Il dissolvimento del Partito comunista italiano (Pci) seguito alla “svolta della Bolognina” si è dispiegato parallelamente a un processo di revisione e reinterpretazione pubbliche della storia del partito, guidato dall'ultima generazione di dirigenti comunisti. D'altronde, Achille Occhetto aveva reso la discontinuità la parola chiave del “nuovo corso” per il partito fin dalla sua nomina a segretario, mettendo in atto una vera e propria strategia di politica della memoria. Il presente saggio esplora alcuni aspetti di questo processo e delle sue conseguenze tenendo al centro il concetto di memoria collettiva e servendosi di un'analisi di caso: quella dei militanti comunisti bolognesi, socializzati politicamente nel contesto della crescita del “modello emiliano”. Attraverso l'analisi di 20 interviste in profondità a militanti iscritti al Pci tra il 1945 e il 1956 – che al momento della svolta scelsero di transitare nel Partito democratico della sinistra (Pds) – la presente ricerca si occupa di ricostruire il rapporto che la vecchia base del partito mantiene oggi con la storia del Pci e con la trasformazione attraversata dall'identità politica comunista dopo il 1989.
1. Memoria collettiva e discontinuità socio-temporali: la svolta occhettiana del 1989
Le svolte attraversate dal Partito comunista italiano lungo la sua storia sono state molteplici, e ognuna di esse, in misura più o meno drammatica e più o meno profonda, ha rappresentato un cambiamento di direzione per tutto il partito. Tuttavia, è stata l’ultima a marcare la cesura più profonda, segnando di fatto la conclusione della storia repubblicana del Pci come partito di massa. Il senso di rottura che la decisione di abbandonare l’apparato simbolico del Pci ha proiettato all’esterno è stata tale da spingere molti commentatori a ricorrere al linguaggio della psicanalisi – l’unico che fosse evidentemente abbastanza evocativo – per descriverla. La fine dell’esperienza del Pci è stata paragonata ad un trauma irrisolto, mancante di un rito funebre appropriato che permettesse ai militanti di separarsi serenamente da una tradizione e da un ideale in cui avevano riposto completa fiducia [Testa 2007, 249]. Spesso si è arrivati a parlare di rimozione del proprio passato da parte della dirigenza, e di un silenzio riguardo ad esso diffuso tra quella che era la base del partito [Spinelli 2001; Foa, Mafai e Reichlin 2002; Possieri 2007]. Di fatto, nel corso dell'ultima svolta attraversata dal Pci, avviata da Achille Occhetto già dopo la sua nomina a segretario nel 1988, non furono abbandonati solo gli emblemi e il nome dell'organizzazione, ma si tentò di mutare il modo stesso in cui i comunisti guardavano al proprio passato collettivo, attraverso una serie di atti simbolici tesi a comunicare alla base, così come all'esterno del partito, un senso di rottura storica ritenuto necessario per il passaggio alla nuova fase.
Non a caso, la parola chiave che guidò il progetto occhettiano per il “nuovo corso” del partito fu discontinuità [Frasca Polara (ed.) 1989; Occhetto 1994]. A prescindere dai contenuti specificamente politici del progetto, il tema principale che ha attraversato il mandato dell'ultimo segretario del Pci fu proprio quello del rapporto con il passato del comunismo italiano, e in particolare con i momenti più difficili della sua storia. Gli eventi e i personaggi ritenuti problematici dalla dirigenza, soprattutto alla luce delle rapide e sconvolgenti trasformazioni che stavano avendo luogo oltre la cortina di ferro, vennero progressivamente rivisitati e reinterpretati [Gundle 1995], in un susseguirsi di pubbliche ammende, denunce e costruzioni di nuove linee di continuità storica: al Togliatti padre del “partito nuovo” veniva sostituito il complice di Stalin, all'Ottobre la Rivoluzione francese [Valentini 1990; Liguori 2009]. Questo processo fu infine accelerato dal crollo del Muro di Berlino, in seguito al quale il segretario annunciò che presto sarebbero stati recisi anche gli ultimi legami simbolici con il passato – il nome e la bandiera [Kertzer 1998].
Data la centralità di questi temi nello svolgersi dell'ultima svolta del Pci, questo lavoro di ricerca la affronta proprio ponendo come concetto chiave dell'analisi quello di memoria collettiva [Halbwachs 1997; Jedlowski 2002]. In questo modo l’esperienza del Pci non è più solo oggetto di indagine storica, ma diviene un problema riguardante processi culturali che si dispiegano nel tempo e approdano nel presente, e su cui è legittimo interrogarsi anche a livello sociologico. Nello specifico, l'obiettivo principale che questa ricerca si è posta è di indagare il rapporto tra memoria, identità e cultura politica [Olick 2007; Rampazi e Tota (eds.) 2007], osservandolo nel contesto di una trasformazione sociale marcata da un'importante cesura storica. La domanda teorica di fondo riguarda quindi le discontinuità socio-temporali e i modi in cui le collettività si comportano in loro presenza. Con questo concetto si indicano quegli eventi che si configurano come spartiacque storici e che, come ha osservato Alessandro Cavalli, in quanto tali contribuiscono a dare forma alle identità collettive ed individuali [Cavalli 1995; Tota 2003]. Queste rotture della continuità, infatti, richiedono uno sforzo condiviso di ripristino della normalità e del legame con il passato da parte dei gruppi sociali che ne vengono coinvolti, pena la perdita della capacità di riconoscersi.
Tale processo di ricostruzione della continuità avviene necessariamente al livello della memoria collettiva, e cioè tramite l'elaborazione di rappresentazioni del passato che possano porsi come base di una narrazione coerente a sostegno dell'identità del gruppo. Proprio l'atto narrativo, infatti, è al centro di questa ricerca: l'analisi del racconto biografico è un mezzo particolarmente adatto allo studio delle identità, di cui la memoria costituisce una componente fondamentale [Passerini 1988; Grande 1997]. Il racconto di sé, infatti, è una delle pratiche sociali più comuni, attraverso cui gli individui mettono ordine e costruiscono nessi tra le esperienze passate e presenti; e possono legare queste, a loro volta, con un orizzonte di aspettativa rivolto al futuro [Chiaretti, Rampazi e Sebastiani (eds.) 2001; Jedlowski 2000; Rampazi 2009]. In questo senso, il presente lavoro si pone nel solco tracciato dalle ricerche pioneristiche di Danilo Montaldi [1971] e si affianca a quelle indagini, rimaste poco numerose, che hanno affrontato la transizione all'era post-comunista dal punto di vista dei militanti [vedi ad esempio Baccetti 1987; Baccetti e Caciagli 1992; Li Causi 1993; Canovi et al. 1995; Bonacasa e Sensoni 1998; Fincardi 2007].
2. Il filo rosso: la memoria dell'Emilia comunista
Partire dalla variabile territoriale per delimitare il campo di ricerca è parsa la scelta più naturale, date le specificità del Pci. Infatti, nel momento in cui vogliamo porci rispetto alla storia del partito da un punto di vista individuale, che acquista senso solo in quanto collegato a percorsi di vita e pratiche sociali situati in contesti specifici, è necessario considerare la sua grande differenziazione interna, che si esprimeva in molteplici microrealtà politiche legate ad altrettante storie locali.
Ciò, significativamente, accadeva nonostante la forte omogeneità organizzativa che ha sempre contraddistinto il Pci. È utile ricordare a questo proposito le osservazioni riportate all'interno della ricerca del Cespe (Centro studi di politica economica) sull'identità comunista alla fine degli anni Settanta: l'équipe di ricercatori aveva infatti notato che, a prescindere dalle condizioni ambientali che accompagnavano i tentativi di radicamento del partito in determinate aree, il modello che veniva imposto era sempre il medesimo, corrispondente cioè all'idealtipo di “partito nuovo” togliattiano [Fedele 1983]. Tuttavia, ciò che infine la ricerca concluse fu che il primato dell'organizzazione politica così metodicamente affermato sembrava comunque potere poco nei confronti dell'evidente eterogeneità del territorio nazionale, che in qualche modo si rivaleva sulla rigidità del modello impedendo di fatto un suo insediamento stabile e compiuto in tutto il paese [Tarrow 1967; Riccamboni 1992]. La ragione principale di questo parziale fallimento era, secondo i ricercatori del Cespe, che tale progetto
presupponeva un retroterra sociale che era proprio soltanto di una parte dell'Italia. E cioè: le regioni rosse o – più precisamente – l'Emilia, che […] ha rappresentato per Togliatti il vero laboratorio di un modello organizzativo più generale, il quale non è però mai riuscito a riproporsi con identico successo nel resto del paese [Fedele 1983, 373].
L'Emilia Romagna emerge allora quale caso esemplare e particolare insieme. Se dal secondo dopoguerra in avanti il Pci si presenta come partito dalla vocazione nazionale e democratica, è soprattutto in quest'area che esso riesce a realizzare le proprie aspirazioni di partito di governo, sostenuto da un sistema socio-economico locale solido e omogeneo [Trigilia 1981; 1986]. Inoltre, sul piano culturale, il “modello emiliano” costituisce la base per la costruzione di una tradizione e di un'identità collettiva caratterizzate da un'estrema continuità [De Bernardi, Preti e Tarozzi (eds.) 2004] – per lo meno nel lungo periodo compreso tra il 1945 e il 1989. Tale tradizione è stata però riconosciuta e, in un certo senso, mitizzata ben oltre i confini regionali: come è stato osservato, la memoria collettiva dell’“Emilia rossa” «trascende […] l'appartenenza a un determinato ambito territoriale e si offre come “modello esemplare” assumendo il profilo e la pregnanza di una vera e propria “tradizione civile”» [Bertucelli et al. 1999, 270]. Nello specifico, la valenza di mito nazionale viene assunta a partire dalla memoria delle vicende resistenziali e degli anni della ricostruzione nel secondo dopoguerra, durante i quali l'Emilia Romagna diventa, come già ricordato, l'esempio più compiuto delle possibilità di successo di un governo comunista.
La storia della nascita dell’“Emilia rossa”, dunque, è rimasta come punto di riferimento ed esempio, rendendo la versione regionale dell’identità politica comunista particolarmente adatta quale angolo visuale privilegiato per occuparsi della storia e dell’eredità del Pci sotto l’aspetto dei processi socio-mnemonici. Si tratta infatti di una narrazione caratterizzata da una grande continuità, che ha quindi fornito ai militanti emiliano-romagnoli un frame mnemonico particolarmente forte entro cui collocare il proprio impegno politico e la propria biografia individuale. Questo sarà uno degli elementi più evidenti a emergere dalle testimonianze degli intervistati: lo sviluppo del “modello emiliano” rappresenta – riprendendo la metafora della politologa francese Marie-Claire Lavabre [1994] – un filo rosso, una struttura che regge le loro narrazioni, soprattutto per la generazione di militanti formatasi nel dopoguerra, a cui appartengono gli intervistati di questa ricerca, che ha assistito e partecipato in prima persona alla costruzione del mito.
Nel corso dell'analisi vedremo come questa struttura prenda forma nel racconto dei militanti, nonostante gli eventi e i passaggi della storia del partito nazionale che potrebbero costituire una minaccia per la coerenza della loro narrazione. Ci si concentrerà soprattutto sulla svolta occhettiana, l'unico evento, come vedremo, ad affiorare come vero e proprio spartiacque. Nel 1991 tutti gli intervistati hanno scelto di seguire la maggioranza della dirigenza e confluire nel Pds, e sarà dunque interessante osservare il modo in cui questa profonda frattura storico-mnemonica venga trattata nel contesto di una visione del passato per il resto estremamente lineare.
3. Il metodo e il campione di riferimento
Le interviste sono state raccolte a Bologna, tra il 2008 e il 2010, tramite campionamento a valanga. Sono stati selezionati 10 donne e 10 uomini, iscritti al Pci tra il 1945 e il 1956 e rimasti nel partito fino alla svolta del 1989-91, per poi transitare nel Pds. Oltre al dato di base dell'appartenenza partitica, i soggetti di questa ricerca hanno in comune l'inserimento in quella forma specifica di partecipazione politica che è la militanza politica attiva. All'interno di questa ampia definizione sono stati inclusi militanti che normalmente venivano identificati come “attivisti volontari di base”, ma anche coloro hanno avuto esperienze all'interno dell'amministrazione di quartiere – ad esempio consiglieri o organizzatori di circoli culturali e politici all'interno delle Case del popolo – e funzionari del partito a livello locale. Si è ritenuto che, senza allontanarsi troppo dal principio del volontariato – che comunque ha rappresentato l'ambito di formazione principale per tutti gli intervistati e ha occupato la maggior parte della loro esperienza politica – l'inclusione di figure diverse potesse contribuire a rendere più completa l'immagine della vita di partito all'interno dei quartieri bolognesi.
Le interviste hanno mirato ad approfondire due aree tematiche principali: l'esperienza di militanza individuale dell'intervistato e la storia del partito. Il primo tema è stato affrontato con un approccio simile a quello adottato nelle ricerche basate sulle storie di vita, e dunque attraverso domande riguardanti:
- il percorso di ingresso nel Pci;
- la vita di partito nella sua dimensione quotidiana;
- gli orientamenti politici personali (coerenti o dissonanti con la posizione del partito; la militanza in sindacati, organizzazioni di massa, cooperative; l'orientamento religioso);
- un bilancio complessivo di questa esperienza (cosa ha significato essere comunisti nel Pci).
Per quanto riguarda invece il secondo tema, che pertiene direttamente alla questione della memoria collettiva comunista, le domande si sono soffermate su una serie di eventi spartiacque e personaggi fondamentali per la storia del Pci. Le domande si sono concentrate su:
- fascismo e antifascismo;
- la figura di Palmiro Togliatti;
- il 1956;
- il 1968/69;
- la figura di Enrico Berlinguer;
- il compromesso storico;
- Bettino Craxi e la svolta del Partito socialista italiano;
- la svolta del 1989.
Il gruppo degli intervistati si presenta particolarmente omogeneo: provengono tutti da un ambiente di socializzazione amico, cioè da famiglie antifasciste; il livello di scolarizzazione è generalmente basso (licenza elementare in 15 casi); i percorsi di accesso al partito sono quelli tradizionali; le famiglie di provenienza sono bolognesi o emiliano-romagnole, tranne in 2 casi; sono tutti pensionati, di cui 15 ex operai e 5 ex impiegati. Si tratta, in sintesi, del profilo medio del militante comunista che vive nell'area urbana di Bologna tra il 1945 e il 1956. Il Pci provinciale, infatti, è in quegli anni un partito in larga parte operaio e bracciantile: la percentuale degli operai oscilla fra il 39% e il 35%, mentre quella dei braccianti è compresa tra il 21% e il 19%, mentre è da notare la bassissima presenza di intellettuali e studenti.
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Merita poi un approfondimento a parte la scelta della variabile della generazione politica, che è stata preferita a una semplice divisione su base anagrafica, apparsa da subito arbitraria ai fini della ricerca. Si è ipotizzato che la specificità dell’esperienza di militanza, infatti, potesse essere dipesa maggiormente dal contesto storico in cui aveva avuto inizio – dunque dalle motivazioni che avevano avvicinato gli intervistati al partito e dalla formazione politica che avevano ricevuto al suo interno – piuttosto che dalla particolare fase biografica in cui il militante si trovava al momento dell’iscrizione. I 20 intervistati di questa ricerca si sono iscritti nel corso di un decennio delimitato, per il partito nazionale, da due date profondamente periodizzanti anche dal punto di vista organizzativo: il 1945, anno in cui gli iscritti al partito sono più che triplicati; e il 1956, vale a dire la prima significativa discontinuità nella storia del Pci, in seguito alla quale si ha una notevole flessione del numero di iscritti. Inoltre, come si è segnalato, particolarmente rilevante per l'analisi dei dati è il fatto che questo gruppo di militanti si sia formato in un contesto locale molto specifico: l'Emilia-Romagna della ricostruzione, delle lotte bracciantili e operaie e poi dell'edificazione del “modello emiliano”. La socializzazione politica rappresenta dunque in questo caso una variabile fortemente omogeneizzante e, come vedremo, particolarmente influente sulla percezione e il ricordo del passato emersi dai colloqui.
4. Diventare comunisti nel dopoguerra: la ricostruzione, le lotte e l'edificazione del “modello emiliano”
Molti tra gli intervistati vedono la propria adesione al Partito comunista negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto come un atto naturale, che nasce dalla tradizione famigliare: in questi casi non appare esserci alcuna frattura tra la generazione dei narratori e quella dei loro genitori, e l'adesione al partito avviene così in modo quasi inconsapevole. L'antifascismo costituisce evidentemente il ponte di raccordo tra la cultura politica delle due coorti, in modo talmente stabile da renderle parte della medesima storia ed impegnate nella stessa lotta.
Noi eravamo di famiglia così. Mi ricordo che mia mamma – allora non c’era ancora il Partito comunista e lei era a lavorare nella Lega, lei organizzava, era una molto attiva. Mio cugino è stato cinque anni al confino, dai 18 ai 23 anni, perché lui era un antifascista e andava a staccare i manifesti e poi suo zio, dato che è Ghini, era una personalità. Quindi noi siamo di estrazione così (I., donna, 1921). [Trascrizione, pdf]
Chi invece non collega esplicitamente la propria scelta di aderire al Pci alle idee politiche della propria famiglia – pur provenendo da ambienti di simpatizzanti – ricorda di aver visto nel partito il mezzo migliore per partecipare alla ricostruzione della società dopo la guerra. È soprattutto in questi racconti che emerge chiaramente la tensione verso il futuro e la dimensione di progettualità a cui il Pci dava accesso per i nuovi iscritti. Il successo della Resistenza soprattutto a livello di consenso popolare [Preti 2004], con la sua preponderante presenza comunista, aveva posto le basi della fiducia della popolazione locale nel partito, che ne raccolse quindi i frutti nei primi anni dopo il ‘45.
Era una atmosfera che penso che è irripetibile: era tutto distrutto, metà della gente morta, quella che era viva era malata di tubercolosi, affamati, senza lavoro. Ci riunivamo e, riunendoci, si sono costituite le cellule. Il passo per fare la tessera definitiva è stato breve, brevissimo e mi sono iscritta proprio perché in gruppo eravamo tutti desiderosi di ricostruire. […] Là a Crespellano in quei mesi sono stati mesi fantastici perché, non so, è come uno che è malato e a un certo punto guarisce: avevi una frenesia di novità, di che cosa è la libertà, perché, in che maniera, cos’è la democrazia, come ce la spieghiamo (G., donna, 1926).
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I primi ricordi della loro militanza sono legati agli anni della ricostruzione e a quelli della Guerra fredda, durante i quali il clima politico a Bologna era dei più aspri. Le grandi lotte bracciantili del periodo ‘45-‘49 coinvolsero anche gran parte della provincia del capoluogo, la quale presentava una struttura sociale eterogenea, operaia-bracciantile e mezzadrile [Anderlini 1990]. Accanto a queste, in particolare a partire dal 1948 e per tutto il periodo della Guerra fredda, si sviluppò la protesta degli operai contro la smobilitazione delle fabbriche e contro la grande ondata di licenziamenti, spesso utilizzata in modo strumentale dai gruppi padronali per eliminare dirigenti sindacali e lavoratori politicamente attivi. In tutto, tra il ‘48 e il ‘54, furono licenziati nelle industrie bolognesi 9.000 operai [Bellettini 1980], mentre la repressione colpiva anche al di fuori delle fabbriche: momenti particolari di offensiva da parte del governo centrale si verificarono, ad esempio, in concomitanza con lo sciopero proclamato in seguito all’attentato a Togliatti e durante le campagne elettorali [Casali e Gagliani 1980].
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I riferimenti a quella fase di conflitto aperto ricorrono nelle narrazioni e sono proposti spontaneamente anche quando non sollecitati dalle domande dell'intervistatore. I racconti più frequenti – data la provenienza operaia della maggioranza dei soggetti – riguardano la situazione nelle fabbriche o, più in generale, sul luogo di lavoro in città.
Certo che si diventava anche violenti, perché noi volevamo fare la lotta contro la borghesia che c’era ancora dopo la guerra, c’erano ancora i padroni, c’erano le terre. Si è cominciato le lotte perché c’erano ancora i padroni. […] A Molinella – io parlo di Molinella, ma era poi così in generale perché se si parla anche delle altre zone, Bentivoglio e tutte quelle parti lì – c’erano la maggior parte dei comunisti, la campagna era piena. Era così. Perché? Perché comunista vuol dire cosa comune, lottare. Tutti quelli che erano nostri dirigenti comunisti li hanno esiliati, li hanno ammazzati perfino. Si sono fatti anche ammazzare stando zitti, li hanno torturati, si sono fatti ammazzare pur di non tradire le sue idee. Io sarei stata così anch’io, mio fratello ha fatto quasi quella fine lì, i fascisti ci hanno buttato giù la casa, non avevamo niente più. Niente. Ma io sono ancora così, non ho mai detto: “Bè, se io andavo da quell'altra parte stavo meglio” (E., donna, 1926).
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Il tema della lotta e dello scontro frontale con gli avversari politici rimane però limitato ai racconti di questo periodo. Proseguendo nella narrazione, gli elementi di antagonismo sono ricomposti rapidamente entro una narrazione che potremmo definire progressiva, la quale racconta di un percorso evolutivo lungo il quale sia i militanti che il partito emiliano-romagnolo hanno superato il momento di crisi e conflittualità aperta per giungere infine alla stabilità e al compromesso sociale. Si tratta dunque della storia di un successo: quello della società emiliana, di cui il Partito comunista è stato protettore e costruttore.
Ad esempio si combatteva per avere l’ospedale, perché l’ospedale Maggiore [a Bologna] ce lo siamo fatti noi. Io mi ricordo che ero una ragazzina e andavo in bicicletta a raccogliere le pietre dove c’era dei bombardamenti. Si portavano là per costruire l’ospedale Maggiore, perché là c’era la caserma prima, insomma lì nei dintorni era tutto servizio militare. E dopo per far quell’ospedale si è lottato tanto perché non è che il governo ti dava il permesso di farlo, soprattutto perché qui c’era una realtà diversa e non volevano farlo, lo proibivano proprio come tante cose hanno proibito (L., donna, 1935).
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La costruzione del mito dell’“Emilia rossa” passa quindi necessariamente attraverso questa transizione dal sovversivismo a una visione gradualista e anti-rivoluzionaria della lotta politica [Casali 1997]. A ciò si affiancano poi, come si è visto anche nella precedente testimonianza, i temi dell'autonomia e della diversità, elementi tipici del “modello emiliano”, che rimangono validi a diversi livelli: autonomia del Pci rispetto al movimento comunista internazionale; degli amministratori emiliani rispetto al governo italiano; del partito regionale rispetto a quello nazionale; delle unità territoriali – come il quartiere – rispetto all'amministrazione bolognese. La testimonianza che segue mostra proprio l’orgogliosa indipendenza rivendicata rispetto al centro del partito, attraverso la narrazione di un episodio che assume i tratti tipici dell’invenzione mnemonica.
[Non ci sono mai stati grandi dirigenti emiliani nel partito nazionale] perché avevano l’ostracismo degli altri. Non è perché non ne avessero di capaci. Allora Fanti era chiamato il piccolo Togliatti. Ti dò un esempio solo. Togliatti viene a fare un discorso in chiusura della campagna elettorale del ‘52-‘53 e venne fuori con una battuta di questo tipo, che noi considerammo blasfema: il partito doveva lavorare in tutte le direzioni, compreso nell’orticello del vicino. Il vicino chi era? I socialisti. Noi avevamo degli accordi e lui venne a rompere le uova. Fanti fece delle liti; Fanti gli disse: “Tu a fare dei comizi a Bologna non vieni più, noi qui abbiamo una realtà diversa perché a Roma ragionate in un modo, ma noi abbiamo degli accordi, tutte le amministrazioni sono in collaborazione”. Nonostante che dopo abbiano fatto il centrosinistra, ma a Bologna hanno sempre resistito [le amministrazioni miste] (A., uomo, 1921).
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Quello dell'autosufficienza è, infatti, un altro tratto caratterizzante le subculture territoriali, e contribuisce generalmente a rafforzarne ulteriormente l'identità [Trigilia 1986]. È interessante come, all'interno di queste narrazioni, esso divenga un valore talmente consolidato da estendersi a tutti i piani dell'azione politica, rimarcando così l'eccezionalità dell'impresa comunista emiliana, portata a termine in modo, appunto, autonomo, nonostante gli ostacoli posti dalle forze esterne alla società locale.
Come ha efficacemente sintetizzato Fausto Anderlini, l'originalità del comunismo emiliano risiedeva quindi nella sua capacità di mantenere un «dissonante ma funzionale rapporto tra ideologia e prassi» [Anderlini 1990, 24]. Significativamente, questa duplicità identitaria si manifesta chiaramente anche nel momento in cui gli intervistati si trovano ad affrontare uno dei luoghi della memoria portanti della tradizione comunista: l'Unione sovietica. Come ha osservato Marco Fincardi a proposito della mitologia sovietica tra i militanti comunisti del reggiano,
In un ambiente come quello emiliano […], che una conquista proclamata dall'Urss risultasse credibile non risultava un'illusione più o meno ingannevole, ma diventava lo stimolo per realizzare davvero qualcosa di analogo – o supposto tale – in terra emiliana, nel proprio paese. Più che l'accettazione dogmatica di una propaganda o di un'ideologia ciò diventava il credere ad un progetto coinvolgente di generale emancipazione della classe operaia e di concreti obiettivi per la cui realizzazione ci si attivava collettivamente [Fincardi 2007, 61].
L'esistenza dell'Urss, infatti, era molto più di un semplice incentivo di carattere simbolico ed ideologico: a differenza di quanto accadeva alla cultura politica comunista in altre zone d'Italia – come il Veneto, in cui il mito costituiva l'unico appiglio per mantenere vivo l'attivismo in assenza di prospettive politiche credibili [Riccamboni 1992, 144] – esso veniva qui rielaborato come uno spazio motivazionale [Canovi et al. 1995] per la realizzazione di obiettivi raggiungibili. Di conseguenza, come osserva ancora Fincardi, «il deteriorarsi della simbologia sovietica non ha comportato il deperimento dell'intero sistema di valori che la sinistra emiliana aveva reso operante intorno a quella stessa simbologia» [Fincardi 2007, 66]. Tuttavia, nonostante l'apparente coerenza del percorso di laicizzazione politica seguito dal partito dopo il disgelo, che viene richiamato da molti intervistati, la disgregazione dell'Unione sovietica dopo il 1989 emerge in molti casi come evento traumatico, che si somma all'insoddisfazione riguardo alla gestione della svolta da parte della dirigenza del Pci.
5. Dalla fine della Guerra Fredda alla fine del Pci
Sorprendentemente, la linearità dei racconti biografici risulta ancora più solida quando si passa ad affrontare i decenni successivi al disgelo e al boom economico. Mentre le trasformazioni e i momenti più difficili del dopoguerra e degli anni Cinquanta sono ben presenti nella memoria degli intervistati, la fase successiva è caratterizzata nei racconti da una profonda omogeneità e continuità: scandita dalle conquiste ottenute sul territorio e da cui emergono, in modo irregolare, solo alcuni degli eventi che hanno scosso il paese. Il ricordo degli anni Settanta rimane poco definito, nonostante la densità di avvenimenti drammatici, e l'ultima decade di storia del Pci si presenta ancora più nebulosa e difficile da collegare a grandi spartiacque storici.
La separazione narrativa tra livello locale e nazionale sembra appoggiarsi ancora una volta sulle specificità del racconto del “modello emiliano”: la sostanziale stabilità politica e il benessere conquistati in ambito regionale dagli anni Sessanta in avanti [Zangheri (ed.) 1986; D'Attorre e Zamagni (eds.) 1992] avevano concentrato le energie e l'attivismo dei comunisti emiliani su obiettivi concreti e di medio termine, che nel racconto del passato si sovrappongono agli avvenimenti controversi che nel frattempo stanno avendo luogo in Italia. La coscienza storica [Gagnon 1981] di questi militanti, cioè il modo in cui strutturano le proprie storie di vita intorno a punti di riferimento storico-temporali collettivi, risulta quindi strettamente legata all’esperienza quotidiana della militanza politica. Questo meccanismo mnemonico e narrativo emerge con chiarezza nelle prossime due testimonianze. La prima delle quali si riferisce, nello specifico, alla costruzione del quartiere del Pilastro a Bologna.
E c’è stata una crescita, bene o male, perché allora il Partito comunista era una grossa forza e aveva specialmente nella nostra realtà emiliana un rapporto dialettico tra realtà che lavorava sul territorio e dirigenti che potevano lavorare, diciamo, nelle amministrazioni come il sindaco, gli assessori o il presidente della provincia. Era un rapporto dialettico, non era un rapporto sfacciatamente subalterno, dove dal centro si davano gli ordini e qui correvano tutti. […] Quindi c’era il problema della scuola, c’era il problema dei trasporti, c’era il problema dell’impiantistica sportiva, perché i bambinetti tu li devi tirare su e non lasciarli in mezzo ad una strada. Diciamo, il processo tra gli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta è stato un processo di crescita, tant’è vero che il comune di Bologna fu il primo che istituì le cosiddette scuole materne, gli asili nido (R., uomo, 1936).
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Ma sai, i cambiamenti, se non ci sono delle situazioni traumatiche, avvengono sempre gradatamente, un po’ come quando noi tiriamo fuori una foto di dieci anni fa e vediamo chissà cosa, però tutti i giorni ci guardiamo allo specchio e ci sembra quasi di esser uguali, però siamo cambiati. Però, come amministrazione secondo me c’erano ancora tutta una serie di principi ai quali ci si ispirava: per esempio l’urbanistica era ancora una cosa importante, l’autonomia dell’ente locale, il rapporto con l’ente Regione, i primi piani programmatici, i piani di sviluppo. Secondo me è stata una fase interessante per quello che riguarda gli enti locali. Poi, sì, c’è stato tutto il periodo delle Brigate rosse, il rapimento di Moro, tutte avvenute lì (G., uomo, 1936).[Trascrizione, pdf]
Significativamente, nemmeno la morte di Enrico Berlinguer viene identificata come trauma collettivo. La differenza evidente con il ricordo di Togliatti è la mancanza, in questo caso, di un leader riconosciuto in modo unanime. La figura di Enrico Berlinguer risulta, infatti, più complessa rispetto a quella del segretario storico: mentre Togliatti viene definito in modo univoco e senza esitazioni capo, padre e guida, Berlinguer raccoglie opinioni più contrastanti, che a volte arrivano all'espressione di dubbi riguardo alle sue scelte, soprattutto quando si parla della strategia del “compromesso storico”. Se in alcuni casi la sua opera di laicizzazione del Pci viene ricordata come un'evoluzione positiva e necessaria della strategia togliattiana, secondo altri essa ne rappresenta invece una degenerazione, che ha portato sulla strada dell'abbandono dell'identità comunista.
L'osservazione riportata nell’ultima testimonianza proposta, riguardo a un mutamento graduale piuttosto che segnato da singoli eventi rivoluzionari, è dunque particolarmente rappresentativa della prospettiva generale di tutto il gruppo di intervistati su questo lunghissimo periodo che ha fine solo con la svolta occhettiana. In un panorama di sostanziale continuità percepita, infatti, è il biennio 1989-1991 a presentarsi come la prima vera e propria cesura.
6. L’ultima svolta
Nonostante abbiano infine scelto di rimanere nel partito – spesso anche attraverso tutte le svolte successive, compresa la trasformazione in Partito democratico – la decisione di Occhetto di cambiare nome e simbolo al partito ha rappresentato per la maggioranza degli intervistati un evento inaspettato e doloroso, che in alcuni casi pare assumere i tratti di quel trauma descritto da analisti e commentatori che abbiamo richiamato inizialmente. Tuttavia, in Emilia Romagna, le conseguenze immediate della svolta non sono state tali da mettere in discussione l'esistenza stessa della subcultura comunista, soprattutto dal punto di vista elettorale [Ramella 2005]. Anzi, questa discontinuità così repentina pare essere stata superata nel breve termine mantenendo praticamente intatta la struttura dell'organizzazione partitica, che in quel momento si trovava in pericolo. D'altra parte, quasi l'80% dei delegati delle federazioni emiliano-romagnole scelse di seguire Occhetto nel Pds, rivelandosi così decisivi per la sua vittoria in sede congressuale [Baccetti 1997].
Stando a questo dato, dunque, parrebbe che la stabilità politica e sociale della regione, grazie alla quale il Pci aveva potuto mostrarsi più forte che nel resto del paese durante la crisi degli anni Ottanta, abbia permesso alla base del partito di metabolizzare perfino una svolta tanto radicale. In realtà, le testimonianze analizzate tracciano un'immagine del processo di transizione molto più complessa: anche se, infine, le strutture identitarie e culturali hanno guidato la scelta di questi militanti di seguire il segretario, emerge spesso dai racconti un profondo disaccordo sul progetto della svolta.
Ho pensato, “Abbiamo già finito”. Abbiamo già finito, e difatti non mi sono tanto sbagliata. L’ho presa male perché quando uno fa questa svolta deve prima parlarne. Noi avevamo la sezione e non abbiamo parlato di niente. Abbiamo parlato dopo. Non è possibile! Allora noi cosa contavamo? Ci siamo resi conto lì che non contavamo un accidente. Poca roba. Allora mi dico da sola – mio marito ormai stava male che non contava niente, anche lui – ma noi cosa abbiamo lavorato tanto per questa idea? Abbiamo dato la vita per questo. Era la vita per modo di dire, però, oh, potevamo andare in vacanza, invece che alla festa dell’Unità dalla mattina alla sera (O., donna, 1930).
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Con Occhetto l'abbiamo presa male, è stato il modo. Neanche tanto per le sue idee, proprio il modo che l’ha presentata, la fuga che fece e poi dopo le lacrime: tutta ‘sta gnola non ci apparteneva. Noi del Pci eravamo – adesso, dire più saggi è una grossa eresia – però eravamo un po’ più convinti di quel che si faceva. Invece tutta questa smanceria proprio ci ha demolito, ci ha messo proprio in crisi: il partito non è più riuscito a riprendersi. No, Occhetto non è stato amato, non c’è piaciuto (A., donna, 1934).
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Queste e altre testimonianze sulla svolta occhettiana presentano diversi elementi comuni. È un evento definito spesso come la fine del partito, ma non solo: la gestione della trasformazione è essa stessa percepita come fonte di delegittimazione dell'identità comunista italiana. La scelta di Occhetto di accelerare le tappe della transizione dopo la caduta del Muro senza consultare prima la base viene identificata come una negazione del processo decisionale che normalmente era seguito all'interno del partito. Non per nulla nel corso delle interviste il sistema del “centralismo democratico” viene spesso ricordato come un elemento fondamentale della partecipazione, e mai percepito come mancanza di democraticità: la discussione che avveniva regolarmente all'interno delle riunioni di sezione e di cellula era in se stessa un valore da salvaguardare, poiché fonte insostituibile di coscienza e conoscenza. Il fatto che questa dimensione sia stata ignorata proprio in occasione della svolta più importante e più difficile da metabolizzare sembra dunque avere aggravato la profondità della frattura per i militanti.
Da ciò deriva un altro elemento comune e molto evidente, cioè il mancato riconoscimento di Occhetto quale leader legittimo del partito. La sua colpa principale è quella di avere infranto troppi codici simbolici fondamentali: ha ignorato la base, ha negato la validità e la diversità dell'identità comunista, ha causato la divisione del partito contravvenendo al principio dell'unità e, infine, ha smarrito il contegno tipico della dirigenza comunista, per la quale l'emotività non era mai stata parte del discorso politico. Rimane allora da esaminare come avvenga la ricomposizione di tale frattura in presenza di una contraddizione evidente tra la reazione emotiva all'evento e la successiva scelta di non abbandonare il percorso della militanza.
Si possono ritrovare tra le interviste alcuni esempi di questo processo mnemonico e narrativo: in più di un caso la ragione per rimanere è identificata nel valore dell'azione collettiva, che può essere salvaguardato solo attraverso il mantenimento dell'unità del partito; per altri, nonostante la poca chiarezza con cui è stata gestita la mutazione del Pci, l'adesione al partito rimane comunque l'unico modo di schierarsi dalla parte che storicamente è stata quella giusta; altri ancora, dopo una vita da militanti, non riescono a concepire se stessi al di fuori dell'organizzazione.
Io sono una bandiera rossa. Per me la differenza è tra stare in un’organizzazione per ideali e stare in un’organizzazione per convenienza: per me il Pd è convenienza, non ci sono ideali dentro, mentre io sono piena di ideali tuttora. Tant’è vero che non ho mai avuto paura anche quando [avere questi ideali] mi è costato, che mi è costato tantissimo. Però c’è questa differenza. Io ho visto nei Ds che si andava verso il superamento delle ideologie e io questo non l’ho accettato e non lo accetto. Ci sto perché non so stare fuori, perché quando una è vissuta dentro dai 16 anni fino agli 80 è impossibile che a 81 smetta (G., donna, 1926).
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La parte – minoritaria – di questo gruppo che dichiara di avere appoggiato la svolta occhettiana con convinzione fin dall'inizio, invece, fa riferimento ancora una volta alla progressiva evoluzione del Pci in senso laico e democratico; e alla diversità dei comunisti italiani rispetto al movimento internazionale. Si ricordano le conquiste che il partito è riuscito a ottenere grazie alle sue capacità di adattamento al contesto storico, coerentemente con la narrazione del “modello emiliano”. Il cambiamento di nome e simbolo voluto da Occhetto, quindi, è per questi militanti un ulteriore e naturale stadio evolutivo del Pci, necessario per sopravvivere e continuare a comprendere la società e i suoi bisogni.
Adesso ci sono altri strumenti e poi non c’è lo stato di bisogno che c’era allora, perché torno a mio padre, che è morto 20 anni fa circa, e lui quando si parlava di politica e c’erano i lamenti e tutti si lamentavano, lui ad un certo punto diceva: “Ma non vi accorgete che questo è il socialismo? Che l’abbiamo ottenuto? Istruzione, sanità, relativo benessere, mio padre – cioè mio nonno – è morto ignorante, arrabbiato. Questa è la libertà, con tutti i difetti”. E io sono uno di quelli che ha seguito tutto il percorso di trasformazione del Pci in Ds, in maniera non formale, ma convinto perché non è né il fascismo, non è il dopoguerra e neanche gli anni Sessanta o gli anni Ottanta o Novanta. Siamo a questi giorni, con la classe egemone che è il ceto imprenditoriale e commerciante perché sono loro quelli che hanno l’iniziativa e determinano. Io quando vado in giro qui in Emilia e poi su in Friuli, trovi capannoni dappertutto, il benessere diffuso. È chiaro che poi dopo bisogna fare i conti con questo (O., uomo, 1937).
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Comune a tutti, favorevoli e contrari alla trasformazione, è comunque un certo grado di confusione quando si tratta invece di autodefinirsi politicamente. L'ultima domanda posta nell'intervista – “Si definirebbe ancora comunista?” – suscita risposte interlocutorie, che comunque giungono quasi unanimemente alla medesima conclusione: al di là delle definizioni e dei nomi, gli intervistati sentono di avere ancora gli stessi obiettivi che si erano posti quando il Partito comunista esisteva ancora, ma non è chiaro quali siano i mezzi attuali per realizzarli.
No, non mi sento comunista. Perché io l’ho detto tante volte: comunista cosa vuol dire? Io poi sono andato a vederlo anche nel vocabolario, e la spiegazione me la son data semplicemente così, comunismo vuol dire mettere in comune i mezzi di produzione. Qui è vero, ho degli interrogativi, e lo dissi anche quando ci fu questa svolta, la svolta della Bolognina. Perché questa cosa che si chiamava socialismo, è stata gestita male? Non si è stati capaci di gestirla? O è proprio il sistema che è contro natura, cioè l’essere umano è fatto in un altro modo, è più individualista, non sa gestire o gli diventa monotono il vivere in una società dove tutto è collettivizzato, dove si fanno dei piani quinquennali, dove dobbiamo produrre tanto di questo, tanto di quello, però poi non si riesce a produrlo e non si riesce neanche a distribuirlo. […] La risposta mi fu data, mi ricordo, dalla *** , quella che adesso è assessore […]. E mi disse che era proprio nella natura della persona umana, che [il socialismo] era in contraddizione con la natura umana. E io rimasi così, bè, adesso te ne accorgi? Non lo potevi dire anche prima? E lei non è che è l’ultima arrivata, era una dirigente del Pci anche prima. Ma probabilmente lo sapevano, ma sempre per quel discorso di non disorientare [la base] non lo hanno detto. Cioè alla base non è arrivata gradualmente in modo che ne prendesse coscienza. La svolta della Bolognina arrivò quasi come un fulmine a ciel sereno (E., uomo, 1931). [Trascrizione, pdf]
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7. Dopo il 1989: prime crepe nel “modello emiliano”
Nonostante il declino organizzativo ed elettorale del Pci fosse iniziato già alla fine degli anni Settanta, nella memoria degli intervistati questo processo, unito al declino culturale e politico del partito, viene spesso percepito come una conseguenza diretta del suo scioglimento. Ciò sembra suggerire che il biennio 1989-1991 abbia rappresentato uno spartiacque talmente significativo da divenire una sorta di centro gravitazionale a cui vengono ricondotti tutti gli avvenimenti più importanti dell'ultima fase storica del Pci; e che, soprattutto, esso venga percepito come l'inizio dello sgretolamento del partito.
Come era avvenuto anche nella narrazione dei ricordi del 1989, è l'unità il principio di cui si sente più la mancanza, a diversi livelli. Inoltre, i racconti del presente o degli anni più recenti si collocano più decisamente in un dopo conseguente ad una forte rottura, e diventa sempre più difficile costruire linee di continuità con il passato anche per coloro che si erano dimostrati a favore della svolta.
Secondo me, tutta una serie di valori si sono andati… boh, la società li ha persi anche in generale, però noi avevamo un patrimonio, secondo me, e a mio avviso oggi quello che è rimasto del Pci, che non c’è rimasto più niente nel Pd, ha perso l’anima, non ha più quella cosa che ti portava a impegnarti, a batterti, a cercare di essere il più bravo, il migliore nel fare certe cose, di realizzare un determinato un certo tipo di intervento. Perché questo rientrava all’interno di quelle idealità generali, che non erano finalità ideologiche, ma erano finalità di carattere sociale, di sviluppo della società, di progresso, di giustizia. Insomma le lotte che facemmo per gli asili nido e tutto quanto, eravamo all’avanguardia (G., uomo, 1936). [Scarica l'intervista in formato PDF]
Per quanto riguarda la dimensione locale, comincia a percepirsi nei racconti il timore di un distacco sempre maggiore tra la cittadinanza e l'amministrazione. Laddove il Pci emiliano fungeva da mediatore di interessi diversi e da forte coagulante sociale, oggi si tocca direttamente l'impatto delle tendenze individualistiche diffuse negli ultimi trent'anni, a cui la politica non riesce a reagire. Ciò viene imputato a due fattori principali: alla mancanza di luoghi destinati alla partecipazione dei cittadini nei processi decisionali collettivi, come le sezioni, e all'abbandono del tradizionale rapporto diretto con la popolazione da parte del partito e delle istituzioni. In breve, sono venute a mancare le strutture subculturali che avevano permesso all'Emilia di diventare una regione sviluppata e all'avanguardia grazie anche al valore della partecipazione. Inoltre, i militanti soffrono il venir meno della coesione interna al partito, soprattutto tra la base. Il Partito comunista riusciva, secondo loro, a organizzare la militanza con un'attività costante di informazione e coinvolgimento, a cui le persone rispondevano immediatamente. Questo lavoro, che era insieme di inclusione e di insegnamento, non esiste più, e alcuni sentono di aver perso non solo la loro fonte primaria di apprendimento, ma anche il mezzo che li rendeva in grado di esprimersi sui temi collettivi che ritenevano più importanti.
Si andava proprio a tutte le porte a parlare del perché si faceva questa manifestazione, perché si votava, perché volevamo la Montagnola sistemata, perché si organizzava la festa dell’Unità. E allora si andava casa per casa a chiedere: “Tu quando sei disposto?”. C’era un lavoro veramente pratico, ma c’era anche un lavoro di informazione allora, che adesso non saprei più fare. Perché anche culturalmente il mondo è molto più sviluppato e io non sarei assolutamente più all’altezza. Però io mi permetto comunque di criticare della mia parte anche della gente che ha due o tre lauree; non glielo dico con loro perché non ho un dialogo diretto con loro, però quando leggo dico, mah, questo qua da dove viene. Mi viene spontaneo; non è il ragionamento che mi manca, è la parola (L., donna, 1936).
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8. Conclusioni
Uno dei punti che è emerso con più forza è l'importanza dell'elemento locale e subculturale alla base del rapporto con il passato che questi militanti hanno costruito. Infatti, nel momento in cui i colloqui si sono avvicinati maggiormente alle storie di vita dei militanti, i loro ricordi hanno mostrato di strutturarsi intorno alle vicende politiche locali, includendo solo raramente i grandi eventi spartiacque che hanno scandito la politica nazionale del partito.
All'interno dei racconti che ci sono stati proposti dagli intervistati, il “modello emiliano” emerge non solo come obiettivo politico, ma come una vera e propria costruzione culturale ed elemento costitutivo dell'identità comunista bolognese. I nodi principali di questa storia, emersi dai racconti, sono l'eredità del socialismo pre-fascista, la Resistenza, la crescita del Pci nel dopoguerra e la ricostruzione, le lotte dei lavoratori e la repressione durante la Guerra fredda, e infine la conquista dei diritti e del benessere e l'edificazione di una società avanzata e progressista. Come appare evidente, quindi, la segmentazione storica che ordina la memoria di questo gruppo si discosta alquanto dalla periodizzazione che solitamente viene applicata alla storia del Pci nel suo complesso, e va a costituire la struttura di un racconto principalmente basato sulle vicende della società locale e sull'esperienza diretta dei narratori. I passaggi storici non sono presentati come cesure, ma inseriti invece in un percorso lineare e ascendente, che abbiamo definito una narrazione progressiva.
Abbiamo così potuto rilevare una specificità molto marcata della memoria comunista emiliana: questo sembra suggerire che, per affrontare oggi il tema della trasformazione della cultura politica legata al Pci a 20 anni dal suo scioglimento, possa essere utile adottare una prospettiva territorialmente delimitata, piuttosto che servirsi di categorie onnicomprensive che tendono a considerare il partito come un'entità indifferenziata e monolitica. Inoltre, se ci si concentra sulle soggettività dei militanti, invece di occuparsi unicamente delle narrazioni ufficiali proposte dal Pci e dalle formazioni sue eredi, ci appare una complessità nelle relazioni tra queste due dimensioni che sarebbe altrimenti invisibile.
A questo proposito, è interessante notare come la narrazione proposta da Occhetto e dalla dirigenza comunista in occasione della svolta dell’‘89 abbia profondamente contraddetto proprio il valore della diversità, fondamentale per l'identità comunista emiliano-romagnola. Legando, come abbiamo visto, le sorti del partito a quelle del movimento comunista internazionale, gli artefici dello scioglimento del Pci hanno confermato indirettamente alcune delle accuse più tradizionali rivolte ai comunisti italiani nel corso della loro storia, e in particolare quella di rappresentare solo una propaggine del sistema sovietico, inaffidabile e caratterizzata da un'ineliminabile doppiezza. In questo modo, hanno implicitamente fatto propria una visione dei militanti del Pci come un corpo unico e passivo, amalgamato da un'ideologia statica e rigida. Le contraddizioni aperte da questa rappresentazione del passato sono plausibilmente alla base della difficoltà mostrata dalla grande maggioranza degli intervistati a definirsi oggi politicamente e della mancanza di una prospettiva condivisa sulla propria identità come ex militanti del Pci, nonostante la grande omogeneità che caratterizza i percorsi di vita di questo gruppo.
Comune a tutte queste testimonianze è quindi l'affermazione di una stessa discontinuità: la scomparsa del Partito comunista. Se le domande che abbiamo posto agli intervistati cercavano di identificare i punti di svolta individuati dai militanti all'interno della storia del Pci, dobbiamo concludere che l'unica cesura riconosciuta in modo unanime e senza incertezze è la svolta occhettiana. È in quel momento, infatti, che per la prima volta l'esistenza stessa dell'identità collettiva in cui questi soggetti si riconoscevano – e spesso si riconoscono tuttora – è stata messa radicalmente in discussione, nonostante essi abbiano attraversato, come militanti, trasformazioni diverse e profonde. Il problema di fondo sembra l'impossibilità di attribuire un significato al nuovo progetto occhettiano, che spesso rimane incompreso e percepito come un'imposizione dall'alto. La difficoltà a ricomporre questa rottura entro una narrazione sensata è quindi quasi insormontabile, e costringe questi militanti a mettere in pratica le strategie più diverse – discorsive e simboliche – per mantenere una parvenza di continuità.
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- Cinema di propaganda
- http://www.cinemadipropaganda.it/