La Grande guerra fece segnare un evidente salto di qualità nel controllo dei settori economico-produttivi da parte dell’apparato pubblico statale. Svanita la speranza che il conflitto sarebbe stato di breve durata, tutti i governi dovettero infatti riorientare in tempi rapidi la propria struttura produttiva al fine di poter sostenere in modo adeguato lo sforzo bellico messo in campo dai propri eserciti.

L’obbiettivo di realizzare una efficiente mobilitazione industriale determinò alcuni significativi mutamenti di rotta rispetto alle politiche economiche precedenti. Di fatto, le tradizionali dinamiche del mercato vennero sospese, in buona sostanza alterate: lo stato divenne l’unico committente e, contestualmente, il solo acquirente di quanto veniva realizzato in numerosi settori produttivi che direttamente o indirettamente vennero impiegati per accrescere la capacità d’urto delle singole forze militari in campo. La quota di prodotto destinata allo stato, che alla vigilia della guerra non superava mediamente il 20%, fece registrare un notevole e progressivo incremento: in Germania, nel 1917 arrivò a superare la soglia del 70%; in Gran Bretagna, tradizionalmente considerata patria del liberismo, lo stato giunse a coprire quasi il 50% della domanda di quanto veniva prodotto dal settore secondario; negli stessi Stati Uniti, entrati in guerra solo nel 1917 e quindi protagonisti di una mobilitazione industriale più contenuta e meno intensa di quella messa in atto dai paesi belligeranti europei, la quota statale raggiunse il 22%.

L’economia di guerra determinò anche evidenti alterazioni degli equilibri tra i diversi settori industriali e un accentramento della manodopera all’interno di quegli stabilimenti considerati particolarmente strategici. In particolare, alcuni comparti, come quello metallurgico e meccanico, conobbero una crescita rapida e decisamente accentuata. In Italia, la produzione di acciaio si ampliò fino a raggiungere 1.332.000 tonnellate nel 1917, un quantitativo superiore del 42% rispetto all’ultimo anno di pace; mentre alcune fabbriche metalmeccaniche fecero registrare un incremento della manodopera di proporzioni inimmaginabili: il numero degli addetti impiegati nella Fiat passarono da 4.000 a 40.000; l’Ansaldo di Genova (chiamata a produrre anche cannoni e proiettili) vide salire la propria manodopera da 10.000 a 40.000 unità; mentre la fabbrica d’armi presente a Terni, che alla vigilia del 24 maggio 1915 occupava 2.000 operai, toccò quota 7.000 addetti. A tal proposito, va sottolineato che il 70% della forza lavoro dell’industria bellica si concentrava all’interno degli stabilimenti del cosiddetto “triangolo industriale” (Milano-Torino-Genova) o nelle poche isole industriali poste al di fuori di esso: Terni, Piombino, Firenze, Sestri Ponente.

La  necessità di controllare e rendere produttivamente efficienti quanti più rami economici possibili determinò anche una forte crescita e un’evidente espansione degli apparati burocratici statali finalizzati a tale impellenza. In Italia, la produzione di interesse bellico venne sottoposta al controllo e alla gestione del Comitato centrale per la mobilitazione industriale, struttura burocratica dipendente dal Sottosegretariato (divenuto nel 1917 Ministero) delle Armi e munizioni e presieduta dal generale Alfredo Dallolio, personaggio energico, in seguito definito il “dittatore” della condotta economica della guerra (Luigi Einaudi), che riuscì a ridurre lo svantaggio iniziale del nostro paese in termini di bocche da fuoco e munizioni. Il ministero gestiva direttamente gli “stabilimenti ausiliari” (quelli dunque considerati di speciale interesse bellico) e il resto della produzione facendo ricorso ai comitati regionali, al cui interno era prevista la rappresentanza del governo, degli imprenditori e degli stessi lavoratori. In realtà, la capacità di manovra di questi organismi periferici era assolutamente marginale, in considerazione del fatto che il regime di mobilitazione industriale aveva da subito assunto un’impronta centralistica e autoritaria. Venne infatti messo in atto un pervasivo sistema di controllo e repressione in grado di produrre una sorta di militarizzazione degli “stabilimenti ausiliari”, al cui interno le maestranze videro ridursi i propri diritti: vennero proibiti i trasferimenti e inasprite le sanzioni disciplinari.

Lo sviluppo della industria bellica fu così imponente che gli “stabilimenti ausiliari” passarono da 125 nel 1915 a 1.976 nell’ultimo anno di guerra. Nel 1918 questi opifici arrivarono a occupare 903.250 lavoratori, di cui 198.000 donne e 70.000 minori di 16 anni. In termini percentuali, il 35,7% della manodopera industriale era costituita da esonerati e militari comandati; il 33% erano operai borghesi; il 28,6% donne e ragazzi, il 2,1% prigionieri, detenuti, profughi; infine, lo 0,6% era costituito da operai della colonia libica.

Questi dati rinviano a un altro aspetto saliente dell’economia di guerra, ossia l’alterazione della tradizionale composizione della manodopera. Con la partenza per il fronte di milioni di uomini, centinaia di migliaia di donne furono infatti occupate – nonostante la pubblicistica dell’epoca che le avrebbe volute comunque confinate in spazi domestici – nelle industrie impegnate nella produzione di armi e munizioni, nella confezione dei capi di abbigliamento per i militari, nei trasporti pubblici e nel terziario in generale. Secondo alcune stime, se le donne occupate nell’industria bellica furono, come già ricordato, circa 200.000, quelle attive nella realizzazione del vestiario militare furono 600.000, mentre le tranviere furono almeno 3.200. Una presenza, almeno per quel che riguarda le operaie, che risultò ancora più evidente in ragione della loro partecipazione agli scioperi, che passò dal 34,4% del 1915 al 64,2% nel 1917, per poi scendere al 45,6% del 1918. Anche all’interno del settore agricolo, il ruolo delle donne, la cui presenza era sempre stata “invisibile”, difficile da censire, venne nel corso del periodo bellico chiaramente riconosciuto.

Dato questo quadro di riferimento generale, l’intervista a Fabio Degli Esposti propone un’analisi degli effetti che la guerra ebbe sull’assetto produttivo regionale, sia industriale che agricolo (quest’ultimo tradizionalmente più marginale nelle ricostruzioni che affrontano il tema delle economia di guerra nel corso del primo conflitto mondiale), mettendo in evidenza le peculiarità di questo contesto rispetto ad altre aree nazionali.

L’Emilia Romagna, considerata il “granaio d’Italia”, era un’eccezione, all’interno di un paese che non era autosufficiente per quanto concerneva la produzione cerealicola e che era costretto a importare dall’estero questo alimento base della popolazione. Come evidenzia Degli Esposti, le risorse prodotte nella regione furono sufficienti a mantenere standard di vita soddisfacenti per gli abitanti e parte degli sforzi delle amministrazioni locali venne destinata proprio a mantenere in loco le risorse, anche in contrasto con una logica “solidaristica” nazionale promossa dal governo centrale.

Un altro aspetto caratteristico della regione rimanda al tema della produzione industriale, ovvero la presenza, su tutto l’asse della via Emilia, di importanti fabbriche che producevano proiettili e di stabilimenti operanti in altri settori utili allo sforzo bellico. Gli stabilimenti produttivi dell’area emiliano-romagnola furono sottoposti inizialmente al Comitato regionale di mobilitazione industriale Veneto-Emilia, con sede a Bologna, che iniziò la propria attività nell’ottobre del 1915. All’indomani del decreto luogotenenziale 9 settembre 1917, n.1512, che portò il numero dei comitati da sette a undici, la regione ricadde sotto la competenza del Comitato Emilia, che conservò la propria sede nel capoluogo regionale.

La mobilitazione riguardò innanzitutto il nucleo degli stabilimenti dichiarati «ausiliari», ma anche le unità produttive che, pur non ricevendo tale qualifica, erano comunque sottoposte a controlli da parte degli organi del comitato e di quelli militari, in quanto la loro attività era considerata essenziale ai fini dello sforzo bellico: si trattava delle cosiddette imprese con “maestranza requisita” e di quelle “assimilate”.

Allo sforzo bellico parteciparono in area emiliano-romagnola più di 240 stabilimenti privati, disseminati in tutta la regione e sottoposti ad un rigido controllo militare. Un terzo di queste fabbriche, per lo più di piccole e medie dimensioni, era concentrata nell’area bolognese. In particolare si segnalavano officine meccaniche convertite alla produzione di proiettili, aziende chimiche, elettriche e del gas, imprese dei settori tessile, del cuoio e del legno, oltre a realtà riconducibili al settore agricolo, come gli stabilimenti idrovori e i consorzi di bonifica. Non mancarono anche imprese private di grandi dimensioni, come la Sigma (Società italiana generale munizioni ed armi) di Bologna, creata ex novo da Max Bondi, industriale che era giunto alla guida del gruppo siderurgico Ilva, oppure come i proiettifici di Modena e Reggio Emilia.

Accanto a queste industrie private, esisteva anche un nucleo molto consistente costituito da alcuni importanti stabilimenti statali, gestiti direttamente dal Ministero della guerra e dunque esclusi dall’attività di controllo e di indirizzo del Comitato regionale di mobilitazione Industriale. Ricordiamo, a Bologna, il Laboratorio pirotecnico (che durante la guerra arrivò a occupare circa 12 mila persone), il Carnificio di Casaralta e la Direzione d’artiglieria, che aveva due nuclei produttivi principali concentrati nella zona dei Prati di Caprara e di Casaralta. Queste imprese rappresentavano le più rilevanti della regione, almeno in termini di numero di addetti, ma restano ancora piuttosto sfumate nei loro contorni.

La manodopera femminile nelle fabbriche emiliano-romagnole divenne sempre più rilevante. Nell’estate del 1918, le donne negli stabilimenti ausiliari e non ausiliari erano 7.000 unità, pari al 29% della manodopera complessiva regionale. Se in termini assoluti questa presenza non raggiunse mai i livelli del “triangolo industriale”, l’incidenza percentuale risultò superiore a quella di molte altre regioni italiane. Inoltre accanto all’aumento del bacino della forza lavoro femminile impiegata in fabbrica, va anche segnalata una visibilità prima sconosciuta, conseguente all’ingresso delle donne in settori di importanza strategica come quello della produzione di proiettili.

In generale, la dilatazione della sfera d’azione dello stato in campo economico e i processi di concentrazione realizzati durante la guerra contribuirono fortemente a segnare la storia dell’industria italiana e, in parte, di quella emiliano-romagnola. Sugli esiti e le implicazioni di questo sviluppo, tuttavia, ancora molto resta da indagare, come rileva Degli Esposti in questa intervista rilasciata a “E-Review”.