nell’immediato dopoguerra mancasse un linguaggio retorico e formale in grado di rendere l’esperienza resistenziale e la Seconda guerra mondiale tutta, che venne così assimilata alla guerra precedente, con immagini di soldati caduti e madri dolenti [Schwarz 2010, 219].
Solo in occasione del 50° anniversario della repubblica partigiana di Alba venne realizzato un monumento dedicato espressamente alla Resistenza in quella città, disegnato dallo scultore Umberto Mastroianni (1910-1998). Le forme di questo monumento, tuttavia, ricalcano quelle del linguaggio artistico monumentale astratto proprio degli anni Sessanta e Settanta, di cui lo scultore Mastroianni, lui stesso partigiano attivo nel Canavese, fu uno dei principali protagonisti: tra il 1964 e il 1969 aveva realizzato l’imponente monumento alla Resistenza di Cuneo, cui seguiranno, negli anni Settanta e Ottanta, quelli di Cuorgné (nel Canavese), Frosinone, Cassino e Urbino. Il progetto, tardivo, per Alba riprende così la retorica monumentale di una stagione “eroica”, in cui il paradigma resistenziale è affermato senza sfumature, sublimato in forme astratte e simboliche. Emblematica fu in questo senso la mostra Arte e Resistenza in Europa che si tenne al Museo civico di Bologna dal 26 aprile al 30 maggio 1965 (e successivamente a Torino, Galleria civica d’arte moderna, 8 giugno-18 luglio 1965) [2]. Nella sezione sulla “Resistenza armata” il partigiano è assimilato a una figura prometeica, che combatte per il progresso sociale: eroismo e sacrificio sono i valori cui si ispirano le opere raccolte, che siano disegni, dipinti o sculture.
Nei primi anni del dopoguerra la forma utilizzata per ricordare la Resistenza era soprattutto quella delle mostre fotografiche e documentarie: il Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia (Clnai) e i comitati regionali italiani organizzarono numerose esposizioni già a partire dal 1945 [3]. Successivamente, alcuni comuni iniziarono a creare “sale” dedicate alla Resistenza all’interno delle sedi amministrative, in cui esporre documenti e cimeli. Non si trattava di veri e propri musei, quanto di archivi esposti con l’intento di mostrare il legame – fondativo – tra la nuova amministrazione post bellica e la Resistenza locale [4].
Via Tasso a Roma rappresenta un caso precoce di trasformazione dei luogo della violenza in museo: l’idea di realizzare in questo edificio, usato come carcere durante l’occupazione tedesca, un Museo storico della lotta di liberazione in Roma nasce immediatamente dopo la fine del conflitto, condivisa anche dalla proprietà dello stabile [5]. Inaugurato il primo nucleo già nel 1955, il museo invera una scelta di mantenimento e preservazione del luogo della violenza, divenuto luogo di memoria, collocandosi, ante litteram, nella categoria dei Memorial Museums [Williams 2008]. Un altro caso di trasformazione quasi immediata di un luogo coinvolto dalla violenza in museo è quello della casa colonica dove viveva la famiglia Cervi a Gattatico (RE), che diviene già dagli anni Cinquanta un luogo di pellegrinaggio laico [Anpi (ed.) 1963]. Come questi due esempi testimoniano, il museo, nei primi anni successivi alla guerra, veniva concepito come una raccolta «di cimeli dell’eroismo e della ferocia, cui il contenitore storico conferiva una sorta di sacralità» [Alessandrone Perona 1998, 139].
Ma la stagione in cui verranno realizzati maggiormente progetti di musei dedicati alla Resistenza e alla deportazione (di cui si sottolinea in particolare la matrice politica), fu quella successiva, di cui possono essere da esempio il Museo Monumento al deportato politico e razziale di Carpi (il cui concorso venne bandito nel 1962, per essere poi inaugurato nel 1973) e la Risiera di San Sabba a Trieste (1966-1975): è tra gli anni Sessanta e Settanta che vengono realizzati molti musei dedicati a questi temi, a cavallo tra la dimensione storica e quella di monito civile e politico [6]. Tra questi si colloca anche il Museo della Repubblica partigiana di Montefiorino, inaugurato nella Rocca che fu epicentro fondamentale di quella vicenda resistenziale, ma anche della storia di ampio corso di quel territorio montano a cavallo tra le province di Modena e Reggio Emilia. Registrando l’assenza di altre realizzazioni dedicate espressamente alla memoria delle repubbliche partigiane dell’Emilia Romagna (sotto forma di monumenti, memoriali, musei), il presente saggio cercherà di ricostruire la vicenda di questo museo, ripercorrendo i suoi successivi allestimenti e la progressiva elaborazione delle diverse memorie locali.
2. Montefiorino e le sue repubbliche
All’ingresso della Rocca di Montefiorino è affissa una grande lapide con incise queste parole:
Il 18 giugno 1944 / vinto l’ultimo presidio fascista / questa rocca / assurse a simbolo di libertà / Dalle vicine valli / dalle città dai campi di prigionia / a migliaia / giovani ribelli alla tirannide / qui accorsero / ad unirsi ai montanari / impugnando le stesse armi / per la libertà / la pace la giustizia / fra i popoli / perché cronaca e sangue non siano solo bronzo / sulla pietra dei monti / ma storia / nel cuore delle libere genti.
L’indicazione temporale è quella di un’unica data: il giorno in cui i partigiani occuparono la Rocca, allora presidio della Repubblica sociale, instaurando il proprio controllo su Montefiorino e la sua ampia area di pertinenza. L’assenza della data di conclusione di quell’esperienza su questo segno commemorativo induce ad alcune riflessioni.
La scelta sembra infatti sottendere l’intento politico di segnare una continuità tra quella prima esperienza amministrativa “libera”, nel senso di non più fascista, e la nuova gestione successiva alla liberazione. In questo senso fu emblematica la designazione, dopo le prime elezioni libere vinte dal Pci, di Teofilo Fontana come nuovo sindaco, che era stato nominato per quella stessa carica dalla Giunta popolare già nel giugno 1944. Ma potrebbe sussistere un’altra ipotesi sui motivi per cui a Montefiorino l’esperienza della repubblica partigiana venne immediatamente ricordata e celebrata nel dopoguerra [7].La peculiare vicenda di Montefiorino unisce sia il caso di una “zona liberata” che di una “zona (lasciata) libera”. L'esperienza della zona liberata dai partigiani il 18 giugno 1944, e amministrata direttamente, si concluse alla fine di luglio, con un duro rastrellamento nazista che portò alla dispersione dei vari gruppi di combattenti: una parte passò oltre il fronte per raggiungere gli alleati, una parte si disperse, la Rocca venne attaccata e incendiata. Dopo una fase di difficoltà, nell’autunno si ricostituì una rete di gestione da parte del comando partigiano di matrice cattolica, mentre quel territorio perdeva man mano crucialità nella mappa del conflitto.
Nel 1966 Ermanno Gorrieri, allora esponente del mondo sindacale e politico cattolico ma soprattutto uno dei protagonisti di quella vicenda resistenziale, pubblicò un corposo volume sulla Repubblica di Montefiorino, che si proponeva «di ricostruire i fatti nella loro realtà, sul piano della fedeltà storica, al di là delle rappresentazioni oleografiche, proprie di troppi scritti sulla Resistenza» [Gorrieri 1966, 5]. L’analisi di Gorrieri, molto dettagliata ma anche molto dura rispetto all’iniziativa partigiana e alla frammentazione dei diversi gruppi e comandi, evidenziò anche la successiva fase della gestione democratica di quel territorio, definendola “seconda Repubblica di Montefiorino”:
Il rastrellamento di luglio-agosto non aveva provocato la scomparsa delle Amministrazioni comunali nate durante la Repubblica di Montefiorino. Esse erano sopravvissute e avevano continuato a funzionare alla meglio, ciascuna per proprio conto, provvedendo alle attività essenziali nell'interesse delle popolazioni amministrate: prevalentemente, approvvigionamenti alimentari e assistenza [Gorrieri 1966, 545].
Gorrieri descrive come per tutto l’inverno del 1944 e la primavera del 1945 il Comitato di liberazione nazionale per la montagna (Clnm), esercitò la propria influenza e opera di governo sui quattro comuni partigiani modenesi: Montefiorino, Frassinoro, Polinago e Prignano. Secondo l’autore, mentre nella prima gestione partigiana del territorio la forma governativa non corrispose esattamente a una “repubblica” - l’autorità del comando partigiano rimase forte - in questa seconda fase funzionò, accanto al comando militare, anche un organo di governo civile [Gorrieri 1966, 545-566]. La sede principale di questa seconda gestione territoriale non si trovava più a Montefiorino, dove la Rocca era inagibile e probabilmente troppo “in vista” (anche sul piano del significato simbolico), ma nella località di Farneta, dove divenne operativo il tribunale e il comando centrale del nuovo corpo di polizia [Gorrieri 1966, 558].
Dopo la pubblicazione del volume di Gorrieri il suo punto di vista venne contestato, sollevando obiezioni relative a una lettura “di parte” dei fatti. In particolare, in un intervento al Convegno internazionale di Domodossola del 25-28 settembre 1969, Luigi Arbizzani e Luciano Casali negarono l’esistenza di una “seconda repubblica di Montefiorino”, partendo dal fatto che in quella fase si trattò non di “territorio libero partigiano” ma di zona lasciata libera [Arbizzani e Casali 1974]. Nell’appendice alla seconda edizione del proprio volume, Gorrieri esaminò e commentò la relazione dei due studiosi, i quali a loro volta replicarono [Arbizzani e Casali 1970]. In questo clima di acceso dibattito politico locale e, più ampiamente, di attenzione per il tema della repubbliche partigiane, nel 1970 il Comune di Montefiorino venne insignito della Medaglia d’oro al valor militare (la decorazione venne consegnata nel 1972) con la seguente motivazione: «Vessillifero della Resistenza fra numerosi comuni appenninici anticipava le libertà democratiche conquistando per primo a ‘Repubblica’ partigiana una vasta zona montana, sul tergo e a insidia di importante settore difensivo della linea gotica» [8].
3. Il museo di Montefiorino
L’idea di realizzare un “museo della Resistenza” a Montefiorino nasce all’inizio degli anni Settanta, nel clima dell’attribuzione della medaglia d’oro. Facevano parte del comitato promotore le amministrazioni comunali di Montefiorino, Modena e Reggio Emilia, le province relative, le sezioni provinciali dell’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi), dell’Associazione liberi partigiani italiani (Alpi), di orientamento cattolico, della Federazione italiana delle associazioni partigiane (Fiap), che raccoglieva la componente azionista, dell’Associazione partigiani cristiani (Apc) di Reggio Emilia, e degli Istituti storici della Resistenza di Modena e Reggio [Comune di Montefiorino 1979]. Un comitato che, così articolato, cercava di mostrare la realtà composita e di “crinale” della vicenda di Montefiorino: a cavallo tra due province e due visioni politiche, ma unitariamente antifascista.
Nel 1979 venne inaugurato il museo, realizzato al primo piano della Rocca. L’intento era quello di ricordare e documentare l’esperienza di quella che allora veniva considerata la prima zona conquistata e liberata dai partigiani in Italia durante l’occupazione tedesca. L’incarico venne affidato a Pietro Alberghi, insegnante comandato presso l’Istituto storico di Modena, che operò insieme ad Antonio Zambonelli, storico legato all’Anpi, incaricato dall’Istituto reggiano. Il museo venne costituito grazie a donazioni di singoli partigiani (armi, vestiario, equipaggiamenti).
Questo primo allestimento occupava cinque sale affacciate sul cortile interno, poste in linea: si accedeva alla sala centrale in cui campeggiava il perno dell’esposizione, ovvero un grande plastico del territorio, e poi si procedeva in un percorso circolare, da destra a sinistra, per tornare a uscire dallo stesso accesso. I materiali esposti nelle prime sezioni ripercorrevano il contesto storico e gli eventi che precedettero la repubblica partigiana: 1) la violenza squadrista (1920-1925), 2) gente e paesi del passato, 3) sotto il regime fascista (1926-1943), 4) caduta del fascismo (estate 1943), 5) l’occupazione tedesca. Nelle sezioni successive veniva focalizzato il tema delle operazioni partigiane ma anche degli eccidi in quell’area, partendo da una definizione del territorio della Repubblica di Montefiorino: 6) foto aerea, 7) prime azioni partigiane (ottobre 1943 – marzo 1944), 8) eccidi nazifascisti (marzo 1944), 9) la guerriglia (aprile-maggio 1944), 10) governo (giugno-luglio 1944), 11) distruzioni (luglio-agosto 1944), 12) governo (autunno 1944 – primavera 1945), 13) attività partigiana (autunno 1944 – primavera 1945), 14) eccidi e torture, 15) verso la liberazione, 16) festa grande d’aprile, 17) visioni del presente.
Spiccano nell’elenco delle sezioni due momenti di “governo”: uno che coincide con la cosiddetta “Repubblica dei quarantacinque giorni”, dal 18 giugno al 31 luglio 1944, e il secondo che fa riferimento alla più lunga fase di amministrazione democratica di quel territorio, rimasto ai margini del conflitto, da parte dei partigiani bianchi.
Nel 1994, in occasione del 50° anniversario, si decise di dare una nuova veste all’allestimento del museo, tenendo conto della previsione di un ampliamento degli spazi della Rocca dedicati a questa funzione: due nuove sale, infatti, verranno inaugurate due anni più tardi, nel 1996 [Silingardi 2005; Silingardi e Montanari 2006; Lenzotti 2009]. La cura scientifica dell’intervento venne affidata a Claudio Silingardi dell’Istituto storico di Modena, che si avvalse della collaborazione degli architetti Giovanni e Giulia Leoni per il progetto allestitivo. Significativa in particolare la scelta di usare materiali naturali (stoffa, legno, rame) e testi scritti a mano: l’idea sottesa è quella di mostrare la dimensione “umana” della vicenda resistenziale, la vita nei boschi, la povertà e precarietà. Il risultato desiderato era quello di un “avvicinamento” a quell’esperienza, presentandone, oltre che la dimensione militare e politica, anche gli aspetti relativi alla vita delle persone che fecero tale scelta.
Dal punto di vista dei contenuti, l’allestimento inaugurato nel 1994 aveva quattro sezioni: 1) la Resistenza nell’Appennino modenese-reggiano, 2) partigiani sulla linea gotica, 3) la zona libera di Montefiorino, 4) gli aspetti sociali della Resistenza. Le sale annesse due anni dopo costituivano le sezioni introduttive, essendo poste all’inizio del nuovo percorso: la prima era dedicata alla nascita della Resistenza in Italia, la seconda a un inquadramento delle zone libere e delle Repubbliche partigiane. Di fatto, questo riallestimento proponeva un più ampio approfondimento del contesto in cui era maturata l’esperienza locale. Alla trattazione storica del tema era stata aggiunta inoltre una sezione, curata dal poeta bolognese Roberto Roversi, in cui le parole dei partigiani condannati a morte erano state rielaborate in forma poetica [Roversi (ed.) 1995].
Nel 2009 il direttore del museo, Claudio Silingardi, insieme a Simona Bezzi, ha elaborato un progetto per un nuovo allestimento nel quale si prevedeva di potenziare la multimedialità (senza tuttavia dimenticare la natura di “museo di oggetti” propria di questo luogo) e soprattutto di ampliare il percorso alla dimensione europea. L’aspetto più interessante di questa ipotesi riguardava il processo di costruzione della memoria della Resistenza, che doveva essere affrontato inserendo una sezione di “storia della memoria”, in linea con le tendenze europee sul tema. Quest’ultima parte avrebbe dovuto estendersi nel primo piano della torre della Rocca, utilizzabile grazie al recente restauro. Si prevedeva anche di predisporre una segnaletica specifica per indicare le funzioni delle diverse parti della Rocca. Questo progetto non è stato tuttavia realizzato.
Dopo alcuni anni di chiusura, il Museo di Montefiorino è stato riaperto in occasione del 70° anniversario della Liberazione, con un nuovo allestimento il cui progetto storico è stato curato da Mirco Carrattieri e Fabio Manfredi in collaborazione con Vladimir Isailovic. Il nuovo allestimento si sviluppa sempre all’interno delle stanze in linea del primo piano, con l’aggiunta di ulteriori due sale. Le nove sezioni sono così articolate: 1) il fascismo, 2) la guerra fascista, 3) la scelta, 4) il civile, 5) il primo inverno e il ruolo delle donne, 6) verso il baratro, 7) le stragi, 8) le repubbliche di Montefiorino, 9) la Liberazione.
Nell’allestimento convivono multimedialità e oggetti: mappe interattive, archivi di immagini (in particolare il fondo Corti, già disponibile per la consultazione nell’allestimento del 1994) e registrazioni sonore sono giustapposte a teche contenenti gli oggetti della vita partigiana. Dal punto di vista tematico, emerge con evidenza come sia stato recepito il punto di vista di Gorrieri, tanto da unire le “due repubbliche” nella stessa sezione. Infine, un pannello interattivo mostra una mappa con tutte le diverse esperienze di repubbliche partigiane, zone libere e, nel caso del sud del paese, le repubbliche contadine; è presente anche una mappatura di tutti i segni commemorativi (più di 100 lapidi e cippi) collocati sul territorio della repubblica di Montefiorino.
Le sale della Rocca anche in quest’ultimo allestimento sono state lasciate abbastanza spoglie, leggibili nella loro materialità: uno degli elementi più caratteristici della vicenda di Montefiorino è proprio la centralità della Rocca nella storia di lungo periodo di questo territorio montano posto tra le valli Dragone e Dolo e la valle della Secchia. Costruita nel XII secolo dai Montecuccoli, signori della zona, passò successivamente ai Bonaccorsi e nel XV secolo agli Estensi. Simbolo del potere locale, dopo l’8 settembre 1943 la Rocca era presidio della Repubblica sociale italiana (Rsi): da qui esattamente tre mesi prima dell’avvento della repubblica, il 18 marzo, partirono addirittura dei cannoneggiamenti verso Monchio, la frazione posta sul versante opposto, dando avvio al massacro che quel giorno portò alla morte di 136 persone.
4. Monchio, una precoce strage di civili
All’interno delle diverse narrazioni museali della Repubblica di Montefiorino vi è stata sempre una parte dedicata alle stragi di Monchio, Susano e Costrignano, avvenute il 18 marzo 1944. Questa drammatica vicenda occupa infatti un ruolo importante sia per la reazione che suscitò nelle diverse compagnie di partigiani della zona, che, dopo quei fatti, rinsaldarono il proprio legame con il territorio, sia per la costruzione memoriale negli anni successivi alla fine del conflitto.
L’attacco nazifascista scattò in conseguenza ad alcuni scontri avvenuti nella seconda settimana di marzo tra partigiani, Guardia nazionale repubblicana (Gnr) e, successivamente, tedeschi. La miccia di quegli scontri era stato il bando di arruolamento che prevedeva la pena di morte per i renitenti. All’alba del 18 marzo iniziò un lancio di bombe dagli spalti della Rocca di Montefiorino, allora sede della Gnr, diretti contro i nuclei abitativi posti sul versante opposto. Questa operazione spinse la popolazione, impossibilitata a fuggire lontano, a nascondersi nelle cantine o a trovare riparo nei boschi: all’arrivo delle truppe tedesche – formate in parte dalla gendarmeria, in parte da compagnie della divisione “Hermann Göring” – iniziò un durissimo rastrellamento in cui vennero uccisi soprattutto gli uomini, ma in certi casi intere famiglie, comprese le donne e i bambini di pochi anni, incendiate le case, razziati o abbattuti i capi di bestiame, colpendo duramente le tre frazioni [9]. Se l’obiettivo di questa operazione era stato quello di togliere l’appoggio della popolazione ai partigiani, ottenne in realtà la reazione opposta: dopo un primo momento di crisi, le forze partigiane locali ripresero i combattimenti, spinte anche dal desiderio di vendicare «l’insensatezza e le proporzioni del massacro» [Fantozzi 2006, 437].
Non va però dimenticato il difficile rapporto tra la popolazione della montagna e i partigiani: le azioni di guerriglia esponevano gli abitanti alle conseguenze, spesso terribili. Nel caso delle stragi del 18 marzo bisogna tuttavia sottolineare l’assenza di precedenti noti di rappresaglia: si tratta di una “precoce” strage di civili, dato che l’eccidio delle Fosse Ardeatine avvenne il 24 marzo ed erano ancora lontani i drammatici rastrellamenti dell’estate e dell’autunno 1944 in Versilia e nell’appennino tosco-emiliano [10]. Dopo la fine del conflitto la strage venne dimenticata, rimanendo viva solo nella dimensione privata della comunità colpita. Montefiorino restò il comune di afferenza della frazione di Monchio: mentre la memoria della Repubblica assunse un forte rilievo, anche a livello nazionale, quella della strage rimase a lungo un fatto poco più che familiare e comunitario.
Sui luoghi, il primo segno commemorativo venne posto nel 1950 quando un cippo con incisi i nomi delle vittime fu eretto nella piazzetta di Monchio (rinominata “Piazza Caduti”). A Costrignano venne realizzato un monumento per le vittime nel 1955, posto sulla strada provinciale; infine a Susano molto più tardi, nel 1975. Il punto di svolta avvenne nel 1958, quando fu costituito il nuovo Comune di Palagano, nella cui area di pertinenza rientrarono anche le frazioni colpite dalle stragi del 18 marzo 1944: il cambiamento amministrativo determinò una nuova fase di costruzione della memoria pubblica. Dalla metà degli anni Sessanta si moltiplicarono le iniziative in ricordo delle stragi: nel 1964, ventennale della strage, si costituisce il Comitato degli orfani che successivamente promosse la creazione di un parco dedicato alle vittime – denominate “caduti” –, istituito poi nel 1969: in un’area verde posta sotto alla chiesa e alla canonica di Monchio (danneggiate nell’attacco) furono piantumati 136 abeti; nel 1972 al suo interno venne realizzata una fontana monumentale con quattro formelle raffiguranti scene della strage. Nel 1984 vi venne eretta una statua in vetroresina, il Cristo per la fratellanza dei popoli, opera di Romano Buffagni, sul cui basamento sono incisi i nomi delle vittime: all'inaugurazione intervenne Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro dell’Interno, primo esponente del governo italiano a recarsi a Monchio [Silingardi 2009, 179]. Nel 1991 la statua fu sostituita con una in bronzo e quella originale donata alla città di Częstochowa, dove è stata collocata nei pressi del Santuario della Madonna Nera.
Il quadro dei progetti memoriali per l’area venne completato con gli interventi presso Monte Santa Giulia, soprastante Monchio e teatro di numerosi scontri durante la guerra: negli anni Settanta nasce il Parco della Resistenza di Santa Giulia ed è al suo interno che, in occasione del 50° anniversario delle stragi nel 1994, viene creato il Memorial, riprendendo l’esperienza del Simposio della scultura di Fanano animato da Italo Bortolotti (1990). Con il suo coordinamento, vengono invitati a inviare un progetto scultori italiani e stranieri (Miguel Ausili, Raffaele Biolchini, Jean T. Cassamajor, Francesco Cremoni, Rami Gavish, Quinto Ghermandi, Wang Kuo Hsien, Renzo Margonari, Yoshin Ogata, Graziano Pompili, Dino Radulescu, Pinuccio Sciola, Paolo Sighinolfi). Venne così realizzato il Memorial: 14 monoliti in pietra scolpita, disposti in cerchio all’interno del parco in un punto pianeggiante rivolto verso la vallata, le cui forme vogliono evocare valori di pace [Teodoro 1993].
Da questa breve cronologia di segni memoriali emerge come il carattere degli interventi sia stato prevalentemente improntato su valori religiosi, vicini alle posizioni politiche della popolazione della montagna, tradizionalmente “bianca”, o comunque rivolti a istanze di pace e conciliazione. Il principale fautore delle iniziative fu il parroco don Luigi Braglia, sopravvissuto al massacro nascondendosi tra le travi della copertura della chiesa, le cui memorie hanno tramandato la descrizione della strage e della distruzione che ne derivò. La costruzione della memoria locale venne così strutturata sulla linea del “perdono”, contrapponendosi anche alla retorica resistenziale portata avanti a livello politico regionale e nazionale. Tuttavia, la comunità locale ha a lungo sofferto il mancato riconoscimento della violenza subita da parte delle istituzioni nazionali: il fatto che la strage non venisse nominata nelle motivazioni per l’attribuzione della Medaglia d’oro al valor militare a Montefiorino è stato solo parzialmente risarcito dal riconoscimento, nel 1998, di una eguale onorificenza, ma bronzea, al Comune di Palagano per i fatti del 18 marzo 1944, nella cui motivazione non sono neppure citate le località colpite [Fantozzi 2006].
5. La memoria di un territorio
La vicenda delle stragi di Monchio, Susano e Costrignano appare profondamente legata a quella della repubblica di Montefiorino sia dal punto di vista storico che nella costruzione memoriale. Per alcuni decenni la memoria dei fatti della Resistenza ha catalizzato l’attenzione ufficiale, pubblica, storiografica, mentre il ricordo della strage non è riuscito a travalicare la dimensione privata. Questo aspetto riproduce una dinamica memoriale diffusa: ad esempio, è stato dibattuto e approfondito il caso della memoria della strage di Monte Sole, in cui la dimensione dell’attacco ai civili è stata assimilata e “assorbita”, nella retorica ufficiale, alla lotta partigiana [Baldissara e Pezzino 2009; Ventura 2016]. La consapevolezza della natura di attacco alla popolazione (prevalentemente uomini nel caso di Monchio, ma altrove, come a Monte Sole e a Sant’Anna di Stazzema, anche e soprattutto donne, bambini, anziani) spesso è maturata solo dopo i processi, avvenuti a grande distanza dai fatti a causa dell’“archiviazione provvisoria” dei fascicoli giudiziari a Palazzo Cesi, occultati e ritrovati solo nel 1995 (nel cosiddetto “armadio della vergogna”) [Giustolisi 2004; Buzzelli, De Paolis e Speranzoni 2012; Speranzoni 2014].
Il caso di Monchio è peculiare anche da questo punto di vista: la sua conoscenza era labile già nell’immediato dopoguerra, quando vennero raccolti i materiali relativi all’indagine. Poche e scarne notizie, in cui persino la localizzazione della frazione “Monchio” destava problemi [Fantozzi 2006, 429-432]. Il procedimento per i fatti del 18 marzo 1944 si è infine aperto nel 2005, arrivando a sentenza nel luglio 2011 con la condanna all’ergastolo per sei ex militari nazisti, ribadita in Cassazione. Tuttavia, in questo caso come in tutti quelli analoghi, la sentenza è rimasta inapplicata a causa della scelta, da parte della Germania, di non concedere l’estradizione né i risarcimenti alle vittime [11]. D’altra parte, questo processo, come quelli relativi ad analoghi casi di stragi nazifasciste, ha avuto un importante ruolo nella costruzione della consapevolezza da parte delle vittime di avere subito violenza: un “risarcimento” morale il cui significato personale e sociale non deve essere sottovalutato.
Alle vittime, infatti, spesso viene chiesto di concedere il proprio perdono prima ancora che i colpevoli dimostrino di avere compreso la propria colpa [Baldissara e Pezzino (eds.) 2004; Id. (eds.) 2005]. Questo cortocircuito si può vedere anche nel caso delle stragi del 18 marzo 1944, per le quali la retorica politica ha costruito una narrazione “sacrificale” (il sacrificio delle popolazioni locali in nome della guerra partigiana) e quella ecclesiale, invece, una sublimazione volta al perdono (inneggiando alla fratellanza e all’amore fra i popoli). Dall’iconografia della Pietà per evocare la guerra e la Resistenza, si è passati all’immagine del Cristo redentore: ma se le madri, in questa guerra, sono morte quanto e come i figli, quel Cristo ha le braccia rivolte al cielo, più che in un abbraccio verso gli uomini. L’esperienza della guerra – e della violenza – moderna travalica i canoni iconografici tradizionali.
Bibliografia
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Monchio 18 marzo 1944. L’esempio, Modena: Artestampa - Focardi F. 2005
La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari: Laterza - Gibertoni R., Melodi A. 1993
Il Museo Monumento al Deportato a Carpi, Milano: Electa - Giustolisi F. 2004
L’armadio della vergogna, Roma: Nutrimenti - Gorrieri E. 1966
La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna: il Mulino - Lenzotti S. 2009
La zona libera di Montefiorino. Luoghi della Resistenza nell’Appennino modenese-reggiano, Modena: Artestampa - Leoni G. (ed.) 1990
Trentacinque progetti per Fossoli, Milano: Electa - Luppi M. e Ruffini E. (eds.) 2005
Immagini dal silenzio. La prima mostra nazionale dei Lager nazisti attraverso l’Italia 1955-1960, Carpi: Nuovagrafica - Mignemi A., Solaro G. (eds.) 2005
Un’immagine dell’Italia. Resistenza e ricostruzione. Le mostre del dopoguerra in Europa, Milano: Skira - Mucci M. 1999
La Risiera di San Sabba. Un’architettura per la memoria, Gorizia: Libreria editrice Goriziana - Mucci M. 2015
Il monumento ‘assurdo’ della Risiera di San Sabba a Trieste (1966-75), “Engramma”, 123 - Paggi L. 2009
Il “popolo delle morti”. La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946), Bologna: il Mulino - Paggi L. (ed.) 1996
Storia e memoria di un massacro ordinario, Roma: Manifestolibri - Paggi L. (ed.) 1999
Le memorie della Repubblica, Firenze: La Nuova Italia - Paggi L. (ed.) 2005
Stragi tedesche e bombardamenti alleati. L’esperienza della guerra e la nuova democrazia a San Miniato (Pisa). La memoria e la ricerca storica, Roma: Carocci - Paladini A. 1986
Via Tasso: carcere nazista, Roma: Istituto poligrafico e Zecca dello Stato - Pane C. 2011
Sguardi incrociati sulle mostre dell’immediato dopoguerra in Francia e in Italia: rappresentazioni e poste in gioco delle relazioni internazionali, in Casalena M.P. (ed.) 2011, Luoghi d’Europa. Spazio, genere, memoria, Bologna: Archetipo - Parisella A. (ed.) 2013
Via Tasso: da carcere a Museo. Album del Museo storico della Liberazione, Roma: Museo storico della Liberazione, 2013 - Pezzino P. 1997
Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna: il Mulino - Pezzino P. 2008
Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna: il Mulino - Piraccini O., Serpe G. e Sibilia A. (eds.) 1995
La premiata Resistenza. Concorsi d’arte nel dopoguerra in Emilia-Romagna, Bologna: Grafis - Pirazzoli E. 2014
I quarant’anni del Museo Monumento al deportato di Carpi, “E-Review”, 2 - Rovatti T. 2004
Sant’Anna di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944, Roma: DeriveApprodi - Rovatti T. 2009
Fra politiche di violenza e aspirazioni di giustizia. L’esperienza di guerra della popolazione civile vittima delle stragi di Monchio e Tavolicci (1943-1944), Roma: Carocci - Roversi R. (ed.) 1995
Siamo andati sui monti più alti, Modena: Istituto storico della resistenza e di storia contemporanea - Schwarz G. 2010
Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, Torino: Utet - Silingardi C. 2005
Museo della repubblica partigiana di Montefiorino. Guida storica, Modena: Artestampa - Silingardi C. 2009
Alle spalle della linea gotica. Storie, luoghi, musei di guerra e Resistenza in Emilia-Romagna, Modena: Artestampa - Silingardi C. e Montanari M. 2006
Storia e memoria della Resistenza modenese, Roma: Ediesse - Speranzoni A. 2014
Le stragi della vergogna. Aprile 1944. I processi ai crimini nazifascisti in Italia, Roma: Editori Internazionali Riuniti - Stendardo G. 1965
Via Tasso. Museo storico della lotta di liberazione di Roma, Roma: Staderini - Teodoro C.F. 1993
Memorial Santa Giulia: sculture per la Resistenza, Modena: Ager - Testa M. 2011-12
Celebrare la Resistenza: il monumento di Umberto Mastroianni ad Alba, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino - Ventura A. 2016
I tempi del ricordo. La memoria pubblica del massacro di Monte Sole dal 1945 ad oggi [in corso di stampa] - Williams P. 2008
Memorial Museums: The Global Rush to Commemorate Atrocities, Oxford: Berg
Risorse
- Museo della Repubblica di Montefiorino e della Resistenza italiana
- http://www.resistenzamontefiorino.it
- Parco Santa Giulia - I luoghi della Memoria
- http://www.parcosantagiulia.it/storia/i-luoghi-e-la-memoria/
- Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia
- http://www.straginazifasciste.it
Note
1. Sulla complessa genesi di questo monumento si veda Testa 2011-12.
2. Si veda il catalogo della mostra: Arte e resistenza in Europa 1965.
3. Per la strategia di comunicazione del ruolo della Resistenza attraverso le mostre si veda Mignemi e Solaro (eds.) 2005; Pane 2011. Per un focus sulla regione Emilia Romagna, si veda Piraccini, Serpe e Sibilia (eds.) 1995.
4. Una “sala della Resistenza” è presente nei palazzi comunali di Alba e Domodossola, epicentri di esperienze di repubbliche partigiane. Nel caso di Domodossola, la Sala storica della Resistenza venne realizzata nel 1984 proprio dove tra il 9 settembre e il 22 ottobre 1944 si riunì la Giunta provvisoria di governo della Repubblica partigiana dell’Ossola; nel caso di Alba si tratta di una intitolazione e allestimento più recenti, essendo stata inaugurata il 25 aprile 1993. Più articolato il caso del Museo della Carnia libera, creato ad Ampezzo nel 2004, in una sala a piano terra di Palazzo Unfer, dove nell’estate-autunno del 1944 si svolsero le riunioni della Giunta di governo. Questa sala, concessa dal comune, è stata tuttavia disallestita nel 2013. Si veda http://www.carnialibera1944.it, dove è possibile anche scaricare il volume Alfaré 2006. Sale della Resistenza sono presenti anche in altri comuni come, ad esempio, Massa Carrara, città insignita di una medaglia d’oro al valor militare.
5. Sul museo romano si veda Stendardo 1965; Paladini 1986; Parisella (ed.) 2013. Il comitato che presiedette alla costituzione del museo scelse di conservare le tracce rimaste di quegli appartamenti trasformati in carcere: la carta da parati, le finestre murate e le piccole aperture di areazione, le scritte sui muri, mentre l’arredo e soprattutto l’archivio del comando SS erano stati distrutti dai nazisti in fuga e successivamente nei giorni della liberazione, quando l'edificio di via Tasso venne preso d’assalto.
6. Sul museo di Carpi, cfr. Gibertoni, Melodi 1993. Sui progetti per l’ex campo, cfr. Leoni (ed.) 1990. Sulla mostra dei Lager del 1955, da cui scaturirà la volontà di realizzare il museo, cfr. Luppi e Ruffini (eds.) 2005; Pirazzoli 2014. Sulla Risiera di San Sabba, cfr. Mucci 1999; Id. 2015. Nei decenni successivi vengono costituiti dei veri e propri musei, ognuno con la propria caratterizzazione relativa alle dinamiche (e, spesso, le epiche) resistenziali locali, senza riuscire tuttavia a elaborare una narrazione nazionale del tema [Alessandrone Perona 1998, 135-148]. Sull’evoluzione della memoria della Resistenza in Italia si veda anche Ballone 1997; Focardi 2005.
7. Tuttavia, questo avvenne non senza tensioni, causate dalla divisioni politiche, come testimoniato dall’episodio avvenuto in occasione del decennale. Le celebrazioni furono promosse solo dall’Anpi: il Comune di Montefiorino, allora amministrato dalla Democrazia cristiana, non permise l’ingresso all’interno della Rocca per la deposizione delle corone di fiori, facendo trovare il portone chiuso [Silingardi 2009, 176].
8. Il testo integrale è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, del 15 maggio 1970.
9. Per un approfondimento si vedano Alberghi 1969; Fantozzi 2006. Per una riflessione sul rapporto tra popolazione e combattenti, e sull’evoluzione di questo stesso rapporto, cfr. Rovatti 2009. Alle stragi in area modenese seguì, il 20 marzo, la strage di Cervarolo, frazione in territorio reggiano.
10. Il complesso rapporto tra partigiani e popolazione civile si riverbera sulle memorie dei fatti. In molti casi si delineano “memorie divise”, che vanno analizzate puntualmente, approfondendo contesti e relazioni esistenti in quel dato territorio. Gli storici, soprattutto a partire dagli anni Novanta, hanno affrontato le difficili memorie delle stragi, con particolare attenzione per i casi toscani: cfr. Battini e Pezzino 1997; su Sant’Anna di Stazzema, Rovatti 2004, Pezzino 2008, Di Pasquale 2010; su Civitella, Paggi (ed.) 1996, Contini 1997; su Guardistallo, Pezzino 1997; sul peculiare caso di San Miniato, Paggi (ed.) 2005. Più in generale si veda Paggi (ed.) 1999, Id. 2009. Per il caso Monte Sole/Marzabotto, si veda oltre. L’analisi dei fatti ha fatto emergere come le operazioni tedesche fossero spesso indipendenti dagli interventi e dall’aggressività dei partigiani presenti, e dettate prevalentemente da azioni di “pulizia del territorio” o di ritirata aggressiva. Il progetto dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste (www.straginazifasciste.it), curato da Anpi e Insmli e recentemente andato in rete, mostra come il numero di queste azioni sia estremamente alto, delineando un modus operandi bellico.
11. Sulla questione dei risarcimenti si veda il dibattito seguito alla sentenza n.238/2014 del 22 ottobre 2014 della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto il diritto di chiedere il risarcimento per danni derivanti da crimini di guerra.