La ristorazione aziendale
Questo articolo fa parte di un più vasto progetto di ricerca sulla ristorazione aziendale italiana nel corso del Novecento [Adorni e Magagnoli 2015 e 2016], incentrato in particolare sugli anni del boom economico, condotto dalle Università di Parma e Torino e incardinato all’interno di Food Lab. Il tema di ricerca si colloca a cavallo tra gli studi sul “welfare aziendale” [Benenati 1999; Trezzi e Varini 2012; Varini 2012] e i Food Studies, con cui questo lavoro ha evidenti debiti metodologici. L’articolo ha un obiettivo specifico: verificare in quale misura le mense e gli spacci aziendali riescano a mitigare le difficoltà alimentari dei lavoratori della Fiat durante le difficili congiunture della Seconda guerra mondiale. E anche come, questo stesso sistema di welfare, intervenga a sostegno non solo dei lavoratori, ma anche della popolazione torinese. Un secondo obiettivo è di natura metodologica e intende verificare la natura delle fonti (aziendali e non) per lo sviluppo dello studio di un nodo storiografico rilevante e non ancora appieno indagato.
La scelta, poi, di analizzare il caso della Fiat e della città di Torino trova motivazioni nel fatto che si tratta di una realtà industriale la cui rilevanza – per dimensioni produttive, proiezione sul mercato internazionale e per il particolare rapporto con la città in cui ha le sedi principali – si estende ben oltre i confini nazionali. Il tema e la particolare contestualizzazione dell’articolo, inoltre, indicano una valenza di carattere paradigmatico capace di andare oltre la specificità locale.
Il ruolo delle mense Fiat per ridurre il disagio alimentare dei Torinesi si rivela molto importante, sia durante la guerra, sia negli anni dell’immediato dopoguerra. Nel caso dei dipendenti (e dei loro familiari) l’impegno dell’impresa è in linea di continuità con gli anni precedenti e s’inserisce in un sistema di welfare aziendale robusto e strutturato. L’aumento delle difficoltà, che coincidono con l’ultimo biennio di guerra, spingono la Fiat a estendere il proprio intervento all’intera cittadinanza, sostenuta dall’azienda automobilistica nei suoi bisogni alimentari. Direttamente, aprendo ai Torinesi le cucine aziendali. Indirettamente, rifornendo di generi alimentari le cucine di altre organizzazioni, tra cui, in particolare l’Onarmo [Vita 2003, 126 ss.].
L’esperienza abbraccia il quinquennio bellico, ma si prolunga anche dopo la fine del conflitto, divenendo un ammortizzatore dell’emergenza almeno sino alla fine del 1946. Per molti motivi, il comportamento della Fiat può essere letto come un’espressione del ruolo particolare rivestito dall’azienda nell’ambito cittadino, anche se apre a nuove riflessioni sull’insufficienza istituzionale (nazionale e locale) nel governare la risorsa annonaria, sia durante la guerra che negli anni immediatamente successivi.
Per ciò che riguarda le questioni metodologiche (natura e consistenza delle fonti) il giudizio è sostanzialmente interlocutorio. Allo stato attuale, infatti, dopo avere sondato un primo campione di archivi aziendali, si deve constatare la relativa frammentarietà delle fonti, solo in parte riconducibili alla questione. Tale considerazione si estende anche ai decenni successivi, quando la mole documentaria disponibile è senz’altro inferiore all’effettiva rilevanza del fenomeno.
Per affrontare il tema delle mense aziendali Fiat occorre accennare brevemente al contesto generale del welfare realizzato dall’impresa torinese al cui interno si colloca questo fenomeno particolare.
La costruzione di un sistema di welfare aziendale inizia alla Fiat nella prima metà degli anni Venti e coincide con la crescita dimensionale dell’impresa che porta con sé la progressiva introduzione di modelli organizzativi ispirati al paradigma fordista [Musso 1999a, 242]. Tale scelta deriva dalla presa d’atto che, con la trasformazione della Fiat in un’azienda di grandi dimensioni, si vengono a creare delle nuove necessità, che riguardano in particolare la vita dei lavoratori. Sono quelle “mine vaganti” di cui ha scritto Piero Bairati e che la disciplina di fabbrica e il rigido ordinamento gerarchico – da soli – non sono in grado di disinnescare. Per questi motivi la strategia aziendale inizia a curarsi della vita dei lavoratori anche fuori del lavoro, facendosi carico dei suoi bisogni e ponendosi l’obiettivo di organizzare il suo tempo libero [Bairati 1983, 61]. Nel 1921 viene così istituita la cassa mutua per gli impiegati e nel 1923 quella per gli operai. Nel 1924 viene realizzata la prima colonia montana per i figli dei dipendenti e, l’anno seguente, quella marina di Finale Ligure. Nel 1925 è creato il dopolavoro aziendale [Musso s.d., 6].
Concepite e ideate come strumento utile a garantire la pace sociale all’interno del ciclo produttivo e ad aumentare la produttività del lavoro, le politiche di assistenza negli anni del regime permettono alla direzione aziendale – forte delle prestazioni assistenziali aziendali – di contenere l’influenza dei sindacati fascisti. Quest’utilizzo delle istituzioni fasciste (tra cui anche il dopolavoro) rappresentano uno degli elementi che creano qualche attrito – più formale che sostanziale – tra Agnelli e Valletta e il fascismo torinese, che dispone il controllo delle comunicazioni telefoniche della dirigenza Fiat [Bairati 1983, 65].
È però la guerra, e in particolare l’acuirsi delle difficoltà materiali che si registrano a partire dal 1943, a trasformare la natura stessa dell’assistenza. Per molte famiglie operaie essa diviene infatti «una fonte insostituibile di mantenimento di condizioni vitali minime» [Musso 1999a, 242], risorsa capace di enfatizzare il senso di appartenenza (e di riconoscenza) all’azienda. In questi anni, la percezione dei dipendenti Fiat (come del resto dell’intera collettività) passa dal vantaggio al privilegio. Dal vantaggio relativo rappresentato dal poter disporre di attività sportive e ricreative, delle colonie per i figli si passa al privilegio di poter contare sulla disponibilità di beni di primaria necessità come cibo e carbone [Musso 1999a, 242-243]. Come vedremo nelle pagine seguenti, negli anni della guerra la Fiat assume un ruolo “istituzionale” che va ben oltre le sue prerogative di grande industria. La sua attività finisce per sovrapporsi – e in qualche frangente – a sostituirsi alle istituzioni pubbliche (Comune, Prefettura e organizzazioni fasciste), la cui capacità di intervento è quasi completamente annullata dalla disarticolazione dell’autorità pubblica. Nulla di diverso di quanto accade in altre realtà italiane, quindi, per ciò che concerne gli effetti devastanti della guerra sulla capacità operativa delle istituzioni. Inedita e indubbiamente originale la risposta: con un numero di dipendenti che, nel 1941, supera le 60.000 unità nei soli stabilimenti torinesi, la Fiat garantisce numerose forme di assistenza che, più o meno direttamente, interessano almeno un terzo della popolazione della città [Musso 1999a, 243].
Nel bel mezzo della guerra, anche l’azione rivendicativa si sposta dalle tradizionali questioni dei ritmi produttivi e delle forme contrattuali al terreno assistenziale, in una dialettica che vede la crescente influenza dei militanti dei partiti della sinistra affiancarsi e, per certi versi, contrapporsi ai bisogni impellenti creati dal conflitto. L’assistenza di fabbrica assume così una rilevanza mai conosciuta in passato [Musso 1999a, 244]; una centralità che toccherà punte così elevate solo negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto.
La guerra
Le incursioni aeree anglo-americane sulle città in guerra, che nel secondo conflitto assumono una frequenza inedita, producono nella popolazione civile effetti devastanti. Paura, panico e ansia diventano i sentimenti quotidiani con cui condividere la penuria dei pochi alimenti che si riescono a trovare nelle maglie di un razionamento annonario insufficiente e un “mercato nero” accessibile solo a carissimo prezzo. Torino, città del Triangolo industriale di fondamentale importanza e nodo ferroviario di connessione tra Europa centrale e mediterranea, subisce tra il 1940 e il 1945 – al pari di Genova e Milano – circa una cinquantina di incursioni aeree [Baldoli 2010, 35], a testimonianza di una strategia bellica innovativa che, grazie al rapido progredire delle tecnologie, porta al coinvolgimento della popolazione civile [Labanca (ed.) 2012; sullo specifico caso torinese si vedano Artom 2008; Chevallard 2005; De Luna 1995].
Cesare Pavese è un testimone attento dello sgomento che si diffonde tra i torinesi rimasti a presidio della città quando suonano le sirene della difesa contraerea: «suonava l’allarme. Sentii, come se ci fossi, la città raggelarsi, il trepestío, porte sbattersi, le vie sbigottite e deserte [...]. Dappertutto si correva» [Pavese 1987, 27]. Probabilmente non basta la sua penna per descrivere pienamente le sofferenze di Torino, città ormai attonita e terrorizzata, sfregiata dallo scempio delle bombe e dall’occupazione nazista, che non ha incontrato resistenze e si è impossessata della città «come l’acqua sommerge un villaggio» [Pavese 1987, 176]. Con due pennellate Pavese delinea lo sbigottimento che in poco tempo riveste i sentimenti di Torino:
tedeschi ossuti e verdi come ramarri presidiavano la stazione, le caserme; la gente andava e veniva stupita che nulla accadesse, nulla mutasse; non tumulti, non sangue per le vie; solamente incessante, sommessa, sotterranea, la fiumana di scampati, di truppa, che colava per i vicoli, nelle chiese, alle barriere, sui treni [Pavese 1987, 176].
La città piemontese è in preda allo stupore, percorsa da una moltitudine disparata di persone smarrite, impaurite, paralizzate dall’attesa impotente di ciò che è sul punto di accadere, e che avverrà senza preavviso. I bombardamenti e l’occupazione militare coinvolgono totalmente la popolazione civile, proiettata così sul proscenio della “guerra totale” [De Luna 1998, 695]. È una rottura a tutto tondo, determinata dall’impatto tra la guerra e una città che soffre, ha paura, ma non smette di continuare a sperare.
Nell’eccezionalità dell’evento bellico, le distinzioni tradizionali vengono meno, e, anzi, si assiste al loro rimescolamento. Il coprifuoco e le bombe, ma anche la fame, il freddo e il terrore [De Luna 1998, 702] sottraggono l’esistenza collettiva ai ritmi tradizionali della vita quotidiana. La guerra sradica dai loro contesti abituali le vite degli individui. Le modifica e le proietta sullo scenario della grande storia, in cui prendono forma nuovi e più intensi fenomeni collettivi. Lo sfollamento, ad esempio, diviene un fenomeno di massa che colpisce in profondità la città di Torino. Agli inizi di luglio del 1943, 338.000 torinesi (il 48,45% della popolazione) hanno già abbandonato la città. Nell’agosto il loro numero sale a 465.000. Di questi, 110.000 sono pendolari che ogni giorno si spostano tra i luoghi di sfollamento e la città [1].
Il fenomeno diventa di massa, anche se non tutti i torinesi hanno le stesse possibilità di sfollare: se dunque i ceti più agiati possono lasciare la città e stabilirsi nelle case di villeggiatura, i ceti popolari lavoratori rimangono loro malgrado a “presidiare” la città.
Tutta una classe di persone – annota sempre Cesare Pavese –, i fortunati, i sempre primi, andavano o se n’erano andati nelle campagne, nelle ville sui monti o sul mare. Là vivevano la solita vita. Toccava ai servi, ai portinai, ai miserabili custodirgli i palazzi e, se il fuoco veniva, salvargli la roba. Toccava ai facchini, ai soldati, ai meccanici. Poi anche costoro scappavano a notte, nei boschi, nelle osterie [Pavese 1987, 70].
Opportunità differenti, che le disuguaglianze di classe rendono più acute. Del resto, poi, come annota Carlo Chevallard nel suo diario sulla Torino in guerra, nemmeno tutti gli sfollati sono uguali:
Torino, 9 dicembre 1942. [...] La carenza di autorità da un lato, l’odio contro il regime dall’altro [...] non fanno che accentuarsi. Le autorità sono sommerse dalla mole di problemi che si presentano: sfollamento sinistrati, case demolite, soccorsi ai profughi sono altrettanti quesiti che non trovano in pratica nessuna risposta soddisfacente. Naturalmente chi ha i mezzi bene o male si aggiusta; i camion, i carri hanno dei prezzi iperbolici (500 lire alla giornata per un carro a due ruote è un prezzo equo), gli affitti e i viveri nelle campagne sono saliti alle stelle e di conseguenza la massa operaia e impiegatizia consuma in questo primo periodo di emergenza le proprie scarne riserve. E dopo? Quando comincerà a piovere o a nevicare [...] cosa sarà di tutte quelle masse che seralmente sfollano nei dintorni a piedi, in bicicletta, appesi sui respingenti e sui predellini dei tram interurbani e dei treni, e che spesso dormono nei pagliai o sotto i portici a Pinerolo, a Susa? A circolare in automobile si ricevono a ogni istante insolenze e improperi: è l’esplosione di odio del povero contro il ricco, del piccolo contro il grande [Chevallard 2005, 28].
La sua natura di città industriale ne determina il destino, e nel corso della guerra Torino diviene un importante obiettivo strategico. Tante sono le incursioni aeree che mettono alla prova una popolazione civile sempre più impaurita e avvilita. Paura e sconforto, che vanno a sommarsi alle criticità causate dal progressivo degrado dei sistemi di approvvigionamento alimentare, che rende difficile anche la vita quotidiana.
Guerra e fame
Anche la fame diventa un’esperienza collettiva della città in guerra. Una fame epica, carica di toni rabelesiani, del tutto inimmaginabile al di fuori del contesto straordinario che la determina.
Per la prima volta dall’inizio della guerra, oggi non sono riuscito a mangiare il pane della tessera: cosa contenga Dio solo lo sa, ma è nero, duro e con un sapore talmente aspro che proprio non mi va giù (e sì che l’appetito non mi manca). E per avere quei due etti la mia segretaria ha girato cinque o sei panetterie, fatto un paio di code e perso mezz’ora. In molte zone della città, poi, già da diversi giorni distribuiscono farina gialla al posto del pane. E abbiamo ancora quasi sei mesi prima di arrivare al nuovo raccolto! [Chevallard 2005, 450 (1° febbraio 1945)].
Il problema del pane si pone sin dal principio della guerra, anche se è solo verso la fine del conflitto che la questione assume toni drammatici, evidenziando la sostanziale incapacità da parte delle istituzioni della RSI – dovuta a una pluralità di fattori – a gestire efficacemente l’approvvigionamento e la distribuzione dei principali generi alimentari [De Luna 1998, 721; per un’altra realtà cittadina Zagatti 1995].
A Torino, le prime misure annonarie sono adottate nel 1939 e intervengono congiuntamente su produzione e distribuzione attraverso gli ammassi obbligatori [2] dei prodotti agricoli e il razionamento di alcuni altri, come la carne [3]. Il razionamento è invece attuato con il tesseramento: i generi alimentari possono essere acquistati solo nelle quantità stabilite e con apposite tessere, la cui distribuzione, basata su un censimento annonario svolto nel 1939, ha inizio nel mese di gennaio 1940 [4]. Ai generi tesserati si affiancano quelli contingentati (salumi, uova, ecc.), distribuiti con modalità meno rigide perché legati alle disponibilità locali, variabili dunque nel tempo. Per vigilare sulle disposizioni annonarie, reprimendo ogni fenomeno di «accaparramento, imboscamento e mercato nero», sono inoltre istituite, nel settembre 1939, squadre di vigilanza annonaria, formate da agenti della milizia, dai carabinieri e dai vigili urbani, poste alle dipendenze dirette della Prefettura [5].
Con l’entrata in guerra dell’Italia, le norme in materia annonaria si fanno più caotiche e stringenti [6]. Nell’inverno 1940-41, sono sottoposti al tesseramento lo zucchero, il caffè, i generi da minestra (pasta, farina e riso) e i grassi (olio, burro, strutto, lardo) [7]. Tutti i provvedimenti adottati per impedire lo slittamento delle capacità di acquisto dei torinesi risultano però inutili: la comparsa del mercato nero dei generi alimentari è pressoché immediata, così come altrettanto repentino è l’emergere di un diffuso malcontento contro gli ingiustificati aumenti di prezzo di alcuni generi alimentari come latticini, frutta e verdura o contro l’insufficienza delle razioni di olio, farina, zucchero e pasta [Dellavalle 1978, 28; Becattini e Bellanca 1986].
Nel frattempo il costo della vita cresce a ritmi vertiginosi, aumentando le difficoltà quotidiane della popolazione. Nel 1941, le razioni giornaliere della tessera annonaria prevedono: 20 grammi di carne, 150 di pane, 33 di patate, 25 di legumi, 25 di verdure, 6 di riso, 7 di pasta, 50 di frutta, 12 di grassi, 5 di formaggio, 200 di latte, 16 di zucchero (più un uovo alla settimana), così da garantire un totale di 819 calorie pro capite [Massola 1950, 3-4]. Si tratta di razioni inadeguate che coprono meno di un terzo del fabbisogno di 3.000 calorie necessarie per i carichi di lavoro e le condizioni ambientali (freddo, stress, ecc.).
Razioni così scarse finiscono per legittimare il mercato nero, che si affianca stabilmente ai circuiti annonari ufficiali. Le cifre del fenomeno sono imponenti: nel 1942, le famiglie urbane italiane soffrono la fame in circa il 40% dei casi; in circa il 42-43% dei casi mangiano insufficientemente; nel 15% hanno «un vitto relativamente scarso», e soltanto nel 2-3% dei casi mangiano sufficientemente o addirittura in abbondanza. Possiamo così dire che le persone che si nutrono in maniera inferiore al limite fisiologico, oscillano tra i 7 e i 14 milioni [Legnani 1989, che utilizza l’inchiesta di Luzzatto Fegiz 1948]. Dopo l’8 settembre 1943, la situazione, se possibile, si fa ancora più grave. Alla borsa nera il pane rincara del 1.053%, il riso dell’809%, lo zucchero del 5.550%. Oramai si tratta di generi “di lusso”, il cui consumo è ben al di là delle possibilità economiche dei ceti sociali a reddito fisso.
Fame, inefficienza istituzionale e mense collettive
Col trascorre del tempo gli effetti dei combattimenti diventano sempre più aspri, sino al punto in cui l’amministrazione dello Stato e i suoi organismi locali non riescono più a garantire l’alimentazione, il vestiario, la cura dei bambini, l’istruzione, il trasporto, l’abitazione. È a questo punto che la Fiat – pur severamente colpita nelle sue capacità produttive – amplia la gamma delle attività assistenziali a favore non solo dei propri dipendenti e delle loro famiglie, ma anche della popolazione cittadina più svantaggiata. Si assiste, così, all’enfatizzazione del ruolo sociale della fabbrica e al potenziamento delle sue funzioni extraeconomiche, fattori massimamente presenti in concomitanza dell’intensificarsi degli attacchi aerei [8].
Con lo sfollamento di massa delle grandi città industriali, la presenza della fabbrica in realtà urbane impoverite e svuotate di gran parte dei propri abitanti diventa ancora più evidente. È un ulteriore conferma della sua centralità – dunque della sua visibilità – certamente connessa all’inadeguatezza dell’attore pubblico, come anche alla sopravvivenza stessa dell’azienda, con due conseguenze rilevanti, apparentemente in contraddizione tra loro, chiaramente visibili nel contesto torinese.
Da un lato, l’acuirsi del malcontento operaio. In parte mitigate dall’assistenza sociale aziendale, le condizioni di disagio e privazione, comuni a tutta la popolazione civile, sono aggravate per gli operai (in specie quelli di Mirafiori) dall’aggravio degli orari di lavoro, dalla difficoltà degli spostamenti tra abitazione e luoghi di lavoro, dal basso livello salariale che non copre né l’aumentato costo della vita né i prezzi di mercato nero (non solo per l’alimentazione ma anche per altri beni essenziali [9]), da «una legislazione di guerra molto severa e un regime disciplinare che provoca quotidianamente multe, sospensioni e punizioni» [Bigazzi 2000, 108]. Si tratta di uno stato di cose che rende intollerabile la vita nella fabbrica di guerra e che sta alla base degli scioperi e delle iniziative che punteggiano tutto il periodo successivo a partire dal marzo del 1943 [Bigazzi 2000, 108] [10].
Dall’altro lato, si assiste al mutamento dei rapporti tra azienda e lavoratori: «i pacchi alimentari, gli orti di fabbrica, il combustibile per le abitazioni, la minestra aziendale, i piccoli prestiti e le mille altre forme di assistenza messe in atto in quegli anni dall’impresa diventano risorse importanti per la sopravvivenza quotidiana delle famiglie operaie» [Benenati 1999, 76]. Tutte forme di salario indiretto che «contribuiscono a cementare il senso di appartenenza alla comunità aziendale e, allo stesso tempo, abituano i lavoratori a disporre di istituzioni e servizi percepiti sempre più come propri» [Benenati 1999, 76].
Per limitarci alla questione delle mense, la crisi iniziale in cui esse versano a causa del tesseramento [11] viene superata nel febbraio del 1941, quando finalmente si stabilisce che «le mense aziendali debbano ricevere quantitativi straordinari di “generi da minestra” razionati (pasta e riso) per essere messe in grado di fornire agli operai razioni integrative dei normali pasti» [Bigazzi 1996, 328]. Si tratta di concessioni limitate e inadeguate che tuttavia favoriscono la diffusione capillare delle mense stesse che, secondo i sindacati fascisti, passano dalle 431 del settembre 1941 alle 1.762 del settembre del 1942. Come risulta dai dati forniti dal Fabbriguerra [12], «presso gli stabilimenti ausiliari sono in funzione a quella data 713 mense, che accolgono giornalmente 376.135 individui, pari a oltre un terzo delle maestranze» [Bigazzi 1996, 329] [13]. Sono, generalmente, sistemazioni assai primitive, e, almeno nel caso torinese, non di mense vere e proprie quanto piuttosto di refettori, ricavati riadattando spazi nei vecchi stabilimenti come al Lingotto, o progettandoli appositamente nelle nuove strutture come Mirafiori [14].
Come racconta Antonio Giovannini, pensionato con 37 anni di anzianità Fiat, nell’articolo Quattro anziani ricordano apparso su “Illustratofiat” nel 1971, fino a quel momento «non c’era neanche il refettorio per mangiare la roba portata da casa. Si stava lì per terra seduti in mezzo alle macchine, si prendeva una lastra di alluminio da tenere sulle ginocchia per mangiarci sopra. Era tanto se potevamo lavarci le mani» [15].
A Mirafiori l’azienda decide dunque di aggiornare gli standard ambientali e interviene sulle stesse “opere sociali” del Lingotto dove non esiste materialmente lo spazio per la realizzazione né di strutture sportive e ricreative, né di una mensa di stabilimento o di refettori di reparto. Così facendo, peraltro, Fiat risponde alle sollecitazioni di Mussolini che – per enfatizzare il nuovo clima sociale propugnato dal regime – interviene personalmente nel luglio del 1937 affinché lo stabilimento in corso di progettazione preveda «comodi e decorosi refettori per gli operai [...]. L’operaio che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista» [16]. Fabbrica perfetta del tempo fascista, Mirafiori deve §assicurare «spazio, area, luce; sicurezza, igiene, conforto; razionale sistemazione dei servizi; refettori per 11.000 operai; ricoveri antiaerei per la totalità dei presenti in fabbrica; razionale organizzazione di assistenza sanitaria» [Bigazzi 2000, 100].
È però nella fase che segue i bombardamenti su Torino del novembre del 1942 che la Fiat, attraverso l’ufficio assistenza [17], investe risorse sempre più consistenti in un’attività di quasi completa surroga delle istituzioni pubbliche che spazia dalla conduzione diretta di 150 ettari della tenuta “La Mandria”, nei sobborghi di Torino (a garanzia dell’autosufficienza delle mense che preparano la “minestra Fiat”), alla diversificazione dei beni distribuiti dalla rete degli spacci aziendali (non solo alimentari, ma anche vestiti, stoffe, calzature, “mobili-tipo”), alla creazione di uffici per l’assistenza ai sinistrati, alle colonie gratuite per i figli dei dipendenti rimasti senza casa, all’organizzazione di «un sistema di trasporti che, in caso di sospensione del servizio pubblico, assicuri la presenza negli stabilimenti degli operai e dei quadri intermedi indispensabili» [Bigazzi 2000, 107-108].
Lo spettro delle “provvidenze” offerte dalla Fiat ai propri dipendenti si dilata in modo significativo nella primavera del 1943, con una significativa innovazione. Gli interventi iniziano, infatti, a rivolgersi all’intera popolazione: il Servizio assistenza Fiat in collaborazione con la Croce rossa, che opera «attraverso un centinaio di volontari provenienti dal personale della Mutua operai Fiat, [è] articolato in tre centrali e 16 posti di soccorso, e dispone di numerose autovetture, autoambulanze e autocarri attrezzati» [Musso s.d., 9; Musso 1999a, 245].
Oltre agli spacci interni agli stabilimenti [18], per l’approvvigionamento di generi alimentari e di prodotti per l’igiene e la pulizia, la Fiat apre spacci cittadini e nei centri di sfollamento (Moncalieri, Chieri, Gassino, Carmagnola).
Funzionano inoltre gli “orti di guerra” aziendali, per la produzione di ortaggi e l’allevamento di animali e, all’interno degli stabilimenti, prosegue la distribuzione delle “minestre Fiat” sulla cui qualità così relaziona il giornale del Dopolavoro aziendale:
La minestra è ottima. Ben condita, ben cotta. Abbondante. Servita caldissima. Cucinate in pentoloni da 600 razioni ciascuno, riscaldati a vapore acqueo, le minestre vengono servite ai diversi reparti per mezzo di bidoni a chiusura ermetica. Abbiamo visitato le cucine della minestra Fiat. Alle batterie delle grandi marmitte si aggiungono le batterie di padelloni per il soffritto, e una serie di macchine per preparare tutti gli ingredienti, che sono molti e vari: patata, cipolla, cavolo, zucca, carota, rapa, sedano, porro, erbe aromatiche, piselli, fagioli. Il condimento è fatto con burro e olio di primissima qualità [“Bianco e Rosso. Giornale mensile del Dopolavoro Aziendale Fiat” , novembre-dicembre 1942, 6].
Lo sforzo finanziario compiuto a favore dei dipendenti è enorme (l’assistenza sanitaria costa oltre 28 milioni annui, le colonie oltre 6 milioni) e Fiat ne fa un punto centrale della sua propaganda intesa ad «avvalorare l’idea dell’azienda come comunità solidale; una comunità che stringe le file nel momento delle difficoltà, di fronte alle quali l’immagine di una nuova comunanza di destini sottrae spazio alla tradizionale sottolineatura delle differenziazioni gerarchiche» [Musso 1999a, 246]. La “minestra Fiat” diventa in questo senso un emblema:
Tu mangi in officina o in ufficio, da alcuni mesi, ogni giorno, la minestra Fiat. La mangiano tutti: dirigenti, funzionari, impiegati, operai. Questa minestra alla Fiat costa parecchio e potrà costare ancora di più, ma tu la paghi soltanto 60 centesimi. È di pasta o di riso (senza tessera), è buona, ben condita, servita caldissima e abbondante in ogni reparto. Sono diverse decine di migliaia di minestre che la Fiat distribuisce quotidianamente [“Bianco e Rosso. Giornale mensile del Dopolavoro Aziendale Fiat”, 19 aprile 1943].
È un impegno che non può che fissarsi nell’immaginario collettivo in modo permanente. Come ha ben sintetizzato Piero Bairati:
a Torino, luoghi ed eventi [...] sono anche entrati nella memoria collettiva della città. Le 80.000 paia di lenzuola acquistate dalla Fiat attraverso la Pignone e la Snia; i sacconi di foglie di granoturco, in sostituzione dei materassi di lana; le 100.000 razioni giornaliere di minestra: gli ammassi di grano e di farina in provincia di Cuneo; l’allevamento clandestino di maiali con relativo impianto di macellazione nei pressi dell’Aeronautica d’Italia; le sardine in scatola comprate in Yugoslavia, i depositi di patate nelle parrocchie, i pacchi alimentari distribuiti agli spacci [Bairati 1983, 126].
Le mense aziendali, poi, vanno ad affiancarsi a quelle sorte per iniziativa di congregazioni religiose e parrocchie [19], e si intrecciano con le iniziative comunali [20]. Delle cosiddette “mense assistenziali”, alcune sono dislocate presso gli stabilimenti della Fiat e della Società Microtecnica [21] e, nel luglio 1944, apprestandosi a varare le mense con “minestre a due lire”, il Municipio di Torino si avvale della struttura organizzativa della Fiat [22]. Sin dal 1940, l’azienda ha istituito il Servizio cucine, con quattro cucine che operano negli stabilimento del Lingotto, dell’Officina Grandi Motori, delle Ferriere e dell’Aeritalia. Da queste «grandi razionali cucine Fiat per operai» [23], che nel periodo 1940-1947 sarebbero state capaci di produrre 80-85 mila razioni giornaliere, sarebbero poi partite, in appositi contenitori, le minestre per i vari reparti.
Nell’aprile 1944 entrano in funzione anche le mense collettive per gli impiegati, gli operai e i loro familiari. Con 4 lire si ha diritto di consumare un piatto unico, a base di legumi, grassi e carne. Il 3 giugno, il “rancio unico” diventa obbligatorio in tutti i ristoranti, con un menù fisso e con prezzi che oscillano tra le 9 e le 32 lire [24]. Quello stesso giorno viene comunicata l’istituzione della pena di morte per gli agenti della “borsa nera” e di squadre di vigilanza annonaria – da inviare nelle aree rurali a sorvegliare i contadini – totalmente composte da operai.
Il 19 gennaio 1945 Chevallard annota nel suo Diario:
Da lunedì 15 su 180 ristoranti e trattorie esistenti a Torino ne restano aperti solo più 40; il problema del mangiare per chi non ha casa propria è diventato assai grave. Le 40 mense di guerra danno un pasto quasi insufficiente; non solo, ma il trovare posto è un’impresa di prim’ordine. Lunedì agli “Specchi” è successo un parapiglia perché non avevano abbastanza vivande. Come tutti i nostri provvedimenti, a furia di essere eccessivi finiscono col naufragare: dar da mangiare a migliaia di persone presuppone una organizzazione adeguata e soprattutto dei rifornimenti in proporzione [Chevallard 2005, 440].
Con queste premesse perde ovviamente di utilità l’azione di propaganda che le autorità svolgono contro il “ladro nero”, quell’omino mascherato riprodotto in migliaia di manifesti con un ghigno perenne stampato sul volto:
Lavoratori! Madri di famiglia. I trafficanti del mercato nero – i ladri neri – tolgono il cibo a voi e ai vostri figlioli. Ognuno di voi deve collaborare con le autorità per eliminare simili delinquenti. Chi fa il mercato nero è pronto a vendere la Patria per denaro [il testo del manifesto è in Cederna , Lombardi e Somarè (eds.) 1980, 94].
In realtà, non si può combattere un fenomeno che, agli occhi della popolazione affamata, non appare né illegittimo né riprovevole. È un comportamento legato alla sopravvivenza, e come tale è perciò considerato – naturaliter – un comportamento morale [25].
I “numeri della fame” mostrano la profondità del fenomeno, che si lega strettamente alla radicalità che stanno via via assumendo sia il conflitto sociale sia le lotte di fabbrica:
nel mese di luglio 1942 i gerarchi fascisti, volendo dimostrare che le lagnanze dei lavoratori, relative alla insufficienza delle razioni-base [...] erano ingiustificate, prendevano l’iniziativa di far pesare un gruppo di operai in alcuni dei maggiori stabilimenti di Torino. Tale operazione rivelò che il peso di ogni operaio, nel corso degli ultimi due anni, aveva subito una diminuzione assoluta [Massola 1950, 21-23].
Secondo Giorgio Carretto i lavoratori della Fiat Grandi motori erano diminuiti di 10-15 kg. Secondo Leo Lanfranco alla Fiat Mirafiori, operai «di oltre 1 metro e 70 di altezza, erano ridotti ad avere peso di appena 53-55 kg. in luogo dei 66-70 kg. normali». Anche se non è possibile verificare queste cifre è plausibile affermare che esse indichino un riferimento, mostrando la drammaticità con qui i lavoratori percepiscono il problema della fame: un vero e proprio attacco alla sopravvivenza [De Luna 1998, 729 da cui sono anche tratte le testimonianze di Carretto e Lanfranco].
Le rivendicazioni salariali operaie diventano ben presto richieste di miglioramento delle razioni di alimentari, finendo per sovrapporsi alla lotta politica e patriottica. È un filo rosso che, dalle agitazioni del marzo 1944, riaffiora nella piattaforma rivendicativa operaia dello sciopero “preinsurrezionale” del 18 aprile 1945. In questa manifestazione, che precede di pochi giorni la liberazione del paese, insieme a obiettivi politici, figurano richieste di aumento delle razioni alimentari. La richiesta è l’aumento della quantità di calorie: 25 g di grassi, 475 g di pane per gli addetti ai lavori pesanti, 150 g di pasta, farina e riso, 100 g di legumi, 125 g di carne o 4 uova, 25 g di sale, 50 g di zucchero danno un totale di 2.710 calorie. Al di sotto cioè delle 3.000 calorie a cui in quei tempi era stimato il fabbisogno necessario per un’alimentazione corretta [De Luna 1998, 730].
Sembra quasi che gli operai abbiano interiorizzato la fame così profondamente da limitare la propria azione rivendicativa a obiettivi, per così dire, frugali, quasi dimessi. Nel frattempo, però,
la fame a Torino cresceva. Se nei mesi andati la borsa nera aveva preso a crescere, ora era diventata scandalosa. Mano mano che le requisizioni da parte dell’occupante tedesco si facevano più massicce [...] il livello dei rifornimenti alla popolazione si abbassava. Lo zucchero era diventato rosso, il pane nero, immangiabile [...]. Con dieci righe in corpo sei i giornali annunciavano dal fondo di una pagina che per il carbone e la legna bisognava prenotarsi in tempo. Quell’inverno, alla fame si sarebbe aggiunto il freddo [De Luna 1998, 731].
Siamo nell’ultimo inverno di guerra, quello che segue il proclama Alexander e che vede incistarsi per un’altra stagione ancora i fronti di combattimento. Una morsa di gelo stringe la pianura padana, riproponendo specialmente a chi ancora è rimasto in città il terrore ancestrale della mancanza di cibo e di fuoco.
29 gennaio 1945. [...] A Milano l’erogazione del gas è stata ridotta a 5 ore settimanali; il provvedimento verrà prossimamente esteso a tutta l’Italia settentrionale. È facile prevedere quali limitazioni ci attendono dopo la perdita del bacino minerario della Slesia. E il freddo continua implacabile: cielo sereno, temperature che raggiungono talvolta i -20°, limite eccezionale per le nostre regioni. A memoria d’uomo non si ricorda un inverno così rigido: in tutto gennaio il termometro non è mai salito (all’ombra) al disopra dello zero, eccetto nei giorni in cui ha nevicato [Chevallard 2005, 447].
Il ritorno alla vita
La fine della guerra è una svolta importantissima, che rasserena la popolazione dandole un’inedita energia, anche se le difficoltà materiali rimangano sostanzialmente ancora tutte da risolvere. I problemi sono particolarmente acuti in campo alimentare, in modo particolare per i segmenti sociali più deboli (poveri, anziani, disoccupati, inadatti al lavoro) e quindi incapaci, per mancanza di mezzi finanziari, di procacciarsi i generi alimentari al mercato nero.
La Fiat continua la supplenza delle istituzioni, di quelle statali come anche di quelle comunali e provinciali, anche alla fine della guerra continuando a distribuire le minestre per tutto il 1946. Non è la sola a fronteggiare le emergenze (Eca, organismi cattolici, ecc.), ma il suo apporto è significativo, ove si pensi che il volume complessivo delle risorse finanziarie utilizzate per il welfare aziendale (34 milioni di lire) corrisponde all’incirca al salario annuo di circa 2.700-2.800 operai. Una massa di denaro ingente, che fotografa con esattezza la capacità di manovra della Fiat, di molte grandezze superiore a quella che, nell’immediato dopoguerra, possono mettere in campo le altre istituzioni pubbliche: le “mense di guerra” – dal maggio 1945 ribattezzate “mense del popolo” e gestite, come anche i neonati “ristoranti popolari” [26], dalla giunta popolare allora guidata dal sindaco Giovanni Roveda – continuano la propria attività, offrendo ai torinesi un pasto a 45 lire, ma si tratta di una goccia nel mare, considerando che nelle prime fasi post belliche scarseggia tutto, persino l’acqua.
La Company Town per eccellenza della Penisola prosegue, in un quadro di disorganizzazione produttiva e carenza di generi essenziali, la cogestione delle iniziative assistenziali con le Commissioni interne e continua a svolgere, anche nelle concitate fasi dell’emergenza post bellica, un ruolo decisivo.
Superata l’emergenza dell’immediato dopoguerra, il servizio di produzione della “minestra Fiat” inizia però ad apparire sovrabbondante, constatazione che porterà al suo ridimensionamento, con l’obiettivo di conseguire «una maggiore economicità della produzione, in quanto l’accentramento in una unica sede degli impianti e delle attrezzature [è] economicamente più conveniente e funzionalmente più aderente alla situazione determinatasi con la riduzione delle richieste» [27].
Col tempo, sarebbe rimasta in funzione una sola cucina – quella della Sezione Grandi Motori –, progressivamente ammodernata sotto il profilo tecnologico, che nel 1951 preparerà mediamente 20.000 minestre al giorno, inviate ai diversi stabilimenti all’interno di grandi contenitori metallici [28]. La produzione annua teorica appare superiore ai 7 milioni di razioni, un quantitativo ampiamente sufficiente poiché, come mostrano i dati, dal 1948 il numero delle porzioni richieste cominciò a decrescere rapidamente riducendosi, alle soglie del boom, a un valore molto modesto.
Anno | Numero minestre confezionate | Anno | Numero minestre confezionate |
---|---|---|---|
1947 | 9.592.854 | 1948 | 10.254.174 |
1949 | 6.427.215 | 1950 | 4.679.493 |
1951 | 3.626.137 | 1952 | 2.537.996 |
1953 | 2.008.946 | 1954 | 1.888.427 |
1955 | 1.413.358 | 1956 | 1.104.041 |
1957 | 845.787 | 1958 | 764.605 |
1959 | === | 1960 | 532.931 |
1961 | 420.507 | 1962 | 468.735 |
1963 | 558.329 | 1964 | 506.825 |
1965 | 435.582 | 1966 | 442.511 |
La questione delle mense aziendali del colosso automobilistico torinese rimane negli anni Cinquanta e Sessanta parzialmente sopita. Le generali condizioni di vita conoscono un miglioramento significativo, grazie soprattutto alla ripresa economica che sta alla base della grande accelerazione del boom economico. Il consumo della “minestra Fiat” diviene così il ricordo di un passato da dimenticare e da stemperare nelle luci di una società dei consumi che sta avvolgendo la vita quotidiana degli italiani. Certo, le condizioni dei lavoratori di fabbrica stanno per certi versi migliorando, anche se l’importante crescita della ricchezza – nelle fasi iniziali – finisce per polarizzarsi più dalla parte dei profitti d’impresa che non da quella dei salari. Gli anni Sessanta diventeranno così un decennio importante e “caldissimo” per la Fiat e per l’intera città di Torino [Tranfaglia 1999; Musso 1999b]. Lo sviluppo della produzione e la parallela crescita dimensionale della Fiat comportano cambiamenti importanti sia nell’organizzazione di fabbrica sia nelle relazioni sindacali. Sullo sfondo l’“Autunno caldo” e la stagione delle forti rivendicazioni operaie che porteranno alla conquista di nuovi diritti dei lavoratori e di miglioramenti salariali. Anche la questione della mensa entrerà nell’agenda delle rivendicazioni dei lavoratori portando l’azienda, alla fine degli anni Sessata, a iniziare lo studio per la costruzione di un sistema di ristoranti aziendali, la cui entrata in servizio inizierà agli inizi del successivo decennio [Adorni e Magagnoli 2016].
Bibliografia
- Accornero A. 1992
- La «sbobba» Fiat e la dignità della tuta, in Progetto archivio storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat nei verbali delle Commissioni interne. Saggi critici e note storiche, Milano: Fabbri.
- Adorni D. e Magagnoli S. 2015
- Mangiare in Fiat. Le mense aziendali tra sociabilità e confronto politico, “Rises – Ricerche di storia economica e sociale”, 1-2.
- Adorni D. e Magagnoli S. 2016
- Manger à la Fiat (des années 1960 à nos jours), in Bouchet T., Gacon S., Jarrige F., Nérard F.-X. e Vigna X. (eds.), La Gamelle et l’outil. Manger au travail en France et en Europe du XVIIIe siècle à nos jours, Nancy: Arbre Bleu.
- Artom E. 2008
- Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, Torino: Bollati Boringhieri.
- Bairati P. 1983
- Vittorio Valletta, Torino: Utet.
- Baldoli C. 2010
- I bombardamenti sull’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Strategia anglo-americana e propaganda rivolta alla popolazione civile, “DEP – Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, 13-14.
- Becattini G. e Bellanca N. 1986
- Economia di guerra e mercato nero. Note e riflessioni sulla Toscana, “Italia contemporanea”, 165.
- Benenati E. 1999
- Cento anni di paternalismo aziendale, in Musso S. (ed.), Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, Milano: Feltrinelli.
- Bigazzi B. 1996
- La fabbrica nella crisi del regime fascista, in Ventura A. (ed.), Sulla crisi del regime fascista. 1938-1943. La società italiana dal «consenso» alla Resistenza, Venezia: Marsilio.
- Bigazzi D. 2000
- La grande fabbrica. Organizzazione industriale e modello americano alla Fiat dal Lingotto a Mirafiori, Milano: Feltrinelli.
- Cederna C., Lombardi M. e Somarè M. (eds.) 1980
- Milano in guerra, Milano: Feltrinelli.
- Chevallard C. 2005
- Diario 1942-1945. Cronache del tempo di guerra, Torino: Blu edizioni.
- De Luna G. 1995
- I bombardamenti, in Boccalatte L., De Luna G. e Maida B. (eds.), Torino in guerra 1940-1945. Catalogo della mostra, Torino: Gribaudo Editore.
- De Luna, G. 1998
- Torino in guerra (1940-1945), in Tranfaglia N. (ed.), Storia di Torino, VIII, Dalla Grande guerra alla Liberazione (1915-1945), Torino: Einaudi.
- Dellavalle C. 1978
- Operai, industriali e partito comunista nel biellese, 1940-1945, Milano: Feltrinelli.
- Labanca N. (ed.) 2012
- I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, Stato e società (1939-1945), Bologna: il Mulino.
- Legnani M. 1989
- Guerra e ricchezza: il governo delle risorse. Note su aspetti economici e riflessi sociali della guerra fascista, 1940-1943, relazione alla mostra-convegno L’Italia in guerra, 1940-43, Brescia, 27-29 settembre.
- Luzzatto Fegiz P. 1948
- Alimentazione e prezzi in tempo di guerra, 1942-1943, Trieste: Editrice Università di Trieste.
- Mannucci S. s.d.
- Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra propaganda e realtà. Italia 1940-1945, http://lucesullaguerra.blogspot.it/ (ultimo accesso: 21 gennaio 2017).
- Mason T. 1988
- Gli scioperi di Torino nel marzo 1943, in Ferratini Tosi F., Grassi G. e Legnani (eds.), L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano: Franco Angeli.
- Massola U. 1950
- Marzo 1943, ore 10, Roma: Edizioni di Cultura sociale.
- Massola U. 1973
- Gli scioperi del ’43: marzo-aprile. Le fabbriche contro il fascismo, Roma: Editori Riuniti.
- Musso S. 1999a
- La Fiat di Valletta. Impresa e lavoratori nella più grande concentrazione industriale d’Italia, in Tranfaglia N. (ed.), Storia di Torino, IX, Gli anni della Repubblica, Torino: Einaudi.
- Musso S. 1999b
- Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970), in Tranfaglia N. (ed.), Storia di Torino, IX, Gli anni della Repubblica, Torino: Einaudi.
- Musso S. s.d.
- I servizi sociali aziendali, in Centro on line. Storia e cultura dell’industria. Il Nord Ovest dal 1850, http://www.storiaindustria.it/home (ultimo accesso: 19 gennaio 2017).
- Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/1944 1974
- Milano: Feltrinelli.
- Pavese C. 1987
- La casa in collina, Torino: Einaudi.
- Peli S. 1999
- Operai e guerra. Materiali per un’analisi dei comportamenti operai nella prima e nella seconda guerra mondiale, in Musso S. (ed.), Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, Milano: Feltrinelli.
- Tranfaglia N. 1999
- L’incerto destino della capitale del miracolo, in Id. (ed.), Storia di Torino, IX, Gli anni della Repubblica, Torino: Einaudi.
- Trezzi L. e Varini V. (eds.) 2012
- Comunità di lavoro. Le opere sociali delle imprese e degli imprenditori tra Ottocento e Novecento, Milano: Guerini e Associati.
- Varini V. 2012
- Impresa, enti locali, welfare company in Lombardia. Intervento municipale e iniziativa privata tra XIX e XX Secolo, Milano: Franco Angeli.
- Vita V. 2003
- Chiesa e mondo operaio. Torino 1943-1948, Cantalupa (TO): Effatà.
- Zagatti P. 1995
- Il problema dell’alimentazione, in Dalla Casa B. e Preti A. (eds.), Bologna in guerra, Milano: Franco Angeli.
Risorse on line
- Centro di ricerca sulla storia dell’alimentazione, Università di Parma
- www.foodlabunipr.it
Note
1. Melano G., Pesati C.E., La guerra aerea su Torino, “Annuario statistico della città di Torino”, 1943, XIX.
2. Consueta la procedura per gli ammassi: i produttori sono obbligati a fornire allo stato, che paga un prezzo amministrato, le quote di raccolto eccedenti il fabbisogno familiare. Per i risvolti torinesi, cfr. La visita del Prefetto agli ammassi granari, “La Stampa”, 8 settembre 1940.
3. Cfr. Carni di bassa macellazione, “La Stampa”, 6 ottobre 1939.
4. Cfr. Distribuzione delle schede per il censimento annonario, “La Stampa”, 13 ottobre 1939; La Carta annonaria, ivi, 14 gennaio 1940.
5. Cfr. Le squadre di vigilanza annonaria, “La Stampa”, 20 gennaio 1940.
6. Cfr. Stroncare l’accaparramento, “La Stampa”, 28 gennaio 1940; La distribuzione dello zucchero, ivi, 30 gennaio 1940.
7. Cfr. La carta annonaria per pasta, farina e riso, “La Stampa”, 2 dicembre 1940; I generi da minestra, ivi, 8 maggio 1941; Generi razionati, ivi, 21 giugno 1942; Norme per i generi razionati nel mese di agosto, ivi, 2 agosto 1942; Generi razionati, ivi, 10 gennaio 1943.
8. Per una panoramica sull’aumentato ruolo sociale della grande fabbrica in tema di assistenza alimentare nel contesto bellico, cfr. Bigazzi 1993, in specie 323-331.
9. «Nelle rivendicazioni operaie finiscono per assumere una posizione di grande rilievo le richieste di generi alimentari e di beni ormai irreperibili e indispensabili, quali legna da ardere, sapone, copertoni per bicicletta, sale» [Peli 1999, 212].
10. Sulle vicende torinesi si veda anche Mason 1988. Per la conflittualità operaia nel biennio 1943-44 si veda Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/1944 1974. In generale, Massola 1973.
11. Infatti, «per usufruirne, gli operai devono utilizzare i tagliandi personali del tesseramento, rendendo ancor più precario l’equilibrio alimentare delle proprie famiglie» [Bigazzi 1996, 328].
12. È l’abbreviazione con cui, a partire dal 1940, viene identificato il Sottosegretariato di stato per le fabbricazioni di guerra, successivamente denominato, nel 1943, Ministero della produzione bellica (MiProGuerra).
13. Il peggioramento della condizione alimentare del paese rende però man mano necessaria la creazione di mense anche nelle aziende di minori dimensioni. Per il caso torinese cfr. Le mense aziendali per gruppi di piccole ditte, “La Stampa”, 3 novembre 1942. Nel giugno del 1944, poi, il capo della provincia emana un decreto in ragione del quale le aziende (anche quelle con meno di 500 addetti) che non abbiano provveduto all’allestimento della mensa o ad aggregarsi a mense esistenti o ancora a partecipare e/o promuovere mense interaziendali, debbano pagare 8 lire giornaliere a ciascun lavoratore a titolo di penalità.
14. In contrasto con le politiche sociali del regime che collocano le mense aziendali all’interno del sistema assistenziale e ricreativo di fabbrica con finalità di controllo sia della produttività sia della conflittualità operaie, la Fiat, pur realizzando in autonomia le proprie strutture assistenziali, non prevede dunque la creazione della mensa per i dipendenti ma si limita a organizzare dei refettori.
15. Quattro anziani ricordano, “Illustratofiat”, novembre-dicembre 1971, 29. Sulle condizioni in cui i lavoratori consumavano il pasto portato da casa nel “barachin” cfr. Accornero 1992, 74-77.
16. Telegramma di Benito Mussolini al Prefetto di Torino, 16 luglio 1937, cit. in Bigazzi 2000, 100.
17. Quella che diventerà la Divisione servizi sociali coordinerà poi l’intero sistema di provvidenze aziendali: dalla Cassa mutua al Servizio medico di fabbrica; dal Convalescenziario “Ville Roddolo” alle Colonie e agli asili per i figli dei dipendenti; dagli Uffici assistenza presso i singoli stabilimenti al Servizio minestre. A cui vanno aggiunti tutte le opere in campo ricreativo, sportivo, culturale, professionale, nonché le “case Fiat”: cfr. L’assistenza sociale ai lavoratori Fiat, “Torino. Rivista mensile municipale”, giugno 1953, 23-24; “Bianco e Rosso. Giornale mensile del Dopolavoro Aziendale Fiat”, novembre-dicembre 1942, 6.
18. Nove sono gli spacci alimentari cittadini che Fiat ha istituito per i propri dipendenti e le loro famiglie fina dal 1941 (cfr. “Bianco e Rosso. Giornale mensile del Dopolavoro Aziendale Fiat”, 15 ottobre 1941, 5, e novembre-dicembre 1941, 6); nel 1942 diventeranno 13 (cfr. “Bianco e Rosso. Giornale mensile del Dopolavoro Aziendale Fiat”, luglio-agosto 1942, 4).
19. Ricordiamo che tramite l’organizzazione delle San Vincenzo aziendali, partita alla fine del 1942, l’Onarmo (Opera nazionale di assistenza religiosa e morale degli operai) si fa promotrice di un’iniziativa, chiamata “La carità dell’Arcivescovo”, che consiste nella distribuzione di minestre e nell’organizzazione di mense aziendali. La Fiat è però azienda preclusa ai cappellani del lavoro in quanto vi operano già i Salesiani, e ciò almeno fino al 1945 quando, epurati Valetta e tutta la direzione, grazie anche al Cln aziendale viene interrotto il loro monopolio. L’Onarmo è un’appendice della Poa (Pontificia opera assistenza) per quel che riguarda l’assistenza agli operai. La Consulta dell’Onarmo di Torino inizia la propria attività nel 1943 sotto la guida di don Pollarolo mostrandosi più legata a un modello di evangelizzazione che non di assistenza [Vita 2003, 117-130].
20. L’iniziativa del Municipio, per quanto tardiva e carente, si articola nelle “mense comuni”, avviate il 24 aprile 1944, che offrono un pasto di primo secondo e contorno a 15 lire (cifra che ne limita l’accesso solo a settori del ceto medio) e nelle mense collettive “di guerra”, le quali, a partire dal 3 luglio 1944, distribuiscono, senza tagliando, 500 grammi di minestra a due lire (cfr. i numeri de “La Stampa” del 26 marzo, 11, 18, 19, 27 aprile, 25 maggio, 26 giugno e 2 luglio 1944). Le varie tipologie di mense municipali sorte in questi anni sono poi assorbite dall’Ente provinciale “mense di guerra” costituito con ordinanza prefettizia 6 gennaio 1945 (cfr. “La Stampa”, 7 gennaio 1945).
21. I servizi offerti, specificati nelle didascalie alle foto effettuate dall’Istituto Luce nell’estate del 1944, erano quantificati nelle seguenti cifre: «conviventi giornalieri 1900, 5 sale di distribuzione vitto, 3 cucine, 1° piatto, 2° piatto. Alloggio a L. 13 complessivo giornaliero. A sinistrati e sfollati bisognosi assistenza supplementare» [Mannucci s.d.].
22. Per approntare quest’ultime, previste per 15 mila utenti ma in via sperimentale destinate a 5.000 cittadini dei quartieri più popolari, il Municipio si serve delle cucine già esistenti sul territorio cittadino: quelle scolastiche, ma soprattutto quelle della Fiat che assicurano al Comune il “contributo” di 20 mila minestre giornaliere (Le minestre a due lire sono distribuite da ieri. L’efficace collaborazione della Fiat ha reso possibile la sollecita realizzazione dell’iniziativa, “La Stampa”, 4 luglio 1944). Nell’aprile 1945 la distribuzione delle “minestre del popolo” (il cui prezzo è intanto salito a 2,50 lire) con 15 locali scolastici a disposizione e 23 mila razioni giornaliere, pur coprendo larga parte del territorio cittadino resta tuttavia insufficiente, e ciò nonostante la trasformazione coatta in “mense di guerra” dei ristoranti che non si attengono al “piatto unico” (cfr. i numeri de “La Stampa” del 5 novembre 1944, 4 gennaio, 11 febbraio e 1 aprile 1945].
23. Così una delle didascalie alle fotografie che gli operatori dell’Istituto Luce scattano nell’azienda nel 1944 [Mannucci s.d.]
24. Nel 1941, a Torino risultano 182 ristoranti (1.425 in provincia). Per disciplinare il consumo di cibo le prime norme sono emanate il 2 ottobre 1941 (cfr. i numeri de “La Stampa” del 20 settembre 1941 e del 3 ottobre 1942). I prezzi fissi variano a seconda della categoria oscillando dalle 9 lire della IV categoria alle 32 della “categoria speciale” [De Luna 1998, 726].
25. Lungi dal poter appiattire il fenomeno «in poche forme economiche, a ripeterne un’eziologia stereotipa, a demonizzarlo politicamente e moralmente, i documenti coevi mostrano, del mercato nero, una morfologia variegatissima ed onnipervasiva, nel suo intreccio con altri, più indagati e meglio considerati, fenomeni del periodo e una percezione di esso molto differenziata tra gli autori sociali che vi operano: ora come sfruttamento e ricatto, ora come provvidenziale segno di solidarietà, qui come maneggio speculativo dei soliti, visibili e invisibili, potenti della terra, là come manifestazione perfettamente comprensibile di quell’arte di arrangiarsi che ha sempre aiutato i poveracci a superare le congiunture più aspre» [Becattini e Bellanca 1986, 6].
26. Istituiti con Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato, 13 settembre 1946, n.91.
27. Archivio storico Fiat (Asf), Fondo Ugaf, vol. 34, “Cucina aziendale”, p.2.
28. Asf, Album tematici, “La cucina aziendale [1955]”; ivi, Fondo Ugaf, vol. 34, Sezione Previdenza e Assistenza, “Impianti realizzati negli anni 1946-1953”; ivi, Fondo Mutua Aziendale Lavoratori Fiat 1949-1981, f. 31, Dipartimento attività previdenziali. Organizzazione.