Diversi mesi fa ho avuto la fortuna di vedere, quasi per caso, lo spettacolo teatrale Viva L'Italia. Le morti di Fausto e Iaio. Ho così scoperto che il testo di partenza, che aveva ricevuto la menzione speciale Franco Quadri al Premio Riccione 2011, è stato scritto da Roberto Scarpetti, mentre lo spettacolo è diretto da César Brie e prodotto dal Teatro dell'Elfo. L'opera mi è sembrata interessante da molti punti di vista, a cominciare dalla proposta, non certo disimpegnata, di raccontare una storia usando con sapienza tutti gli strumenti a disposizione del narratore, senza timore di mescolare finzione e verità storica.

A 35 anni dall'assassinio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci (18 marzo 1978), andare a teatro è stata un'occasione per riflettere su un fatto che conoscevo solo a grandi linee e che fra gli omicidi politici di quella stagione è forse uno dei meno ricordati. Eppure neanche 15 anni fa si sono concluse le tortuose vicende giudiziarie del caso, con l'archiviazione del procedimento a carico di tre ex-esponenti della destra neofascista romana, accusati di aver fatto parte del gruppo che uccise i due studenti milanesi.

Le scelte narrative, l'attenzione ai particolari e l'ottima resa teatrale mi hanno spinto a coinvolgere autore e regista in un'unica intervista, per cercare di sollecitarli sugli aspetti che più mi avevano colpito. Non da ultimo, la differenza di età fra i due: nel 1978, Roberto era un bambino, mentre César militava nei centri sociali milanesi.

Negli ultimi tempi, si è scritto molto sugli anni Settanta, abbandonando in parte alcuni stereotipi che li vogliono anni “di piombo” (solo) per le pallottole. È senz'altro un bene, perché si ha la sensazione di uscire da un discorso pubblico monopolizzato da chiacchiere che hanno finito per intorpidire le nostre capacità riflessive. Guardando il vostro spettacolo mi sono subito incuriosito al tipo di letture e di incontri che vi hanno portato verso Fausto e Iaio.

Roberto Scarpetti Ho cominciato a interessarmi agli anni Settanta mosso da una doppia motivazione. Innanzitutto quella di capire cosa fosse successo nel periodo più buio dell'Italia repubblicana, un decennio che corrisponde alla mia infanzia, tutt'altro che buia. Questo mi ha spinto a crearmi una consapevolezza, seppur a posteriori, sul periodo storico nel quale sono nato. Ho sempre visto gli anni Settanta come un momento attraversato da un grande fermento, da un attivismo e una coscienza politica e sociale diffusa in larghissimi strati della società. Negli anni Ottanta tutto ciò era stato completamente cancellato, dimenticato, mentre come adolescente avrei desiderato vivere e sperimentare quello stesso fervore. Perché non era più possibile? Cosa era accaduto? Cosa ne era stato degli ideali, del pensiero degli anni Settanta?

Così, prima ancora di interessarmi alla vicenda di Fausto e Iaio, ho cominciato a leggere – forse un po' a caso – libri come Insurrezione armata di Grandi [Grandi 2005], La tela del ragno di Flamigni [Flamigni 1988], Vent'anni dopo di Vacca [Vacca 1997] o i volumi dei collettivi di allora La strage di Stato [1971] o Il silenzio di Stato [Comitato di documentazione antifascista (ed.) 1978]. Quando ho sentito parlare per la prima volta della morte di Fausto e Iaio sono rimasto immediatamente colpito. Qualcosa che smuoveva la mia coscienza e le mie emozioni e che, solo col tempo, sono riuscito a mettere a fuoco. La loro morte è il punto di contatto tra la mia infanzia felice e gli anni di piombo, è la maturità negata, la morte di una generazione destinata a non crescere, a rimanere adolescente. Ed è anche la risposta che cercavo alla fine dell'attivismo e della coscienza politica diffusa: gli ideali possono ucciderti, forse è molto meglio non averne, in maniera davvero molto superficiale e individualista.

Prima di cominciare a scrivere, ho poi letto testi come: Fausto e Iaio, la speranza muore a diciotto anni [Biacchessi 1996]; le raccolte Fausto e Iaio, trent'anni dopo [Associazione familiari e amici di Fausto e Iaio (ed.) 2008] e Che idea morire di marzo [1978]; Corpi di reato [Adriano e Cingolani 2000]; tutti gli articoli di Mauro Brutto su “L'Unità” del '78; Neri, la storia mai raccontata della destra radicale, eversiva e terrorista [Caparra e Semprini 2009]. A queste letture si aggiungono le conversazioni con chi questa storia l'ha vissuta sulla propria pelle. Maria Iannucci, sorella di Iaio, è stata così aperta da raccontarmi fatti intimi e privati su come questa tragedia ha inciso sulla sua famiglia. In fondo, quello che cercavo era una verità intima e psicologica, più che una verità di cronaca. Tutto ciò sarebbe stato impossibile senza l'aiuto di Maria. Oltre a lei, preziosi sono stati Danila Tinelli, madre di Fausto, che ho incontrato solo un paio di volte, e Ivano Vallese, con cui ho ripercorso i luoghi degli eventi di quel 18 marzo.

César Brie Gli anni di piombo sono una definizione che non condivido. Insieme al piombo, e molto più del piombo, c'erano migliaia di giovani che cercavano di prendere in mano il proprio destino. A Milano c'erano più di cento centri sociali occupati, ma quando l'amministrazione (di sinistra) ha fatto il proprio rapporto, ne ha nominati soltanto due: quelli comunali.

[[figure caption="Murale del 2007." align="right" width="400px" fancybox="true"]]articles/media/68/mignini_2014_01.jpg[[/figure]]

Venivamo definiti estremisti e chiamavano covi i nostri centri, quando invece facevamo una attività culturale importantissima su un terreno totalmente abbandonato dalle istituzioni. Certo che si conviveva con settori più violenti e si litigava anche aspramente. Io litigavo con quelli del Comitato antifascista che avevano una piccola stanza al centro sociale dove si riunivano e dalla quale uscivano per andare a fare i servizi d’ordine alle manifestazioni dei gruppi stalinisti a cui appartenevano, con fazzoletti sul volto e bastoni nelle mani. Ma la vita dei centri sociali la facevamo noi, organizzando feste popolari, raduni d’immigrati, serate di cinema, teatro, musica, dibattiti, scuola popolare e asilo autogestito, corsi, letture di poesia e davamo spazio a gruppi rock, femministe, pensionati o organizzavamo campionati di calcio coi ragazzini. Quella era l'attività vera e profonda dei centri sociali. Oggi sembra che siano stati covi in cui si organizzava la connivenza con la lotta armata. Chi ha fatto la scelta di entrare in un gruppo violento, lo ha fatto in silenzio, senza dirlo, appartandosi e scomparendo. Certo avevamo una cultura di sinistra che non abbiamo criticato a fondo. Ma nelle nostre assemblee potevi dire tutto quello che pensavi e dissentire senza problemi. Per decidere sulle azioni e il resto, poi, si votava. Convivevamo con pensieri diversi e spesso in disaccordo, ma questo non ci impediva di fare le nostre attività e di dare spazio a tutti.

In Italia, per di più, si doveva anche fare conti con un fascismo strisciante che aveva occupato molti luoghi nel sociale mutando nome e partito. Non ci dimentichiamo che erano gli anni, da un lato, della spartizione della torta pubblica tra i grandi partiti (specie Dc e Psi) e, dall'altro, dei feudi del Pci che non tollerava presenze alla propria sinistra e quindi ci diffamava più degli altri. Noi eravamo molto critici dei metodi staliniani o dell'idea del partito unico, anche se avremmo dovuto fare meglio i conti con il rapporto tra legalità, illegalità, giustizia e forza. Chi faceva la scelta della lotta armata per noi era un «compagno che sbagliava», non un terrorista. È questo un nodo che non siamo riusciti a sciogliere. In qualche modo i violenti, cioè persone che hanno fatto attentati e ucciso innocenti, erano nel nostro album di famiglia.

La ricchezza dell'intreccio fra vostre motivazioni personali e scavo nelle memorie altrui mi sembra anche la necessità di leggere un passato che non è solo testimonianze. La sensazione è di trovarsi di fronte a una narrazione che non vuole chiudersi nei canoni del teatro civile cui siamo abituati, senza paura di mettere in primo piano l'umanità di chi ha vissuto quei fatti. Nonostante l'accento sulla profondità umana, è stato notato che il vostro spettacolo è «un susseguirsi di pannelli», monologhi dove «a nessuno dei personaggi viene concesso a lungo il privilegio di un confronto umano» (M. Giovannelli, “Alfabeta2”, 19 aprile 2013). In realtà, il lavoro di Roberto parte da cinque monologhi e si trasforma nel complesso intreccio di un racconto tragicamente umano. Come ci siete riusciti, che percorso avete fatto?

R.S. La prima cosa che ho scritto su Fausto e Iaio è stato un soggetto per un film. Il testo teatrale può essere considerato un adattamento molto elaborato di questo soggetto, almeno per quanto riguarda la struttura narrativa. Ho scelto la forma del monologo perché mi sembrava adatto a raccontare dei personaggi “monadi”, appartenenti a mondi che si sfiorano senza mischiarsi. Personaggi fantasmi. L'idea che fossero dei morti a raccontare la storia mi sembrava giusta per comunicare il senso di morte diffuso nella storia, che non è solo la morte di Fausto e Iaio. Bisogna comunque capirsi parlando di struttura e riscrittura del testo. I monologhi erano già intrecciati tra loro in una complessa drammaturgia. Gli interventi di César non hanno intaccato la struttura precedente, César ha tagliato delle scene e mi ha chiesto di riscrivere o correggerne altre da cui aveva estratto parti di dialogo da brani in terza persona, già presenti nei monologhi.

C.B. Il testo di Roberto è bellissimo ma al tempo stesso molto difficile da mettere in scena. L'albero, ad esempio, non era presente nel testo. Avevo da poco fatto un seminario all'aperto, attorno a un albero, e così l'ho usato. Avevamo immaginato Angela chiamare Iaio bambino per farlo scendere dall'albero per scoprire poco a poco che è la madre di un morto e una specie di ricordo. Quando sono andato in via Mancinelli, ho visto l'albero dell'oratorio, a dieci passi dal luogo della loro esecuzione. L'ho detto a Roberto e lui ha scritto il pezzo con cui si apre lo spettacolo. Ho amato Roberto per la sua disponibilità e sensibilità. Non è comune che un autore modifichi la sua opera. Lui lo ha fatto e gliene sono grato.

Abbiamo dialogizzato alcuni momenti, eliminato quello che appariva meno adatto alla scena. Lui ha riscritto dei pezzi, modificato altri e in pochissimi casi siamo arrivati al braccio di ferro, trovando sempre una soluzione che ci mettesse d'accordo. Per me, il testo della solitudine del fascista che torna in treno dopo aver ucciso è un capolavoro. Nella regia ho cercato di sottolineare quella solitudine mettendo la vittima appoggiata all'assassino. Come fosse accarezzato dalla sua colpa.

Uno degli elementi più interessanti dell'opera è senza dubbio la scelta dei soggetti narranti. Come sono stati scelti? In particolare come avete trattato quello che ritengo l'aspetto fra i più potenti e spiazzanti di tutto lo spettacolo, cioè la coppia Angela/Fausto? È noto, infatti, che la madre di Iaio si sia sempre sottratta a ogni esposizione pubblica del proprio dolore, cosa che avete evidenziato molto bene anche voi nel passaggio sul funerale.

R.S. Fausto è un personaggio complesso. Lui apre lo spettacolo e poi scompare. Deve raccontare la sua morte, ma deve anche dare tantissime suggestioni. È attraverso lui – le parole che usa, le cose che racconta – che passa il sapore degli anni Settanta. Sin dall'inizio ci guida in un tempo passato, mentre racconta come viene ucciso e parla delle sue speranze, dei suoi sogni di ragazzo che si affaccia alla vita. Volevo che chiunque vedesse lo spettacolo – non solo chi già conosceva la storia – rimanesse toccato, sconvolto. Non so quanto ci sia riuscito, ma di certo i brani di Fausto sono quelli su cui ho rimesso le mani più volte prima della stesura definitiva.

I monologhi di Angela, invece, sono stati i primi che ho scritto e mi hanno richiesto un tempo relativamente breve. Probabilmente sono stati i più semplici da scrivere, a parte un brano che ho totalmente riscritto dopo un racconto di Maria Iannucci. Eppure, nel vedere e rivedere lo spettacolo, mi sembrano (insieme a quelli di Giorgio) i più riusciti. Credo che questa semplicità di scrittura nasca dal fatto che Angela e Giorgio non portino avanti la storia, ma rappresentino solo pensiero ed emozione. Sono la parte più intima di tutto lo spettacolo.

C.B. Parlando di Angela… beh io mi sono trovato davanti una attrice bravissima. Quel ruolo le veniva naturale. Ho soltanto dovuto aiutarla. La scena del funerale l’abbiamo inventata con Roberto in sala. L'elemento scenografico è fondamentale: il telone che si alza, la fa apparire e poi la ingoia, come se uscisse al sole dalla chiesa e poi rientrasse in una tomba. È una pietà in due tempi: la madre prima si appoggia alle persone come se ognuno fosse il figlio che sta cercando e poi, nel ripetere l'azione, rifiuta quel contatto, come attorniata da una folla di sconosciuti. Questo sta nel testo di Roberto ed è stata un'immagine fulminante, perché sembrava scritto per quelle azioni. Dopo la prima volta che Alice (Redini, l'attrice, ndr) aveva improvvisato seguendo queste indicazioni, avevamo tutti le lacrime. Era giusto così.

[[figure caption="Fausto e Angela." align="left" width="400px" fancybox="true"]]articles/media/68/mignini_2014_03.jpg[[/figure]]

R.S. Ho scelto di mettere in scena Angela, e non Danila (madre di Fausto, ndr), perché volevo che questa storia diventasse paradigmatica di quegli anni. Volevo che Fausto e Iaio arrivassero a rappresentare tutte le morti violente degli anni Settanta. Partivo da una storia vera, ma dovevo rielaborarla e renderla letteraria. Dovevo stare lontano dalla militanza e Danila era una figura troppo esposta: la mamma antifascista, l'attivista che lotta per la verità. Io avevo bisogno del privato, di emozione e tormenti, non delle rivendicazioni. Avevo bisogno di Angela, della sua fragilità di donna che si vergogna del modo in cui suo figlio è stato ucciso. Trovo questo molto toccante, senza alcun giudizio. Il dolore può assumere mille forme e nessuna di queste può essere giudicata. Una volta trovata la chiave per entrare in Angela – per me la disperazione di non ricordare l'ultima volta che ha visto suo figlio: è un pomeriggio come tanti, lui esce di casa dopo pranzo, ha diciott'anni e lei non può immaginare che non lo vedrà più, non c'è motivo perché non torni… – scrivere il suo monologo è stato davvero come esser preso da un flusso.

E quali difficoltà narrative ha invece posto il personaggio, scivolosissimo, di Giorgio (l'ex-NAR che preme il grilletto, ndr)?

R.S. La difficoltà di scrivere di Giorgio è stata trovare la chiave per entrare nella sua testa. Sono di sinistra, non amo la violenza, non potrei mai fare quel che ha fatto lui. Come potevo immedesimarmi nei panni di un neofascista? Però volevo raccontare l'altra parte, assolutamente. Non volevo lasciarli nell'ombra, figure minacciose ma irreali. E la chiave è stata Fausto. Giorgio e Fausto sono uguali, in un certo senso… Fausto e Iaio vengono uccisi insieme, sono destinati a essere ricordati insieme: per me rappresentano quell'amicizia maschile tardo-adolescenziale che ti porta a vivere in simbiosi col tuo miglior amico. Diventa più di un fratello. Così anche Giorgio fa tutto per Darione, uno dei tre membri del commando, fino ad uccidere. È un personaggio senza una vera coscienza. È infantile, superficiale, istintivo. E così, la violenza del personaggio viene fuori dalla lingua. Una lingua quasi irreale, giocata su un romanesco rielaborato, dove alcuni verbi rimangono in italiano, ma molte parole assumono una forma dialettale. Un romanesco che ho cercato di creare conoscendo anche le zone, non certo popolari, da cui provenivano i neofascisti, quartieri colti in cui se si parlava in dialetto lo si faceva per necessità di essere violenti, minacciosi. Giorgio non è il romano simpatico che qualsiasi cosa dica «fa ride'»: è un romano le cui parole assumono il peso della violenza.

[[figure caption="Giorgio e Fausto." align="right" width="200px" fancybox="true"]]articles/media/68/mignini_2014_05.jpg[[/figure]]

Il vostro lavoro è pieno di richiami documentari inseriti in maniera puntuale e attenta: la voce incredula dello speaker di Radio Popolare, le immagini del corpo di Moro, i nomi dei morti della stazione di Bologna… sembra sia all'opera il desiderio di poter affermare e raccontare una storia vera, dove – per usare una coppia concettuale cara agli storici – il finto non è falso. Mi sbaglio?

C.B. Io ho accettato di fare questa regia – la mia prima volta –  perché parlava di un'epoca con cui volevo fare i conti, che avevo vissuto ma sulla quale non avevo riflettuto. I richiami a Radio Popolare erano già nel testo e io ho cercato di aggiungere immagini di quegli anni. Della strage di via Fani, per esempio, si mostrano sempre le foto delle macchine e i corpi coperti da lenzuola. Ho cercato fotografie e biografie di quei poveracci uccisi e ho voluto che avessero nome e volto. Lo stesso coi nomi della stazione di Bologna richiamata nel testo negli ultimi minuti di vita di Salvo. La foto del cadavere di Moro è preceduta da un campo fiorito e finisce con una landa desolata. E gli attori (e spero anche gli spettatori) fermi di fronte a questo istante che cambiò la storia d'Italia. Moro fu sacrificato da tutti. Non soltanto dai suoi diretti aguzzini.

[[figure caption="Proiezione del fotogramma del ritrovamento Moro in scena." align="left" width="400px" fancybox="true"]]articles/media/68/mignini_2014_02.jpg[[/figure]]

R.S. Già nel testo avevo inserito i frammenti radiofonici, non tanto per rimarcare la veridicità della storia, quanto per dare ancora di più il sapore dell'epoca, per calare maggiormente il pubblico in quella realtà. Credo che questa storia, a prescindere da come venga raccontata, sia così forte che non serva insistere sul fatto che sia vera. Anzi, il contrario. Tanto è vero che César, oltre a inserire le immagini di quegli anni, ha sentito la necessità di sottolineare, a fine spettacolo, che non si tratta di un lavoro documentaristico, ma di un testo di finzione basato su fatti reali.

Fausto ci racconta passo passo come si avvicina ai suoi assassini; Angela segue il filo dei ricordi ripercorrendo le tappe del suo pomeriggio; Giorgio prepara la sua vendetta… tutti pezzi di verità che insieme alle indagini di Meli e Brutto sembrano comporre un puzzle gigantesco e complicato. Il processo di ricostruzione storica e memoriale reclama la partecipazione anche di chi è in platea, quasi a voler costruire un significato collettivo per una storia che coinvolge tutti. Non avete avuto paura, a tratti, di volare troppo in alto?

C.B. Roberto ha fatto un lavoro di indagine su cui ha sostenuto la sua finzione. Questa finzione permette di dire il vero e, chi vuole, può arrivare in dieci minuti ai nomi dei colpevoli per cui non si hanno abbastanza prove. Io ho seguito quest'aspirazione etica di Roberto e mi sono appassionato. Ho cercato di fare una lista coi nomi di tutte le vittime di quegli anni. Non sono riuscito a completarla. È un lavoro in corso. Cerco di farla con precisione, chiarendo ruoli e circostanze. Mi scontro, però, con le verità delle parti che omettono. Il libro bianco di Napolitano, ad esempio, non nomina Pinelli, assenza grande come un macigno, ma nomina Calabresi. I memoriali di sinistra, invece, sottraggono quest'ultimo alla lista…

R.S. Perché volare alto? Non stiamo facendo una controinchiesta, non apriamo le porte di un teatro per un convegno o lezione sugli anni Settanta, non raccogliamo firme per riaprire un caso. Stiamo facendo uno spettacolo teatrale, niente di più (o niente di meno), e credo che in quanto tale possa essere fruito in tanti modi diversi. Può esser visto senza una coscienza politica, senza conoscere il periodo. Sta allo spettatore farsi (o non farsi) domande, durante o dopo la visione. A Milano abbiamo fatto col Teatro dell'Elfo matinée per le scuole. Ho potuto assistere a una di esse: ragazzi tra i 16 e i 18 anni hanno seguito attentamente lo spettacolo, senza stancarsi o annoiarsi. Forse non sapevano nulla degli anni di piombo, forse hanno cominciato a porsi qualche domanda. Sta a loro.

Da Bologna ho fatto attenzione ai rumori in sala mentre scorrevano i nomi delle vittime del 2 agosto 1980. Parlandone con alcuni amici sui cinquant'anni ho avuto la sensazione che, fuori da alcune “cerchie”, Fausto e Iaio si perdano nei meandri della memoria. Non accade con Francesco Lorusso (studente di Lotta Continua assassinato da un carabiniere in via Mascarella nel 1977, ndr). Mi sono divertito ad immaginare come ogni battuta abbia assunto sfumature diverse a Milano o altrove. Quanto sono definite o sfumate, secondo voi, queste differenze geografiche?

R.S. Ho visto lo spettacolo solo a Milano e Bologna, quindi non ho idea di come sia stato accolto in altre città. Però anche per me Fausto e Iaio erano dei perfetti sconosciuti fino a qualche anno fa. A Roma non sono entranti nella coscienza collettiva come a Milano. Qui sono altre le vittime del terrorismo che vengono ricordate, come Valerio Verbano o Ivo Zini, solo per citarne alcuni. Ogni città ha le sue vittime.
Ma non credo che sia questa la cosa importante. Questo spettacolo non è un omaggio a Fausto e Iaio e non intende smuovere l'interesse solo di chi conosce la loro storia. Come detto prima, per me la loro morte rappresenta le morti di tutte le vittime degli anni di piombo. Non perché una storia valga un'altra, ma perché la loro, dal mio punto di vista, è paradigmatica. È come se da via Mancinelli si fosse aperto un buco nero nel quale sono entrati molti dei misteri e punti oscuri dell'Italia di quegli anni.

C.B. A Roma hanno rifiutato di programmare lo spettacolo perché dicevano che erano «storie milanesi». A me sembra cecità. Viva l'Italia è un sunto degli ultimi anni Settanta in tutta Italia. Certo, due agnelli sacrificali non pesano negli altari interessati, non servono a nessun credo politico. Perciò Iaio e Fausto resteranno a lungo tra noi, perché nessuno li può utilizzare. Esiste un atteggiamento che non condivido tra gli artisti cioè quello di usare genericamente un periodo storico. Qualora si vada a toccare un dolore ancora vivo, penso si abbia l'obbligo di documentarsi ed essere precisi, anche in una finzione. Dare nome, volto, precisare, cogliere le sfumature, restituire agli italiani un’immagine privilegiata di eventi persone e fatti che diventino così esemplari, questo fa parte delle nostre responsabilità come artisti.

Mi piacerebbe, infine, che venisse fuori un grande assente: il Partito Comunista. Sappiamo che è lì, conosciamo il suo ruolo nella storia repubblicana, le enormi difficoltà nel confrontarsi con la galassia della «nuova sinistra». Eppure, sembra non essere fra i vostri obiettivi porre delle domande sul peso specifico del Pci in quelle vicende. Come mai?

[[figure caption="Il giornalista de L'Unità Mauro Brutto (giacca marrone, secondo piano) parla con un informatore." align="right" width="400px" fancybox="true"]]articles/media/68/mignini_2014_04.jpg[[/figure]]

C.B. Il Pci è stato obiettivamente il grande assente nei centri sociali milanesi. Non lo abbiamo escluso noi, lui non c'era. La droga che ha distrutto il tessuto giovanile è stata osteggiata da noi con attività che davano spazio alle persone che vivevano situazioni di disagio a casa, a scuola, sulla strada. Abbiamo perso quella battaglia… Ed è stata una battaglia che, a mio avviso, il Pci non ha mai nemmeno iniziato nei quartieri di Milano. Almeno non nei circoli e realtà che frequentavo io. Immagino che nelle fabbriche, nelle scuole e in altre città siano stati proprio giovani legati al Pci a portare avanti quelle stesse battaglie, come magari hanno fatto anche degli onesti democristiani, dei cristiani veri. Nel mio piccolo, invece, ho visto il Pci cercare di chiuderci, di negarci, di ignorare la nostra esistenza. La critica dello stalinismo e del partito unico non è stata mai fatta sino in fondo. E non sarà mai fatta. Deve venire dall'esterno dalle istituzioni nate da quell'humus. Deve venire fuori dai partiti stessi. La logica confutazionale, per cui le mie idee devono distruggere le tue – e non sommarvisi – fa parte di un retaggio che è in realtà l'atto di nascita dei partiti politici nella rivoluzione francese: «un partito al governo, gli altri in prigione».
Oggi ne è passata di acqua sotto i ponti: si convive con idee e partiti diversi, si chiamano avversari politici, non nemici, chi appartiene a un'altra struttura, ma secondo me bisogna tornare a riflettere sui movimenti che dovrebbero sostituire i partiti.


Bibliografia

…Che idea, morire di marzo: le poesie, le lettere, i ricordi per Fausto e Jaio 1978
Milano: CopTE
Adriano P. e Cingolani G. 2000
Corpi di reato: quattro storie degli anni di piombo, Ancona: Costa & Nolan
Associazione familiari e amici di Fausto e Iaio (ed.) 2008
Fausto e Iaio, trent'anni dopo: raccolta di scritti, documenti, testimonianze per non dimenticare, Milano: Costa & Nolan
Biacchessi D. 1996
Fausto e Iaio: la speranza muore a diciotto anni, Milano: Baldini & Castoldi
Caparra M e Semprini G. 2009
Neri, la storia mai raccontata della destra radicale, eversiva e terrorista, Roma: Newton Compton
Comitato di documentazione antifascista (ed.) 1978
Il silenzio di stato, Roma: nuove edizioni operaie
Flamigni S. 1988
La tela del ragno: il delitto Moro, Roma: Edizioni Associate
Grandi A. 2005
Insurrezione armata, Milano: BUR Futuropassato
La strage di Stato: controinchiesta 1971
Roma: Samonà e Savelli
Vacca G. 1997
Vent'anni dopo: la sinistra fra mutamenti e revisioni, Torino: Einaudi

Risorse on line

Pagina FB Viva l’Italia, le morti di Fausto e Iaio - César Brie
https://it-it.facebook.com/VivaLItaliaLeMortiDiFaustoEIaio
Archivio audio su Fausto e Iaio di Radio Popolare (1978-1988)
http://www.radiopopolare.it/archivio/archivioaudio/faustoeiaio
Dossier-controinchiesta a cura del Centro Sociale Leoncavallo
http://www.ecn.org/leoncavallo/faja
Scheda Reti Invisibili
http://www.reti-invisibili.net/faustoeiaio
Intervista a Maria Iannucci di Francesco Barilli e intervento di Danila Angeli, Reti Invisibili
http://www.reti-invisibili.net/faustoeiaio/articles/art_5883.html
Puntata radio a tema di Vanloon (Il Caso S.) in onda su Radio Città Fujiko
http://www.casoesse.org/2014/05/22/vanloon-fausto-e-iaio