Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: «allorché», «prima che» e «dopo che»!

R. Musil, L’uomo senza qualità [trad. A. Rho]

La Resistenza come tema letterario è stata oggetto di un’articolata riflessione da parte della critica. Il quadro definito nel corso degli anni è risultato particolarmente mosso: diverse le cause, non ultima l’alterna vicenda della fortuna riservata a quella che va sotto il nome di narrativa neorealista [1]. In anni recenti, Adriano Ballone ha posto in rilievo il focus della questione, chiosando come «ormai» siano «molte le ragioni che contribuiscono a rendere incerta, se non problematica, una puntuale (e rassicurante) definizione del rapporto tra letteratura (storia e critica letteraria) e Resistenza (storia della Resistenza e storia tout court)» [Ballone 2001, 711]. Bisogna precisare. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta e poi nel corso degli anni Ottanta, da una parte «ragioni politiche e ideologiche» e dall’altra «ragioni storiografiche e più propriamente letterarie» (come la presa di distanza di molti dal neorealismo) determinarono una certa disaffezione verso l’esperienza della narrativa resistenziale. E proprio mentre la «storiografia avviava una radicale revisione della storia sulla Resistenza» la letteratura sembrò «disinteressarsi» delle vicende partigiane [Ballone 2001, 711 e 718] [2]. In tempi a noi più vicini, si è registrato, di contro, un ulteriore mutamento di tendenza che ha visto, da parte degli scrittori, una vivace ripresa di curiosità e attenzione verso i temi resistenziali [3]

Per avere migliore intelligenza dello svolgimento nel corso degli anni del dibattito inerente il rapporto tra letteratura e Resistenza mette conto riprendere celebri pagine dedicate da Italo Calvino alla cosiddetta «letteratura resistenziale». Tali scritti, dalla spècola privilegiata di un’importante voce della contemporanea civiltà letteraria italiana, sono in grado, per noi, di registrare – a diverse altezze cronologiche – alcune tappe della ricezione di quel rapporto. Innanzitutto, bisogna richiamare alla mente l’articolo intitolato La letteratura italiana sulla Resistenza, apparso sul primo numero della rivista “Il movimento di liberazione in Italia”. Siamo nel luglio del 1949. In esso lo scrittore introduceva alcuni importanti distinguo, poi di riferimento per le successive elaborazioni della critica. Sul piano concettuale, Calvino sottolineava come un «bilancio» delle opere letterarie italiane sulla Resistenza dovesse tenere conto del fatto che il giudizio cambiava di molto a seconda che ci si ponesse «dal punto di vista della Resistenza o da quello della letteratura». E riconosceva che seppure mancasse ancora un’opera in grado di rappresentare la Resistenza, attraverso di essa la letteratura si era, nondimeno, arricchita di «qualcosa di nuovo e necessario» [Calvino 1995a, 1492].

Fatto precipuo, poi, era che «i risultati» raggiunti dalla letteratura della Resistenza si ritrovavano «in opere di poca mole, poesie e racconti». La poesia era divenuta «una parola di coro, tutta sentimenti ed echi». Quanto al racconto partigiano, «che forse un giorno avrà posto in un capitolo della nostra storia letteraria, come le cronache garibaldine del secolo scorso», esso si lasciava interpretare come un «interessante fenomeno di ‘letteratura di massa’ quale l’Italia non ne conosceva forse (esclusa la tradizione poetica dialettale) dall’epoca dei poemi cavallereschi e della novellistica classica» [Calvino 1995a, 1494-95] [4]. Sul piano propriamente letterario, Calvino insisteva, invece, circa le  differenze esistenti tra la generazione degli «scrittori partigiani» e quella dei «partigiani diventati scrittori». L’elemento, tuttavia, che, su tutti gli altri, emergeva con forza dal discorso, era il realizzarsi nella letteratura resistenziale «d’un denominatore comune tra lo scrittore e la sua società, l’inizio d’un nuovo rapporto fra i due termini»: «sia che lo scrittore partecipasse direttamente alla lotta, sia che semplicemente subisse l’invasione e i suoi pericoli insieme alla sua gente, egli riuscì a trovare l’innesto tra i problematismi suoi e il sentimento collettivo e lo scriver non poteva presentarglisi ora che in funzione ‘anche’ di quest’ultimo» [Calvino 1995a, 1493]. E tale cifra aveva permesso alla letteratura di ripristinare «il desanctisiano ufficio di specchio della coscienza morale e civile della nazione» [Calvino 1995a, 1494]. Per avere precisa contezza del senso di queste parole, si deve prestare ascolto all’inquadramento fattone da Andrea Battistini, quando ricordava come «in quegli anni di ardori neorealistici» il rapporto tra «fatto storico» e sua «trascrizione letteraria» veniva fondato «quasi esclusivamente in funzione artistica, nel senso che la guerra partigiana avrebbe giovato a rinsanguare di forti contenuti civili una prosa e una poesia divenute esangui rispettivamente a causa dello svagato rondismo e delle solipsistiche monadi liriche dell’ermetismo» [Battistini 1997, 8-9]. 

Assai significativo anche il secondo dei tre interventi di Calvino sul tema, qui presi in considerazione: si tratta dell’importante prefazione del 1964 alla riedizione de Il sentiero dei nidi di ragno [Calvino 1991, 1186-87] [5]. Innanzitutto, l’autore spiega la genesi del romanzo raccordandola a un bisogno diffuso di narrare il tragico vissuto:

L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie [Calvino 1991, 1185-86].

Questa letteratura si definisce – nell’ottica di Calvino – come ritorno all’oralità: suo fondamento, infatti, era quell’insieme di racconti che gli uomini della Resistenza e, in genere, le popolazioni che vissero tale esperienza, svolgevano nelle soste in montagna, nei rifugi dei centri urbani, in tutte le terre toccate dalla guerra e dalla lotta di liberazione. In questa oralità è un intero popolo a riscoprire le sue radici profonde contro la ventennale retorica del regime fascista e a ritrovare – allora – lo spirito della comune genitura in seno a un orizzonte che tutti vedeva accarnati da un unico senso di solidale fratellanza. In seconda battuta, lo scrittore si diffonde sull’humus spirituale nel quale affondavano le radici le scritture resistenziali, e dunque certa narrativa neorealistica: «Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco […]» [Calvino 1991, 1186]. Il passo – superbo – merita la citazione:

la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere [Calvino 1991, 1186-87] [6].

Il vissuto diventava allora anche un problema di poetica – «come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo» [Calvino 1991, 1187]. Ed emergeva, all’intersezione tra ricerca storica – intesa anche quale recupero di memoria diretta – e invenzione/rappresentazione letteraria, la dialettica tra verità e letteratura, nonché un autentico bisogno di sceverare le «ragioni elementari» di una «società semplice»: «la continua nostra polemica contro tutte le immagini mitizzate, la nostra riduzione della coscienza partigiana a un quid elementare, quello che avevamo conosciuto nei più semplici dei nostri compagni, e che diventava la chiave della storia presente e futura» [Calvino 1991, 1197] [7]. A queste bisogna correlare altre, successive pagine di Calvino, come invitava a fare lo stesso Ballone nel suo essai. Nel mutato clima a cui si è fatto rapido cenno, aspra, infatti, fu l’analisi che di quei lontani intenti di scrittura il letterato offrirà in un saggio – questo è il terzo intervento che rievochiamo – della fine degli anni Settanta: Usi politici giusti e sbagliati della letteratura [Calvino 1995b]. L’autore ricordava, allora, a distanza di tempo, come il desiderio dei letterati – negli anni Cinquanta – di «rappresentare la coscienza etica e sociale dell’Italia contemporanea» era stata attaccata, e con successo, nel corso del decennio successivo sia sul «fronte della forma letteraria» sia sul fronte «della critica politicamente più impegnata» [Calvino 1995b, 353] [8].

I tre scritti di Calvino mostrano alcuni dei principali termini di un dibattito che si rinfocolava lungo gli anni, per ragioni diverse. In realtà, i problemi erano e sono ancora molti, e riguardano vari aspetti. Già la diffusione e l’uso nel lessico italiano della stessa parola Resistenza (con il significato di «lotta di liberazione») era stato lento e non immediato, e solo dopo il 1945 entrò – non senza problemi – nel patrimonio linguistico diffuso e condiviso [9]. Proprio nel dopoguerra si affacciò poi, acuta, l’esigenza di un «rinnovamento» sociale da parte degli intellettuali e si fece sentire l’urgenza del tentativo di definire una «nuova cultura» improntata sull’«impegno (era stato Jean Paul Sarte a ricorrere, per primo, alla parola chiave di «engagement»): una cultura che allora si mostrasse capace di «cambiare il mondo», chiamando gli scrittori a una partecipazione attiva verso i concreti quesiti della propria epoca [Leonelli 2000, 689-97; T. Iermano e E. Ragni 2000, 729-67] [10]. E questo rinnovato spirito riverberò nei dibattiti che all’epoca si accesero sul ruolo della letteratura nelle società: la «letteratura come vita», ecc. Ma c’è di più.

Complessa infatti si mostrava, nello specifico, la costellazione di scritture – memorie, racconti, romanzi d’argomento partigiano – che già all’indomani della liberazione, dal vivo della drammatica esperienza resistenziale, si proponevano di raccontare i fatti accaduti, in anticipo sulla storiografia bisognosa di tempi più lunghi per analizzare documenti, ricostruire rigorosamente fatti, decantare significati da incollanare in quadri interpretativi organici. Questa situazione articolata si complicò ulteriormente – lo si è visto – nel corso degli anni, grazie al vario contributo dei letterati e alle numerose e accese discussioni da parte di critici e studiosi. Oggi la bibliografia relativa alla letteratura resistenziale è assai vasta. E il suo scrutinio arduo [11]. Cosa si deve intendere allora per letteratura della Resistenza? Quale il suo specifico letterario? Quali scritti possono essere annoverati in un suo regesto? Quali gli autori?

Si deve a Mario Saccenti un tentativo interessante di definire l’orizzonte entro cui interpretare la letteratura della Resistenza: «non solo la letteratura di protesta e di opposizione al nazifascismo sviluppatasi nel pieno della seconda guerra mondiale e durante l’occupazione tedesca della penisola, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945, ovvero ispirata a situazioni ed eventi di quel periodo, ma anche tutta la letteratura variamente antifascista del periodo anteriore, a partire dallo stesso sorgere ed affermarsi del fascismo in Italia». La letteratura della Resistenza comprenderebbe dunque

tanto la letteratura di battaglia, di propaganda di riflessione ed elaborazione etico-politica, di immediata e scoperta testimonianza civile e umana, quanto la letteratura d’invenzione operante in senso antifascista negli anni del fascismo (travestendo di materia favolosa e grottesca la propria sostanza, ponendo l’accento sulle condizioni delle plebi meridionali e sui ceti diseredati, avviando modi d’arte realistica non senza suggestioni di letterature straniere), e, dopo la caduta del fascismo, mirante a rivivere quei tempi di oppressione e violenza, di attività clandestina e infine di lotta armata e insurrezione con gli occhi della memoria, in una rilettura poetica dei fatti, in una ricezione fantastica che associa il verosimile col vero. E sarà letteratura, quest’ultima, non puramente celebrativa né astrattamente contemplativa, ma a sua volta vivamente documentaria, nella costante adesione ai contenuti e ai valori «resistenziali», e al tempo stesso per sua interna vitalità destinata in parte notevole a superare il contingente [Saccenti 1986, 598] [12]

Una simile delimitazione semantica fa illanguidire anche la distinzione fra «letteratura della Resistenza» e «letteratura sulla Resistenza», «riservandosi l’ultima dizione con sempre maggior frequenza, e con maggior chiarezza, alle analisi strettamente ‘scientifiche’, ai lavori critici e storiografici degli studiosi di generazioni postresistenziali, e svincolati da precisi significati o intenti letterari» [Saccenti 1986, 598-99] [13]. Ma qualche ulteriore precisazione è ancora possibile. Alberto Asor Rosa, ad esempio, invita a operare un’altra distinzione tra «letteratura della Resistenza» e «Resistenza della e nella letteratura», intendendo con la prima «quelle forme della letteratura che hanno preso ad oggetto della propria ricerca temi, argomenti, episodi della Resistenza», e con «Resistenza della e nella letteratura», quelle «forme della letteratura» che senza realizzare «o intenzionalmente o per motivi di anticipazione cronologica», una «identificazione così compiuta con le vicende resistenziali», «si pongono però il problema, l’obbiettivo di preparare il terreno o di tirare delle conclusioni soprattutto da un punto di vista culturale e ideale» [Asor Rosa 1997, 95]. Lo studioso individuava, poi, alcune generazioni di scrittori. Fra i primi possono essere collocati autori come Romano Bilenchi (1900), Carlo Levi (1902), Alberto Moravia (1907), Elio Vittorini e Cesare Pavese (1908), Vasco Pratolini (1913), fra i secondi, Beppe Fenoglio (1922) e Italo Calvino (1923):

È la seconda generazione, comunque, che fa l’esperienza diretta della guerra. La prima, per motivi anagrafici o altro, la guarda più da lontano. In essa, fra l’altro, coesistono intellettuali che hanno scoperto precocemente l’antifascismo (ricorderò il confino di Levi e di Pavese) e altri che hanno avuto una relativamente lunga incubazione nel movimento fascista (Bilenchi, Vittorini, Pratolini). Tra le due generazioni, e non solo per motivi anagrafici, stanno scrittori come Fortini, Cassola e Bassani. Questi fanno in tempo ad attraversare l’esperienza traumatica della guerra (come soldati, come partigiani, come perseguitati razziali), ma non fanno in tempo ad arrivarci con le idee già chiare e con una produzione già definita. Tra la prima e la terza generazione si manifestano modi diversi di intendere anche il rapporto con la recente tradizione letteraria novecentesca. Si potrebbe dire, molto sommariamente, che nella prima prevale una linea di continuità e nella seconda una di rottura e d’innovazione, soprattutto sul piano delle buone intenzioni. Stilisticamente e linguisticamente la prima generazione ha già compiuto la sua formazione letteraria nel corso degli anni trenta; l’altra invece la compie, in condizioni difficilissime, negli anni della guerra e del dopoguerra [Asor Rosa 1997, 96] [14].

È alla «terza generazione» che – secondo Asor Rosa – s’adatta la categoria di «letteratura della Resistenza»: in questo caso «alla volontà di rappresentazione di fatti totalmente nuovi, come quelli scaturiti dalla recentissima esperienza resistenziale, per di più vissuta in molti casi in maniera diretta, da protagonisti, s’accompagna un programma esplicito (non sempre, però, chiaro e persuasivo) di mutamento dei principali statuti letterari fino a quel momento più in voga» [Asor Rosa 1997, 97] [15].

All’interno dei movimenti resistenziali, un significato particolare assunse l’esperienza delle Repubbliche partigiane: «zone libere», sottratte provvisoriamente – nell’estate del 1944 – al controllo nazifascista e consegnate a un orizzonte di (provvisoria) riconquistata libertà [16]. E la letteratura offre un contributo al racconto non solo di fatti ad esse legati, ma del più profondo clima spirituale che ne informò il vissuto. Gianfranco Contini, che prese parte attiva alle vicende dell’Ossola, rievoca – con parole esemplari consegnate a una lettera a Gianfranco Corsini (21 agosto 1945) – il valore autentico di tale esperienza: «la faccenda dell’Ossola, in settembre-ottobre, fu una cosa molto umana e importante. Abbiamo vissuto nell’ossigeno della libertà – esperienza che è certo mancata a tutti gli altri italiani. Unanimità, entusiasmo collettivo, esaltazione» [17]. Si tratta di un «presente vissuto, e anzi moralmente delibato». Nelle parole del celebre filologo si percepisce – con evidenza – una «temperatura etica (e religiosa: la parola entusiasmo va intesa nel significato etimologico) tale da rintuzzare un argomento forte della storiografia revisionista: quello secondo cui le rade minoranze impegnate, nei venti mesi della guerra civile e nei primissimi anni della nuova Repubblica italiana, in un tentativo di palingenesi etica; di completa rifondazione dei costumi privati e pubblici, erano cupe minoranze di punitori di se stessi e del prossimo loro» [Bresciani e Scarpa 2012, 703-4].

Un altro testimone d’eccezione che ricordò quelle vicende «in Valdossola» fu Franco Fortini, nel 1943 sottotenente dell’esercito. Alla notizia della costituzione della «libera repubblica», tornò in Italia dalla Svizzera per partecipare agli eventi. Stralciamo una pagina esemplare, tratta dal suo diario, dedicata all’entusiasmo che si respirava in quei giorni felici:

Dovunque, una folla eterogenea, giornalisti, avventurieri, stranieri. In ogni angolo della città, una attività incredibile. Qui è riunito un gruppo di donne che discutono sul modo migliore di organizzare comizi di propaganda nei paesi della valle; in un altro locale una folla di ragazzi e ragazze deliberano sulle possibilità di raccolta di indumenti e viveri per l’inverno; nelle piccole tipografie della cittadina, che forse fino allora avevano composto carte da visita e manifesti per feste da ballo e cinema, si stampano proclami, ordinanze, bollettini, giornali politici; qui si trasforma in sede di partito il negozio d’un fascista scappato, là si aspettano o si commentano le notizie dalla linea, che recano auto infangate piombando a grande velocità in mezzo alla folla col loro carico di partigiani armati appesi alle portiere. Dappertutto, una eccitazione, una partecipazione […]. La sera, era possibile vedere folla attruppata davanti ad un cinema per sentir parlare un membro della giunta, Mario Bandivi (nome rinascimentale sotto il quale mi fu facile riconoscere quello di un nostro critico letterario): costui discorreva di Voltaire, di Diderot, dell’Enciclopedia, dinanzi a un pubblico attentissimo, di gente eterogenea, che parevano avere in comune solo quella curiosità appassionata e l’aria denutrita [Fortini 1985, 178-80].

Nella prefazione alla prima edizione – datata 8 settembre 1963 – Fortini ricordava di avere scritto le pagine del suo diario «poco più di un anno e mezzo dalla fine della repubblica ossolana», appena gli sembrò che il «tempo potesse cominciare a confondere la memoria». Lo scopo era di «dire la frazione di verità» a lui nota, «non senza autoironia» su quella «breve avventura». Esperienza, questa, che gli permise di «intravvedere un volto della gente dei nostri paesi fino allora sconosciuto» [Fortini 1985, 13-14]. E correlava le sue pagine alle carte di La guerra a Milano, tra le quali ricordava l’ultima – datata 2 novembre 1943 –, nella quale aveva appuntato, negli anni cruciali, queste considerazioni: «Perché alla nostra generazione è toccato questo compito? Un giorno verranno gli storici e ci diranno qualcosa in cui finiremo magari col credere ... C’è qualcosa in noi che va oltre l’odio e la passione, qualcosa che sembra semplice ed è difficile a portare. È l’ultima parola della nostra giovinezza ad una ancora oscura maturità: abbiamo imparato che la nostra vita e la nostra verità sono la vita e la verità dei nostri fratelli» [Fortini 1985, 14].

A fare rivivere il clima di certo entusiasmo che si respirava nella Repubbliche partigiane provvede – mirabilmente – anche Beppe Fenoglio con I ventitre giorni della città di Alba. Non manca certo il disincanto. Gianfranco Contini, che dell’opera accolse un brano nella silloge dedicata alla storia della letteratura contemporanea, ne sintetizzava il significato con parole efficaci: «è una trascrizione prettamente esistenziale, non agiografica, di probità flaubertiana (si pensa al referto sugli avvenimenti politici nell’Educatione sentimentale), tanto più meritoria per chi era stato fra gli attori dell’evento» [Contini 1972, 1012]. I dodici racconti della raccolta – racconti «partigiani», legati alle vicende della Resistenza, e racconti «borghesi», sul dopoguerra – videro la luce nel giugno 1952: numero 11 dei Gettoni della casa editrice Einaudi di Torino. Risultava il primo volume pubblicato da Fenoglio: la trattativa con Vittorini, ideatore della collana, era stata lunga, e preziosa la mediazione di Italo Calvino e di Natalia Ginzburg. Ma non basta. Laboriosa fu anche la gestazione del testo, come ha ricostruito una filologia agguerrita [18]. È da un lavoro tormentato sulla pagina che emerge quel «piglio» che richiama il risvolto critico del volume einaudiano, che parlava anche di «racconti pieni di fatti», di «penetrazione psicologica tutta oggettiva», di «un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione, senza compiacenze di stile», insomma «asciutto, esatto». Bisogna delibarne un brano per verificare la rappresentazione non oleografica della Resistenza:

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944. [...]. Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali [...]. Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti o quasi portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: «Ahi, povera Italia!» perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio […]. I più erano in giro a requisire macchine, gomme e benzina ... Benzina ne scovarono dai privati, poca però, la portavano via in fiaschi. Quel che trovarono in abbondanza fu etere, solvente e acquaragia coi quali combinarono miscele che avvelenarono i motori [...]. Intanto nel Civico Collegio Convitto che era stato adibito a Comando Piazza, i comandanti sedevano davanti a gravi problemi di difesa, di vettovagliamento e di amministrazione civile in genere. Avevano tutta l’aria di non capirne niente, qualche capo anzi lo confessò in apertura di consiglio, segretamente si facevano l’un l’altro una certa pena perché non sapevano cosa e come deliberare. Comunque deliberarono fino a notte [Fenoglio 2015, 3-4] [19].

L’ironia è figlia di un sentimento antieroico che – nella nuda cronaca di fatti colti quasi in presa diretta – cerca di non ridursi alle consuete celebrazioni per riconsegnare l’avventura della Resistenza alla realtà drammatica e cruda di un vissuto in grado di porsi, nel sangue, quale baluardo di civiltà contro la barbarie, e capace di recuperare un itinerario di senso per il proprio essere al mondo, nella storia. Tuttavia, Fenoglio assunse sì la tematica resistenziale, ma la utilizzò per un discorso più ampio sull’uomo, sul senso della vita e della morte. Quello che resta da queste scritture, insidiate in tante esperienze da una visione semplicistica che vede ancora il popolo come depositario degli autentici valori, è anche il tentativo di rendere in forma di parola condivisa, in forma di racconto, di messa-in-relazione/condivisione-di-senso, ovvero di incontro d’umanità che si fa dialogo, gli entusiasmi, le delusioni, le utopie, gli errori che accompagnarono il grande movimento di liberazione nazionale. E se è vero quanto affermava Paul Ricoeur, ossia che non si ricorda da soli, ma anche con l’aiuto dei ricordi altrui, questi scritti, per l’uomo alimentato dalla memoria e nutrito dal desiderio di narrazioni (ogni identità – è stato detto – è il «risultato» di un «atto narrativo» che offre un senso alle esperienze, allo specchio dell’autocoscienza e nel racconto che lo sguardo degli altri restituisce di noi), questi scritti rappresentano, pur nelle strategie di una parola che diviene gesto sorvegliato quando è pronunciata nell’àmbito della comunicazione letteraria, un contributo importante alla memoria storica collettiva. E forse anch’essi contribuiscono a restituire una voce al volto dell’uomo, ai volti degli uomini, nella storia, quei volti invocati – con amore – da Italo Mancini: «Il nostro mondo, per viverci, amare, santificarci non è dato da una neutra teoria dell’essere, non è dato dagli eventi della storia o dai fenomeni della natura, ma è dato dall’esserci di questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare» [Mancini 1989, 49]. Anche questo è la letteratura, anche questo è la storia.


 

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    Politica e cultura. La letteratura tra impegno e sperimentazione, in E. Malato (ed.), Storia della letteratura italiana, vol. IX, Il Novecento, Roma: Salerno Ed.
  • Lucarelli C. 1991
    L’estate torbida, Palermo: Sellerio
  • Malvezzi P. e Pirelli G. (eds.) 1995
    Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Torino: Einaudi
  • Malvezzi P. e Pirelli G. (eds.) 2002
    Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Torino: Einaudi
  • Mancini I. 1989
    Tornino i volti, Genova: Marietti
  • Muscetta C. 1976
    Realismo, neorealismo, controrealismo, Milano: Garzanti, 1976
  • Paoluzi A. 1956
    La letteratura della Resistenza, Firenze: Ed. 5 Lune
  • Pedullà G. (ed.) 2006
    Racconti della Resistenza, Torino: Einaudi
  • Peli S. 2004
    La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino: Einaudi
  • Petter G. 1995
    Ci chiamavano banditi, Firenze: Giunti
  • Revelli N. 1994
    Il disperso di Marburg, Torino: Einaudi
  • Rimanelli G. 1953
    Tiro al piccione, Milano: A. Mondadori
  • Risso R. 2011
    «Povera mamma Agnese [...]» Il tema della maternità nella narrativa resistenziale di Renata Viganò, “Poetiche”, 2-3, 305-33
  • Saccenti M. 1986
    Resistenza, Letteratura della, in V. Branca (ed.), Dizionario critico della letteratura italiana, vol. III, Torino: Utet III
  • Soavi G. 1955
    Un banco di nebbia, Milano: A. Mondadori
  • Siti W. 1980
    Il Neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Torino: Einaudi
  • Spinella M. 1995
    Memoria della Resistenza, Torino: Einaudi
  • Tesi R. 1994
    Resistenza e termini affini nel lessico politico degli anni 1943-1945 e del dopoguerra, in “Lingua nostra”, 2-3, 48-76
  • Tesi R. 1997
    Linguaggio politico e propaganda radiofonica: l’italiano di «Radio Londra», in Gli italiani trasmessi. La radio, Firenze: Accademia della Crusca
  • Vallauri C. (ed.) 2013
    Le Repubbliche partigiane. Esperienze di autogoverno democratico, Roma-Bari: Laterza
  • Verri G. 2012
    Partigiano Inverno, Roma: Nutrimenti
  • Verri G. 2015
    Racconti partigiani, Pordenone: Ed. Biblioteca dell’Immagine

Note

1. Sul dibattito intorno al neorealismo ancora di riferimento l’indagine condotta da Carlo Bo tra gli intellettuali italiani, trasmessa sul “Terzo programma” radiofonico della Rai tra l’ottobre 1950 e il marzo del 1951, e poi a stampa nel 1951 a Torino per i tipi della Eri, su cui vedi ora: Bo 2015; utili ricognizioni critiche in Ferretti 1974 e Ferretti 1981, 141-76. In generale vedi almeno Muscetta 1976, 107-60 e, per una completa mise au point, vedi Siti 1980 e Falcetto 1992. Ragguaglia, con acribìa, su strutture e forme, Corti 1978, 25-110.

2. Il «rinnovamento» della storiografia sull’antifascismo ha riguardato «aree tematiche, ambiti di indagine, modelli interpretativi, strumenti di ricerca, tipologia delle fonti e dei documenti» e ha trovato alimento anche in due importanti novità teoriche ricordate da Andrea Battistini nel suo profilo introduttivo al volume che raccoglie gli atti dal convegno di studi su Letteratura e Resistenza, svoltosi a Fano nel maggio 1995: da una parte «gli sviluppi dell’epistemologia» che hanno reso «più smaliziati» «dinnanzi alla presunta oggettività delle cose», dall’altra «la vocazione interdisciplinare e l’esigenza di una storia ‘à part entière’ auspicata a suo tempo da Lucien Febvre e dalla scuola delle ‘Annales’», divenute «patrimonio comune» anche in Italia. «Non per nulla – aggiunge Battistini – la ricostruzione più innovativa della resistenza apparsa in questi anni Novanta, dovuta a Claudio Pavone, dedica molto del suo spazio storiografico alle versioni letterarie di scrittori, da Saba a Fenoglio, da Calvino a Primo Levi e a numerosi altri scrittori di testimonianza, capaci – per dirla con Gianfranco Contini, insolitamente infiammato all’indomani della liberazione – di contemplare le pianure della cronaca dalle eminenze collinari della storia» [Battistini 1997, 8-9].

3. Si pensi solo a testi come In territorio nemico, pregevole esperimento letterario ispirato a dirette testimonianze di guerra e realizzato da 115 autori – costituenti il Sic, Scrittura Industriale Collettiva Nicola Lagioia – coordinati da Gregorio Magini e Vanni Santoni [In territorio nemico 2013]; o, tra gli altri, al romanzo di Mario Spinella [Spinella 1995], senza dimenticare prove d’indubbio interesse come quelle offerte dalla produzione di Giacomo Verri, impegnato a recuperare l’autentico dell’esperienza della lotta di liberazione, sempre più aggredito, nel contemporaneo, secondo l’autore, dalla mistificazione faziosa o dall’oblio [Verri 2012; Verri 2015].

4. «Spesso patetico e insieme truculento, il racconto partigiano nasce da una tradizione orale (l’episodio vissuto e raccontato che fa a poco a poco il giro d’ogni vallata e d’ogni formazione) e ha avuto come trascrittori un numero stragrande di giovani sparsi in tutta Italia, che talvolta non avevano alcuna velleità né astuzia letteraria, e talvolta ne avevano fin troppe, ma sia gli uni che gli altri sono riusciti a far poesia solo quando son riusciti a fare la parte del poeta anonimo» [Calvino 1995a, 1495].

5. «L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, ‘bruciati’, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità» [Calvino 1991, 1185].

6. «Il ‘neorealismo’ non fu una scuola [...]. Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra – o che si supponevano sconosciute –, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato ‘neorealismo’. Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d’essere gli allievi diretti o indiretti» [Calvino 1991, 1187].

7. Si noti come Calvino faccia procedere dall’esperienza di guerra «una rinascita della possibilità di narrare, perché nella vicenda bellica e partigiana i racconti hanno assunto per lui l’aspetto di un discorso che vive di osmosi con le parole orali della collettività, e si sono definiti in ragione di quanto avevano da insegnare e da narrare» [Benvenuti 2012, 61].

8. C’era chi – si ricordi – come Carlo Annoni, contestava tout court l’idea di una valenza «nazional-popolare in senso gramsciano» della «letteratura della resistenza», nata «a guerra finita, come letteratura di testimonianza – a posteriori – o di invenzione», anche se stimolata pressoché sempre da esperienze autobiografiche [Annoni 1970, 27]. Angelo Paoluzi – nel 1956 – parlava della letteratura resistenziale in questi termini: «La guerra di resistenza, i venti mesi di vita partigiana hanno dato luogo a una serie di opere la cui funzione è quella di consegnare al lettore contemporaneo uno squarcio di quel periodo che non mancherà di lasciar traccia di sé nella storia per due ragioni: innanzitutto perché con la Resistenza un ciclo della vita italiana si chiude e un altro inizia; in secondo luogo perché per la prima volta nella storia d'Italia un fenomeno politico è sentito allo stesso modo da tutte le classi o, meglio, da tutti i ceti sociali» [Paoluzi 1956, 7].

9. Cfr. Tesi 1994; Tesi 1997.

10. Ma molto si iniziò a discutere anche in merito alla definizione del – da riconoscere/attribuire al – «fatto letterario»: cosa rende letterario un testo? Esiste qualcosa che individua un testo come letterario e lo distingue dalle altre tipologie di scrittura? Gli studiosi incominciarono a ripensare metodi e strumenti dell’analisi, della storia e della critica letteraria, nonché dell’insegnamento – in seguito si sarebbe detto della didattica – delle discipline legate al «fatto letterario»: e sempre più venne approfondendosi il problema del rapporto tra letteratura e altre forme di conoscenza (ad es., motivo di dibattito e di confronto fu la precisazione del ruolo che la letteratura dovesse avere rispetto allo studio sociologico delle culture o alla “ricostruzione” storiografica di un contesto o di un’epoca, compreso tra i concetti di «documento» e di «monumento»).

11. Ricorrendo allo studio di «romanzi, film, documentari, giornali, diari, monumenti, quadri, musei» orienta sulla fortuna del tema resistenziale, in contrasto con l’anchilosi di certo immaginario stereotipato, pronto all’uso ideologico e strumentale di questa o di quella parte politica, Cooke 2015. Cooke riserva attenzione anche alla letteratura per l’infanzia – rievocando opere come Ci chiamavano banditi di Guido Petter, che in giovane età aveva partecipato alla Repubblica della Val d’Ossola – e ai polizieschi [Lucarelli 1991; Angelino 1995; Gennari 1995], né dimentica scritture affatto peculiari come quella offerta da Nuto Revelli con Il disperso di Marburg, «affascinante miscuglio di generi in cui a dinamiche investigative, ricerche storiche dettagliate, annotazioni diaristiche e memoria si affiancano riflessioni sulla natura dell’indagine poliziesca» [Revelli 1994, 289]. Numerose, inoltre, le occasioni per indagini tematiche precise, come Risso 2011.

12. «E d’altra parte l’ampliamento semantico dell’espressione ‘letteratura della Resistenza’ comporta l’accettazione di una straordinaria molteplicità: raccolti intorno a certi denominatori comuni, diversissimi, e in diversissime situazioni, sono gli autori, scrittori di professione e uomini politici, intellettuali e operai, clandestini e fuorusciti, combattenti e prigionieri; e diversissimi gli atteggiamenti, gli itinerari mentali, i linguaggi, i ‘generi’ (dalla cronaca all’orazione e al proclama; dalla lirica alla canzone in vernacolo; dall’articolo, dal diario, dalla lettera, in cui si prende coscienza della realtà storica, si dibattono e chiariscono i problemi, si versa il dramma di un’intera generazione, alla prosa del racconto disteso entro l’arco di una fantasia che ha pur sempre le sue radici nella vita vissuta, nella realtà storica» [Saccenti 1986, 598-99].

13. Cfr. Falaschi 1976.

14. Cfr. Asor Rosa 2002, 896-918.

15. Esistono antologie importanti, come Pedullà (ed.) 2006. Vedi anche: Malvezzi e Pirelli (eds.) 2002; Malvezzi e Pirelli (eds.) 1995; Faure, Liparoto, Papi (eds.) 2012. Uno dei più aggiornati manuali di storia della Resistenza è Peli 2004. Da scrutinare anche la pagine scritte da chi visse la Resistenza «dall’altra parte», «dalla parte sbagliata»: si veda, ad esempio, Rimanelli 1953 o Soavi 1955. Quanto alle scritture di «autodidatti» e «autori proletari», non si possono non ricordare i numerosi racconti inediti, a tema resistenziale, presentati in occasione di premi letterari promossi dall’editoria «democratica» vicina al Pci/Psi: dal Premio Pozzale, che, nato nel 1948 per volontà della sezione del Partito comunista dell’omonima frazione di Empoli, s’impegnava a mantenere viva la tradizione della Resistenza, e la memoria diretta delle sue storie e dei suoi valori (dopo la morte di Luigi Russo, chiamato a far parte della giuria, il Premio venne ribattezzato Pozzale-Luigi Russo); al Premio Letterario Prato, anch’esso nato nel 1948 e volto, anche grazie al coinvolgimento di personaggi di spicco del mondo della cultura, a sottrarre all’oblio i temi della lotta di liberazione. In tale cornice, di promozione generale della cultura e di ricordo particolare dei fatti della storia anche resistenziale, s’inseriscono numerose iniziative del Centro del libro popolare, fondato nel 1950 per iniziativa di Emilio Sereni, del socialista Rodolfo Morandi e di diversi intellettuali democratici.

16. Vedi almeno: Vallauri (ed.) 2013 e Augeri 2014. Cfr. Bocca 2012, 353-67 e 434-49.

17. Cfr. Contini 1995, 3-32. Si ricordi che alla Repubblica dell’Ossola presero parte, tra gli altri, anche il latinista Concetto Marchesi – importante leader politico comunista – il poeta Sandro Sinigaglia, l’italianista Carlo Calcaterra.

18. Così riepilogava Dante Isella: «Quei fatti (attacchi da una parte e dall’altra, rastrellamenti, imboscate, fucilazioni eccetera ma anche la vita della natura e degli uomini sulle colline, il mutare della stagione, lo sfrascare di un uccello o di un animale selvatico, i silenzi, i fruscii...), talvolta appuntati all’istante in un foglietto di taccuino tascabile, a guerra finita furono assoggettati dalla memoria del loro protagonista a un lento processo di decantazione e ne sortì una serie di belle prove [...]. Un lavoro tenace che, secondo un modus operandi a cui Fenoglio sarebbe rimasto sempre fedele, non si limita a qualche correzione, a interventi sulla parola singola o su un’espressione isolata, per una semplice rifinitura formale; è, invece, un riscrivere sempre tutto da capo. Quasi il prendere ogni volta le mosse per la ripetizione insistita di uno stesso esercizio, fino alla sua riuscita. Di stesura in stesura, Fenoglio persegue in questi racconti una tensione che regge fino al suo calcolatissimo esaurimento» [Isella 2015, V-VII].

19. Cfr. Isella 1992, 1449-65 (ed. critica in: Fenoglio 1978, 225-368). Su Fenoglio vedi almeno: Bigazzi 2011.