Premessa

La “frutta rossa” caratterizza il Novecento della fascia pedemontana modenese: tra l’inizio del secolo e gli anni Trenta le genti del Secchia e del Panaro impiegarono le risorse del territorio e s’imposero sui mercati grazie alla qualità delle produzioni ortofrutticole [Albertini, Burani e Trenti 1996, 44]. Lungo i due fiumi modenesi nacquero, tutta via, sistemi economici diversi: mentre il circondario di Sassuolo sfruttò le argille delle colline per l’industria ceramica, nel vignolese e nel suo circondario – esteso fino alle dimensioni dell’attuale Unione Terre di Castelli – si affermarono frutteti e industrie del comparto alimentare. L’indotto delle colture arboricole occupò centinaia di lavoratori stagionali, generando notevoli cambiamenti economici e sociali, seppur inferiori a quelli che si verificarono nella Bassa mirandolese in seguito alle bonifiche e all’ascesa del capitalismo agrario.

Intorno a Vignola, la frutta rossa relegò in secondo piano le colture di cereali e foraggi: il paesaggio agrario pedemontano era dunque diverso dalla “piantata” della pianura carpigiana, caratterizzata da filari meno fitti e seminativi più estesi. La società della media e bassa valle del Panaro era, infine, più complessa rispetto alle strutture del settore appenninico, dove il frazionamento della proprietà e la scarsa fertilità di molti terreni costringevano i coloni a produrre per l’autosostentamento.

Analizzare il decennio 1935-1945 è fondamentale per valutare le differenze sociali e produttive fra le aree della provincia modenese: i limiti di questo studio impongono, tuttavia, di concentrare l’attenzione solamente sulle campagne del Panaro, facendo emergere le caratteristiche che ancora oggi le fanno conoscere per le ciliegie e il lambrusco “Grasparossa”.

1. L’agricoltura della fascia pedemontana: cenni di contesto e questioni di scala

Negli anni Trenta la Cattedra ambulante di agricoltura modenese esaltò le «famose basse del Panaro, comprendenti i Comuni di Vignola, Marano, Savignano, Spilamberto, costituite da terreni di […] elevatissima fertilità e dotati di sicura ed abbondante acqua per l’irrigazione». [Albertini, Burani e Trenti 1996, 59]. Queste terre, caratterizzate da «un vero bosco di fruttiferi altamente produttivo», avevano «un valore e conseguentemente un prezzo d’affitto di gran lunga superiore a quello delle migliori di tutta la provincia» [ibidem]: la loro «buona redditività» permetteva «lo sviluppo di colture arboree specializzate, in particolare frutteti e vigneti, e la possibilità per gli agricoltori di accedere al mercato con una parte dei loro prodotti» [Dizionario storico dell’antifascismo modenese 2012, 51]. Queste ragioni salvarono la fascia pedemontana modenese dai peggiori effetti della crisi che, nel corso del decennio, caratterizzò altre aree rurali.

Sulle colline intorno al Panaro e nelle basse di Vignola «predominava la mezzadria assieme a una discreta diffusione dell’affitto al contadino» [Silingardi 1995, 290]: i proprietari terrieri più dinamici, come il generale Ugo Mancini, affidavano i poderi a un fattore, che li assegnava ai mezzadri e reclutava i salariati per i lavori stagionali, in un sistema meno soggetto alle crisi occupazionali che caratterizzavano la pianura mirandolese. Gli imprenditori agricoli ottenevano notevoli guadagni, ma i benefici non si estendevano ai coloni e agli avventizi: fra il 1934 e il 1940, mentre la “sbracciantizzazione” imposta dal regime si avviava al fallimento, le modifiche ai patti collettivi declassarono diverse famiglie mezzadrili, che dovettero subire ingerenze sempre più forti da parte dei proprietari terrieri [Silingardi 1998, 70-80]. Secondo Giuliano Muzzioli «il collo di bottiglia stava – molto semplicemente – nella ben più che iniqua distribuzione di quella ricchezza e nello sfruttamento senza precedenti a cui furono sottoposti i lavoratori dell’agricoltura e dell’industria» [Muzzioli 1995, 283].

Famiglia in posa accanto alla pompa a mano per gli antiparassitari, anni Trenta-Quaranta [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Fondo Fausto Simonini]
Famiglia in posa accanto alla pompa a mano per gli antiparassitari, anni Trenta-Quaranta [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Fondo Fausto Simonini]

2. Le terre della “frutta rossa”

Gli anni Trenta furono decisivi per le “Basse” vignolesi, poiché «dalla frutticoltura tradizionale si passò alla moderna, razionalmente coltivata, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo» [Albertini, Burani e Trenti 1996, 60]. Nel 1932 l’Ente mandamentale dei consorzi irrigui in Vignola pubblicò, presso la Tipografia Monti, l’opuscolo Le irrigazioni con le acque del Panaro nella zona sub-collinare, dove si legge che le acque del Panaro raggiungevano attraverso i canali 3.630 ettari di territorio fra Marano e Modena, circa 1.780 dei quali destinati a coltivazioni arboricole e orti intensivi. L’estensione totale «dei frutteti a ceraseto» superava, tuttavia, di gran lunga questo valore, poiché i miglioramenti tecnici permisero di coltivare con profitto anche i terreni delle “Alte”: l’Annuario statistico sull’agricoltura del 1936 menzionò una superficie di 34.000 ettari, che «consentiva di raggiungere, nella sola zona di Vignola, il 60% della produzione di frutta rossa» emiliano-romagnola [Albertini, Burani e Trenti 1996, 64]. Secondo l’Annuario, «nonostante in provincia di Forlì la produzione di ciliegie si estendesse su un’area superiore a quella modenese di 13mila ettari, i raccolti effettuati in quella zona della Romagna erano grosso modo la metà rispetto a quelli di Modena. Ciò perché nel Forlivese – come nel Bolognese – tale produzione era sposata ad altre colture che imponevano distanze maggiori tra un ciliegio e l’altro» [ibidem].

Augusta Redorici Roffi, maestra e studiosa del paesaggio vignolese, affermò che la cittadina modenese era ormai diventata la «capitale della ciliegia».

La “mora” delle Basse divenne un simbolo, un prestigio. I grandi, maestosi alberi, verdi cattedrali arboree dei ricchi terreni delle Basse, oscurarono i meleti, i pescheti, eliminando la vite, gli ortaggi, il frumento, la coltura delle barbabietole, la coltura maidica, i prati e, di conseguenza, le stalle. L’intenso lavoro dei “magazzini” vignolesi arricchì gli esportatori, occupò notevole manodopera femminile, ingrandì Vignola stravolgendola e dei mezzadri e delle Basse fece un’aristocrazia di lavoro e di vita, ambita ed invidiata. [Roffi 1994, 35].

La vendita dei prodotti agricoli stimolò un indotto che spaziava dalla lotta ai parassiti alle industrie di trasformazione: i magazzini ortofrutticoli del vignolese generarono posti di lavoro per decine di donne, che si distinsero soprattutto come cernitrici.

La cernitrice era impegnata, stagionalmente, nei “magazzini” ortofrutticoli […] con il compito principale di “cernere” ovvero selezionare e curare l’imballaggio della frutta da commercializzare. Alcuni di questi magazzini, di ampie dimensioni e particolarmente attrezzati con celle per la refrigerazione e la maturazione del prodotto, potevano dare lavoro anche a 200 cernitrici. In quasi tutte le famiglie del comprensorio vignolese vi erano donne impegnate come cernitrici e il loro lavoro contribuiva non poco al sostentamento della famiglia [Albertini e Berveglieri 2015, 35].

Cernitrici ortofrutticole in posa alla macchina calibratrice, azienda Garagnani anni Trenta [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Fondo Franco Zanetti]
Cernitrici ortofrutticole in posa alla macchina calibratrice, azienda Garagnani anni Trenta [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Fondo Franco Zanetti]
Le donne dei “magazzini” ricevevano salari più bassi rispetto agli operai agricoli, ma compivano fatiche doppie, poiché non smettevano di sobbarcarsi le faccende domestiche. Anche se nella valle del Panaro l’occupazione femminile si era già diffusa durante la Prima guerra mondiale, molte famiglie giudicavano negativamente le giovani disposte a lavorare al di fuori del focolare. Le costrizioni della cultura patriarcale non impedirono, tuttavia, alle lavoratrici di sviluppare una coscienza del proprio ruolo sociale; dopo anni di silenzio, il loro spirito si sarebbe manifestato in maniera più energica durante la guerra di Liberazione.

La complessità economica e sociale del sistema mezzadrile emerge anche nella testimonianza del castelvetrese Gino Torlaj:

[A Castelvetro] la maggior produzione […] era l’uva e in particolare la “graspa rossa”. Gli impianti consistevano in lunghi filari di viti sostenute da olmi a distanza di 5-6 metri l’uno dall’altro e 14-18 metri da un filare all’altro, con l’intreccio di fili di ferro sui quali si stendeva la vite. Vi era una buona produzione di grano, di granoturco e di latte. Nel 1938 vi erano 23 caseifici con una lavorazione media di 2800 quintali di latte ognuno. In ogni caseificio si allevavano da 100 a 200 suini da ingrasso. Poi vi era una produzione familiare di pollame, conigli, suini e bovini. L’industria consisteva solo nella fornace Cavallini che occupava 60-70 operai per 7-8 mesi all’anno. Due cantine, Settecani e Fratelli Boni, che impiegavano una ventina di operai nel periodo della vinificazione [Ascari 1986, 9-10].

Considerate le accortezze metodologiche legate alla storia orale e alla trascrizione delle testimonianze, recuperare il vissuto contadino è fondamentale per ricostruire la pluralità delle esperienze umane, poiché gli sguardi “dal basso” sono spesso complementari alle relazioni delle istituzioni pubbliche. Secondo Torlaj «erano poche le persone occupate tutto l’anno»: gli avventizi «lavoravano da 50 a 100 giornate all’anno» e «tutte le domeniche mattina di buon’ora» attendevano in fila le designazioni per i lavori settimanali. Durante il «periodo nero» dell’inverno «lo spandimento della ghiaia sulle strade» e la spalatura della neve costituivano le migliori occasioni di lavoro per i braccianti di Castelvetro [Ascari 1986, 12]. Nelle campagne della zona, tuttavia, gli avventizi non erano molti: i mezzadri e i coltivatori diretti costituivano il 70% della popolazione e formavano famiglie numerose, poiché per lavorare i campi servivano parecchie braccia. La terra era divisa in un centinaio di fondi, tra i quali spiccavano per dimensioni e redditività quelli di dieci possidenti: costoro affidavano i poderi alle famiglie mezzadrili, alle quali imponevano anche lavori gratuiti.

A differenza del bracciante che viveva in condizioni di miseria, il mezzadro aveva minestra, pane e companatico, il vino e di che scaldarsi d’inverno. Tutto questo lo pagava con un lavoro massacrante che nel periodo estivo raggiungeva le 16-18 ore giornaliere. Lo pagava con l’ingiustizia di vedersi portare via la metà dei prodotti, poi con le “regalie”, il lavoro gratuito. In pratica non era più la divisione al 50%. Di fatto era il 60% che toccava al padrone. Di qui il malcontento e la collera contro una società ingiusta ed oppressiva. [Ascari 1986, 10-11].

Non bisogna dimenticare che Torlaj maturò le proprie convinzioni in oltre quarant’anni di pensieri e affidò i suoi ricordi alla penna di Terenzio Ascari, che propose le interviste dei castelvetresi nel volume Noi c’eravamo, uniformandole nello stile alla propria scrittura. Si può, pertanto, affermare che la volontà di condannare i rapporti colonici non corrispondesse in toto all’atteggiamento che i mezzadri di Castelvetro tennero prima del 1943.

Per la gestazione clandestina dei pensieri antifascisti si rivelarono molto adatte le campagne di Spilamberto: aperte sulla riva sinistra del Panaro e nella pianura di San Vito, «erano caratterizzate da un tipo di agricoltura intensiva con forte concentrazione della proprietà terriera nelle mani di poche famiglie di agrari» [Borghi 1976], dall’assenza d’investimenti produttivi e dal dominio della tradizione mezzadrile. Elementi propulsori erano, però, offerti dagli sviluppi industriali e dalle infrastrutture: mentre lo stabilimento della Società Italiana Prodotti Esplodenti (Sipe) garantiva occupazione a parecchie famiglie del paese e del circondario, la ferrovia Modena-Vignola stabiliva un collegamento con il capoluogo provinciale, inserendo l’economia spilambertese in una «geografia variabile» [Magagnoli 1998, 7].

Le commesse belliche garantivano allo stabilimento della Sipe un incremento della produzione: i disoccupati speravano di ottenere un posto nella fabbrica degli esplosivi, che impiegava anche parecchie donne. Molto ambito era, inoltre, il lavoro nelle campagne o nelle industrie di trasformazione alimentare.

Durante la crisi economica internazionale della fine degli anni Venti […] la popolazione delle zone più povere della montagna scese verso i centri urbani collinari di Vignola, Sassuolo, Maranello e Spilamberto per cercare una soluzione ai problemi incombenti e per sfuggire alla miseria [Muzzioli 1995, 272].

Fra il 1927 e il 1940 a Vignola si verificarono 6.209 arrivi a fronte di 5.246 partenze: soltanto nel 1928, nel 1932 e nel 1934 coloro che lasciarono il paese superarono di poche unità i nuovi arrivati [Degli Esposti 2015, 26-30]. La cittadina era diventata un centro di produzione e scambio fra le aree urbane di Modena e Bologna, nel quale si verificava una «eccedenza delle immigrazioni sulle emigrazioni» [ibidem]. Nell’estate del 1937 il Podestà di Vignola Ripandelli-Martuzzi si preoccupò per l’afflusso di persone che cercavano di iscriversi nel registro della popolazione: la residenza nei Comuni di Spilamberto e Vignola era, infatti, condizione necessaria per «iscriversi all’Ufficio di Collocamento ed entrare nei turni di lavorazione» della Sipe [1]. Durante l’inverno lo scenario del paese si complicava, poiché al termine dei raccolti e della vendemmia i salariati vignolesi rimanevano senza lavoro e si affiancavano agli stagionali delle industrie agroalimentari negli elenchi della «pubblica beneficenza». Per evitare un nuovo incremento della popolazione comunale, il Podestà si rivolse alla Prefettura sulla base dei «provvedimenti contro l’urbanesimo», ma non ottenne i risultati sperati: recenti studi confermano, infatti, che «anche dalle vicine montagne […] famiglie intere si trasferirono nel Vignolese per le possibilità di lavoro che offriva il settore della frutticoltura» [Albertini e Berveglieri 2015, 35]. Parecchi montanari si mettevano in viaggio verso valle, ma non trovavano la comprensione delle autorità.

Non posso tacere la voce che corre e che probabilmente risponde a verità, che taluni Comuni, onde togliersi elementi poco desiderabili e comunque disoccupati, li avviano a Vignola, fornendo loro i mezzi necessari per pagare la prima rata di affitto, per modo che possano stipulare il contratto di locazione, il cui onere bene spesso va poi a finire a carico del Comune, se non si vuole vedere famiglie sfrattate vagare per le strade [2] .

La densità della popolazione vignolese era alta e, secondo le autorità fasciste, gli alloggi non bastavano più. L’11 agosto 1937, mentre si esauriva «il lavoro stagionale della frutta», Ripandelli-Martuzzi scrisse «a tutti i Commissionari, Commercianti ed Esportatori» per invitarli a considerare la provenienza dei lavoratori, prima di procedere alla «eliminazione del personale operaio»: «si raccomanda di licenziare in primo luogo la mano d’opera residente fuori Comune, secondando in ciò l’azione che al riguardo svolge anche l’Ufficio di Collocamento» [3].

Gli imprenditori e gli agrari sfruttavano gli “eserciti di riserva”, ma la classe dirigente aveva interesse a mantenere la quiete sociale: l’arrivo di troppi forestieri minacciava di aggravare la conflittualità fra gli ultimi. Per preservare l’ordine, le autorità municipali coltivarono la “paura del diverso” e rispolverarono le rivendicazioni campanilistiche: i loro sforzi non impedirono, tuttavia, l’affermazione di un modello economico-sociale che favoriva la proletarizzazione e l’inurbamento dei lavoratori più poveri [Muzzioli 1979, 92]. Il rapporto fra la città e le campagne mutò a vantaggio del capoluogo e dei centri che ricevettero i flussi dell’immigrazione interna: le «attività artigianali o industriali strettamente connesse al settore dell’agricoltura» allontanavano dai campi gli avventizi rurali e sfruttavano efficacemente la presenza di parecchia manodopera a basso costo [Muzzioli 1995, 272].

3. Il mercato ortofrutticolo di Vignola

Nel 1919 le quotazioni delle ciliegie sul mercato di Modena raggiunsero picchi di 220-280 lire al quintale: anche le contrattazioni ortofrutticole vignolesi aumentarono sensibilmente e resero inadeguato lo storico mercato nella piazza di “mezaluna”, all’esterno delle vecchie mura. Serviva uno spazio più ampio e meglio allestito, ma la comunità non costruì subito una struttura stabile. Nel 1927 il Podestà Cavallini propose di aprire un «mercato giornaliero all’ingrosso di frutta e verdura», che si rivelava necessario per il «concorso grandioso di tutti i Comuni limitrofi» alle contrattazioni del giovedì» [4]. Le autorità prevedevano sviluppi ottimistici grazie ai collegamenti ferroviari con Modena e Bologna, ma nel 1928 il prezzo delle ciliegie si stabilizzò intorno alle 320-350 lire al quintale, limitando l’appetibilità degli affari. L’anno successivo gli scenari sembrarono peggiorare, poiché una gelata d’aprile ridusse la produzione vignolese a soli 22.000 quintali: i ricavi dei commercianti furono comunque soddisfacenti, poiché la minore quantità dei frutti mantenne le loro quotazioni medie intorno alle 310 lire al quintale. Gli affari ripresero nel 1930, quando nel vignolese la produzione di ciliegie raggiunse i 67.000 quintali: sulla spinta delle drupe, la piazza vide aumentare le contrattazioni di tutta la frutta estiva, affermandosi come uno dei principali centri per lo scambio ortofrutticolo nell’Italia settentrionale [Albertini, Burani e Trenti 1996, 47-61]. La parabola commerciale conobbe, tuttavia, nuove battute di arresto: nel 1932 i prezzi al dettaglio delle ciliegie calarono sensibilmente rispetto al 1928.

  Prezzo al dettaglio nel 1928 Prezzo al dettaglio nel 1932
Ciliegie 3,20-3,50 lire/kg 1,80-2,60 lire/kg
Duroni marchigiani 3,60-3,70 lire/kg 1,70-2,45 lire/kg
Amarene 2,00-2,20 lire/kg 1,00-1,25 lire/kg

Rielaborazione da Albertini, Burani e Trenti 1996, 88-92

Nonostante le oscillazioni delle annate precedenti, il 9 febbraio 1933 il Podestà presentò il «Progetto per il mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Vignola», che completava l’impegno intrapreso nel 1931 con la costruzione della tettoia centrale: il Comune stanziò 300.000 lire – corrispondenti a 332.775,84 euro del 2014 – per adeguare le strutture all’importanza della piazza commerciale. Il nuovo complesso comprendeva 30 stand e magazzini permanenti, una struttura destinata a ospitare gli uffici e l’abitazione del custode. Il mercato fu inaugurato il 28 ottobre 1934, ma l’asfaltatura degli interni venne ultimata nel 1936 e soltanto il 25 luglio 1938 il Podestà deliberò la costruzione di altri quattro moduli sull’unico lato rimasto aperto.

Anche i trasporti su rotaia beneficiarono delle contrattazioni ortofrutticole: fu allargata e potenziata la linea Modena-Vignola, gestita dalla Società Emiliana Ferrovie Tramvie ed Automobili (Sefta), mentre la Ferrovia Casalecchio-Vignola (FCV), rettificata ed elettrificata nel 1938, collegò le “Basse” del Panaro al bolognese. «Fer un vagòun» – ovvero predisporre un carico di frutta su un vagone in partenza dalla stazione ferroviaria di Vignola [Albertini e Berveglieri 2015, 18] – era fondamentale per il successo dei commercianti, ma la frutta rossa presentava gravi problemi di trasporto: le ciliegie e le susine richiedevano imballaggi che ne preservassero l’integrità ed erano più deperibili dell’uva. L’utilizzo di vagoni refrigerati migliorò la conservazione delle merci e si affermò in tutte le relazioni commerciali vignolesi, garantendo vantaggi alle fabbriche del ghiaccio.

Ceste per lo stoccaggio e il trasporto della frutta rossa, magazzino azienda Garagnani Savignano sul Panaro 1925 [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Fondo Franco Zanetti]
Ceste per lo stoccaggio e il trasporto della frutta rossa, magazzino azienda Garagnani Savignano sul Panaro 1925 [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Fondo Franco Zanetti]

Fra il 1934 e il 1935 il volume delle esportazioni e degli scambi avvenuti nel mercato ortofrutticolo fu descritto dai seguenti dati:

  1934 1935 1935 (spoglio mercuriali al 19/12)
Vagoni destinati all’estero 489 535  
Fragole e fragoloni 213 q.li 167 q.li 168,70 q.li
Ciliegie e duroni 33.834 q.li 35.328 q.li 36.140,80 q.li
Pere 11.083 q.li 8.997 q.li 11.534 q.li
Pesche 1.786 q.li 4.326 q.li 4.744 q.li
Susine 12.685 q.li 24.384 q.li 26.187 q.li
Mele 7.480 q.li 1.861 q.li 2.496 q.li
Uva da tavola 308 q.li 442 q.li 532 q.li
Castagne 2.646 q.li 2.182 q.li 2.528 q.li
Totale merci 70.025 q.li 77.687 q.li 84.330,50

ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1935, b. 85

Le ciliegie e le susine divennero i principali articoli d’esportazione nel mercato vignolese. Dal momento che la vendita all’estero costituiva un vanto per le autorità fasciste, il 1 giugno 1935 l’Ufficio Provinciale dell’Economia Corporativa di Modena inviò al Podestà di Vignola i criteri «per la esportazione delle ciliegie in Germania»: «la merce deve essere corredata oltre che del certificato fitopatologico […] anche del certificato di origine rilasciato dalla Autorità Comunale» [5].

L’aumento degli scambi non tranquillizzò il reggente del municipio vignolese, che cercò di convincere il Prefetto a impedire l’apertura di un nuovo mercato ortofrutticolo a Sassuolo: temeva, infatti, che la piazza concorrente avrebbe generato uno squilibrio negativo tra l’eccesso dell’offerta e la scarsità della domanda. A Sassuolo le contrattazioni erano entrate nel vivo delle attività quando la stagione della frutta rossa era ormai conclusa, ma i timori per la contrazione degli affari si proiettavano sulle annate successive [6].

Nel 1936 i problemi dei vignolesi non si aggravarono per l’apertura della piazza sassolese, ma per la scarsità dei raccolti: le aziende furono costrette ad acquistare prodotti per completare le esportazioni, che erano già state concordate a prezzi fissi.

Gli iscritti all’Unione Fascista dei Commercianti della Provincia di Modena chiesero, dunque, protezione per la propria frutta: se le contrattazioni fossero state circoscritte ai soli mercati ortofrutticoli e limitate al mattino, sarebbe stato più semplice assicurare profitti ai venditori. Tuttavia il Podestà si limitò a mantenere la vigilanza sul listino-prezzi, poiché giudicò che le norme per il mercato della frutta tutelassero già in maniera efficace le aziende locali. Il sistema vignolese fu messo alla prova anche dai contrasti fra i produttori e i venditori, che rischiarono di minare la stabilità del mercato: i commercianti «intendevano riservarsi, al momento dell’acquisto, di calcolare quella percentuale di scarto che sarebbe venuta a risultare dopo effettuata la lavorazione e la spedizione all’estero» [7]. Alcuni esportatori sostennero che i contadini riempissero le partite destinate all’esportazione con frutta difettosa, nascondendola sotto la perfezione degli strati più alti. Dal momento che alcuni contenziosi avevano dato ragione ai venditori, il 5 luglio il Podestà intervenne per evitare che le disgregazioni diventassero irrisolvibili.

I produttori potranno portare sul mercato ogni qualità di merce. È nel loro interesse, però, che le qualità migliori e sane siano tenute separate da quelle contenenti difetti od ammalate. Comunque si ricorda che il commerciante, dal solo esame dello strato superiore deve potere valutare la merce, sicuro che tutta la frutta contenuta nel collo sarà omogenea [8].

Il reggente del municipio invitò gli esportatori a vagliare con attenzione le merci nel corso delle contrattazioni e limitò la liceità delle contestazioni alla sola giornata dell’acquisto, affinché se ne potesse «controllare la provenienza, alla presenza dell’incaricato del Comune, del commissario e possibilmente del venditore». Queste misure tutelarono i produttori, che prima restavano «sotto l’assillo di vedersi restituire e fortemente deprezzare una percentuale anche forte del prodotto venduto, senza nemmeno quelle garanzie necessarie per appurare se tale scarto poteva riferirsi alle partite da esso vendute» [9]. Il Podestà non sollevò, tuttavia, i contadini fraudolenti dalle loro responsabilità, minacciandoli di denuncia e garantendo ai commercianti truffati il diritto di rifiutare le partite incriminate [10].

Nelle prime due settimane di giugno e luglio, i prezzi delle merci oscillarono fra i seguenti valori:

  Giugno 1936 (lire/quintale) Luglio 1936 (lire/quintale)
Ciliegie tenere 160-250 /
Duroni anelli 200-300 /
Duroni neri primi 240-360 /
Duroni marchigiani 200-320 70-230
Amarene 100-280 110-210
Pere varie 40-110 40-90
Pesche varie / 70-120
Susine varie / 30-170
Mele varie / 30-100

Rielaborazione dai dati pubblicati in “Gazzetta dell’Emilia”, spazio I mercati della frutta, 1936

A dominare il dibattito sugli scambi fu, tuttavia, un tema che caratterizzò la retorica fascista dopo l’invasione dell’Etiopia: nell’estate del 1936 la Prefettura di Modena avviò la «propaganda per il consumo interno dei prodotti orto-floro-frutticoli» per sostenere la costruzione ideologica dell’autarchia italiana.

Attesi i notevoli interessi che l’orto-floro-frutticoltura rappresenta nell’economia generale della Nazione e tenuta presente la particolare situazione in cui tale produzione è venuta a trovarsi per la limitazione delle esportazioni in dipendenza delle inique sanzioni ginevrine, è quanto mai necessario che, nell’imminenza dell’inizio della campagna 1936, sia intensificata, con tutti i mezzi possibili, la propaganda per la diffusione del consumo interno dei prodotti orto-floro-frutticoli [11].

Le «sanzioni» si rivelarono, tuttavia, ben più miti di quanto annunciato dal regime: i “timori” del Prefetto non trovarono corrispondenza nelle dinamiche commerciali che caratterizzarono la fascia pedemontana modenese fino al 1941. Le attività dei magazzini ortofrutticoli conobbero un tendenziale incremento anche verso l’estero, esemplificato in maniera peculiare dal “Fabbricone” di Giovanni Garagnani: sfruttando anche l’esperienza maturata da studente presso le aziende agricole della Romagna, da sempre punti di riferimento nel settore [Preti e Varni 1989; Remondini 1999], l’imprenditore savignanese generò un business che arrivò a occupare oltre 700 persone [Garagnani 2002].

L’economia della frutta rossa conobbe, tuttavia, alcune fasi di ristagno anche prima del secondo conflitto mondiale: la stagione 1937 fu particolarmente difficile per il crollo dei prezzi all’ingrosso. Mario Menabue affermò che «sulle cause del ribasso c’è massima confusione: chi attribuisce la colpa alle Sanzioni decretate contro l’Italia in seguito alla aggressione all’Etiopia, chi individua la causa proprio nella conquista di questa nazione» [Menabue 1994]. Il caos era alimentato dalla propaganda fascista, che sfruttava l’autarchia per rinforzare il sentimento nazionale e compattare il popolo contro un nemico esterno [Muzzioli 1979, 104]: in quelle circostanze convulse, il delegato vignolese dell’Unione fascista dei commercianti modenesi Giuseppe Sanlej denunciò cinque colleghi che praticavano «attività commerciale di frutta e verdura all’ingrosso, sprovvisti della prescritta licenza di commercio», accusandone inoltre un sesto di vendere prodotti in negozio con una «licenza ambulante» [12]. La produttività dei terreni non sembrava, tuttavia, avvertire i problemi che caratterizzavano il commercio: nello scenario provinciale furono raccolti circa 500.000 quintali di frutta e quasi 65.000 quintali di ciliegie [Muzzioli 1979, 339].

Nella stagione 1937 i produttori e i commercianti deprecarono anche la trascuratezza igienica dei barrocciai. Il 13 maggio 1938 il Podestà si rivolse al «Fiduciario della Federazione degli artigiani» per ottenere il «miglioramento dei carri con sostituzione delle ruote a cerchioni di ferro con ruote di gomma, piene o vuote», la «pulizia dei medesimi» con disinfettanti, una «maggior cura nella pulizia dei finimenti e degli equini», una «maggior igiene nel personale addetto al servizio, specie negli abiti di fatica» e una «distribuzione del servizio» pianificata per «eliminare le preferenze verso pochi esportatori per accontentarli tutti e nel minor tempo possibile» [13].

Aziende Concessionari di stand nel 1938 e 1939 Canone 1938 (Lire) Maggiorazione 1939 (Lire)
Baldi Fausto n. 3 675 100
Fontana Ernesto n. 4; 5; 6 2.880 300
Tonelli & Adani n. 8; 9 e metà del 10 2.340 400
Baldini Francesco n. 11 e metà del 10 1.080 560 (550)
Cristoni Tito n. 12; 13 1.800 -- (1800)
Altei Francesco n. 14; 15 2.520 450
Clò e Selmi n. 16; 17; 18 3.600 550
Vaccari Aroldo n. 19; 20; 25 2.160 450
Bazzani Silvio n. 21; 22; 23; 24 2.700 350
Vandelli Enrico n. 26 450 50
Bonetti Erminio n. 27 1.500 200

Rielaborazione da ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1939, b. 130

Il 1 giugno riaprirono le contrattazioni: cinque giorni prima il Podestà fece affiggere un manifesto per ricordare ai contadini che era «nel loro interesse portare i prodotti nel mercato anziché venderli direttamente sul posto di produzione, potendo solo in tal modo assicurarsi la realizzazione dei migliori prezzi» [14]. Le autorità municipali pubblicizzarono la piazza commerciale anche sulla stampa, chiedendo a “Il Resto del Carlino” di pubblicare i mercuriali e mantenendo sotto controllo le tensioni generate dai contenziosi. I loro sforzi e la notevole salute dell’agricoltura vignolese non bastarono, tuttavia, ad assicurarle un successo stabile. Nel biennio successivo la difficile congiuntura economica nazionale influì negativamente sul commercio dei prodotti agricoli: i dati registrati nel luglio 1939 dimostrano che i prezzi medi delle susine all’ingrosso continuarono a scendere.

  Luglio 1936 (lire/quintale) Luglio 1939 (lire/quintale)
Pere varie 40-90 40-110
Pesche varie 70-120 110
Susine varie 30-170 45-90
Mele varie 30-100 /

Rielaborazione da ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1940, b. 140

Il 27 settembre 1939, mentre la Germania nazista prendeva il controllo della Polonia, la Prefettura di Modena emanò «provvedimenti per la frutticoltura» per sostenere i produttori: la contrazione degli scambi con l’estero imponeva di «dare urgentemente uno sbocco» alle «forti giacenze di frutta deperibilissima», «facilitando il consumo interno e l’industria conserviera» [15]. Nelle settimane successive il Podestà rispose alle lamentele dei venditori ambulanti difendendo quei coltivatori che portavano «i prodotti al mercato non per realizzare, mediante la vendita al minuto, il miglior prezzo, ma per vera necessità» [16]: dal momento che i piccoli produttori ricavavano dai loro conferimenti al mercato i mezzi essenziali per la sussistenza, l’obbligo della licenza commerciale li avrebbe vessati oltre la misura opportuna.

Nella primavera del 1940 la guerra ostacolò ulteriormente gli scambi con l’estero. Dopo l’intervento italiano, la Prefettura di Modena pregò «le Amministrazioni comunali di voler adottare tutte le misure idonee a diffondere più che sia possibile la vendita della frutta»: le autorità fasciste esaltarono le virtù nutritive di questo alimento, «fornito di caratteristiche tali da poter largamente integrare il minor consumo di altre derrate di cui il mercato non fosse rifornito con eguale larghezza» [17]. Le prospettive della fame indussero i prefetti a rimuovere ogni scrupolo legato alle licenze commerciali, ampliando le possibilità di vendita; il 13 settembre 1940 il Commissario prefettizio rispose con entusiasmo all’appello dell’organo superiore.

L’incremento alla vendita della frutta fresca è stato agevolato in ogni modo, specialmente concedendo licenze stagionali a quanti le hanno richieste. Tutto ciò, aggiunto alla abbondanza del prodotto, alle altre licenze del genere in forma continuativa che esistono, assicura largo uso di frutta da parte di ogni strato di popolazione e a prezzi modesti [18].

Benché le parole del Commissario suggerissero ottimismo, nei tre anni seguenti la guerra condizionò pesantemente l’attività della piazza commerciale. L’11 giugno 1942 i prezzi all’ingrosso del mercato ortofrutticolo fecero registrare valori in linea con il 1936:

  Lire/quintale
Primo gruppo duroni 330
Secondo gruppo ciliegie 240
Terzo gruppo duroni 310
Quarto gruppo duroni 205

Rielaborazione da ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1942, b. 160

Tali quotazioni non furono garantite dalla ricchezza degli scambi, ma dalla scarsità delle merci disponibili. Due giorni prima, infatti, il Prefetto di Modena aveva richiamato l’attenzione del Comune affinché nessuna industria conserviera acquistasse prodotti freschi: neppure i privati potevano sottrarre derrate ai mercati per realizzare marmellate o altri beni durevoli, poiché i banchi dei rivenditori erano sempre più vuoti.

La reprimenda prefettizia nacque dall’autorizzazione che il 27 maggio precedente la Confindustria di Roma aveva rilasciato alla ditta Altei Francesco - esportazione frutta scelta: l’azienda poté, dunque, acquistare per i propri scopi 151 quintali di ciliegie e 34 di fragole. Negli stessi giorni, il Comune di Vignola chiese alla Sezione provinciale alimentazione (Sepral) «una maggiore vigilanza sul commercio della frutta»: il Podestà scrisse che, sebbene le disposizioni prefettizie imponessero di controllare i prezzi di vendita accentrando gli scambi nei mercati ortofrutticoli, le ditte Martelli e Monti, Altei e Garagnani aprirono nei municipi limitrofi «veri e propri piccoli mercati» sotto la denominazione di magazzini, «assorbendo molta della produzione del posto, senza che la merce sia transitata attraverso il mercato» [19].

Carri e persone al lavoro nel mercato ortofrutticolo, Vignola 1942 [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Raccolta Com'era bianca la mia valle]
Carri e persone al lavoro nel mercato ortofrutticolo, Vignola 1942 [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Raccolta Com'era bianca la mia valle]

All’inizio dell’autunno, il reggente del municipio riferì che la media delle contrattazioni nel mercato ortofrutticolo «si poteva calcolare dal 1939 in q.li 50.000 di ciliegie e 60.000 di prugne, fatta eccezione per quegli anni di scarsa produzione» [20]. Nonostante le disposizioni prefettizie, gli scambi avvenuti all’esterno della piazza fecero regredire il volume degli scambi, complicando lo scenario in vista della stagione 1943. Le prime preoccupazioni emersero alla fine di gennaio, quando il Comune di Vignola scrisse alla Prefettura per ostacolare l’apertura di un nuovo mercato ortofrutticolo a Spilamberto: la concorrenza ravvicinata di una piazza pronta a lanciarsi con probabili cessioni di spazi al ribasso spaventò le autorità vignolesi, che giudicarono illogica l’idea di moltiplicare i luoghi di scambio in un periodo di difficoltà economiche [21].

Il 23 giugno 1943 il Segretario comunale Igino Maggini scrisse alla Sepral per segnalare le difficoltà incontrate nella «perequazione intercomunale dei prezzi».

Listino prezzi massimi - Sepral Modena Dal 21 giugno 1943 Lire/chilogrammo
Albicocche primo gruppo 3,50
Ciliegie varie 2,70 – 4,25
Fragole varie 3,95 – 8,75
Pesche varie 3,15 – 3,80

Rielaborazione da ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1943, b. 172

Nel vignolese il controllo aveva riscontrato soltanto «qualche irregolarità nel prezzo delle pere estivo, per le quali il prezzo praticato era stabilito nel massimo fissato per il tipo più pregiato, anche per le qualità inferiori», ma Maggini sostenne «che tutti i Comuni capo zona [dovessero operare] senza derogare dai prezzi ammessi, poiché nulla è più dannoso, ai fini della disciplina dei prezzi, che essi non siano eguali tra Comuni confinanti» [22].

Nell’estate del 1943 la contrazione dell’economia nazionale costrinse il Podestà Secondo Favali a chiudere il mercato e a cederlo in affitto per un anno alla Società Pirelli «per neutralizzare e compensare le perdite a bilancio», generate dalla mancanza dei «proventi derivanti dall’attività» commerciale [23]. Il 30 giugno 1944 la Pirelli non rinnovò il contratto e la «Società Cirio» propose «di poter utilizzare la metà dei locali del mercato per deposito dei suoi prodotti, interessanti in special modo le forze armate germaniche»: il Podestà acconsentì e concesse gli spazi restanti alla «Ditta Sant’Unione Emilio», un «oriundo di Vignola» che aveva uno «stabilimento a Bologna S. Ruffillo interessante la produzione alimentare». L’azienda di Sant’Unione era stata «colpita dall’ultimo bombardamento e quindi costretta a trasportare altrove la sua lavorazione e l’attrezzatura che ha potuto salvare» [24].

Fu proprio la guerra aerea a decretare in anticipo la fine del mercato: nell’aprile del 1945 i bombardamenti alleati distrussero la tettoia centrale e danneggiarono i magazzini, costringendo le amministrazioni post-fasciste ad affrontare ingenti spese di riparazione.

4. Lo stabilimento della Cirio e le altre industrie di trasformazione

All’inizio degli anni Venti la Società Anonima Cirio aprì uno stabilimento a Vignola per sfruttare le potenzialità delle locali colture ortofrutticole nella preparazione di conserve alimentari con sostanze vegetali. La fabbrica inaugurò nel 1923 e favorì la crescita dell’occupazione stagionale: nel decennio successivo la direzione aziendale arrivò ad assumere oltre 300 operaie, che da giugno ad agosto riempivano il capannone di Viale Trento e Trieste. Nel vignolese la Cirio fu, dunque, l’unica industria agroalimentare capace di impiegare stabilmente per una stagione più di 50 addetti: le altre aziende di trasformazione legate alla frutta rossa non raggiunsero mai livelli così elevati, mentre i magazzini coinvolsero elevate quantità di manodopera soltanto per brevi periodi. Allo stato attuale delle ricerche non risulta, tuttavia, possibile fornire uno schema diacronico esaustivo sui cambiamenti occupazionali nel settore commerciale vignolese.

La comunità paesana viveva con sentimenti contrastati l’ampio ricorso alla manodopera femminile: i capifamiglia guardavano con favore ai nuovi stipendi, ma non erano disposti a riconoscere alle donne un nuovo status. Il senso comune era impregnato di una mentalità contadina, attaccata alle tradizioni e non disposta a valutare le prospettive di genere. Il 7 giugno 1937 il Podestà manifestò alla Società Cirio alcune perplessità intorno al «consumo del pasto da parte delle operaie».

Le donne assunte al lavoro da cotesta Società consumano la loro refezione al mezzogiorno disperse in lunghe file lungo le strade di questo centro abitato. Ora ciò costituisce un inconveniente dal lato igienico e anche dal lato estetico e sociale, per la cui eliminazione interesso vivamente cotesta Spett. Società. Se, come generalmente viene fatto in stabilimenti del genere, si assicurerà alle operaie la possibilità di consumare il lor pasto nell’interno fabbricato o del recinto entro cui lavorano, esse avranno la sensazione di essere maggiormente assistite e anche Vignola non resterà seconda a nessun altro paese nella osservanza di quelle forme che costituiscono ragione di decoro e di riguardo verso la classe operaia [25].

Al moralismo maschilista della comunità si aggiungevano la durezza dell’impiego e l’iniquità dello stipendio, che inducevano gli animi più reattivi a protestare. Il 10 maggio 1939 la Prefettura di Modena prese in esame un «esposto di diverse operaie della lavorazione della frutta», che si erano rivolte alle autorità statali per chiedere un miglioramento salariale.

È risultato che le donne addette costà alla lavorazione della frutta vengono retribuite in ragione di lire 0.91 all’ora […]. Tale rimunerazione che nel 1936 era fissata in lire 0.75, fu poi gradatamente elevata ed alla fine dell’anno 1938, raggiunse le lire 0.91 che vengono attualmente corrisposte. Poiché negli esposti si fanno confronti con le paghe degli operai dello stabilimento S.I.P.E. di Spilamberto che percepiscono invece lire 1.20 all’ora, pur avendo lavoro continuativo, è da avvertirsi che nel concordare le tariffe relative è stato previsto il rischio al quale essi vengono sottoposti durante la lavorazione di materie esplodenti. Non è perciò il caso di promuovere d’ufficio alcuna revisione delle tariffe stabilite per le operaie ricorrenti [26].

Umberto Tonelli, il gerente dello stabilimento, poté mantenere i salari delle operaie ai livelli fissati dal «contratto stipulato fra le due unioni provinciali dei lavoratori e datori di lavoro del commercio» [27]. La direzione aziendale mantenne gli impegni produttivi anche negli anni seguenti, sfruttando la buona opinione di cui godeva la lavorazione della frutta. Nel 1941 il Commissario prefettizio di Vignola ricordò che in paese esisteva «una organizzazione industriale e commerciale che comprende grandi ditte di esportazione, le quali stagionalmente assumono circa 1500 operai, in gran parte donne»: a questo sistema non erano legate soltanto le dipendenti della Cirio, ma anche «numerose altre attività che hanno creato un considerevole numero di aziende di trasporti, confezionamento cestami, ecc.» [28].

Lo stabilimento della Cirio garantiva un impiego più stabile rispetto ai contratti degli avventizi e sosteneva la produzione agricola del territorio modenese: la fabbrica occupava «nelle lavorazioni stagionali, dai 300 ai 400 operai, in prevalenza donne», ma nel bimestre giugno-agosto del 1942 si raggiunse una media giornaliera di 400 lavoratrici [29]. Il 17 luglio 1941 la fabbrica si trovò al centro di una vicenda particolare: il Podestà di Vignola comunicò al Prefetto che nel territorio del Comune «esiste[va] una sola fabbrica per la preparazione di conserve alimentari con sostanze vegetali, e cioè [la] Soc. An. Conserve Alimentari Cirio», ma l’ufficio aziendale non aveva ancora notificato se la direzione fosse in possesso di un regolare decreto prefettizio. Le carte della Cirio non dovevano essere in regola, poiché l’autorizzazione della Prefettura giunse soltanto il 16 ottobre, rimediando ex post a una situazione di mancata legalità [30].

Le prime fasi della guerra non scoraggiarono il tessuto produttivo vignolese: diversi imprenditori locali, vicini od organici al fascismo, approfittarono della combinazione fra la continuità produttiva dei frutteti e la crisi delle vendite al dettaglio per proporre al pubblico nuove merci. Nel settembre successivo il Consiglio provinciale delle corporazioni chiese a Francesco Altei, proprietario dell’omonima ditta, se avesse già installato il macchinario per la produzione della marmellata da frutta, poiché il Ministero aveva già notificato all’ufficio modenese la richiesta di autorizzazione «ad installare ed esercire il macchinario sopradetto» [31]. Dodici mesi dopo, la Prefettura autorizzò l’esercizio dello stabilimento a condizione che il proprietario svolgesse alcuni lavori di miglioria. In quegli stessi frangenti, la ditta La Vignola preparava la propria «fabbrica di estratti alimentari (condimenti)»: la Prefettura impose il deposito di 600 lire per le spese di «collaudo tecnico sanitario», manifestando l’ennesimo tentativo di gestire un tessuto economico sempre più vicino allo sfilacciamento [32].

Il 16 giugno 1941 l’azienda Pomona ottenne dal Ministero delle corporazioni l’autorizzazione «per un impianto per la preparazione di polpe di frutta» [33]. Un mese dopo l’invio, la domanda dell’azienda giaceva ancora nei meandri della burocrazia in attesa di approvazione: il 5 febbraio 1942 la Pomona non aveva ancora iniziato «la preparazione di polpa di frutta o conserva di frutta», ma si era limitata «alla conservazione in fusti della frutta con anidride solforosa». Attendeva un’approvazione anche la richiesta della ditta Giuseppe Sanlej Coloniali e Alimentari: il 7 gennaio 1942 quest’ultimo imprenditore, sostenitore del Fascio vignolese già durante il “biennio nero”, fece sapere al Commissario prefettizio che l’impianto per la produzione delle marmellate era ancora in via di allestimento [34]. Il successivo divieto di acquistare frutta per scopi di manipolazione e conservazione contribuì a bloccare gli sviluppi delle aziende vignolesi.

Negli ultimi mesi del regime fascista le inerzie del sistema burocratico e le difficoltà economiche limitarono sensibilmente gli affari delle industrie vignolesi, ma dopo l’occupazione nazista gli scenari peggiorarono ulteriormente. Lo stabilimento della Cirio, che aveva la sede centrale nei territori già liberati dagli Alleati, iniziò a produrre per i tedeschi: il controllo delle derrate alimentari non era meno strategico dei settori industriali orientati alla guerra. I nazisti non sguarnirono le fabbriche che nutrivano gli ormai affamati corpi armati, ma dovettero fronteggiare gravi problemi retributivi: il 2 settembre 1944 i mancati pagamenti degli operai suscitarono proteste anche a Vignola.

Probabilmente al Comando di Piazza sono giunte le lamentele, fatte qualche tempo anche alla Direzione dello Stabilimento, degli operai della CIRIO, scontenti di ricevere a titolo di paga, anziché il contante, gli speciali assegni emessi dagli Istituti di Credito della Provincia. In merito a ciò le lamentele ed eventuali proteste sono infondate, anche perché la CIRIO non ottiene il contante, almeno nella totalità del fabbisogno, pel pagamento degli operai, ma gli assegni di cui si è fatto cenno. Sono sicuro che, fatta eccezione di quanto sopra, nessuna ditta locale paga con ritardo, o comunque irregolarmente, il proprio personale [35].

Il 19 novembre 1944 le devastazioni belliche si aggiunsero ai disagi retributivi: un’incursione aerea danneggiò seriamente il Ponte Muratori, che non poté più essere percorso dai mezzi pesanti. Anche una conduttura dell’acquedotto comunale, che si serviva del viadotto per rifornire il centro storico, subì gravi danni, lasciando il paese senz’acqua. Il Commissario prefettizio chiese, dunque, aiuto al direttore dello stabilimento Cirio.

Stante la impossibilità di riparare l’acquedotto, fino a quando il ponte non venga riattato e mancando anche la tubazione per sostituire il tratto asportato dalle bombe, si rende assolutamente necessario e urgente allacciare l’acquedotto al vostro pozzo situato presso il macello pubblico. […] È inteso che allorquando la Cirio avrà bisogno, tra qualche mese, della fornitura di acqua per il proprio stabilimento, il Comune rimetterà in pristino l’impianto dello stabilimento e ne farà uno per proprio conto [Degli Esposti 2015, 247].

Alla fine dell’inverno gli scenari della guerra aerea peggiorarono ulteriormente: nella notte del 26 febbraio 1945 un ricognitore notturno sganciò alcuni spezzoni incendiari sulla fabbrica del ghiaccio di Ettore Sola, devastando lo stabile e uccidendo dieci persone [Degli Esposti 2015, 297-300]. Intorno alla metà di marzo, una delegazione di cittadini si recò in municipio per chiedere al Commissario prefettizio che intimasse alla ditta Giuseppe Sanlej di concedere alla comunità i sotterranei della Rocca Boncompagni, che aveva occupato per stivare i suoi prodotti, affinché fossero utilizzati come rifugi antiaerei. Sanlej accettò di conservare il materiale nei magazzini comunali e i sotterranei della Rocca divennero ricoveri. Nelle ultime settimane di guerra molti vignolesi si radunarono in quegli ambienti, salvandosi dai bombardamenti: il 15 aprile furono distrutti il mercato ortofrutticolo e lo stabilimento della Cirio, mentre quattro giorni dopo crollava il Ponte Muratori, colpito dagli ordigni [Degli Esposti 2015, 359-384].

5. Dalla crescita commerciale alla guerra totale: occupazione e Resistenza

Facchini caricano le cassette della frutta rossa nei vagoni ferroviari refrigerati, 1941 [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Raccolta Com'era bianca la mia valle]
Facchini caricano le cassette della frutta rossa nei vagoni ferroviari refrigerati, 1941 [Archivio Gruppo Mezaluna - Mario Menabue, Raccolta Com'era bianca la mia valle]

La ricostruzione delle dinamiche sociali che caratterizzarono la valle del Panaro durante il secondo conflitto mondiale è un processo troppo complesso per esaurirne l’analisi in questa sede, ma appare opportuno riflettere sugli scenari che provocarono il crollo del consenso al regime fascista e generarono un’adesione alle varie forme della Resistenza molto più diffusa rispetto ad altre realtà territoriali. Le fonti presentano gravi problemi interpretativi: le relazioni sullo spirito pubblico, che i podestà e i commissari prefettizi dei Comuni inviavano alle autorità dello Stato, presentavano scenari edulcorati dagli stereotipi della retorica burocratica, ma fra le righe mostravano gli elementi di criticità che complicavano l’amministrazione dei territori. Gli eufemismi e le espressioni diminutive non cancellavano i problemi che affliggevano le comunità, poiché molti cittadini risentivano del clima iniquo che contraddistingueva la fase declinante del Ventennio fascista: benché la propaganda si proponesse di tracciare un quadro favorevole alle attività del Duce e di delineare una società votata a un nazionalismo interclassista, il sostegno agli agrari e agli imprenditori della grande industria, gli attacchi alle libere organizzazioni operaie e contadine e la promozione dell’intreccio fra investimenti pubblici e profitti privati allargò la forbice della ricchezza, favorendo la concentrazione delle risorse economiche nelle mani della borghesia agraria e imprenditoriale. Durante il ciclo negativo della guerra le diseguaglianze fra le classi sociali furono esasperate dal mercato nero: le famiglie benestanti riuscivano ad approvvigionarsi copiosamente attraverso i canali illegali della compravendita clandestina, mentre le masse operaie e le comunità rurali fronteggiavano l’inefficenza distributiva delle tessere annonarie.

Gli abitanti di tutta la valle del Panaro si avvicinavano all’estate del 1943 in un’atmosfera densa di fatica, dolore e rassegnazione: la guerra pesava sulle spalle dei civili, ma non aveva ancora travolto la longue durée delle campagne modenesi e non aveva distrutto le ataviche certezze delle loro popolazioni. Neppure la caduta del fascismo e l’occupazione nazista travolsero completamente le strutture della civiltà contadina: a quarant’anni dalla Liberazione la testimonianza di Gino Torlaj ripropose in maniera elaborata e problematica un quadro che aveva segnato l’esistenza dell’allora giovane ragazzo di campagna.

Un pomeriggio caldissimo eravamo intenti all’aratura con il solito trattore e trattorista di Spilamberto. Mia madre ci portò un bottiglione di acqua e vino freschi. Ci fermammo a bere all’ombra di un grande albero. Su di una bicicletta arrivò un uomo di media statura, robusto, con un cappello a falda larga. Anche lui, accalorato, si sedette e si mise a bere acqua e vino fresco, poi strizzando l’occhio al trattorista disse: - Stasera potresti venire giù da noi ad “arare”? Il trattorista ci pensò un po’, sembrava non trovare le parole, poi disse: - Sì, ci sarò senz’altro. Hai chiamato anche gli altri a dare una mano? – Sì, è tutto a posto. Devi solo passare dal sarto a Vignola. Si salutarono, salutò anche noi e ripartì. – Ma come, gli dissi, andate via prima di finire l’aratura da noi? – No, rispose, vado solo io, abbiamo un altro trattore. Sapevo però che quella ditta aveva un solo trattore. E poi il passare dal sarto in quei giorni di così grande impegno di lavoro non riuscivo a capirlo. Alla sera arrivò un altro giovane, prese il suo posto alla guida del trattore. Partì in fretta, senza cenare, con la mia bicicletta che gli avevo prestato. Più tardi a liberazione avvenuta rividi l’uomo del cappello a falda larga: era Samuele Simonini, antifascista, animatore della Resistenza nella zona Vignola-Spilamberto negli anni duri, prima e durante la guerra. [Ascari 1986, 16].

Nel bacino pedemontano del Panaro la Lotta di Liberazione non si sviluppò in un consenso acritico e unanime, ma parecchie famiglie mezzadrili e bracciantili videro nelle rivendicazioni dei partigiani le ragioni della propria parte. Agli occhi di qualcuno, questa vicinanza ideale rese un po’ meno dolorosi i prelevamenti di risorse alimentari, destinate a nutrire i ribelli in clandestinità; nelle menti di altri, invece, la contesa per il dominio delle proprie terre generò soltanto sciagure e costituì una pagina dolorosa della storia comunitaria, che doveva essere confinata nell’oblio. Né i primi, né i secondi poterono, tuttavia, negare che il contesto rurale della zona sub-collinare fosse stato un elemento determinante per le dinamiche della contesa: da una parte gli occupanti nazisti, i collaborazionisti di Salò e i partigiani furono condizionati dal territorio sia nei rapporti con la popolazione, sia nella gestione delle operazioni militari; dall’altra lo spazio fisico venne aggredito dalla guerra, che provocò danni all’ambiente, alle strutture e alle comunità.

La primavera del 1945 aprì una nuova fase storica, ma le continuità culturali di lunga durata continuavano a intrecciarsi con le esperienze professionali degli anni Trenta e con i cambiamenti generati dal Ventennio fascista. Iniziava un’epoca di riscatti e contraddizioni, nella quale la speranza del cambiamento cercava di placare la fame e il desiderio di una rinascita provava a riempire i vuoti lasciati dalla guerra: nelle basse del Panaro da tutto ciò nacque un modello di sviluppo che traslava il decollo della frutta rossa e l’espansione dei commerci in un contesto capace di affiancare iniziative individuali, riformismo e cooperazione.

6. Conclusioni

Fra gli anni Trenta e l’inizio della Seconda guerra mondiale, gli agricoltori e i commercianti vignolesi generarono un incremento delle produzioni e delle contrattazioni ortofrutticole. Mentre i possidenti e i gli uomini di mercato più dinamici sfruttarono questo scenario per ricavare ingenti ricchezze, i braccianti e diverse famiglie mezzadrili vissero con difficoltà gli squilibri sociali. L’avvento della Seconda guerra mondiale aggravò la crisi del sistema-Paese e provocò danni sempre più gravi all’economia italiana, colpendo duramente anche la valle del Panaro. L’occupazione tedesca innescò la fase più complessa del Novecento emiliano: alla Lotta di Liberazione seguirono i problemi della ricostruzione democratica, economica e sociale di una terra devastata dal conflitto. Un nuovo decollo produttivo sarebbe giunto soltanto negli anni Cinquanta e avrebbe seguito un modello diverso dalle strutture della società fascista: un’analisi comparata di questi sistemi consentirebbe di leggere in maniera più efficace le vicende storiche delle campagne e delle industrie agroalimentari modenesi nel Novecento.


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Note

1. Archivio Storico Comunale di Vignola (d’ora in poi ASCVg), Atti di amministrazione, cat. XI, 1937, b. 109.

2. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1937, b. 109.

3. Ibidem.

4. ASCVg, Busta anno 1928, cat. 1-3.

5. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1935, b. 85.

6. Ibidem.

7. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1936, b. 97.

8. Ibidem.

9. Ibidem.

10. Ibidem.

11. Ibidem.

12. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1937, b. 108.

13. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1938, b. 119.

14. Ibidem.

15. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1939, b. 130.

16. Ibidem.

17. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1940, b. 140.

18. Ibidem.

19. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1942, b. 160.

20. Ibidem.

21. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1943, b. 172.

22. Ibidem.

23. ASCVg, Registro deliberazioni Podestà e Giunta Municipale, anni 1943-1946, registro 9.

24. Ibidem.

25. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1937, b. 109.

26. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1939, b. 129.

27. Ibidem.

28. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1941, b. 150.

29. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1942, b. 159.

30. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1941, b. 150.

31. Ibidem.

32. Ibidem.

33. Ibidem.

34. Ibidem.

35. ASCVg, Atti di amministrazione, cat. XI, 1944, b. 183.