In Italia la storiografia delle professioni ha indagato l’istruzione e la formazione dei professionisti liberali privilegiando la dimensione nazionale oppure le vicende di singole facoltà e istituti di istruzione superiore. Ciò che manca è un’analisi delle facoltà professionali [1] su scala regionale, che esplori la complessità di realtà territoriali, economiche, sociali e professionali tra loro eterogenee ma anche reciprocamente influenzate. Protagonisti della ricerca qui presentata sono le facoltà professionali degli atenei dell’Emilia Romagna, gli studenti e i laureati da esse formati e immessi sui mercati professionali nel primo ventennio repubblicano. L’evoluzione dell’istruzione viene analizzata attraverso i dati quantitativi sulle iscrizioni e sulle lauree alle diverse facoltà, mentre i risultati degli esami di abilitazione (principale ed esclusivo elemento di legittimazione per l’esercizio della professione liberale) mostrano il rapporto tra istruzione universitaria e accessi ai mercati professionali.

Ne emerge un quadro complessivo dell’istruzione universitaria e del mercato professionale in Emilia Romagna nel quale prevalgono gli elementi di continuità con il passato piuttosto che i cambiamenti. Da un lato, le tensioni e le nuove esigenze formative che in questi anni attraversano le facoltà professionali, non riescono ad intaccare i tradizionali modelli culturali, didattici e professionali che sono anche di status e di identità. Dall’altro lato, l’aumento (peraltro non generalizzato né costante) delle iscrizioni e delle lauree che le facoltà professionali registrano dal secondo dopoguerra, non anticipa le grandi trasformazioni – di genere e di dimensioni – che prendono avvio negli anni Settanta e con più decisione nel decennio successivo. Nell’elaborare e commentare i risultati della ricerca non va del resto dimenticato che sulle scelte di istruzione così come sul passaggio dall’istruzione alla professione influiscono i mutamenti culturali della società italiana, gli indirizzi politici, le opportunità e le costrizioni economiche.

1. Le facoltà professionali tra conservazione e istanze modernizzatrici

Dal secondo conflitto mondiale, gli atenei dell’Emilia Romagna escono feriti nel corpo studentesco e accademico e nelle strutture, ma non distrutti. Di qui, l’esigenza, per le facoltà professionali, da un lato, di normalizzazione, facendo leva sul patrimonio scientifico e sull’esperienza didattica posseduti, dall’altro, di innovazione e di modernizzazione dell’offerta e della formazione accademica.

La ricostruzione umana e materiale si rivela faticosa e difficile. Alla necessità di riportare in cattedra i docenti costretti a lasciare l’insegnamento a causa delle leggi razziali [Cabassi, Liuzzo 2001; Salustri 2004, 107-147; Salustri 2010], si affiancano le indagini per individuare e allontanare i docenti compromessi con il fascismo, mentre gli ingenti danni subiti dagli edifici, dagli arredi, dai laboratori e dal materiale scientifico impediscono o ritardano la piena ripresa dell’attività didattica e della ricerca scientifica. A Bologna, la sede della facoltà di ingegneria – dopo l’8 settembre requisita dalle forze armate tedesche, poi trasformata in caserma dalla Guardia nazionale repubblicana e, infine, in ospedale dalle forze alleate – solo alla fine del 1946 viene restituita all’università che riattiva i corsi dal gennaio dell’anno successivo [Sasdelli 2007; Diotallevi 2012]. L’edificio che ospita la facoltà di economia, dopo essere stato completamente devastato da un bombardamento nel settembre del 1943, viene venduto e i corsi di economia temporaneamente trasferiti in altri spazi di proprietà dell’università. Dopo quattro anni di lavori, la nuova sede della facoltà di economia e commercio – progettata dagli architetti Luigi Vignali ed Enea Trenti – è inaugurata nell’ottobre del 1955 alla presenza del presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi [Malfitano 2013, 906-907]. L’Università di Ferrara, dopo aver vissuto il ventennio fascista «rinchiusa nel suo provincialismo», si riavvia verso un lento rilancio [Pepe 2007, 239]; un profondo processo di ristrutturazione viene affrontato anche dall’Università di Modena, sotto la spinta di accademici come Giuseppe Dossetti, docente di diritto ecclesiastico e canonico oltre che politico impegnato alla Costituente [Mor, Di Pietro 1975; Pombeni 2013; Tavilla 2014].

Su una struttura organizzativa e su un corpo docente ancora inadeguati, preme una popolazione studentesca in forte crescita, formata da coloro che a causa del conflitto hanno interrotto gli studi e dai nuovi iscritti.

A tutto questo, si aggiunge, per le facoltà professionali, l’esigenza di ampliare l’offerta formativa e di aprire la formazione accademica alle mutate esigenze economiche e sociali del paese. Le facoltà istituiscono così nuovi corsi di studio, centri di ricerca, istituti di perfezionamento (come l’istituto di applicazione forense aperto dalla facoltà di giurisprudenza di Modena nel 1948) e scuole di specializzazione postlaurea che si affiancano a quelle esistenti. La formazione rivolta ai laureati coinvolge non solo le facoltà di medicina e chirurgia di Bologna, Modena e Parma, ma anche la facoltà di ingegneria di Bologna dove è attivo il corso di perfezionamento in ingegneria delle radiocomunicazioni, e la facoltà di medicina veterinaria di Parma che nel 1949 apre, prima in Italia, la scuola di specializzazione in tecnica conserviera ed igiene degli alimenti di origine animale, con l’obiettivo di assecondare l’evoluzione dell’economia agricola del territorio e l’industrializzazione del settore agroalimentare. Nel primo anno accademico la scuola raccoglie già 50 iscritti [Cabassi, Liuzzo 2001, 78]. Nel frattempo, la facoltà di economia e commercio dell’Università di Bologna ristruttura la scuola di perfezionamento negli studi aziendali e professionali (nata nel 1945 dalla trasformazione della scuola di perfezionamento nelle discipline corporative), ampliando il corpo docente e attivando nuove discipline allo scopo di fornire «una preparazione che renda i laureati atti ad essere utilizzati in modo immediato e fecondo dalle imprese» [Farolfi (ed) 1988, 26].

Nel 1946, l’offerta formativa regionale degli studi universitari che conducono all’esercizio delle professioni liberali si compone di quattro facoltà di giurisprudenza, altrettante facoltà di medicina e chirurgia e facoltà di farmacia attive negli atenei di Bologna, Modena, Ferrara e Parma; due facoltà di medicina veterinaria (Bologna e Parma). Ad esse si aggiungono, presso l’Università di Bologna, la facoltà di economia e commercio, quella di scienze agrarie e la facoltà di ingegneria. Presente in tutti gli atenei della regione è il biennio propedeutico di ingegneria (gli studi di ingegneria sono suddivisi in un biennio propedeutico e in un triennio di applicazione) che fa parte della facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali. Su scala regionale, quindi, l’Università di Bologna costituisce il centro propulsore della formazione accademica professionale, coprendo tutti gli ambiti disciplinari. Nel ventennio 1950-1970, solo il percorso di studi economico si arricchisce di nuove opportunità formative con l’apertura di due facoltà: la prima a Parma a metà degli anni cinquanta [Antinori, Testa 1999], la seconda a Modena dal 1968/69.

Dagli anni Cinquanta, nel clima della congiuntura economica positiva, della crescita sostenuta del settore industriale, delle trasformazioni sociali che investono l’Italia [Felice 2015], il dibattito sulla funzione e sul fine ultimo dell’università appassiona il mondo accademico, politico e industriale. Si tratta di una discussione non certo nuova, poiché proposte di rinnovamento degli studi tecnici superiori erano emerse nel periodo giolittiano, negli anni successivi al primo conflitto mondiale e poi negli anni Trenta senza, comunque, riuscire ad alterare i criteri organizzativi e didattici esistenti [Fiocca 1994; Rozzarin 1996; Cantagalli 2004]. Come allora, anche nel secondo dopoguerra il dibattito e le proposte di riforma si incentrano sulla facoltà di ingegneria e su quella di economia e commercio, ossia sui percorsi di studio più legati ai problemi, alle opportunità e alle esigenze dell’economia e dell’industria. Il confronto tra le forze economiche e la realtà accademica (si pensi, solo per citarne alcuni, al convegno dei presidi delle facoltà di economia e commercio che si tiene a Venezia nel 1953, al primo convegno studentesco per la riforma della facoltà di economia che si svolge a Bologna nel 1959, ai convegni sull’istruzione tecnica secondaria e superiore che annualmente vengono organizzati da Confindustria) sottolinea i limiti formativi: la struttura rimasta immutata, il piano di studi, i metodi dell’istruzione e della ricerca, l’accentramento burocratico dell’ordinamento didattico, l’insufficienza del corpo docente e delle attrezzature, oltre alla necessità, da parte delle facoltà universitarie professionali, di formare personale specializzato per colmare il divario esistente tra la preparazione offerta dall’università e gli obiettivi di formazione richiesti dal mondo dell’economia, dell’industria e dei servizi.

Il processo di revisione critica delle strutture e delle finalità delle facoltà (da una parte i sostenitori del primato della preparazione professionale delle giovani generazioni, dall’altra i fautori della formazione culturale) cresce di intensità quando il ministero della Pubblica istruzione elabora delle proposte di rinnovamento degli ordinamenti didattici – nel 1955 la riforma Capocaccia sugli studi ingegneristici e nel 1961 il progetto Vito sull’ordinamento didattico di economia e commercio – sulle quali le facoltà coinvolte sono chiamate a pronunciarsi e a formulare pareri e osservazioni.

Il riordinamento didattico di ingegneria viene reso operativo con il decreto n. 53 del 31 gennaio 1960. Esso sopprime la suddivisione tra sezioni e sottosezioni, dà la possibilità di istituire nuove corsi di laurea, ma mantiene inalterata la propedeuticità del primo biennio che, sottratto alla facoltà di scienze, diviene ora parte integrante della facoltà di ingegneria. A seguito di tale riforma, la facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna attiva i corsi di laurea in ingegneria elettronica e in ingegneria nucleare oltre a quelli derivati dall’ordinamento precedente (mineraria, meccanica, elettrotecnica, chimica, mentre il corso di ingegneria civile viene articolato negli indirizzi edile, trasporti, idraulica), apre nuovi istituti come quello di elettronica nel 1965 e di automatica quattro anni dopo.

Per quanto riguarda gli studi economici, invece, le proposte di riforma non si concretizzano in alcun provvedimento normativo, lasciando alle singole facoltà – consapevoli di una realtà in rapida evoluzione – la decisione (prevista dal 1953) di introdurre nuovi insegnamenti complementari e nuove scuole. La facoltà di economia e commercio dell’Università di Bologna, il cui bacino di iscritti travalica ormai i confini regionali [Valentini 1963], risponde alle esigenze di specializzazione culturale e professionale, con l’attivazione nel 1961 di otto nuovi insegnamenti complementari (ragioneria pubblica, contabilità nazionale, ricerca operativa, storia della tecnica, diritto fallimentare, diritto privato comparato, statistica sociale e giudiziaria, statistica sanitaria). Nel 1963 vengono aperti la scuola di economia e merceologia degli alimenti [Farolfi (ed) 1988, 45-46] e l’istituto di lingue. I nuovi insegnamenti e i nuovi istituti vanno ad affiancarsi alla scuola di statistica, creata nel 1954/55 con l’obiettivo di collegare più strettamente il percorso di studi economico alla realtà economica del territorio bolognese in quegli anni trasformata dalla diffusione della piccola e media industria [Zamagni 1986]. L’azione di diversificazione e di specializzazione dell’offerta formativa attuata in questi anni dalla facoltà di economia e commercio di Bologna si completa con il rafforzamento del corpo docente: aumentano i professori di ruolo e soprattutto gli assistenti.

Le iniziative di riforma dei percorsi di studio economico ed ingegneristico si innestano in un più ampio processo di revisione dell’istruzione universitaria e del suo impianto normativo del periodo fascista. In parlamento il dibattito sul disegno di legge Gui si trascina senza risultato per alcuni anni finché nel 1968 viene “sconvolto” dall’esplosione della contestazione studentesca. E’ così che viene approvata la legge n. 910 dell’11 dicembre 1969 che liberalizza gli ingressi in tutte le facoltà universitarie, consentendo a tutti i diplomati dei corsi di scuola secondaria di durata quinquennale di iscriversi all’università e a qualsiasi facoltà e corso di laurea [Sandulli 2007, 283-285; Breccia (ed) 2013]. La liberalizzazione degli accessi universitari apre una fase del tutto nuova dell’istruzione universitaria italiana, quella dell’universitarizzazione di massa, mentre la realizzazione di una radicale riforma strutturale e funzionale del sistema universitario si risolve in interventi normativi frammentari o che riguardano settori di studio specifici, come il corso di laurea in medicina veterinaria per il quale viene approvato un nuovo ordinamento didattico (la durata del corso di studi viene portata a cinque anni e suddivisa in un biennio propedeutico di lezioni teorico-pratiche e in un triennio professionale) [Veggetti, Maestrini 2004]. La questione sulle finalità della formazione universitaria viene così lasciata alle iniziative delle singole facoltà professionali.

Nel circuito universitario regionale, fino alla fine degli anni Sessanta e per certi aspetti anche negli anni successivi, mentre le facoltà di ingegneria e di economia e commercio tentano di predisporre – nonostante i limitati spazi di autonomia che la legislazione vigente consente loro e le difficoltà burocratiche e amministrative – una programmazione aggiornata alle esigenze di una didattica moderna e di un’economia in continua evoluzione, le altre facoltà professionali (giurisprudenza in primis, ma anche le facoltà sanitarie) mantengono i tradizionali modelli formativi e professionali che i pochi aggiustamenti introdotti negli strumenti e nelle modalità dell’offerta didattica non riescono ad alterare. Nel primo ventennio repubblicano, le facoltà professionali continuano così a essere luoghi di formazione e scelte di istruzione elitarie, come ben dimostrano le dinamiche delle iscrizioni e soprattutto delle lauree.

2. Studenti e laureati

All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale le quattro università esistenti in Emilia Romagna ospitano oltre 16.000 studenti in corso, dei quali quasi 13.300 appartengono al complesso delle facoltà universitarie che formano i professionisti: medicina e chirurgia, giurisprudenza, economia e commercio, ingegneria, farmacia, scienze agrarie, medicina veterinaria (tab. 1). Ai vertici delle scelte degli studenti troviamo medicina e chirurgia ed economia e commercio: nel 1947/48 gli iscritti in corso alle quattro facoltà mediche della regione sono 4.693, mentre nella facoltà di economia e commercio dell’Università di Bologna gli studenti in corso sono 2.118. Altri percorsi di studio che attraggono quote consistenti di giovani sono ingegneria e farmacia che conta, nel complesso, 1.685 studenti in corso. Le quattro facoltà di giurisprudenza raccolgono 1.332 iscritti complessivi. Il percorso di studi giuridico sembra, quindi, perdere di importanza nel confronto con le altre facoltà professionali, sia quelle storiche (medicina, farmacia), sia quelle più direttamente connesse allo sviluppo economico (ingegneria, economia e commercio).

I due decenni successivi – fino alla definitiva liberalizzazione degli accessi universitari – disegnano negli atenei dell’Emilia Romagna una situazione sia di conferme, sia di graduale trasformazione dei rapporti di forza emersi negli anni della ripresa postbellica.

A medicina e chirurgia, all’anomala e accentuata dilatazione che caratterizza gli anni immediatamente successivi la fine della guerra, segue una costante diminuzione delle iscrizioni che a Bologna e a Parma si conclude alla fine degli anni Cinquanta, mentre negli atenei di Ferrara e di Modena perdura fino al 1963 (tabb. 2-5). A partire da quelle date, gli iscritti delle facoltà mediche dell’Emilia Romagna riprendono a crescere, dapprima gradualmente, poi in maniera esponenziale tra il 1967/68 e il 1970/71, quando rappresentano oltre il 20% del totale della popolazione studentesca dell’Università di Bologna, mentre negli altri atenei della regione, dove il ventaglio dell’offerta formativa è meno ampio, la quota degli iscritti a medicina sul complesso degli studenti va dal 27% di Parma e di Ferrara, a oltre il 36% dell’Università di Modena.

L’andamento delle iscrizioni nelle facoltà di medicina e chirurgia degli atenei dell’Emilia Romagna rispecchia le dinamiche nazionali: tra il 1947/48 e il 1959/60 gli studenti in corso a medicina passano da 34.963 a 18.187. La diminuita capacità attrattiva che questa facoltà ha sulle giovani generazioni va messa in relazione alla crisi che la classe medica italiana sta conoscendo in quegli anni sul piano dell’identità professionale e dei contenuti del proprio sapere, stretta tra lo sviluppo scientifico accelerato e il progresso delle conoscenze e un mercato delle prestazioni sanitarie che stenta ad ampliarsi mentre gli enti mutualistici costituiscono per molti giovani laureati l’unico sbocco occupazionale seppure in condizioni di progressiva burocratizzazione [Secco 1996, 193-194]. Successivamente invece, gli iscritti di medicina crescono fortemente diventando 22.500 nel 1963/64 e poco meno di 75.000 nel 1970/71. Tutto ciò avviene nel mutato clima culturale e politico istituzionale degli anni Sessanta: da un lato, i progressi della ricerca scientifica contribuiscono a diffondere l’idea di una scienza medica «onnipotente con il corollario della tecnologia come sommo bene» [Cosmacini 1994, 140], dall’altro, al sistema delle mutue si oppone «una domanda di innovazione basata sulla razionalizzazione dei servizi e sull’universalismo-egualitarismo della copertura assistenziale» [Vicarelli 2008, 95] che conduce poi all’istituzione del Sistema sanitario nazionale con la legge 833/1978 ma che, nel periodo qui esaminato, si è già concretizzata nella riforma ospedaliera varata nel febbraio del 1968 [Secco 1996, 206-213]. Il rinnovato prestigio e potere di cui la professione medica italiana ricomincia a godere è di lì a poco tempo destinato a interagire e a scontrarsi con la contestazione studentesca e le sue richieste di liberalizzazione degli accessi che contribuiscono a incrementare, secondo valori eccezionali, le iscrizioni a medicina fino al 1976.

La consistenza dei laureati nelle quattro facoltà mediche degli atenei dell’Emilia Romagna, conferma solo parzialmente o con uno scarto di qualche anno i tratti essenziali dell’andamento delle iscrizioni (tabb. 6-7). Negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, le lauree nelle facoltà mediche di Bologna, Parma e Modena (in quella di Ferrara i primi laureati si hanno solo a partire dal 1955/56) conoscono una forte impennata dovuta alla ripresa degli studi interrotti per motivi bellici. A questa prima fase, subentra un rapido crollo dei laureati che a Bologna e a Parma si consolida già nei primi anni Cinquanta. Fino al 1963, il gettito annuale di laureati che esce da queste facoltà rimane pressoché costante: Bologna laurea ogni anno non più di 300 neo-medici, Parma circa 80/90. Il trend appena descritto segue la tendenza nazionale delle lauree in medicina: tra il 1947/48 e il 1963 il numero dei laureati cala da 2.782 a 2.519 [Vicarelli 2008, 198]. La facoltà medica di Modena presenta, invece, un andamento anomalo poiché i laureati continuano a crescere in maniera alquanto sostenuta fino al 1954 (in quell’anno si laureano 345 neo-medici), calano fino al 1958, crollano progressivamente fino al 1965 quando sono solamente 69. Le dinamiche della facoltà medica di Modena sono dovute all’effetto combinato della diminuzione delle iscrizioni e della marcata presenza dei fuori corso (nel 1956/57 gli studenti ritardatari sono ben 1.093 pari al doppio degli iscritti in corso) che non trova paragoni nelle altre facoltà mediche della regione, dove il numero dei fuori corso sale sì negli anni postbellici ma poi diminuisce e si stabilizza fino al 1968. In ogni caso il numero dei ritardatari non supera mai quello degli studenti in corso.

Dal 1964, la quota dei laureati medici ricomincia a salire nella facoltà medica di Bologna e in quella di Parma, in linea con la tendenza nazionale che vede i laureati in medicina crescere da poco più di 2.600 nel 1965 a oltre 5.000 nel 1970. A Bologna le lauree in medicina esplodono negli anni intorno al 1969 a testimonianza del più generale clima del periodo e probabilmente dell’attenuarsi della selezione, mentre nella facoltà medica di Parma i laureati crescono in maniera continuativa ma più modesta. Quanto appena detto non vale per la facoltà medica di Ferrara né per quella di Modena. Nel decennio 1960-1970 esse mostrano un comportamento opposto, a dimostrazione che su di esse incidono, più che altrove, dinamiche ed equilibri interni ai singoli atenei. A Modena i laureati crescono tra il 1963 e il 1968, in corrispondenza con una diminuzione dei ritardatari, calano l’anno successivo, riprendono a crescere nel 1970 quando si laureano 150 neo-medici, un valore mai raggiunto negli anni precedenti. La facoltà medica di Ferrara conosce, dalla metà degli anni Cinquanta fino al 1965, un aumento sia pure tra alti e bassi dei laureati a cui segue un vistoso calo che tocca il valore massimo nel 1969 quando si hanno solamente 26 neo-medici, per poi ricominciare a crescere dall’anno successivo.

Dal secondo Novecento, il percorso di studi giuridico conosce una prima fase espansiva: gli studenti in corso sono 23.110 nel 1947/48, diventano 31.199 nel 1959/60; successivamente si contrae (sono poco meno di 28.000 nel 1968), infine si dilata quando gli iscritti diventano oltre 44.700 nel 1970. La facoltà di giurisprudenza di Bologna ricalca la tendenza generale, nel senso che dopo una moderata fase espansiva, dal 1958 prende avvio una parabola discendente che prosegue per un decennio (tab. 8). Nel 1968 gli iscritti a giurisprudenza sono il 3,4% del complesso della popolazione universitaria bolognese. A differenza di Bologna, le facoltà giuridiche di Ferrara, Modena e Parma, riescono a esercitare una crescente e continuativa capacità di richiamo per tutti i due decenni qui considerati (tabb. 9-11). Piuttosto, per queste facoltà, è l’intensità della crescita che varia, nel senso che a Parma le iscrizioni aumentano in modo vertiginoso a cavallo degli anni Cinquanta-Sessanta e poi nel 1966; mentre a Ferrara e Modena conoscono un trend di crescita più graduale e costante nel tempo. In circa un ventennio (1950-1968) gli studenti che scelgono di intraprendere gli studi giuridici crescono da 182 a 699 nell’Università di Ferrara, e da 269 a 651 nell’Ateneo di Modena. E’ solo con la liberalizzazione degli accessi che le facoltà giuridiche dell’Emilia Romagna conoscono un andamento uniforme, caratterizzato da una crescita esponenziale delle iscrizioni. In termini percentuali gli studenti in corso di giurisprudenza costituiscono quasi un quarto della popolazione studentesca dell’Università di Bologna e di quella di Ferrara, a Parma sono oltre il 13% mentre a Modena superano di poco l’11% del complesso degli iscritti all’ateneo.

I dati appena descritti non considerano gli studenti ritardatari. A livello nazionale, i fuori corso di giurisprudenza sono oltre 23.000 nel 1947/48, crescono fino al 1960 quando diventano poco meno di 31.200, calano nei cinque anni successivi, riprendono ad aumentare fino a raggiungere la quota di 44.736 nel 1970/71. Rispetto a questi dati, la facoltà giuridica di Bologna appare in netto contrasto poiché già dalla prima metà degli anni Cinquanta il numero dei ritardatari scende in maniera costante e duratura. Le altre facoltà giuridiche della regione presentano, invece, dinamiche che si discostano sia dalla tendenza nazionale sia da quella di Bologna. In esse il numero degli studenti ritardatari cresce in maniera continuativa e sostenuta per tutto il periodo considerato, evidenziando come il numero dei ritardatari appaia anomalo ed eccezionalmente consistente rispetto a quello degli studenti in corso (nel 1965 nella facoltà di giurisprudenza di Parma il numero dei fuori corso supera addirittura quello degli studenti regolarmente iscritti). Nelle facoltà giuridiche “più piccole” sembra, quindi, che l’iscrizione ai corsi di studio sia una scelta privilegiata da giovani già inseriti nel mondo del lavoro o in attesa di entrarvi. Vale la pena sottolineare, inoltre, come il fenomeno del ritardo nel compimento degli studi riguardi in maniera crescente le studentesse. Sotto questo profilo, la meno virtuosa è la facoltà giuridica bolognese: nel 1967 le iscritte fuori corso sono il 24% del totale, contro l’11,5% di Ferrara, il 9,1% di Modena e l’8,5% della facoltà giuridica dell’Ateneo di Parma.

Tra il 1946/47 e il 1970, le quattro facoltà di giurisprudenza dell’Emilia Romagna producono in totale poco più di 5.600 laureati. A Bologna, la più alta concentrazione di lauree si ha fino al 1960; a Ferrara i laureati crescono in maniera costante e sostenuta per tutto il periodo preso in esame, nelle facoltà giuridiche di Parma e di Modena, infine, le lauree rimangono stazionarie fino alla seconda metà degli anni Sessanta per poi crescere in coincidenza con i provvedimenti di liberalizzazione degli accessi (tabb. 12-13). Al di là dell’andamento delle singole facoltà, i numeri relativi alle lauree, se messi a confronto con le iscrizioni, evidenziano un tasso di riuscita negli studi eccezionalmente basso a dimostrazione che, per il percorso giuridico, gli abbandoni rappresentano un fenomeno molto consistente e tendenzialmente in aumento già nel ventennio 1950-1970. Inoltre, le dinamiche delle lauree in giurisprudenza non seguono quelle delle iscrizioni. Il primato di Bologna – la facoltà giuridica più numerosa – è infatti seriamente insidiato da Ferrara, una facoltà per certi versi ancora marginale: tra il 1946/47 e il 1970 la prima immette sul mercato 1.847 laureati, contro 1.646 dell’ateneo ferrarese, 1.105 di quello di Parma e 690 laureati dell’Università di Modena.

Dagli anni Trenta del Novecento le iscrizioni all’istituto superiore e poi alla facoltà di economia e commercio dell’Università di Bologna conoscono un continuo e rapido incremento – da 427 nel primo anno accademico gli studenti diventano 2.615 nel 1941/42 [Lipparini 2005, 131] – che si interrompe nel 1942-1945 a causa della guerra. A questa naturale diminuzione segue, dalla fine del conflitto al 1948, un nuovo aumento, probabilmente dovuto alla presenza di reduci di guerra che riempiono le aule universitarie perché non hanno un’altra occupazione. La capacità di richiamo degli studi economici si interrompe nei primi anni Cinquanta quando le iscrizioni si deprimono e aumenta la quota dei ritardatari. Si tratta, in ogni caso, di una diminuzione che non interessa solo Bologna ma coinvolge tutte le facoltà di economia e commercio del territorio nazionale: nel complesso tra il 1950 e il 1953 gli studenti in corso di economia passano da 17.562 a 16.228.

Dalla metà degli anni Cinquanta fino al 1963, le iscrizioni alla facoltà di economia e commercio dell’Università di Bologna riprendono a crescere: gli iscritti in corso quasi raddoppiano, mentre il numero dei fuori corso si riduce almeno fino al 1960. Successivamente invece, e fino al 1973, le iscrizioni conoscono un nuovo calo che tuttavia non coinvolge le studentesse – tra il 1963 e il 1969 continuano ad aumentare sia in termini assoluti che percentuali – ma solo la componente maschile (tab. 14). La contrazione delle nuove iscrizioni non è dovuta solo alle preoccupazioni occupazionali, quanto piuttosto ai provvedimenti di parziale e poi totale liberalizzazione degli accessi che per la prima volta consentono ai diplomati degli istituti tecnici commerciali di iscriversi a una facoltà diversa da quella che fino ad allora è stata la “naturale” e al contempo obbligatoria prosecuzione degli studi universitari. Inoltre, sull’andamento delle iscrizioni a economia nell’Università di Bologna pesa la concorrenza di due nuove facoltà: quella di economia e commercio dell’Università di Modena, che vede quasi raddoppiare i propri iscritti tra il primo anno accademico e il 1970/71, e la facoltà di scienze politiche aperta nell’Università di Bologna che attrae quote importanti di giovani diplomati.

Il calo delle iscrizioni che dal 1960 investe la facoltà di economia e commercio di Bologna coinvolge anche quella di Parma (tab. 15). Dall’anno dell’apertura dei corsi (1954/55) questa facoltà conosce una crescita vertiginosa delle iscrizioni che però si arresta nella prima metà degli anni Sessanta quando restano stazionarie per alcuni anni per poi scendere tra il 1968/69 e il 1970. Le facoltà di economia e commercio di Bologna e di Parma non sembrano, quindi, scelte in qualche misura sostitutive. Sul terreno dei ritardatari e della riuscita esiste, invece, una variabilità apprezzabile tra le due facoltà. A Parma, il numero dei fuori corso in economia assume nel tempo un peso preponderante, mentre nella facoltà di economia dell’Università di Bologna, i ritardatari, dopo essere esplosi nel 1950/51, calano per tutto il corso del decennio, restano poi stabili fino al 1969, tendono nuovamente a crescere nell’ultimo anno preso in esame.

Per quanto riguarda la consistenza dei laureati in economia nei due atenei dell’Emilia Romagna (tab. 16), la facoltà di economia e commercio di Bologna evidenzia fino al 1958 una contrazione (pur non continuativa) delle lauree dovuta al calo sia degli iscritti sia della regolarità degli studi. Dalla fine degli anni Cinquanta, in coincidenza con la ripresa delle iscrizioni e la stazionarietà dei ritardatari, il numero dei dottori in economia e commercio riprende ad aumentare anche se tale tendenza risulta influenzata da avvenimenti contingenti, cioè accaduti in un singolo anno accademico (133 neo-dottori in economia usciti nel 1961/62, 173 laureati due anni dopo). La facoltà di economia e commercio di Parma presenta la maggiore concentrazione di lauree nei primi anni di attività (fino al 1959/60), a cui fa seguito una contrazione del gettito dei laureati che si stabilizza a poco meno di 120 all’anno e, infine, una crescita delle lauree tra il 1964/65 e il 1968/69 quando i laureati passano da 116 a 160.

Analogamente a quanto si è osservato per il percorso giuridico, economia e commercio produce nel complesso pochi laureati rispetto al numero degli iscritti (in corso e fuori corso), e mostra una riuscita più elevata solo negli anni della contestazione studentesca. Nel 1970, infatti, la facoltà di economia di Bologna laurea 272 neo-dottori, da quella di Parma escono 229 laureati.

Nell’ambito degli studi ingegneristici occorre in primo luogo considerare l’andamento degli iscritti al biennio propedeutico che è attivo in tutti gli atenei della regione (tab. 17), e quello delle iscrizioni ai corsi di laurea della facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna che, per tutto il periodo qui preso in esame, resta l’unico centro formativo del territorio regionale (tab.18). Al termine del secondo conflitto mondiale, il percorso ingegneristico – biennio propedeutico e corsi di laurea – conosce un aumento di nuove iscrizioni che si aggiungono agli studenti che durante la guerra hanno dovuto sospendere gli studi o sostenere esami presso altre sedi universitarie. Nel 1947/48 gli studenti complessivi del biennio propedeutico sono 855 a cui vanno sommati 97 fuori corso, mentre la facoltà di ingegneria di Bologna raccoglie 1.309 studenti in corso, pari al 10% del totale, e 1.015 fuori corso che costituiscono il 10,3% del complesso dei ritardatari di ingegneria.

In Emilia Romagna, la forte impennata delle nuove iscrizioni a ingegneria tende però a esaurirsi già dal 1948 quando, all’aumento del numero dei ritardatari, corrisponde un calo degli studenti in corso e degli immatricolati che restano stazionari fino al 1960. Da quella data il percorso ingegneristico ritorna ai vertici delle scelte degli studenti (maschi): nel 1964/65 gli iscritti al biennio propedeutico sono oltre 1.400, quelli della facoltà di ingegneria di Bologna sono diventati 1.716. Tutto ciò avviene per effetto del “miracolo economico” che migliora le condizioni economiche e la capacità di spesa delle famiglie per l’istruzione dei figli, indirizzandola verso quei percorsi di studio (secondari e universitari) che hanno maggiori possibilità di sbocchi occupazionali nei settori trainanti dell’economia e dell’industria, come, appunto, ingegneria. La crescita degli iscritti a ingegneria prosegue ininterrotta e diviene vertiginosa negli ultimi anni Sessanta: gli studenti in corso del biennio propedeutico iscritti nei quattro atenei della regione da 2.412 nel 1967/68 salgono a 3.657 nel 1970/71; quelli della facoltà di ingegneria di Bologna passano da 1.633 a 3.549. A spingere è ora il processo di parziale (1961) e poi totale (1969) liberalizzazione degli accessi che consente ai diplomati degli istituti tecnici industriali e per geometri di proseguire gli studi nella facoltà di ingegneria. Questi provvedimenti legislativi si saldano con la situazione economica italiana che, terminata la fase propulsiva, vive una congiuntura negativa. Per i tanti diplomati degli istituti tecnici industriali, la decisione di iscriversi all’università nasce, quindi, oltre che dal legittimo desiderio di completare la propria formazione, dalle oggettive difficoltà di inserirsi in un mercato del lavoro tendenzialmente saturo [Cantagalli 2012b].

Le iscrizioni alla facoltà di ingegneria di Bologna tra il 1947 e il 1970 hanno un andamento simile a quello nazionale. Gli studenti del percorso ingegneristico crescono fino a diventare oltre 13.000 nel 1948, perdono di importanza negli anni successivi (gli iscritti in corso sono 6.652 nel 1950/51) e restano stazionari per tutto il decennio. Da allora ricominciano a crescere in maniera consistente, soprattutto negli anni della liberalizzazione degli accessi: da circa 14.000 nel 1967/68, diventano quasi 27.400 nel 1970/71.

Il ritardo nella riuscita degli studi è, come detto, un fenomeno generalizzabile all’intero sistema universitario italiano, ma per ingegneria diviene strutturale e particolarmente accentuato, a testimonianza della difficoltà di completare il percorso accademico e di laurearsi nei tempi previsti. Nel 1947/48 i fuori corso sono 9.810 e rappresentano poco meno della metà del totale degli iscritti a ingegneria, crescono senza interruzione fino al 1950, quando sono 10.201 pari a oltre il 60% degli studenti complessivi, calano gradualmente fino a rappresentare circa un terzo del totale. Negli atenei dell’Emilia Romagna, la quota dei ritardatari al biennio propedeutico cresce in maniera costante ed esponenziale fino alla fine degli anni Sessanta quando la tendenza si inverte (tab. 19); nella facoltà di ingegneria di Bologna i fuori corso superano gli studenti in corso fino alla metà degli anni Cinquanta, si ridimensionano progressivamente nel decennio successivo, si espandono velocemente a partire dalla metà degli anni Sessanta.

Per quanto concerne l’orientamento professionale degli studenti iscritti alla facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna, dal secondo Novecento si rafforza il peso di ingegneria industriale rispetto a ingegneria civile, mentre minor interesse suscitano i corsi di ingegneria chimica e di ingegneria mineraria (tabb. 20-21). La scelta di un indirizzo specialistico piuttosto che un altro, riflette le aspettative e le speranze occupazionali delle giovani generazioni dell’Italia repubblicana degli anni della ricostruzione e del successivo slancio economico: se ingegneria civile consente di svolgere pratiche professionali molto diversificate – dalla libera professione, all’impiego nelle istituzioni pubbliche e nelle aziende private –, la laurea in ingegneria industriale è un titolo di studio tra i più spendibili, che garantisce un elevato tasso di occupazione, di retribuzione e di ascesa a posizioni dirigenziali.

La riforma degli studi ingegneristici del 1960 attiva, accanto ai corsi esistenti, nuovi corsi, come quello di elettronica e poi di ingegneria nucleare, mentre altri vengono sdoppiati. La più ampia offerta formativa modifica il peso dei singoli indirizzi nel senso che accanto agli ingegneri meccanici e a quelli elettrotecnici, ad aumentare sono gli studenti iscritti al corso di laurea in ingegneria elettronica (tabb. 22-23).

L’andamento delle lauree nella facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna rispecchia quello delle iscrizioni (tab. 24): crescono tra il 1946/47 e il 1953/54, calano fino al 1960, aumentano in maniera prima graduale poi esponenziale tra il 1964/65 e il 1969 quando raddoppiano. Lo stesso vale per la scelta degli indirizzi specialistici (tab. 25). Dalla ripresa postbellica cresce progressivamente la quota dei laureati in ingegneria industriale, mentre gli ingegneri civili, dopo un iniziale aumento, calano per poi mantenersi stazionari fino alla metà degli anni Cinquanta quando riprendono a diminuire. Degli altri indirizzi attivati nella facoltà di ingegneria di Bologna va sottolineata la crescita, tra il 1950 e il 1960, dei laureati in ingegneria chimica da 3 a 25. Dopo il 1960, l’apertura di nuovi corsi di laurea (i primi laureati in ingegneria elettronica escono nel 1961/62, quelli in ingegneria nucleare nel 1963/64), determina, come già emerso per le iscrizioni, un aumento della quota dei laureati negli indirizzi specialistici più legati al mondo dell’industria (tab. 26): gli ingegneri meccanici, dopo essere rimasti stazionari fino alla metà degli anni Sessanta, crescono nel 1969 per poi diminuire l’anno successivo; i laureati in ingegneria elettrotecnica, così come quelli in elettronica, continuano ad aumentare in maniera costante per tutto il decennio. L’indirizzo specialistico che fin dalla metà del decennio immette sul mercato del lavoro il maggior numero di laureati ingegneri è indubbiamente ingegneria elettronica (da 31 nel 1961/62 a 148 nel 1970). Degli altri corsi di laurea, crescono, ma di poco, i laureati in ingegneria civile edile e quelli in ingegneria civile dei trasporti, stazionari rimangono i laureati in ingegneria civile idraulica, mentre cala ulteriormente la quota, già marginale, degli ingegneri minerari. I dati sull’andamento dei laureati sembrano confermare e rafforzare il ruolo della facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna come luogo di formazione del capitale umano altamente qualificato per l’industria e per il settore in ascesa dei servizi, a discapito dell’ingegneria civile per la quale nel 1875 la Scuola d’applicazione per gli ingegneri di Bologna era sorta.

Delle altre facoltà universitarie che compongono il sistema formativo delle professioni liberali, il peso di farmacia precipita a partire dal 1950 quando da poco meno di 9.500 studenti in corso (a cui vanno aggiunti circa 3.500 ritardatari) si passa a 4.453 iscritti (e 1.940 fuori corso) nel 1965/66. Lungo tutto il periodo qui esaminato, il percorso di studi di farmacia, che ha come sbocco occupazionale privilegiato la professione di farmacista, attrae sempre meno giovani a causa di un mercato del lavoro pressoché chiuso, dove alta è la trasmissione ereditaria della professione e delle farmacie. E’ solo in corrispondenza della liberalizzazione degli accessi che le iscrizioni a farmacia – come del resto per le altre facoltà professionali con la sola eccezione di economia e commercio – riprendono a crescere: tra il 1966/67 e il 1970/71 gli studenti in corso passano da 4.795 a 9.577. Nel panorama regionale degli studi di farmacia, Bologna, Parma e Modena registrano, fino alla fine degli anni Sessanta, un ridimensionamento delle iscrizioni ancora più marcato di quello nazionale, nel senso che neppure con i provvedimenti di liberalizzazione degli accessi riescono a ritornare ai livelli postbellici (tabb. 27-29). Fa eccezione la facoltà di farmacia dell’Università di Ferrara, dove le iscrizioni crescono fino al 1952, successivamente calano in maniera piuttosto consistente, riprendono ad aumentare già dalla metà degli anni Sessanta. Solamente a Ferrara, quindi, i provvedimenti legislativi di totale liberalizzazione degli accessi hanno un effetto moltiplicativo di una tendenza che è già in atto (tab. 30).

Un altro fenomeno che va considerato è l’aumento dei ritardatari. Nel periodo considerato, la quota dei fuori corso oscilla da un terzo alla metà degli studenti complessivi in tutte le facoltà di farmacia degli atenei della regione. La presenza di un alto numero di fuori corso e il continuo calo delle iscrizioni incidono, ovviamente, sull’andamento delle lauree. Nelle facoltà di farmacia prese in esame il numero dei laureati diminuisce progressivamente, anche se esiste una variabilità apprezzabile tra i diversi atenei e tra i vari periodi (tabb. 31-32).

Medicina veterinaria mostra nel periodo 1947-1970 un andamento assai simile a quello di farmacia. Il ridimensionamento delle iscrizioni è per medicina veterinaria particolarmente sostenuto, poiché da 1.832 iscritti in corso nel 1950/51 si passa a 448 studenti nel 1959/60, quando si raggiunge il valore minimo. Da quella data, il numero degli studenti in corso cresce gradualmente ma in maniera costante per poi dilatarsi negli anni della liberalizzazione degli accessi quando le iscrizioni crescono da 1.183 a 2.608 tra il 1968/69 e il 1970/71. Agli studenti in corso occorre aggiungere i fuori corso. Il loro numero esplode negli anni postbellici (nel 1950/51 sono 1.289), diminuisce rapidamente nel corso del decennio di pari passo con le iscrizioni in corso; rimane pressoché stazionario intorno a 160/170 ritardatari fino al 1968, quando riprende a salire sia pure di poco. La facoltà di medicina veterinaria di Bologna e quella di Parma rispecchiano appieno l’andamento generale delle iscrizioni. Nella prima, mentre gli studenti in corso scendono fino alla metà degli anni Sessanta per poi risalire, i fuori corso calano costantemente per tutto il periodo fino a raggiungere il minimo storico nel 1970/71 quando sono poco più del 7% degli studenti complessivi (tab. 33). La facoltà di medicina veterinaria di Parma segue fino al 1960 un andamento di evidente e regolare diminuzione delle iscrizioni in corso che – come a Bologna – decima la popolazione studentesca (tab. 34). Negli anni successivi, la facoltà riacquista una buona capacità di attrazione che emerge appieno a cavallo degli anni Settanta quando gli iscritti in corso schizzano da 151 nel 1968/69 a 462 nel 1970/71. Diversamente però da Bologna, a Parma il numero degli studenti di veterinaria fuori corso stenta a ridimensionarsi almeno fino al 1960: dal 42,8% del totale degli iscritti nel primo anno considerato, si passa al 46,6% nel 1954/55, al 22,7% dieci anni dopo, al 15,6% alla vigilia della liberalizzazione degli accessi quando i ritardatari crollano.

La riuscita negli studi nelle facoltà di medicina veterinaria dell’Emilia Romagna può essere suddivisa in due periodi: dalla fine del secondo conflitto alla metà degli anni Cinquanta il numero di laureati diminuisce ma gradualmente; dal 1956, la quota di medici veterinari che esce dalle due facoltà si riduce rapidamente a poche unità: nel 1964/65 la facoltà di veterinaria di Bologna laurea 28 neo-dottori, quella di Parma 15 veterinari (tab. 35).

L’andamento delle iscrizioni e delle lauree a medicina veterinaria testimonia di una professione che ancora alla fine degli anni Sessanta è poco diffusa, confinata tra la veterinaria pubblica e la cura dei «grandi animali» allevati a scopo zootecnico [Battelli, Mantovani, Marvasi 2009, 167-170].

Altrettanto poco diffusi sono nel nostro paese gli studi agrari, i cui studenti rimangono stabili fino alla metà degli anni Sessanta quando la facoltà di agraria comincia ad attrarre un numero crescente di giovani (da 3.040 nel 1965/66 si passa a 6.778 nel 1970/71). La tendenza nazionale trova conferma nella facoltà di scienze agrarie dell’Università di Bologna dove al sovraffollamento che caratterizza gli anni della ricostruzione postbellica segue una fase di progressivo “ritorno alla normalità” che si conclude alla fine del primo decennio (tab. 36). Da quella data, gli studenti restano stazionari (sono il 2% della popolazione studentesca dell’ateneo bolognese) fino al 1965 quando cominciano a salire (da 333 diventano 807 nel 1970/71). L’evoluzione dei laureati in scienze agrarie ricalca quella delle iscrizioni (tab. 37). A partire dal 1950 la facoltà di agraria di Bologna produce ogni anno un numero di laureati che oscilla mediamente tra i 68 e i 64 fino al 1968. Nei due anni successivi, le lauree tendono ad aumentare anche se in misura nettamente inferiore a quanto si è qui osservato per altre facoltà universitarie.

Che cosa si può concludere da questa prima ricostruzione d’insieme dei percorsi dell’istruzione universitaria? Innanzitutto l’accesso alle facoltà professionali degli atenei dell’Emilia Romagna conosce nel periodo considerato rallentamenti, diminuzioni e accelerazioni anche abbastanza vistosi. Dal 1963 si delineano direttrici di crescita più consistenti che investono medicina e ingegneria, mentre altri percorsi di studio rimangono pressoché stazionari (giurisprudenza, scienze agrarie) o continuano a ridimensionarsi (veterinaria, farmacia). In ogni caso, nelle università dell’Emilia Romagna l’istruzione professionale rimane molto contenuta almeno fino alla fine degli anni Sessanta.

In secondo luogo, già dal secondo Novecento le facoltà professionali attive in Emilia Romagna si caratterizzano per un tasso di dispersione universitaria che appare particolarmente elevato a giurisprudenza, economia e commercio, ingegneria. Tutto ciò contribuisce a rafforzare l’immagine di un circuito universitario regionale che non favorisce forme di mobilità e di inclusione sociale, né produce un eccesso di laureati rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato del lavoro, confermando anche per il caso dell’Emilia Romagna quanto già evidenziato da ricerche condotte a livello nazionale [Cammelli, di Francia 1996]. Il confronto dei risultati con il più ampio quadro italiano mostra, infatti, come le facoltà professionali degli atenei dell’Emilia Romagna abbiano generalmente un andamento analogo a quello nazionale. Al contempo, alcune di esse – farmacia, economia e commercio – presentano proprie specificità sulle quali pesano le dinamiche economiche, sociali e politiche delle aree territoriali oggetto di questa indagine. Che le peculiarità territoriali influiscano sulle scelte universitarie lo dimostra, del resto, il fatto che le facoltà professionali della regione abbiano spesso un andamento (nelle iscrizioni e nel tasso di riuscita negli studi) affatto omogeneo.

Quanto alla componente femminile, nelle facoltà professionali dell’Emilia Romagna, l’andamento delle iscrizioni e delle lauree non evidenzia alcuna precocità o peculiarità rispetto al quadro nazionale: dalla fine del secondo dopoguerra si registra un incremento della domanda di istruzione femminile a giurisprudenza, economia e commercio e medicina che però non è ancora in grado di modificare assetti ed equilibri consolidati; mentre la presenza delle studentesse e delle laureate costituisce un’eccezione nei corsi di laurea in medicina veterinaria, agraria e ingegneria, i quali rimangono per tutto il periodo qui esaminato aree di formazione (e di professione) assolutamente maschili. Anche la facoltà di farmacia, l’unica nella quale la suddivisione tra maschi e femmine – sia per gli iscritti che per i laureati – è già dagli anni Trenta pressoché paritaria, registra a partire dal 1960 una attenuazione della femminilizzazione che però non investe in egual misura tutti gli atenei dell’Emilia Romagna. L’affermazione delle donne all’interno di aree del sapere nate e declinate al maschile appare, quindi, anche negli atenei dell’Emilia Romagna, come un percorso lento e faticoso sul quale pesa, molto più che per gli uomini, l’appartenenza e la provenienza sociale. A farmacia le iscrizioni conoscono una forte impennata già nel 1970, a giurisprudenza e a economia e commercio il boom delle laureate si ha dalla fine degli anni Settanta, a veterinaria ed agraria per raggiungere il 20% delle iscrizioni femminili è necessario attendere il decennio successivo, mentre nella roccaforte di ingegneria addirittura gli anni Novanta.

Infine, risalta il ruolo preminente che le facoltà professionali dell’Ateneo di Bologna ricoprono nel sistema universitario regionale: per l’ampiezza dell’offerta formativa, le dimensioni della popolazione studentesca, la visione culturale esse si confermano come polo attrattivo e di sviluppo integrato dell’offerta formativa regionale.

3. Le carriere professionali

Quanti sono i laureati delle facoltà professionali dell’Emilia Romagna che scelgono di intraprendere la carriera libero professionale? Rispondere a questa domanda non è affatto facile. Le prospettive lavorative che si aprono ai laureati in giurisprudenza, economia e commercio, ingegneria o scienze agrarie sono diverse: funzionario, dirigente, imprenditore, impiegato, insegnante, consulente aziendale. Tra queste, la libera professione è tra le meno ambite, ad eccezione dei laureati della facoltà di legge per i quali essa rappresenta l’approdo “naturale”, anche se non esclusivo [Tacchi 2002]. I medici lavorano negli ospedali o negli ambulatori degli enti mutualistici, hanno incarichi universitari, si rivolgono al mercato sanitario privato; i veterinari si impiegano nei servizi veterinari provinciali oppure presso gli istituti zooprofilattici e le università, mentre sono pochi coloro che si dedicano esclusivamente alla libera professione.

Attraverso dati quantificabili, si è cercato di comprendere come si configura e si evolve nel primo ventennio repubblicano la tendenza dei laureati e delle laureate delle facoltà professionali a intraprendere la carriera libero professionale. Con in mente questo obiettivo, vengono utilizzati non gli albi professionali conservati dagli ordini professionali né i dati relativi alle iscrizioni alle casse previdenziali che esprimono la consistenza numerica (totale e per sesso) dei professionisti [Cantagalli, Malatesta 2015], ma i dati Istat che si riferiscono al superamento dell’esame di Stato richiesto per l’esercizio delle professioni. I dati, distinti per sesso, sono disponibili dal 1958, ossia dalla reintroduzione degli esami di Stato. Dall’analisi rimane esclusa la professione forense – fino alla riforma del 1997 distinta tra avvocati e procuratori legali – per la quale tali dati non sono accessibili. Nell’esaminare l’andamento delle abilitazioni va tenuto presente che la promozione all’esame di Stato non implica automaticamente l’esercizio della professione poiché solo una parte di coloro che lo superano si dedicano effettivamente alla libera professione. Da ciò deriva un indubbio sovradimensionamento della propensione alla libera professione di cui occorre tenere conto.

I dati sulle abilitazioni alle professioni di medico, farmacista, veterinario, dottore commercialista e agronomo conseguite nelle circoscrizioni di Bologna, Ferrara, Modena e Parma sono poi messi a confronto con quelli dei laureati usciti dagli atenei dell’Emilia Romagna. Facendo ciò, non si vuole mostrare l’esistenza di una relazione automatica e necessaria tra le due serie di dati, perché la scelta di intraprendere la carriera libero professionale potrebbe essere compiuta in un momento successivo alla laurea, quanto piuttosto comprendere se il trend delle abilitazioni (totali e femminili) relativi alle singole professioni vada di pari passo con quello della riuscita negli studi.

Gli ingegneri, dopo l’artificiale e inevitabile rigonfiamento delle abilitazioni che caratterizza il primo anno di reintroduzione dell’esame di Stato, sono i soli a presentare un aumento ininterrotto lungo tutto il periodo (tab. 38). Nel 1967, la quota di coloro che si abilitano a Bologna arriva a sfiorare il 18% del totale nazionale degli abilitati ingegneri. L’incremento delle abilitazioni alla professione di ingegnere che si registra nella circoscrizione di Bologna, non si discosta dall’andamento delle lauree in ingegneria già evidenziato per l’Università di Bologna testimoniando la definitiva ascesa della professione dell’ingegnere, ossia del suo ingresso in un mercato professionale prestigioso, caratterizzato da una crescente domanda di expertise tecnica da parte delle imprese e degli enti pubblici.

Tra il 1958 e il 1970 in Emilia Romagna si abilitano 557 veterinari (357 nella sede di Bologna e 200 a Parma). I dati riguardanti l’andamento degli accessi alla professione di veterinario evidenziano tuttavia una generale tendenza al contrarsi, che per Bologna prosegue fino al 1970 mentre a Parma sembra invertirsi due anni prima (tab. 39). In ogni caso, gli ingressi non arrivano mai a superare le poche decine all’anno per tutto il periodo considerato (i primi anni Sessanta registrano il minor numero di abilitazioni), indice di un mercato professionale che resta sostanzialmente invariato. E’ solo con la creazione nel 1978 del Servizio sanitario nazionale – che sopprime le condotte veterinarie, affida le competenze di tutela, vigilanza e controllo ai servizi veterinari che operano all’interno dei dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie locali ed equipara anche sotto il profilo economico i veterinari ai medici – che si determina un aumento dei veterinari impiegati nella sanità pubblica. Dagli anni Ottanta, poi, ai nuovi assetti della veterinaria pubblica si accompagnano le trasformazioni che investono il mercato sanitario libero professionale, che dalla cura dei grandi animali si allarga a quella, oggi assolutamente predominante, degli animali da compagnia.

I dati sull’andamento delle abilitazioni alla professione di veterinario ci dicono, però, anche altro. Nel periodo 1958-1970, sul totale nazionale degli abilitati alla professione di veterinario la quota di coloro che si abilitano in Emilia Romagna cresce costantemente, passando da meno del 30% a oltre il 40%. A livello di distribuzione territoriale, quindi, la regione vede aumentare in misura importante la presenza dei veterinari rispetto alle altre aree del paese, a dimostrazione di una diffusione territoriale della professione a “macchia di leopardo” (più alta nelle regioni settentrionali, invariata nelle regioni centrali, più bassa al sud) che perdura tutt’oggi [Fnovi 2010].

Nell’ambito delle professioni di tipo tecnico, quella dell’agronomo presenta un andamento altalenante, con crescite e cali continui, e scostamenti piuttosto significativi: il valore massimo si ha nel 1961, quando nella sede di Bologna si abilitano 51 agronomi, quello minimo l’anno dopo con 24 abilitati (tab. 40). Diversamente da quanto si è osservato per i veterinari, la percentuale di agronomi raramente supera il 15% del complesso nazionale. In Emilia Romagna, l’andamento delle abilitazioni alla professione di agronomo appare in netto contrasto con le esigenze di un’agricoltura che, già all’avanguardia, dagli anni Sessanta accelera l’ammodernamento delle sue strutture aziendali e potenzia i settori della filiera agroalimentare di maggior impatto economico e produttivo.

Per i laureati della facoltà di economia e commercio la libera professione stenta ancora a essere una scelta di carriera privilegiata (tab. 41). Dal 1958 al 1970, nella circoscrizione di Bologna si abilitano 266 dottori commercialisti, dei quali ben 172 tra il 1966 e il 1970. A Parma, il numero degli abilitati resta esiguo per tutto l’arco considerato, abilitandosi 115 dottori commercialisti. Inoltre, diversamente da Bologna, nella circoscrizione di Parma non si registra mai un aumento significativo del numero di dottori commercialisti che annualmente vengono abilitati, oscillando tra 15 nel primo anno e 10 nel 1970. L’andamento delle abilitazioni alla professione di dottore commercialista che si registra in Emilia Romagna contrasta con il gettito di laureati che ogni anno esce dalle facoltà di economia e commercio della regione, ma riflette appieno le difficoltà di una professione che in questi decenni non ha ancora raggiunto «l’indispensabilità professionale, sociale ed economica» [Cantagalli 2012a, 161] e che si trova ad agire in un campo, quello economico-contabile, che è altamente concorrenziale per la presenza dei ragionieri professionisti.

I farmacisti, sia pure tra alti e bassi, evidenziano – analogamente alle lauree – un calo complessivo delle abilitazioni: tra il 1958 e il 1970 la sede che registra il calo maggiore è Modena, mentre Parma evidenzia la diminuzione meno accentuata (tabb. 42-43). L’andamento regionale delle abilitazioni è indice di un mercato lavorativo estremamente statico dove le opportunità di inserimento dei neo-farmacisti sono pochissime a causa dell’esistenza di un legame forte tra famiglia e professione. Nelle campagne così come nei centri urbani, la farmacia continua a configurarsi come una azienda familiare in cui diversi membri possono essere impiegati e che si trasmette per via ereditaria come parte del patrimonio economico della famiglia stessa. Figli e nipoti sono così considerati i destinatari naturali dell’attività imprenditoriale (la farmacia appunto): vengono indirizzati agli studi universitari di farmacia, al conseguimento della laurea e all’iscrizione all’albo professionale, prerequisito necessario per proseguire l’attività di famiglia.

Nell’ambito delle professioni sanitarie, in Emilia Romagna i medici registrano un andamento delle abilitazioni che, più che altrove, riflette quello delle iscrizioni e delle lauree nelle singole facoltà mediche attive in regione (tabb. 44-45). A Bologna, dopo un iniziale calo, a partire dal 1964 le abilitazioni riprendono a salire per esplodere tra il 1966 e il 1968, quando annualmente si abilitano oltre 400 medici; nella sede di Ferrara rimangono pressoché stazionarie (tra 50 e 60 abilitati ogni anno) per tutto il periodo considerato con l’eccezione di due sessioni (1960 e 1961) che vedono abilitarsi oltre 90 medici ciascuna. Modena presenta il più alto grado di volatilità, tanto che non è possibile delineare una specifica direttrice; Parma, infine, mostra una crescita più costante (ad esclusione del primo anno quando si abilitano ben 127 medici) che raggiunge il valore più alto nel 1969 con 191 abilitati.

Osservando i dati sulle abilitazioni si evidenzia come ancora nel secondo Novecento i professionisti liberali rimangano un gruppo elitario, formato dagli strati medio alti della borghesia, e per certi versi piuttosto chiuso, una caratteristica questa che appare particolarmente accentuata per i farmacisti ma anche per avvocati e procuratori legali, i quali nel primo ventennio repubblicano passano sull’intero territorio nazionale da poco meno di 30.000 a circa 38.000 nel 1971 [Tacchi 2009a, 259].

Quanto all’effettiva presenza delle donne nelle professioni liberali, da un lato emerge la loro quasi totale assenza nelle professioni tecniche: in Emilia Romagna – ma il discorso vale anche per il più ampio quadro nazionale – le donne entrano nelle professioni di veterinario, ingegnere e agronomo in numero così esiguo da non consentire alcuna visibilità o riconoscimento. Dall’altro lato risalta l’assenza di un parallelismo tra la crescita dell’istruzione universitaria femminile che investe le facoltà di giurisprudenza e di economia e commercio della regione e l’accesso alle professione di avvocato e di dottore commercialista. Tra il periodo postbellico e il 1970, il numero delle giovani donne che sceglie la carriera libero professionale continua a restare scarsa tra i professionisti del diritto [Tacchi 2009b] così come tra i dottori commercialisti. Sul passaggio dall’istruzione professionale all’esercizio della libera professione, pesa in questi come negli anni successivi, una serie di variabili riconducibili al ceto sociale, alle famiglie di provenienza, alle realtà territoriali di riferimento. Nel confronto con le altre professioni liberali la presenza femminile appare però più visibile tra gli abilitati in farmacia e in medicina e chirurgia. Se infatti la femminilizzazione della professione di farmacista risulta in assoluto la più elevata non risentendo della contemporanea diminuzione delle iscrizioni e delle lauree, la quota di donne medico abilitate arriva a superare nel 1965 il 17% nella circoscrizione di Bologna e in quella di Modena, mentre Ferrara e Parma si confermano a livello regionale come le aree territoriali più statiche e che abilitano il minor numero di donne medico a conferma della correlazione esistente tra l’istruzione universitaria femminile e un mercato del lavoro differenziato per genere.

Così come per l’istruzione universitaria, anche per le professioni liberali, gli anni Settanta rappresentano un momento di rottura rispetto ai modelli del passato: la liberalizzazione degli accessi innesca un ciclo ascendente i cui effetti cominciano a vedersi dagli inizi degli anni Ottanta. Da quel momento, il numero dei professionisti iscritti agli albi aumenta in maniera costante e accentuata fino a raggiungere in alcuni settori (in primis l’avvocatura e le professioni economico-contabili) una condizione di vero e proprio sovraffollamento. L’altra conseguenza dell’aumento dei laureati è l’avvio del processo di femminilizzazione delle professioni liberali, anche se la parità di presenza è ancora oggi lontana e permangono discrepanze importanti che riguardano la posizione occupata dalle professioniste sul mercato del lavoro e la disparità dei livelli di reddito [Cantagalli, Malatesta 2015, 451-454].


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Risorse


Note

1. Per comodità nella trattazione, nell’intero saggio si usa il termine “facoltà professionali” per indicare le facoltà che compongono il sistema formativo delle professioni liberali.