1. Introduzione
Questo saggio esamina il ruolo svolto dal movimento pedagogico variamente chiamato attivo o progressivo [1] nell’emergere nell’Italia del secondo dopoguerra di un cambiamento nella concezione dell’architettura delle colonie per l’infanzia. È infatti in questo periodo di ricostruzione morale e materiale del Paese che si colloca un punto di convergenza tra le istanze di rinnovamento delle pratiche educative dell’infanzia, sia nello spazio scolastico che in quello extrascolastico dopo la parentesi del fascismo e la ricerca di identità dell’architettura attraverso la relazione con la nuova realtà della società italiana uscita dalla guerra. Dopo un inquadramento della diffusione delle colonie nel contesto italiano del dopoguerra, l’analisi di due concorsi di architettura permette di mettere a fuoco la relazione tra le dinamiche di socializzazione esistenti nelle colonie e le pratiche educative che vi sono applicate, da un lato, e, dall’altro, la qualità e pertinenza dell’articolazione degli spazi architettonici degli edifici nei quali quelle pratiche educative sono destinate a trovare un’applicazione. In particolare, il saggio intende illustrare come la duplice dimensione esistenziale individuale e collettiva che il bambino sperimenta durante il soggiorno in colonia costituisca un’occasione sia per l’elaborazione di inediti dispositivi e di modi d’articolazione dello spazio architettonico della colonia, che per una riflessione sulla relazione tra la specificità ed autonomia dell’architettura e le tematiche proprie della società.
2. Il contesto italiano
Il secondo dopoguerra costituisce il momento di maggiore espansione delle colonie di vacanza in Italia. Il controllo della diffusione della tubercolosi avvenuto grazie all’uso di antibiotici recentemente scoperti e la fine del modello di educazione politica dell’infanzia introdotto dal regime fascista, costituiscono due condizioni essenziali che trasformano il ruolo delle colonie nella società italiana. Da un punto di vista quantitativo, il numero di colonie per l’infanzia realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta è senza paragoni col periodo precedente. In uno studio del 1985 limitato alla sola costa della Romagna, si contano nove edifici costruiti prima della Prima guerra mondiale, 37 edificati nel periodo tra le due guerre ed oltre 200 realizzati dopo la Seconda guerra mondiale [Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna 1986]. Benché questo studio riguardi una parte limitata del territorio italiano e comprenda soltanto le colonie marine escludendo quelle in campagna e in montagna, esso ci fornisce un’idea della dimensione inedita del fenomeno costruttivo sviluppato nel dopoguerra. Questo periodo di grande sviluppo delle colonie per l’infanzia si concluderà negli anni Settanta con l’affermazione del turismo familiare di massa, anche se rimangono ampie tracce residue della presenza delle colonie nello spazio sociale italiano, attraverso la proposta di soggiorni brevi e specializzati caratterizzati da progetti pedagogici orientati verso l’acquisizione di specifiche competenze (dagli sport acquatici, alle lingue straniere, all’equitazione, eccetera). Le trasformazioni che nel secondo dopoguerra hanno interessato il ruolo della vacanza in colonia si riflettono anche nell’uso delle parole: il termine “colonia”, forse perché troppo in continuità con l’esperienza del periodo fascista, viene spesso sostituito con espressioni diverse – da “centro” o “casa di vacanza” a “soggiorno estivo” – che mettono maggiormente in evidenza l’aspetto ricreativo rispetto a quelli salutistici e educativi che avevano caratterizzato questi soggiorni climatici fin dalla loro introduzione alla metà del XIX secolo.
La realizzazione delle colonie per l’infanzia precede e accompagna il parallelo sviluppo del turismo familiare che dai centri urbani già toccati dal turismo popolare degli anni Trenta, investe nuove località, soprattutto nelle regioni dell’Italia del centro e del sud, diventate raggiungibili grazie ai programmi di investimento infrastrutturale, stradale e poi autostradale [Crainz 2005; Parisi 2012; Parisi 2013]. Nella scelta dei siti vengono seguite strategie per certi aspetti diverse dalle esperienze precedenti. Rispetto alle grandi costruzioni del fascismo, architetture emblematiche e spesso isolate in luoghi naturali selezionati per le loro qualità climatiche ma prossimi a città già investite dal turismo e facilmente raggiungibili con la ferrovia, le nuove colonie del dopoguerra sono sovente raggruppate in aree urbane monofunzionali precisamente definite dai coevi piani urbanistici (programmi di fabbricazione e piani regolatori generali). Localizzati in gran parte lungo le coste, questi agglomerati monofunzionali, chiamati anche “città delle colonie” [2], sono formati da decine di colonie costruite le une accanto alle altre lungo la strada litoranea. La concezione urbana che le presiede si limita all’applicazione di una logica puramente additiva che mira al massimo sfruttamento del suolo, con un’attenzione portata al rapporto di ogni edificio con la strada e con la parte di spiaggia ad esso riservata.
Se le colonie degli anni Trenta possono essere intese come delle architetture che dialogavano con la dimensione paesaggistica del mare e della montagna [Labò, Podestà 1942], le realizzazioni del dopoguerra tendono a esprimere architettonicamente dei caratteri di individualità e uniformità coerenti con i processi di accrescimento dei centri turistici, privi tanto di un progetto urbano che non sia quello della massima occupazione del suolo, quanto di un controllo delle qualità architettoniche, urbane ed ambientali da parte delle istituzioni pubbliche. Vi è tuttavia un elemento comune. La strategia di concentrazione delle colonie in specifici settori urbani risponde all’obiettivo della separazione tra il turismo sociale e il turismo familiare che ritroviamo fin dalla nascita degli ospizi marini alla metà del XIX secolo e possiamo notare che l’origine di questa forma urbana monofunzionale è precedente alla Seconda guerra mondiale, come testimonia sia l’adozione a Rimini nel 1930 di un regolamento che restringe la costruzione delle colonie al solo territorio dell’odierna Igea Marina [3], sia la fondazione della nuova città turistica di Tirrenia nel 1933, la cui struttura urbana lineare funzionalista disegnata dall’architetto Federigo Severini [Bracaloni, Dringoli 2011] confina con le colonie per l’infanzia nel solo sito denominato Calambrone [Niglio 2006], posto ai margini meridionali del territorio comunale in prossimità del porto di Livorno.
Dissolte le organizzazioni giovanili fasciste promotrici dei soggiorni nelle colonie, nel dopoguerra queste ultime sono promosse da una fitta rete di organizzazioni, associazioni e istituzioni attive dalla scala nazionale a quella locale. Si possono ricordare sinteticamente le istituzioni di ispirazione cattolica come la Poa [4], l’Onarmo [5], il Cif [6]; quelle connesse all’assistenza pubblica o para-pubblica, come l’Enaoli [7], i patronati scolastici, l’Enpas [8], i comuni e le province, ma anche le cooperative e i sindacati, alle quali si aggiungono le società industriali private, dall’Olivetti alla Cornigliano, dalla Fiat alla Pirelli, e così via, e quelle pubbliche, dall’Eni all’Ente zolfi italiani. È significativo del clima di rinnovamento della società italiana che alle aziende produttive si attribuisca una responsabilità sociale ed un compito di assistenza rivolto a tutti i lavoratori. Tra gli esempi di impegno sociale delle imprese, un caso emblematico è costituito dal gruppo Eni durante la presidenza di Enrico Mattei che dalla metà degli anni Cinquanta offre ai propri dipendenti una gamma completa di soluzioni per le vacanze, associando nel sito di Borca di Cadore un villaggio per le famiglie, un campeggio per gli adolescenti ed una colonia per l’infanzia (1954-1963) [Corte di Cadore 2003; Deschermeier 2008, 82-97].
Salvo pochi casi esemplari, il patrimonio di colonie realizzato è stato spesso considerato dalla letteratura critica contemporanea come costituito da semplici contenitori privi di qualità, costruiti con povertà di mezzi e materiali ed a partire da progetti architettonici convenzionali. Ad esempio, alla fine degli anni Sessanta, quando la maggior parte del patrimonio architettonico delle colonie era già stato realizzato, il pedagogista Gianfranco Staccioli ne riassume l’aspetto con parole severe «Le costruzioni di case delle vacanze sono facilmente riconoscibili perché il più delle volte assomigliano a delle caserme. File interminabili di finestre al primo e secondo piano, finestroni al piano terreno, uno spiazzo sul dietro della casa, dei cancelli e un solido muro di cinta» [Staccioli 1969, 669]. Naturalmente nuoce il confronto con le più conosciute e studiate colonie per l’infanzia realizzate nella seconda metà degli anni Trenta da architetti di grande notorietà, rispetto alle quali le numerose e poco note colonie costruite nel dopoguerra rimangono certamente in ombra. Tuttavia, il giudizio che ne viene dato dalla letteratura critica contemporanea è eccessivamente severo e richiederebbe piuttosto una più cauta considerazione e conoscenza di queste costruzioni, soprattutto in riferimento alle specificità del clima culturale ed architettonico che caratterizza gli anni del dopoguerra in Italia. Se diversi studi hanno affrontato lo sviluppo di istituzioni e di posizioni teoriche sulla pedagogia nelle colonie per l’infanzia sviluppate nel dopoguerra [Comerio 2023; Frabboni 1971], ancora rari sono gli studi sulla qualità architettonica delle realizzazioni [Balducci 2012; Balducci 2016; Neri 2021] e le poche ricognizioni effettuate ormai molto tempo fa – da quella dedicata al litorale della Romagna [Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna 1986] a quella sul litorale della Toscana [Cutini, Pierini 1993] – pur proponendo inventari completi di singoli territori non costituiscono un bilancio critico della produzione architettonica.
Oltre al diverso clima che caratterizza la cultura architettonica italiana nei primi decenni del dopoguerra, le colonie per l’infanzia costruite in questo periodo sono diverse da quelle del Ventennio fascista anche perché ciò che è mutato è il progetto pedagogico che dava loro sostanza. Il fascismo aveva piegato la colonia di vacanza nata nel XIX secolo come istituzione di cura contro la tubercolosi, in uno strumento per la costruzione dell’uomo nuovo fascista il quale, introiettando i valori nazionalistici del regime, avrebbe dovuto riscattare il destino dell’Italia trasformandola in una grande potenza. Le colonie servivano per attrarre l’infanzia e la gioventù, offrendo loro durante tutte le fasi della loro crescita un insieme di esperienze pedagogiche concrete che l’avrebbero plasmata e resa capace di assimilare quei valori di disciplina, gerarchia ed obbedienza ad una entità superiore che costituivano l’obiettivo dell’educazione totalitaria immaginata dal fascismo [Bonadies, Calogiuri 1939]. In questo contesto, l’architettura delle colonie per l’infanzia giocava un ruolo speciale che andava ben oltre la realizzazione delle funzioni necessarie all’accoglienza dei bambini, ma partecipava silenziosamente alla pedagogia totalitaria attraverso strategie che non soltanto rendevano possibile le pratiche d’indottrinamento, ma ne amplificavano la penetrazione nelle coscienze dei bambini [Balducci 2023]. La fine di questo progetto di educazione totalitaria apre un periodo complesso nel quale l’architettura è confrontata ad una diversità di correnti ideali e organizzative di istituzioni per l’infanzia che, durante un seminario di studi sulle colonie di vacanza nel 1961, è stata riassunta da Sergio Masini [9] nei distinti orientamenti cattolico, attivistico e democratico [Masini 1962]. Elemento comune è l’attribuzione di un ruolo educativo alle colonie: oltre l’aspetto assistenziale originario, il loro compito non è soltanto l’organizzazione di forme di ricreazione, ma è piuttosto quello di svolgere un intervento sulla formazione della personalità del bambino, facilitando la penetrazione di determinati valori morali e sociali. La sintesi di Masini distingue dapprima l’orientamento cattolico, dove la colonia è un «campo di fecondo di apostolato» [Manzia 1958, 7] nel quale l’azione educativa è rivolta alla diffusione di valori cristiani considerati, sulla scorta dell’enciclica Divini illius magistri di Pio XI (1929), come i soli legittimi per l’educazione, implicando un grande impegno ideologico; poi l’orientamento attivistico, che pone al centro del progetto educativo la liberazione degli aspetti spontanei dei bambini e il loro stimolo attraverso attività concrete e l’esperienza del fare, implicando un grande impegno psicologico sullo sviluppo del singolo bambino; infine, l’orientamento democratico, presente soprattutto nell’attività di cooperative ed enti locali gestiti e governati da partiti genericamente “di sinistra”, nel quale prevale, pur con una varietà di indirizzi «oscillanti tra l’impegno comunitario vagamente politico e l’attivismo generico, talvolta da “città dei ragazzi”» [Masini 1962, 23], una maggiore attenzione alla trasmissione di precisi e selezionati contenuti quali i valori sociali e democratici della società moderna e della nuova Costituzione italiana.
3. L’individuo e la comunità
Una ricognizione sulla vasta produzione di colonie per l’infanzia negli anni Cinquanta e Sessanta mette in evidenza la relazione tra le realizzazioni della parte più avanzata della cultura architettonica italiana con l’orientamento pedagogico attivistico che pone lo sviluppo personale del bambino e la cultura dell’individuo al centro del progetto educativo. Si tratta di una novità per la cultura italiana. Questa pedagogia, nella quale possiamo riconoscere la centralità dell’opera di John Dewey (1859-1952) e delle sue posizioni sui modelli democratici e analitici delle strutture sociali, sul pluralismo della conoscenza e sul metodo scientifico, penetra in Italia seguendo diversi canali [Allemann-Ghionda 2000]. Possiamo riconoscere un primo canale nell’azione dell’Amministrazione militare americana che, occupata la Sicilia dopo l’armistizio dell’Italia nel 1943, affidò a Carleton Washburne (1889-1968), pedagogista e membro fondatore della John Dewey society nel 1935, il ruolo di director of education dell’Allied military governement col compito di elaborare una strategia per la ricostruzione del sistema educativo italiano allo scopo di eliminare i principi del fascismo e di promuovere i valori democratici (1943-1946). Alla guida dell’United States information service (Usis) di Milano dal 1947 al 1949, Washburne promosse la riforma dei libri scolastici italiani, fortemente contrastata dalle organizzazioni cattoliche [Gardet 2018, Washburne 1970]. Un secondo canale è l’intenso dibattito degli intellettuali italiani sui principi della pedagogia progressiva, o attiva, oscurato durante gli anni del fascismo e aperto dal ritorno in Italia di intellettuali emigrati negli Stati Uniti, come Ernesto Codignola o Lamberto Borghi, che ruppero l’autarchia culturale del Paese e promossero la traduzione dei testi di pedagogisti americani fino ad allora esclusi dal panorama culturale italiano, come il già citato John Dewey o William Kilpatrick [10]. Un terzo canale è l’azione di associazioni di formazione degli educatori come i Centres d’entraînement aux méthodes de la pédagogie active (Cemea), che stabiliscono rapporti con alcuni enti locali e con i servizi sociali di aziende private particolarmente attente agli aspetti pedagogici dell’assistenza sociale, come l’Olivetti di Ivrea o la Finsider di Milano. Nel 1950 il Cemea aprì sedi a Milano, Firenze e Roma e nel 1953 nacque la Federazione dei Cemea italiani, di cui Lamberto Borghi fu presidente fino al 1971. Un ulteriore canale di diffusione dei metodi della pedagogia progressiva è costituito anche dallo sviluppo di alcune esperienze educative inedite per l’Italia, come la Scuola-città Pestalozzi a Firenze nel 1945 [Boussion, Gardet, Ruchat 2020, 163-191; Codignola 1954], o il Centro educativo italo svizzero (Ceis) a Rimini nel 1945 [De Luigi, Pivato, 1996; Una scuola una città 1991], di cui è opportuno ricordare la vicinanza con alcuni architetti, tra cui Giancarlo De Carlo che vi realizzerà l’edificio La Betulla.
Ma quale relazione intercorre tra questa concezione educativa e la qualità degli edifici nei quali si svolge? Possiamo chiederci in quali esempi l’architettura non si limiti soltanto a mettere a disposizione degli spazi funzionali all’accoglienza dei bambini ed allo svolgimento di azioni di cura, pedagogia o ricreazione, ma partecipi al progetto educativo svolto dalla colonia attraverso forme e spazi pensati per avere un effetto sul comportamento dei bambini rilevante ai fini di quello stesso progetto educativo.
In un testo dedicato agli edifici per l’educazione pubblicato sulla «Harvard Educational Review» alla fine degli anni Sessanta, Giancarlo De Carlo spiega che l’educazione è molto più di una trasmissione, essa «è il risultato di un›esperienza». Continua dicendo che «più l’esperienza è ampia e complessa, più l’educazione è profonda e intensa» [De Carlo 1969, 214], precisando tuttavia che le forme di questi luoghi devono permettere di produrre «delle retroazioni positive sull’attività educativa» [De Carlo 1969, 222]. De Carlo nota come le configurazioni formali degli edifici scolastici corrispondano al carattere autoritario dell’istituzione educativa ed esprime un rifiuto per la tradizione della scuola come un’isola separata dal contesto urbano reale e configurata in forme monumentali che corrispondono al principio dell’autorità dell’adulto sul bambino. A questa immagine tradizionale dell’edificio educativo, De Carlo contrappone il principio che gli edifici stessi divengano «un luogo di occasioni d’esperienze» [De Carlo 1969, 225]. Si comprende allora la ricerca di un rapporto aperto tra l’edificio e il suo contesto, dove quest’ultimo possa rappresentare un elemento stimolante sia del processo educativo che del progetto architettonico: «La città e il territorio sono l’immensa scuola di cui disponiamo» [De Carlo 1969, 226]. Aprire la scuola alla città significa permettere l’irruzione al suo interno di ciò che non è previsto, ma significa anche sostituire la sua forma unitaria con una diversa struttura composta da polarità ed unità in relazione al contesto urbano: «progettare un edificio educativo significa progettare una parte della città» [De Carlo 1969, p. 224], dove la partecipazione del singolo alla comunità è il risultato di una scelta e dove il compito dell’architettura è la costruzione di spazi adeguati alla dimensione ed espressione sia del singolo che della comunità. In questo discorso sugli edifici educativi, De Carlo rappresenta l’idea che le forme concrete e gli spazi costruiti dell’architettura hanno un effetto sui bambini, ovvero sulla parte della comunità umana più malleabile e aperta alle suggestioni, influenzandone il comportamento e stimolandone la partecipazione alla vita della colonia. L’architettura non è soltanto il palcoscenico su cui si svolge il processo educativo, ma ne costituisce uno degli attori principali.
Già la colonia progettata da Annibale Fiocchi con Ottavio Cascio per i figli dei dipendenti dell’Olivetti a Marina di Massa nel 1949 manifesta una rottura con la tradizionale configurazione ed isolamento delle colonie, soprattutto rispetto a quelle realizzate durante il Ventennio fascista, mettendo nel contempo in evidenza un’organizzazione di spazi capace sia di articolare la dimensione individuale del singolo e quella collettiva del gruppo, che di stabilire un rapporto positivo col paesaggio nel quale è costruita la colonia. Dimensionata per accogliere 120 bambini, la colonia è organizzata in tre volumi paralleli di diversa lunghezza, su due soli piani, con sale giochi, portici e refettorio al piano terra, dormitori e amministrazione al primo piano. Nonostante le sue forme risentano ancora della lezione lecorbuseriana – soprattutto delle ville degli anni Venti attraverso la liberazione del piano terra sospeso su pilotis, l’uso delle finestre in lunghezza che inquadrano dall’interno il paesaggio esterno, e il tetto piano –, le sue soluzioni architettoniche sono coerenti con le intenzioni educative elaborate dalla direzione dei servizi sociali dell’Olivetti che riflette un progetto pedagogico che risente della penetrazione dei metodi educativi dei Cemea in Italia [Staccioli, 2007]. I volumi che formano la colonia non si articolano a formare una centralità, sia essa rappresentata dallo spazio racchiuso di una corte o da un oggetto catalizzatore dello sguardo come il pilo dell’alzabandiera nelle colonie degli anni Trenta; sollevati su pilotis, i volumi della colonia liberano il suolo e permettono allo sguardo dei giovani ospiti di andare oltre i confini fisici dell’edificio, verso i paesaggi della pineta e della spiaggia. Rispetto alla tradizione delle colonie, le gerarchie si invertono e i confini della colonia acquistano un significato diverso, non più limiti invalicabili, ma connessioni stimolanti tra esterno e interno. Un semplice diaframma vetrato separa il refettorio centrale dai grandi portici per i giochi dei bambini che occupano gran parte del piano terra, spazi permeabili e fluidi, riparati dal sole e dalla pioggia, che favoriscono la formazione spontanea di piccoli gruppi come anche le attività educative e ricreative di ridotte unità di bambini e educatori. Ed è rispetto alla dimensione limitata dei gruppi di bambini che si organizzano gli spazi di risposo al primo piano, configurati nella forma di camere limitate a 12 letti ma a loro volta modulabili attraverso pareti mobili. La relazione col contesto è accentuata dallo spazio di circolazione che circonda i dormitori al primo piano: una finestra orizzontale continua che filtra la luce e porta lo sguardo verso il paesaggio esterno.
4. Due concorsi d’architettura
Nel 1954 e nel 1959 sono promossi due concorsi di architettura da due imprese industriali, l’Olivetti e la Cornigliano, per la realizzazione di colonie per i figli dei rispettivi dipendenti. Questi due concorsi consentono di mettere a fuoco la relazione tra la richiesta di spazi necessari al progetto pedagogico contenuta nei bandi di concorso ed elaborata dalle rispettive direzioni dei servizi sociali e le soluzioni architettoniche proposte.
Il primo concorso è quello per la colonia montana che l’Olivetti ha costruito a Brusson, in Valle d’Aosta (1954-1962), oggetto di un recente ed approfondito studio di Gabriele Neri al quale necessariamente si rimanda [Neri 2021]. Il bando di concorso, contenente le richieste in materia di strutturazione degli spazi di una colonia per l’infanzia, riflette le opinioni della direzione dei servizi sociali dell’Olivetti sull’organizzazione della vita sociale nelle colonie e sull’innovativo progetto pedagogico che non poteva essere applicato all’interno degli spazi tradizionali dell’edificio che, a Saint Jacques de Champoluc, accoglie fin dagli anni Quaranta i figli dei lavoratori dell’Olivetti. Il bando richiede spazi distinti per le attività educative e ricreative, oltre che per i momenti di raccoglimento individuale necessario allo sviluppo della vita psichica del singolo bambino. Allo scopo di rendere possibili le intenzioni educative del progetto pedagogico, il bando suggerisce alcune semplici modalità organizzative fondate sulla distinzione e articolazione di parti funzionali - con spazi separati per il gioco, il pranzo, il sonno e le attività di laboratorio - e in grado di consentire incontri, lavoro comune, disaggregazione e riformazione di gruppi di bambini durante le attività, ma anche di permettere l’isolamento meditativo. Ne deriva una struttura formata da un nucleo per i servizi collettivi, alcune unità residenziali relativamente autonome, oltre che alcuni spazi di servizio per le attività [11]. Il bando suggerisce inoltre che le unità residenziali siano disposte su due livelli, una sala pranzo al piano inferiore e le camere da letto al primo piano.
La lettura di alcuni progetti presentati alle due fasi del concorso [12] permette di cogliere le diverse modalità con le quali le indicazioni del bando sono state tradotte in forme e spazi architettonici. Nelle soluzioni presentate, la colonia appare come il risultato di un’azione di scomposizione delle sue funzioni, soprattutto delle unità residenziali e di attività, e di successiva ricomposizione in configurazioni che in alcuni casi rinviano alla figura compatta di una grande casa che affida alla complessità dei suoi spazi il ruolo di mediatore tra la vita individuale e la vita comunitaria, ed in altri casi identificano i volumi distinti secondo modalità che a volte ricordano il paesaggio urbano di certi villaggi alpini, grazie anche all’impiego di pietra e legno ed alla configurazione delle coperture a falda. Tuttavia, pur tenendo conto della loro diversità, tutti questi progetti presentano conformazioni molto articolate per le quali non è certamente di secondaria importanza la conformazione orografica del sito.
Nel progetto di Giancarlo Pozzo con Giorgio Wiskermann e Yolanda Wiskermann la colonia s’identifica in uno spazio pubblico centrale dai caratteri quasi urbani – più una piazza che una corte, definita dai volumi delle unità residenziali addossate ad arco al pendio – e aperto verso sud attraverso la successione di ateliers esagonali completamente vetrati. Ne risulta una figura complessiva che evoca ad un tempo un abbraccio protettivo ed anche la casualità organica del paesaggio delle Alpi [Neri 2021, 78]. La riconoscibilità delle unità residenziali, assicurata all’esterno dal loro profilo a gradoni, è leggibile all’interno della colonia nello spazio longitudinale di distribuzione il cui spessore variabile è determinato dalla posizione delle diverse unità residenziali che vi si affacciano, formando una sorta di artificiale paesaggio interno da percorrere.
Decisamente più unitario è il progetto di Romolo Donatelli, Ippolito Malaguzzi-Valeri ed Ezio Sgrelli. Le unità residenziali e gli spazi per le attività sono contenuti all’interno di quattro corpi di fabbrica dalla diversa volumetria che nel progetto per la prima fase del concorso sono disposti attorno ad una corte e che nella versione presentata alla seconda fase divergono verso il paesaggio a partire da una piazzetta centrale. La grande permeabilità tra l’interno e l’esterno che caratterizza la colonia è offerta dagli scarti tra i volumi e dalle ampie pareti vetrate. Le unità residenziali, articolate su due piani, sono poste in sequenza e leggermente sfalsate le une alle altre. Gli alloggi del personale, la direzione e la sala da pranzo sono concentrati all’interno di un secondo volume dall’orientamento speculare a quello delle unità residenziali e anch’esso convergente sulla piazzetta, quest’ultima chiusa verso ovest dal grande volume della palestra.
Ritroviamo una simile disarticolazione dei volumi anche nel progetto di Eugenio Gentili e Annamaria Bozzola, nel quale la colonia si dispone sul sito attraverso un profilo a Y. Tuttavia, qui lo spazio nel quale convergono le braccia della Y, più che da una piazzetta esterna, è costituito dall’atrio d’ingresso che distribuisce refettorio-sala riunioni e palestra ai suoi lati, mentre le unità residenziali sono stanze in sequenza all’interno del corpo di fabbrica perpendicolare all’ingresso che, piegandosi leggermente, forma una corte aperta rivolta verso la valle a ovest.
Anche il progetto di Franco Longoni, Vico Magistretti, Carlo Mazzeri, Mario Righini affida l’immagine della colonia ad un solo volume unitario, che anche in questo caso forma la figura di una Y aperta. Tuttavia, nella sua composizione, anche in ragione delle caratteristiche del suolo in pendenza, si distinguono le unità residenziali che appaiono come corpi di piccole dimensioni incastrati gli uni sugli altri; in questo modo il volume complesso della colonia è deformato ed essa appare come un insieme organico formato da una proliferazione di unità che crescono le une appoggiandosi sulle altre. Questo aspetto è ben visibile nella scelta delle coperture che offrono l’immagine di una crescita organica, mantenendo per i diversi corpi una dimensione limitata, quasi domestica.
Un analogo sviluppo lineare di volumi è presente anche nel progetto di Claudio Conte e Leonardo Fiori, laureato al concorso e successivamente realizzato. Le unità funzionali della colonia sono identificate da volumi autonomi posti in infilata lungo due assi ortogonali, uno lungo il crinale per le unità residenziali e l’altro lungo un asse in declivio per le officine dedicate alle attività educative e ricreative, i servizi e le pergole di collegamento. Nella sequenza delle unità residenziali, i volumi si distinguono attraverso leggeri scostamenti nell’allineamento e nell’altezza, per culminare con la sala riunioni. Per certi versi, la colonia realizzata sembra una riflessione sui tessuti storici dei borghi del paesaggio alpino, testimoniata dal suo impianto quasi urbano e dall’impiego di pietra e legno nella sua costruzione. Ai bambini viene offerto uno spettacolo architettonico misurato, formato da volumi dalle dimensioni domestiche e facilmente attraversabili, e da uno spazio aperto articolato da settori di diversa altezza e qualità che permettono di creare spazi distinti ed appropriabili da piccoli gruppi di bambini.
Due progetti si distinguono per il diverso punto di partenza rispetto alla logica di scomposizione che pervade nelle altre soluzioni. Il progetto di Carlo Scarpa e Gilda D’Agaro si fonda su uno stretto rapporto con il paesaggio naturale circostante, con il quale cerca una sorta di fusione: «la colonia nasce dal paesaggio» [Pedio 1958, 469] e si struttura attraverso l’aggregazione di cellule circolari aggrappate alla montagna e tradotte in volumi solidi, masse di pietra che, come antichi bastioni, «non dominano, né si scimmiottano, ma semplicemente si inseriscono nella narrazione» del paesaggio alpino [Pedio 1958, 469]. Il progetto di Marcello D’Olivo propone non tanto una composizione di funzioni, ma spezza l’unità formale della colonia sostituendola con l’immagine di un’altra modalità insediativa che trasforma la colonia in una costellazione di padiglioni sparsi nel bosco. Determinati da una matrice circolare, i padiglioni sono collegati tra loro e con l’iconico centro servizi che funge da fulcro e da segnale nel paesaggio naturale, da un percorso sospeso dal suolo. La specificità delle forme circolari concentriche dei padiglioni sparsi nel bosco come tanti giocattoli costituisce uno stimolo alla scoperta per i piccoli ospiti [Luppi, Nicoloso 2002, 120-130].
A partire da premesse simili al concorso di Brusson, nel 1959 viene bandito il concorso per il «soggiorno montano estivo ed invernale» per i dipendenti della Società siderurgica Cornigliano, una società del gruppo Finsider [Osti 1993], da costruire a Cesana Torinese in Val di Susa [Concorso 1959a]. Significativa della scelta dell’orientamento pedagogico a cui ispirarsi è la composizione della giuria, alla quale partecipano, oltre ai rappresentanti della Cornigliano e degli ordini professionali di architetti e ingegneri, anche personalità come Ernesto Nathan Rogers e Bruno Zevi, direttori delle riviste «Casabella Continuità» e «L’architettura. Cronache e storia», e come Aldo Visalberghi, professore di pedagogia all’Università di Milano. Visalberghi è uno degli intellettuali italiani più impegnati nella discussione e diffusione delle tesi della pedagogia attiva e di lui possiamo ricordare, oltre la traduzione di scritti di John Dewey [13], anche la prima monografia dedicata al filosofo americano [14]. Alcune richieste del bando sull’organizzazione della colonia sono in relazione a specifiche pratiche pedagogiche [15]. In particolare, una grande attenzione viene posta sull’articolazione dei giovani ospiti in gruppi di diverse dimensioni, “piccoli” e “grandi” gruppi [16]. Ben lontana dalla concezione militarizzante del fascismo, nella quale le squadre di bambini si organizzavano in manipoli, centurie e coorti, la posizione degli estensori del bando riassume alcuni termini del coevo dibattito sulla relazione tra monitori e bambini e sulla dimensione dei gruppi di bambini. A questo proposito è significativo che la bibliografia relativa agli studi sulla vita in comune dei bambini sia composta da libri pubblicati da autori connessi al movimento dei Cemea francesi, oltre che dalla rivista «Vers une éducation nouvelle» [17]. Dopo avere brevemente esaminato l’apporto dell’esperienza degli scout, di cui viene criticato l’eccesso di competizioni che può degradare il clima della vita collettiva in colonia [Concorso 1959b, 2], viene esaminata l’organizzazione per piccoli gruppi di meno di 15 bambini omogenei per età e per sesso gestiti da un solo educatore, che tuttavia non permette facilmente ai bambini di scegliere liberamente amicizie e attività. Infine, una preferenza viene data a più grandi unità di convivenza semi-omogenei, formati da tre diverse classi di età per piccoli gruppi di bambini, monitorati da una ristretta équipe di educatori. La convivenza di bambini di diverse età, dai 6-8 ai 10-12 anni di età e «preferibilmente misti» [Concorso 1959b, 3], sarebbe funzionale a ricostruire un tipo di relazione di quasi tutorato, dove i più grandi avrebbero coi più piccoli un ruolo simile a quello di fratelli maggiori [Concorso 1959b, 4]. Ne risulta una comunità complessa, nella quale piccoli gruppi omogenei si articolano in più grandi gruppi di convivenza dall’ambiente quasi famigliare, gestita inoltre da due educatori di sesso diverso. Alla soluzione per gruppi misti della struttura sociale della colonia corrisponde la richiesta per un’organizzazione del soggiorno montano in unità residenziali distinte. Ogni unità residenziale è proposta come «la vera casa dei piccoli coloni» [Concorso 1959b, 4], comprendenti un refettorio comune e due dormitori con i relativi servizi, ma le cui dimensioni e arredi sono distinte in relazione all’età dei piccoli ospiti. Oltre all’unità di convivenza, i bambini partecipano anche ai gruppi di attività, al cui interno possono sperimentare attività di diversa natura, espressive, di ricerca e di scoperta, e hanno a disposizione anche una sala collettiva per ogni altra attività. È a questa struttura pedagogica che si devono conformare gli spazi architettonici: «la struttura edilizia fondamentale della colonia è strettamente legata alla sua articolazione educativa, e l’una e l’altra devono essere chiaramente stabilite fin da principio in base a criteri semplici e razionali» [Concorso 1959b, 6]. La relazione con l’ambiente circostante ha un’importanza centrale. Le unità residenziali devono essere distribuite in modo da consentire una buona visibilità sul panorama [Concorso 1959a, 2], ma anche prevedere zone per il giardinaggio o l’orticultura [Concorso 1959a, 3] nelle quali i bambini possono giocare individualmente o a piccoli gruppi utilizzando pietre, sabbia o legno e approfittando della presenza di due torrenti di montagna nel sito. Viene suggerita anche l’installazione sul terreno di esercizi e giochi, quali l’adventure playground o il parcours d’adresse [Concorso 1959a, 4].
Benché non si sia a conoscenza dell’insieme dei progetti presentati al concorso, ma solo dei tre progetti premiati, questi ultimi offrono soluzioni sorprendentemente diverse. Il progetto presentato da Paola Coppola d’Anna Pignatelli con Roberto Pontecorvo [Belibani, Mandolesi, Panunzi 2007, 210], presenta una colonia strutturata per unità discrete, ognuna dotata di una forte capacità espressiva, che mettono in primo piano la ricerca di un contatto col contesto naturale delle Alpi. Privo di un solo centro rappresentativo, il progetto è costituito da unità residenziali disposte lungo due assi paralleli orientati in direzione nord-sud, mentre su assi trasversali sono posti gli spazi del personale e delle attività. Le unità residenziali sono proposte come case facilmente identificabili dai bambini attraverso le alte coperture a falda che dialogano con il paesaggio naturale, come se quest’ultimo avesse il potere di suggerire organizzazioni di volumi e spazi sufficientemente aperti e complessi adatti alle pratiche educative previste.
Il progetto di Giancarlo De Carlo allo stesso concorso offre una diversa prospettiva: anche in questa proposta la colonia è frazionata in più unità, residenziali, per le attività e per gli spazi di servizio. Il frazionamento permette di rendere queste unità riconoscibili e favorisce la formazione e l’autonomia dei piccoli gruppi di bambini. Queste unità sono disposte su una griglia ortogonale, le prime aggregate a grappolo a partire dal nucleo centrale di servizi e cucina, le seconde in blocchi autonomi connessi da collegamenti coperti, ed i terzi da strutture a corte. Disposte sul terreno naturale leggermente in declivio, le unità residenziali, benché identiche, emergono a quote diverse, stabilendo rapporti differenziati col paesaggio alpino circostante. Le modalità aggregative delle unità residenziali riflettono alcune esperienze precedenti quali le case d’abitazione che lo stesso De Carlo costruisce a Baveno nel 1951 e dal successivo studio delle aggregazioni di nuclei elementari d’abitazione proposto a Cesate (1953-1954) [De Carlo 1954a; De Carlo 1954b]. Può anche essere messo a confronto, come è stato recentemente proposto, con un’altra architettura per educazione, l’orfanotrofio che Aldo van Eyck costruisce ad Amsterdam in quello stesso periodo (1955-1960) [Neri, 2021, 190]. La strategia architettonica sviluppata nella colonia della Cornigliano troverà esiti successivi nella realizzazione della colonia Sip-Enel a Riccione (1961-1963) e soprattutto nel progetto non realizzato per la colonia del Comune di Bologna a Classe, presso Ravenna (1961-1964).
Il progetto per la colonia Cornigliano che sarà realizzato è quello di Renato Severino (1961-1962). La dialettica tra i gruppi di bambini di diverse dimensioni si ritrova, più che nella dispersione delle sue parti rispetto ad un contesto, all’interno di un solo volume che ad un tempo appare fortemente unitario ma anche estremamente articolato da rientranze ed avanzamenti e scavato da patii che permettono di portare la luce in ogni parte dell’edificio. Inscritta all’interno di una figura quasi quadrata, la colonia si sviluppa su tre piani, nel quale i due inferiori contengono una palestra con uffici e servizi, l’uno, e l’altro, il salone di soggiorno-pranzo ed altri spazi per le attività educative e ricreative. Il terzo piano contiene invece le camere da letto. A questa semplice ripartizione per funzioni corrisponde una complessa articolazione volumetrica. I due piani inferiori hanno un’estensione minore rispetto al terzo piano, la cui estensione in aggetto forma un’ombra profonda che la distacca dal suolo e l’identifica come una piastra sospesa. Il rivestimento di colore scuro dei piani inferiori accentua l’effetto di sospensione della piastra superiore, a sua volta rivestita di un materiale di colore chiaro. Il piano della palestra e dei servizi è posto parzialmente interrato per sfruttare il dislivello del suolo leggermente in declivio, mentre gli otto refettori ripetuti al piano superiore sono direttamente connessi al suolo naturale attraverso lunghe rampe metalliche lineari. La piastra superiore è articolata da un’alternanza di camere da letto, terrazze e patii, che le conferiscono un’immagine di grande leggerezza e portano il paesaggio della montagna all’interno della colonia.
5. Dall’aggregazione delle cellule allo spazio urbano come paradigma
I risultati dei concorsi mettono in evidenza la ricerca per una strutturazione architettonica delle colonie per l’infanzia che i progettisti pensano in relazione con i processi di socializzazione che si svolgono al suo interno. L’articolazione della sfera individuale con quella collettiva attraverso le modalità intermedie – squadre, piccoli gruppi, micro-comunità, eccetera – è stata letta dai progettisti come l’occasione per una decostruzione dell’edificio coloniale nelle sue parti minime, cercando una corrispondenza tra l’assetto dello spazio architettonico e l’assetto sociale.
La logica additiva di unità ripetute rispetto ad un gruppo di servizio che caratterizza il progetto di Anna Coppola d’Anna Pignatelli per la colonia Cornigliano si ritrova anche nella colonia marina realizzata sul litorale di Gela per l’Ente zolfi italiani (1960). Sappiamo poco della pedagogia sviluppata dall’Ente, anche se la letteratura critica indica che la colonia «obbedisce alle ultime risultanze pedagogiche» [Starita 1960, 388] e che la sua è una «impostazione avanzata, pedagogicamente esemplare, intimamente connessa ai bisogni e ai diritti dei bambini» [Starita 1960, 387]. La colonia è composta da elementi architettonici semplici e ripetuti, dispersi tra i pini e gli eucalipti del bosco di Bulala, ma collegati da passaggi e portici. I dormitori sono delle «unità di base differenziate e autonome, per gruppi limitati di bambini, tali però che è possibile organizzare facilmente la vita collettiva; collegate a catena, per contemperare indipendenza e integrazione» [Starita 1960, 388], distinti dai volumi degli altri luoghi collettivi (ingresso, uffici, refettorio e infermeria) che occupano il settore centrale. La colonia appare al bambino come un paesaggio formato da piccoli padiglioni e portici che si compenetrano e delimitano ampi settori alberati. Ma questo paesaggio possiede al suo interno specifiche gerarchie sottolineate dai percorsi dei portici, che conducono dall’ingresso attraverso un primo spazio alberato e lungo il volume della direzione verso una semi-corte delimitata dal refettorio e dalla cucina che a sua volta articola su un lato un grande parterre circondato dai dormitori di ragazzi e sull’altro lato il gruppo scolastico, il campo di gioco e un ulteriore gruppo di dormitori. Priva delle grandi coperture che caratterizzavano il progetto della colonia per la Cornigliano, la colonia di Gela sperimenta una diversa dialettica tra le unità di base che l’avvicina alla coeva produzione internazionale di edifici scolastici, nei quali alla tradizionale ricerca di unità formale dell’edificio e di centralità si sostituisce una logica iterativa di identiche unità [Otto 1961]. L’idea che il contesto non sia più un limite invalicabile, ma un’opportunità per stimolare connessioni dall’interno verso lo spazio esterno, è evidente nel gruppo scolastico della colonia dove una dialettica intercorre tra la classe, ovvero l’elemento ripetuto ed individualizzabile da parte del bambino, e la palestra, che rappresenta l’elemento unico dell’edificio. Ogni aula è definita come una semplice scatola chiusa su tre lati, ma con un quarto lato completamente aperto verso il paesaggio esterno, mentre semplici spazi di connessione e servizio riuniscono le aule attorno al volume centrale della palestra in un insieme tumultuoso dominato da un accentuato movimento centrifugo.
Nella colonia per l’infanzia Sip-Enel di Giancarlo De Carlo di Riccione (1961-1963) [Balducci, 2013; Bilò 2011; Bilò 2014; Canali 2007; Galati 2007] le relazioni tra i gruppi che abitano la colonia trova una diversa soluzione. De Carlo ricerca una corrispondenza tra la strutturazione dell’edificio e i gruppi sociali che vi abitano, un’idea largamente condivisa all’interno del Team ten [Risselada, van den Heuvel 2005]. In un’intervista concessa nel 2000, lo stesso De Carlo giudica la colonia a Riccione come un edificio «ancora interessante sia per la qualità architettonica che per il modo in cui si svolgono le relazioni tra i gruppi che lo abitano» [Bunčuga 2000, p. 123]. La specificità architettonica della colonia è nella relazione che l’architettura stabilisce con i suoi abitanti, con i bambini. È questo rapporto che spiega la diversità rispetto alle forme tradizionali delle colonie. Per De Carlo l’architettura deve permettere il passaggio «dai grandi gruppi ai gruppi più minuti attraverso una serie di soglie discrete, per cui gli ospiti possono scegliere con grande facilità, quasi spontaneamente, il livello di comunicazione che preferiscono nelle diverse ore del giorno» [Bunčuga 2000, 123]; questa dialettica tra l’individuo e il gruppo, ovvero «la scelta di stare con molti, pochi o da soli» [De Carlo, in Bunčuga 2000, 123] non costituisce una caratteristica specifica degli edifici destinati ai bambini, ma è un problema che si pone in qualsiasi tipo di spazio. Non si tratta evidentemente di rendere il bambino partecipe del progetto dell’edificio – anche se l’idea di un contributo degli utilizzatori alla definizione dell’architettura è sperimentata negli anni Sessanta e Settanta – ma di ripensare la struttura e gli spazi della colonia in funzione della scala di percezione dei bambini, alla quale si associa un’istanza di frammentazione dell’immagine tradizionalmente unitaria dell’edificio coloniale in quanto simbolico del carattere intrinsecamente autoritario dell’istituzione educativa. Così, le ali laterali, più che i rigidi e insuperabili limiti tipici delle corti chiuse, sono invece costituite da cellule verticali indipendenti scavate dalle profonde aperture dei portici e delle finestre che, nella loro disposizione non allineata, sembrano altrettanti edifici posti l’uno accanto all’altro trasformando la corte in una sorta di piazza aperta che introduce i bambini al mare. Questa disposizione testimonia la ricerca di un principio organizzativo delle attività che si svolgono nell’edificio che viene materializzato nei due “grappoli” di cellule verticali connessi al nucleo funzionalmente primario dei servizi generali. Un principio che richiama il dibattito internazionale sull’architettura e la città moderna alla fine degli anni Cinquanta ed i noti studi del Team ten [Risselada, van den Heuvel 2005; Bilò 2011].
Alla ricerca di una scala di percezione degli spazi più vicina alla dimensione del bambino corrisponde la stessa organizzazione interna delle cellule: ognuna è organizzata in verticale, con la propria scala-strada che serve su tre piani e due interpiani una sala da gioco, due camere da letto, e poi camere per gli assistenti e servizi, ed anche una terrazza in libero accesso ai bambini. La logica distributiva di ogni cellula è verticale, ma è compensata dalla connessione orizzontale dei soggiorni al piano terreno, disposti leggermente sfalsati gli uni rispetto agli altri e identificati dalla scala-strada diversamente colorata. L’infilata dei soggiorni, la scala-strada, fino alla terrazza in sommità costituiscono altrettanti spazi architettonici che possono essere liberamente esplorati ed assunti dai bambini come supporti per esperienze ludiche. Spazi adeguati a permettere ai bambini di associarsi secondo i loro desideri. Rispetto ai tradizionali edifici a corte che riconducono all’affaccio sulla corte il loro principio insediativo, nella colonia Sip-Enel l’istanza di apertura verso lo spazio esterno è significativamente rappresentata dall’orientamento dei dormitori verso l’esterno, lasciando l’affaccio sulla corte ai servizi e alle terrazze. Neppure i dormitori sfuggono al generale ripensamento delle norme e delle consuetudini costruttive e tipologiche dell’architettura delle colonie di vacanze. Diversamente dalle tradizionali camerate riempite di decine di lettini, nella colonia Sip-Enel ogni dormitorio è dimensionato per 15 bambini ed è organizzato in tre gradoni sia nel pavimento che nel soffitto. Questa scelta permette di costruire condizioni differenziate sia dell’intensità della luce che nella stessa percezione dello spazio interno. Ne risulta la possibilità ai bambini di costruirsi delle zone di intimità, ai micro-gruppi di trovare la propria identità, e a tutti gli abitanti della mini-comunità del dormitorio di beneficiare dall’interno di punti di vista differenziati sugli spazi esterni attraverso le finestre a moduli sfalsati poste agli angoli. Il ripensamento dell’organizzazione della colonia risponde ad una strategia che Federico Bilò ha descritto come la ricerca di soglie successive che consentono di organizzare «lo spazio per individuare ambiti d’aggregazione sociale a complessità crescente» [Bilò 2014, 24]: una successione di ambiti di socializzazione che conduce dal singolo letto al micro-gruppo dei cinque letti su un gradone del dormitorio, alla micro-comunità del dormitorio e da questo alla comunità dei due dormitori che si ritrova nel soggiorno al piano terreno di ogni casa, poi all’infilata dei soggiorni che occupa ognuna delle due ali della colonia, fino ai luoghi della massima socializzazione costituiti dal refettorio e dalla corte centrale.
Negli stessi anni viene portata a compimento a Cesenatico la colonia marina per l’Enpas, realizzata su progetto di Paolo Portoghesi ed Eugenio Abruzzini (1961-1965) [Portoghesi 1966]. Destinata ad accogliere 420 bambini, la colonia propone una diversa articolazione tra la logica ripetitiva di una medesima cellula e l’unità dell’edificio. La colonia si compone di tre corpi di fabbrica: un articolato volume per i dormitori che si estende dalla strada verso il mare; una vasta sala esagonale contenente il refettorio e la sala riunioni affacciata sulla spiaggia; un padiglione per l’infermeria e l’isolamento. La struttura sociale della colonia è organizzata in gruppi di 20 bambini, che costituiscono la base del progetto educativo e «consentivano di stabilire un senso di associazione che, stimolato dall’emulazione, permetteva di ottenere risultati spesso sorprendentemente disciplinati» [Portoghesi 1966, 710]. A questi gruppi di 20 bambini, con supervisore e assistente, corrispondono delle unità architettoniche che, ripetute, compongono il volume dei dormitori. All’opposto dell’esaltazione dell’identità delle singole unità residenziali proposta da De Carlo nelle sue colonie, qui l’articolazione delle unità è ricondotta all’interno di un solo volume, portando all’esterno gli elementi di collegamento verticale e orizzontale. Raggruppate a tre in una formazione a stella, sovrapposte su tre piani e ripetute in direzione del mare, queste unità conferiscono al volume dei dormitori un aspetto proliferante, con braccia aperte verso lo spazio esterno. La matrice triangolare che organizza l’intera colonia permette di configurare «spazi raccolti di diverso valore, mai racchiusi e reciprocamente confluenti» [Portoghesi 1966, 707]; essa è mutuata dalla tradizione barocca, e in particolare dal castello di Stupinigi di Filippo Juvarra a Torino. L’obiettivo di creare «[un’]atmosfera allegra e avventurosa» [Portoghesi 1966, 708], esplicito nella complessità dei volumi che sembrano allungarsi per occupare tutto lo spazio disponibile, è confermato anche dall’abolizione della frequente disposizione in linea di grandi camerate distribuite su lunghi corridoi, considerata come l’eredità tipologica della tradizionale colonia-caserma. La circolazione orizzontale è esterna al piano terra, garantita da un portico aperto che corre lungo il volume, mentre la circolazione verticale è assicurata da tre scale esterne, collegate al volume del dormitorio da passerelle aeree. Lo sviluppo degli spazi, la loro destinazione d’uso e il loro valore dimensionale sono comunicati attraverso l’uso di elementi di linguaggio accuratamente scelti: la finestra come mediatore tra interno ed esterno, le radure all’esterno del volume costruito, le diverse destinazioni d’uso degli spazi interni espresse all’esterno dai movimenti della facciata. Di fronte allo scenario naturale, l’edificio non si presenta come una presenza perentoria sul paesaggio della spiaggia, rivolta verso l’orizzonte. Il riferimento a Stupinigi testimonia la presenza di alcuni temi che animano il dibattito sull’architettura italiana degli anni Cinquanta, come il radicamento del progetto in una tradizione locale e il ricorso a una certa idea di memoria e di storia come base del progetto architettonico. In questo senso Portoghesi spiega la conformazione delle finestre alternativamente alte e basse attraverso il rimando all’architettura dei palazzi medievali della vicina Bologna, dove «i merli discontinui servono a mettere in relazione il volume con lo spazio esterno» [Moschini 1979, 88; Portoghesi 1966, 707].
Un caso a parte è costituito dal centro di vacanza che Edoardo Gellner costruisce a Borca di Cadore (1954-1963) per l’Eni. Per la rivista «L’architecture d’aujoud’hui», questo centro «constitue le plus important ensemble realisé en Europe sur le plan du tourisme social [18]» [Edoardo Gellner, 1960, 96]. Si tratta di una micro-città di villeggiatura che occupa un versante della valle del fiume Boite, ai piedi del monte Antelao, formata da una colonia per l’infanzia, un campeggio per adolescenti, un villaggio di alloggi per le famiglie, oltre ad un centro di servizi e ad una chiesa [Corte di Cadore 2003; Deschermeier 2008, 82-97; Greco, Mornati 2018, 116-153; Ronchi 1959, 111-121; Severati, Merlo 2006]. Il gigantismo della struttura progettata – 600 edifici d’abitazione, una colonia per 600 bambini, un campeggio per decine di adolescenti – è stemperato dalla specifica soluzione tipologica che privilegia i piccoli volumi e dalla struttura morfologica per parti articolata da percorsi e snodi. Le parti che formano la micro-città delle vacanze si articolano sulla base di un insieme di griglie e di percorsi sovrapposti sui quali si articolano a grappolo le unità abitative. Più che un insieme di edifici isolati, il progetto di Gellner disegna un tessuto urbano di padiglioni esteso sui corrugamenti del versante della montagna.
Nella colonia per l’infanzia gli edifici contenenti le unità abitative dei gruppi di bambini sono collegate tra loro e con l’area centrale dei servizi da una rete di strade coperte e riscaldate. L’esaltazione del sistema dei percorsi e dei collegamenti orizzontali e verticali fra le varie unità del villaggio è presente anche nella colonia, dove le rampe e i percorsi distributivi sono posti anche lungo le facciate dei dormitori. Queste strade coperte svolgono un ruolo importante nella vita del bambino: «i giochi, i colori, i giochi delle piccole finestre quadrate e dei vetri colorati, le visioni dello spazio vegetale attraverso le grandi vetrate che sostituiscono le pareti solide, il soffitto rivestito di blu conferiscono a queste rampe un valore psicologico che influenza la vita del bambino della colonia» [Ronchi 1959, 116]. L’attenzione ai giovani ospiti si esprime anche nella scelta della configurazione delle stanze per il riposo, articolate in gruppi di quattro letti adeguati all’obiettivo di assicurare una dimensione più domestica e in quella delle finestre che sono studiate in relazione alle diverse altezze dei bambini. L’organizzazione sociale della comunità infantile – la sua struttura in gruppi di quattro bambini che si compongono in mini-comunità di 20 che a loro volta formano un insieme di 40 – sembra fornire una sorta di struttura logica all’architettura, un substrato per la sua definizione formale. In questo centro di vacanze si riflettono alcune questioni del dibattito che anima la cultura architettonica alla metà degli anni Cinquanta: da un lato la relazione tra un linguaggio della materia propria della realtà popolare del luogo – leggibile nell’adozione degli spessi muri in pietra, nell’uso del legno e nell’impiego di finestre di piccolo taglio – ed una concezione moderna dell’edificio affidata ai telai prefabbricati in cemento o un legno, ed alle grandi vetrate; dall’altro lato le ricerche sull’urbanistica funzionalista dell’epoca che ritroviamo nell’articolazione per elementi funzionali assemblati in unità funzionali distinte – i villaggi per famiglie, la colonia per l’infanzia, il campeggio, il centro di servizi – della struttura della micro-città delle vacanze [19].
La ricerca di dimensioni minime, quasi domestiche, nelle modalità di socializzazione dei bambini durante la loro vacanza in colonia si accompagna ad un processo di sempre maggiore disarticolazione dell’edificio tradizionalmente unitario della colonia per l’infanzia. In questo processo, le realizzazioni hanno esplorato diverse modalità di aggregazione delle unità che compongono la colonia, siano esse residenziali, ricreative o pedagogiche, o di servizio. Diversamente dai grandi organismi verso i quali si andavano orientando gli edifici scolastici negli anni Cinquanta e Sessanta, il progetto di Anna Coppola d’Anna Pignatelli per la colonia marina dell’Ente zolfi italiani a Terrasini, presso Palermo (1965) trasforma l’insieme delle unità di cui si compone in funzione della costruzione di uno spazio urbano, o per meglio dire, riflette la concezione di spazio urbano proprio di quel periodo. Destinata ad accogliere oltre 320 bambini, la colonia è costituita da una serie di unità residenziali quadrate disposte lungo il pendio collinare che discende verso l’arenile marino, ma orientato rispetto alla «“piazza di riunione”, centro di raccolta dei piccoli ospiti», ed al volume del refettorio-sale di riunione, l’edificio più significativo che non casualmente è posto nel punto più elevato. Ogni unità residenziale è ordinata in relazione alla formazione di «gruppi di convivenza» come condizione per la costruzione di una «vita collettiva, che non fosse costrizione, ma abitudine al vivere sociale» [Antohi 1965, p. 83]. Essa comprende un soggiorno, due dormitori e servizi dimensionati in relazione all’età dei giovani ospiti, distinguendo le unità residenziali “piccole”, alte un solo piano, da quelle più “grandi”, alte due piani. In entrambi i casi, le unità residenziali accolgono piccoli gruppi di bambini in spazi di soli quattro o sei letti, isolati tra loro tramite pareti leggere ma disposte a formare una grande camera da letto di 16 o di 20 letti. L’associazione degli ospiti di due camerate forma un “gruppo di convivenza”, per il quale vengono concordate le attività. Ciò che sembra determinare la disposizione delle unità della colonia è la definizione dello spazio pubblico che connette le unità residenziali in analogia con l’ambiente italiano, che costituisce un tema tipico della cultura architettonica italiana degli anni Cinquanta. La disposizione al suolo delle sue parti, la presenza di un tessuto di spazi pubblici convergenti sulla piazza, il principale spazio pubblico della colonia, sul quale si erge il refettorio, disegnato come un grande volume con gli angoli tagliati sormontato da un grande tetto, avvicinano la costruzione all’edificio che più di altri ha sviluppato la nozione di ambiente italiano, il Padiglione Italia (1956-1958) dell’Esposizione universale di Bruxelles del 1958, progettato dal gruppo formato dai Bbpr (Ludovico Barbiano di Belgioioso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers), Adolfo De Carlo, Ignazio Gardella, Giuseppe Perugini, Ludovico Quaroni [Balducci 1992]. La città, a lungo evocata come metafora della comunità infantile e tradotta nelle forme analogiche dell’“ambiente italiano”, appare come un modello per l’articolazione delle parti che compongono la colonia.
6. Conclusione
La diffusione della pedagogia attiva in Italia e l’applicazione dei suoi metodi educativi nelle colonie per l’infanzia ha richiesto l’elaborazione di edifici concepiti ed articolati diversamente rispetto sia a quelli realizzati durante il Ventennio fascista, sia alle coeve costruzioni coloniali destinate all’accoglienza di altri orientamenti pedagogici. Interpretare i processi di socializzazione che si stabiliscono nella comunità infantile e rispettare le specificità del singolo bambino, la sua “misura” specifica, è stata una sfida per i progettisti di colonie. Dare forma alle dimensioni individuale e collettiva della vita in colonia ha richiesto l’invenzione di dispositivi spaziali e mobilizzato immaginari che hanno modificato sia il modo di concepire la colonia per l’infanzia, sia la sua forma complessiva.
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Note
1. Si intende in particolare quel vasto movimento internazionale, complesso e multiforme, emerso alla fine del XIX secolo e riunito fin dal 1921 nei congressi della Ligue internationale pour l’éducation nouvelle (New education fellowship), che denuncia l’inadeguatezza delle pratiche educative tradizionali rispetto ai bisogni specifici dell’infanzia, ed introduce metodi pedagogici fondati sul primato dell’attività concreta del bambino, da cui deriva la denominazione “attiva” delle sue pratiche. La letteratura sulla pedagogia attiva è estremamente vasta, si rinvia qui al saggio di sintesi di Kevin Brehony [Brehony 2004].
2. L’identificazione di questi territori monofunzionali col termine “città delle colonie” è stata introdotta dal Piano territoriale paesistico regionale (Ptpr) della regione Emilia-Romagna del 1986 allo scopo di identificare gli agglomerati di colonie come una speciale categoria territoriale dotata di specifici valori di carattere storico e memoriale, ma anche ambientale [Zazzi 2007].
3. Archivio storico comunale di Rimini, Atti del Podestà, n. 27, 1930, Regolamento per le Colonie Marine. Approvazione, 25 gennaio 1930.
4. La Pontificia opera di assistenza (Poa) è un’organizzazione di assistenza nata nel 1953 come trasformazione della precedente Pontificia commissione di assistenza (Pca) fondata nel 1945 dalla fusione di altre organizzazioni create nel 1944 per l’assistenza a rifugiati e reduci della guerra. La Poa organizza le colonie per l’infanzia tramite le Opere diocesane di assistenza, diffuse capillarmente nel territorio italiano. Nel 1971 la Poa è confluita nella Caritas italiana, organismo della Conferenza episcopale italiana. Sulla Poa si veda il saggio di Luca Comerio in questo volume.
5. L’Opera nazionale di assistenza religiosa e morale degli operai (Onarmo) è un’organizzazione di assistenza religiosa, sociale, sanitaria ed economica degli operai fondata nel 1926 sotto il patrocinio della Congregazione concistoriale. L’Onarmo è stata sciolta nel 1971.
6. Il Centro Italiano Femminile (Cif) è nato nell’ottobre del 1944 dalla convergenza di donne e di associazioni femminili di ispirazione cristiana. Svolge attività di assistenza alle donne e nella gestione di colonie per l’infanzia. Il Cif è ancora attivo.
7. L’Ente nazionale assistenza orfani lavoratori italiani (Enaoli) è stato istituito con decreto n. 327 del 23 marzo 1948, sebbene abbia origine in un precedente Ente nazionale di assistenza agli orfani dei lavoratori italiani, istituito durante il Ventennio con legge n. 987 del 27 giugno 1941. L’Enaoli è un ente di diritto pubblico con una sede centrale a Roma ed uffici distaccati in ogni provincia. L’Ente è vigilato dal Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale e ha lo scopo di provvedere al mantenimento e all’educazione morale, civile e professionale degli orfani dei lavoratori.
8. L’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti Statali (Enpas) è stato istituito nel 1942 con legge n. 22 del 19 gennaio 1942. Col trasferimento delle competenze in materia sanitaria alle regioni nel 1977, l’Enpas fu posto in liquidazione. Le sue competenze sono confluite nel 1994 nell’Inpdap (l’Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’Amministrazione pubblica (legge 24 dicembre 1993, n. 537), a sua volta soppresso nel 2011 (legge 24 dicembre 2011, n. 214) e le cui funzioni sono state trasferite all’Inps, l’Istituto nazionale di previdenza sociale.
9. Sergio Masini (1925-2014) è stato un dirigente scolastico e il direttore del teatro di Reggio Emilia, oltre che fondatore con Loris Malaguzzi della colonia Bellelli a Cesenatico.
10. Di John Dewey, l’opera Democracy and Education del 1916 fu parzialmente tradotta in italiano nel 1946 (La didattica e i problemi della scuola, Padova, Cedam), e integralmente nel 1949 (Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia) ; How we think del 1910 fu tradotto nel 1961 (Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia) ; e The Quest for Certainty de 1929 fu tradotto nel 1966 (La ricerca della certezza, Firenze, La Nuova Italia). Di William H. Kilpatrick, l’opera The Project Method del 1918 fu tradotta nel 1952 (in Lamberto Borghi, Il metodo dei progetti, Firenze, La Nuova Italia, pp. 71-96) ; Foundations of Method, del 1925 fu tradotto nel 1962 (I fondamenti del metodo, Firenze, La Nuova Italia), e Philosophy of Éducation del 1951 fu tradotto nel 1966 (Filosofia dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia).
11. La colonia di Brusson è stata concepita dall’Olivetti per essere ad un tempo un soggiorno estivo per 120 bambini, ampliabile a 150, e un collegio invernale per 50 bambini ampliabile a 75.
12. Per un’attenta e puntuale analisi dei progetti presentati alle due fasi del concorso si rimanda a Neri 2021, nello specifico. pp. 49-97.
13. John Dewey, Human Nature and Conduct. An introduction to Social Psychology, New York, Henry Holt & Co., 1948; traduzione di Giulio Preti e Aldo Visalberghi, Natura e condotta dell’uomo, Firenze, La Nuova Italia, 1958.
14. Aldo Visalberghi, John Dewey, Firenze, La Nuova Italia, 1951.
15. Il bando richiede che la colonia possa accogliere 250 bambini, aumentabile a 500, e che nella costruzione si dia la preferenza all’impiego dell’acciaio, essendone la Cornigliano una produttrice.
16. Sulla formazione dei gruppi “piccoli” e “grandi”, vedi Staccioli 1969.
17. Sono indicati le seguenti opere: Jean Planchon, Besoins des enfants et rythme des activités, Paris, Editions du Scarabée, 1954; André Schmitt, André Boulogne, La cure de santé et les jeux des enfants, Paris, Editions du Scarabée, 1955; Germaine Le Henaff, La vie quotidienne, Paris, Editions du Scarabée, 1954; Gisèle de Failly, Le moniteur. La monitrice, Paris, Editions du Scarabée, 1957 [Concorso 1959b, 7].
18. «Costituisce il più importante complesso realizzato in Europa sul piano del turismo sociale» [traduzione di Valter Balducci].
19. La struttura urbana per unità di quartiere, secondo un principio di aggregazione che privilegia la prossimità, è esplicitamente indicata, ad esempio, nelle prescrizioni dell’Ina-casa, il progetto nazionale di edilizia popolare del dopoguerra (1949-1963) [Libera 1952; Quaroni 1957].