1. Tra storia e memorie
L’edificazione del rione Cirenaica, a ridosso di Porta San Vitale, inizia nel 1911 a cavallo della Guerra italo-turca […]. La direttrice principale, inaugurata nel 1913, è via Libia. Poi vengono costruite via Bengasi, via Cirene, via Derna, via Due Palme, via Homs, via Rodi, Via Tripoli e via Zuara. Nel 1949, con una seduta lampo, il consiglio comunale di Bologna presieduto dal sindaco Dozza cambiò gli odonimi che esaltavano l’impresa coloniale fascista, ma non quella giolittiana, infatti, via Libia continua ancora oggi a chiamarsi così […]. Nella primavera del 2015 gli abitanti del quartiere hanno vinto una battaglia contro la cementificazione di uno spazio verde comune dalla speculazione edilizia […]. Per festeggiare quel piccolo trionfo, un gruppo di persone si è ritrovato a riflettere su quanto accaduto. Attivistə, scrittorə, musicistə, urbanistə, attorə, architettə, comuni cittadinə erano pronti a esplorare e raccontare la storia della Cirenaica bolognese e della resistenza al nazifascismo, tanto quanto volevano esplorare e raccontare la storia della Cirenaica africana e della resistenza al colonialismo italiano attraverso i suoi odonimi. Così, nel 2015, si è accesa la scintilla che ha portato alla nascita di Resistenze in Cirenaica (RIC) [Califano 2023, 23-24].
Con queste parole, il collettivo Resistenze in Cirenaica (Ric) racconta la genesi dell’insieme di pratiche volte a risignificare il contesto urbano del quartiere Cirenaica a Bologna, le cui vie richiamano luoghi ed eventi legati all’espansionismo italiano [1] [Califano 2023]. Riflessioni e azioni che certamente sono andate di pari passo con il crescente interesse per i risvolti sociali e culturali dell’esperienza coloniale nazionale, a propria volta alimentate dal nuovo vigore storiografico sul tema [Labanca 2002; Ben-Ghiat, Fuller 2005; Andall, Duncan 2005; Carcangiu, Negash 2007; Baratieri 2010; Deplano, Pes 2014; Bertella Farnetti, Novelli 2017; Proglio 2018; Morone 2019; Ertola 2022; Deplano, Pes 2024; Labanca 2025]. La brutale uccisione di George Floyd nell’estate del 2020 e la conseguente ondata di proteste transnazionali contro il razzismo sistemico e contro le eredità dell’imperialismo nelle società occidentali hanno riportato al centro del dibattito pubblico le riflessioni su come gli spettri del colonialismo ancora infestino i discorsi politici ma anche gli spazi pubblici e privati delle nostre vite. Usare il verbo “riportare” in relazione al dibattito sul passato d’oltremare ha, in questo caso, una valenza significativa, che vuole scardinare o quantomeno problematizzare il paradigma amnesico che ha spesso descritto il ricordo collettivo del colonialismo italiano, paradigma che di fatto ha limitato l’indagine sulla persistenza di quell’esperienza e delle sue memorie nel periodo successivo alla lunga e complessa perdita delle colonie italiane fino alla contemporaneità. Se volessimo concentrarsi solo sugli ultimi tre decenni, sono state tante le occasioni in cui il passato coloniale è stato evocato e ha interessato la politica e la società italiane. Citiamo l’assassinio di Ilaria Alpi; lo scontro tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli sui violenti mezzi usati durante l’occupazione dell’Etiopia (e le costanti manifestazioni contro la statua del giornalista di Fucecchio a Milano); la visita del presidente Scalfaro ad Addis Abeba nel 1997 e il riconoscimento dei crimini compiuti dall’Italia durante l’occupazione; il dibattito sulla restituzione dell’obelisco di Axum (depredato nel 1937 e restituito solo settant’anni dopo, nonostante le continue richieste di restituzione); gli accordi tra Muhammar Gheddafi e Silvio Berlusconi nel 2009. Più di recente, le strategie di nuova penetrazione economica sancite nel recente piano Mattei per l’Africa e la tentata esternalizzazione della gestione di alcune categorie di migranti in Albania sono state anch’esse parte di quegli «ambigui ritorni di memoria» del colonialismo evocati da Alessandro Triulzi [2006]. Se, quindi, è innegabile che quel passato ciclicamente ritorni nel dibattito pubblico, è altrettanto vero che l’esperienza dell’oltremare e le sue eredità sono di fatto inquadrate in orizzonte distante dalla vita quotidiana e familiare della stragrande maggioranza degli italiani.
In realtà, l’ombra del colonialismo italiano si estende anche negli spazi pubblici e privati. Questo poiché la natura e la durata del progetto coloniale italiano – liberale, ma soprattutto fascista – prevedevano la conquista e sfruttamento intensivo delle colonie, intese come spazi disponibili in cui indirizzare il flusso migratorio diretto all’estero, in particolare negli Stati Uniti [Gabaccia 2000; Choate 2008]. Un progetto di colonialismo demografico o di popolamento che di fatto non fu realizzato, ma che comunque portò in Libia e nel Corno d’Africa centinaia di migliaia di italiani. Si conta che durante la fase più intensa e violenta dell’espansione coloniale, ovvero l’occupazione fascista dell’Etiopia nella metà degli anni Trenta, circa mezzo milione d’italiani e italiane misero piede nel Corno d’Africa; a questo computo andrebbero aggiunti i numerosi già residenti nelle colonie Eritrea e Somalia, e le decine di migliaia che si trasferirono il Libia per i rinnovati progetti di popolamento voluti dal governatore Italo Balbo [Cresti 2010; Ertola 2017]. Un’esperienza che quindi ha interessato tantissimi italiani direttamente ma anche indirettamente, se pensiamo sia alle centinaia di migliaia di famiglie coinvolte dalla partenza in colonia dei propri cari, ma anche al martellamento costante della propaganda coloniale, che invase le vite e gli spazi del quotidiano costruendo il consenso per la conquista del “posto al sole” sin dalla fine dell’Ottocento e ben oltre la fine dell’impero fascista [Mignemi 1984; Palumbo 2003; Colin, Lafrogia 2003; Andall, Duncan 2005; Deplano 2015; Mancosu 2022, 2023; Falcucci 2025].
A quest’opera di persuasione svolta attraverso le associazioni coloniali, i mass-media, i giornali, la letteratura e le esposizioni si affiancarono azioni ben più concrete volte a risignificare lo spazio urbano secondo la nuova spinta imperiale: sia durante che dopo la stagione coloniale furono intitolate numerosissime vie e piazze a militari, esploratori e funzionari coloniali; nacquero poi quartieri “africani” richiamanti i nomi delle località delle colonie; si eressero statue, monumenti e palazzi chiaramente ispirati al mito dell’impero; vennero inoltre portati nella penisola oggetti e monumenti significativi delle società colonizzate, come il già citato ed emblematico obelisco di Axum. L’impero così invase e pervase l’Italia e le vite gli italiani, che furono circondati da immagini, suoni, edifici, spazi e oggetti che richiamavano l’espansionismo nazionale [Labanca 1996; Lenci, Baccelli 2008; Perilli 2010; Grechi, Gravano 2016; Falocco, Boumis 2022; Bui, Taddei 2022; Pirazzoli 2022; Taddei, Vitale 2022; Falcucci 2022; Deplano 2023; Montanari 2024; Mancosu 2024; Ertola 2025]. L’Africa al contempo entrò anche nelle case, conquistando anche gli spazi più intimi: nel suo L’Africa nella coscienza degli italiani, Angelo Del Boca afferma che «una famiglia su dieci in Italia possiede sicuramente un oggetto di provenienza coloniale. Si va dal tallero di Maria Teresa al braccialetto d’avorio […]. Su questo immenso museo privato, da mezzo secolo si deposita la polvere» [Del Boca 1992, 6]. La polvere qui evocata può essere letta come una metafora delle politiche di memoria che hanno offuscato la presa di coscienza critica sul portato del colonialismo nella vita individuale e collettiva; essa richiama poi anche gli angoli più angusti delle case o degli archivi, con scaffali e cassetti che conservano vari tipi di memorie e cimeli, spesso giustapposti ad altri oggetti o documenti. Proprio il rapporto tra le memorie private del colonialismo in relazione allo spazio intimo-familiare e/o sociale che dà loro significato è stato l’oggetto di un progetto pionieristico, Memorie coloniali. Returning and sharing memories, lanciato nel 2006 a Modena dall’associazione ModenaXgliAltri (Moxa) per promuovere il recupero di materiale privato relativo all’esperienza coloniale in Etiopia rimasto chiuso nei cassetti e negli album di famiglia [2]. Inoltre, il progetto prevedeva la condivisione e la restituzione delle memorie private del colonialismo alle popolazioni che hanno subito la colonizzazione italiana, partendo dal presupposto «che questa memoria non appartenga soltanto a noi, ma anche ai popoli che l’Italia ha colonizzato» [Bertella Farnetti, Mignemi, Triulzi 2013, 6], come spiegano i curatori del volume L’impero nel cassetto, che raccoglie riflessioni proprio su Returning and sharing memories e più in generale sulla fotografia come strumento attivatore di memoria.
Quest’ultimo esempio, e l’esergo con cui si apre questa introduzione, ci portano al cuore tematico di questo numero, intitolato All’ombra del colonialismo italiano. Storie, archivi e memorie in Emilia-Romagna, il cui focus riguarda la stratificazione e connessione tra memorie pubbliche e private sull’esperienza degli italiani e delle italiane in Africa e sull’Africa avvenuti in Emilia-Romagna. Prendendo spunto da, e raccontando, i vari progetti dal basso di recupero critico di materiali e spazi legati al colonialismo, questo numero si pone certo in sintonia con la recente attenzione storiografica e civile ai luoghi e alle memorie pubbliche evocatrici del colonialismo [3]; tuttavia, le ricerche presentate nei contributi vanno a indagare vicende spesso poco conosciute, mettendole in relazione ad esperienze più studiate al fine di scorgere nuove narrazioni e possibili memorie critiche condivise su come valutare il peso dell’oltremare nella vita quotidiana degli italiani e delle italiane.
2. Il caso emiliano-romagnolo
L’Emilia-Romagna è un territorio che si presenta come un punto d’osservazione privilegiato. Da un lato, la nascita nel 1937 dell’Ente di colonizzazione Romagna d’Etiopia fu inteso specificamente come un volano dell’emigrazione coloniale su base regionale secondo la logica già descritta della colonizzazione demografica e dell’indirizzamento di ampie fasce di braccianti agricoli nelle terre dell’impero. Nonostante l’esigua quantità di coloni romagnoli che effettivamente si recarono in Etiopia, questa vicenda ci invita a riflettere sulla specificità delle memorie private presenti nel territorio (Larebo 2005; Ertola 2017). D’altra parte, e in maniera quindi collegata, negli scorsi due decenni l’Emilia-Romagna ha visto nascere e maturare i due progetti pioneristici sopra citati, Resistenze in Cirenaica e Memorie coloniali. Proprio all’esperienza modenese è dedicato il contributo di apertura di questo dossier, nel quale Giulia Dodi – avvalendosi delle riflessioni del referente scientifico del progetto, Paolo Bertella Farnetti – ricostruisce la genesi e gli sviluppi del Centro di documentazione Memorie coloniali. Nel corso dei suoi quasi vent’anni di vita, Memorie coloniali ha rappresentato un riferimento fondamentale, a livello nazionale, facendo da apripista ad esperienze simili, come ad esempio ai due progetti promossi dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma (Isrec Parma) e dall’Istituto di storia contemporanea di Piacenza (Isrec Piacenza). Il primo, Parma e il colonialismo italiano, nato nel 2017, ha portato alla costituzione di un archivio composto da una quindicina di fondi privati – soprattutto fotografici – appartenuti a famiglie del Parmense, perlopiù prodotti da coloni o da militari di truppa, capaci di restituire un’immagine dal basso della vita coloniale (civile e militare) oltre che delle sue rappresentazioni. Si tratta di un totale di oltre 2.000 fotografie scattate nelle colonie italiane tra gli anni Dieci e gli anni Quaranta del Novecento, digitalizzate e rese fruibili attraverso il progetto web4 https://colonialismoparma.it/ [Vitale 2017]. Il secondo, Dal piacentino all’oltremare. Traiettorie esistenziali e memoria storica, avviato nel corso 2024, è stato recentemente presentato durante il convegno di studi dedicato alla memoria di Angelo Del Boca [4]. I primi esiti del progetto piacentino sono raccontati in questo volume, nel testo di Tommaso Palmieri.
Al fianco di queste importanti attività di recupero critico della memoria coloniale, negli ultimi anni si è affermata la riscoperta e l’acquisizione di nuovi fondi archivistici. Tra tutti, spicca il materiale documentario che costituisce il fondo Famiglia Paolo Balbo, donato all’Istituto di storia contemporanea di Ferrara nel 2018, il quale conserva documentazione in gran parte appartenuta a Italo Balbo e che conta una corposa sezione riferita al periodo del suo governatorato in Libia [Govoni 2021-2022]. La documentazione ferrarese – come scrive Piervittorio Milizia nel contributo presente in questo volume – rappresenta «una vera e propria materializzazione dell’immaginario di Balbo», la cui analisi ci permette di ricostruire i riflessi e i processi di autorappresentazione del gerarca fascista.
Importanti tracce provengono anche da singoli documenti, come nel caso del diario in cui il tenente Alfredo Baistrocchi registrò, in prima persona, le imprese africane di fine Ottocento. Il manoscritto, finora inedito, consultabile presso la Biblioteca civica Gambalunga di Rimini, è parzialmente trascritto e commentato in questo volume, nel lavoro di Alberto Gagliardo. Peculiare, ma di estrema rilevanza, è il materiale documentario presente nell’archivio di Angelo Del Boca analizzato da Barbara Testini. Sebbene si tratti di un archivio che si colloca al di fuori dei confini dell’Emilia-Romagna – esso è infatti conservato a Crodo, in Piemonte – la sua storia e il suo significato assumono un valore miliare per gli sviluppi storiografici del colonialismo in Italia e, di conseguenza, rappresentano un patrimonio imprescindibile da conoscere e da valorizzare anche in relazione alle dinamiche locali e regionali trattate in questo dossier.
Allo studio di nuovo materiale archivistico si è affiancata una rinnovata attenzione nei confronti delle raccolte e delle collezioni che giacciono da decenni nei musei, nelle biblioteche e in altri enti di conservazione [Falcucci 2025]. Significativa, in questo senso, la mostra Libia 1911-1912. Colonialismo e collezionismo, a cura di Luca Villa, allestita a Bologna, nel Museo civico del Risorgimento nel 2022 [5]: protagonisti di questa esposizione sono stati le fotografie e gli oggetti raccolti dalla 47° ambulanza della Croce rossa italiana durante la guerra Italo-turca (1911-1912), donati nel 1912 al Museo del Risorgimento con l’obbiettivo di istituire un museo delle guerre coloniali. Il progetto di questo museo, a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale, non vide mai la luce e la collezione fu presto dimenticata, per essere “ritrovata” solo negli anni Ottanta. La mostra evidenzia e problematizza uno degli esiti culturali prodotti dalla stagione coloniale, ovvero la presenza in molti musei storici ed etnografici italiani di collezioni coloniali che spesso hanno mantenuto un allestimento tardo-ottocentesco o primo novecentesco, come ad esempio, per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, il Museo eritreo Vittorio Bottego di Parma [Falcucci 2021b; Bacchini 2022]. Le eredità materiali del colonialismo non abitano però solo i musei, ma sono ben visibili anche nel tessuto urbano delle città italiane, nei monumenti, nelle architetture, nella toponomastica e nell’odonomastica: un tema, quello del difficult/silent heritage, che negli ultimi anni ha attirato l’attenzione mediatica e storiografica, per quanto spesso limitando il discorso all’epoca fascista [Ben-Ghiat 2017; Scego 2020; Albanese, Ceci 2022; Nannini 2022; Belmonte 2023; Carter, Copley 2024; Ertola 2024]. A tal riguardo, nel territorio emiliano-romagnolo vi sono alcuni casi di rilievo, come quello del monumento a Vittorio Bottego di Parma – «l’unico vero monumento coloniale dell’Italia liberale» [Labanca 1996, 280] – oggetto di recenti ed approfonditi studi [Bui, Taddei 2022; Taddei, Vitale 2022]. Ma non si tratta solo di eredità dell’Italia liberale o di quella fascista, talvolta ci troviamo di fronte ad intitolazioni e risignificazioni avvenute in piena età repubblicana, come per la targa in memoria del generale Guglielmo Ciro Nasi – ufficiale italiano, protagonista della stagione di aggressione coloniale italiana – posizionata nei primi anni Duemila sulla facciata di un palazzo storico nel centro di Modena, un episodio emblematico analizzato in questo dossier da Giulia Dodi e Francesca Negri.
Archivi e memorie sono dunque i temi portanti di questo volume, ai quali si affianca anche il racconto di alcuni casi studio rilevanti, calati nel contesto provinciale, i quali offrono uno spaccato della storia coloniale italiana. Il contributo di Rocco Melegari converge il proprio sguardo sulla diocesi di Parma e sulle posizioni adottate dall’allora vescovo Evasio Colli durante la guerra d’Etiopia (1935-1936), allargando la riflessione ai più complessi rapporti tra Chiesa e regime, negli anni Trenta [Ceci 2010]. Le vicende delle camicie nere della 180° legione Farnese, sono invece l’oggetto della ricerca di Domenico Vitale. La storia di questa legione, composta soprattutto da “volontari” del Parmense e protagonista – almeno nella propaganda fascista – della guerra d’Etiopia, offre la possibilità di indagare le forme di partecipazione delle camicie nere nella guerra coloniale e di riflettere sulle strategie di consenso adottate dal regime in quei mesi cruciali. Nel contributo di Luca Baldini sono invece studiate la propaganda e le narrazioni contrapposte delle diverse parti politiche dinanzi allo scoppio della guerra italo-turca (1911-1912), adottando la prospettiva modenese. Lo studio del dibattito politico e giornalistico imbastito in occasione della conquista della Libia rappresenta un esercizio assai stimolante, il quale permette di individuare parole chiave e temi che influenzarono la cultura bellica – e in particolare quella coloniale – negli anni che seguirono.
Le tante storie e i numerosi archivi analizzati in questo volume non esauriscono la ricchezza di progetti e casi studio legati al colonialismo presenti in Emilia-Romagna. Rappresentano però un primo passo per riportare alla luce tracce spesso rimosse, intrecciando memoria, storia e presente. Ci auguriamo che questi contributi possano alimentare il dibattito pubblico e storiografico sulla storia coloniale italiana, sulle sue eredità e sulle forme – visibili o sommerse – della sua persistenza.
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Risorse
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https://colonialismoparma.it/ - Resistenze in Cirenaica:
https://resistenzeincirenaica.com/
Note
1. https://resistenzeincirenaica.com/.
2. Il progetto ha visto la partecipazione di numerosi enti, istituto di ricerca e associazioni. Per approfondire: https://www.memoriecoloniali.org. Questo progetto ha ispirato altre simili azioni, tra cui citiamo Sardegna d’oltremare.
3. Alcuni tra i numerosi progetti che intendono mappare le eredità coloniali nel territorio nazionale sono https://umap.openstreetmap.fr/it/map/viva-zerai_519378#6/41.845/16.260; https://postcolonialitaly.com; https://www.roots-routes.org/decolonize-your-eyes-padova-pratiche-visuali-di-decolonizzazione-della-citta-di-annalisa-frisina-mackda-ghebremariam-tesfau-e-salvatore-frisina/; https://www.manifesta12.org/vivamenilicchiwalk/index_lang=it_.html; https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming-2/2021/02/15/mappa-colonialismo-italiano; https://colonialismoparma.it/.
4. Il convegno organizzato da Isrec Piacenza si è tenuto a Piacenza da 21 al 23 novembre 2024, https://www.istitutostoricopiacenza.it/eventi-iniziative/la-lunga-aggressione-coloniale/.
5. Mostra a cura di Luca Villa, con la collaborazione di Mirtide Gavelli e Otello Sangiorgi. L’allestimento è stato arricchito anche dai video d’epoca provenienti dalla Cineteca di Bologna e dal materiale appartenente dalla collezione del bolognese Carlo Mazzetti: https://www.storiaememoriadibologna.it/archivio/eventi/libia-1911-1912-colonialismo-e-collezionismo.