1. Il nido dell’aquila
L’antico centro di Lugo, in provincia di Ravenna, dopo un lungo periodo di dominazione estense a capo della Romandiola, alla fine del Settecento aveva maturato il proprio assetto urbanistico secondo uno schema monocentrico che corrispondeva alle due principali vocazioni di cittadina di proprietari terrieri e al tempo stesso di vivace centro commerciale, specie per i prodotti agricoli e per il bestiame [Tamburini 1990, 362].
Fatta eccezione per l’imponente rocca estense del XV secolo e il grande quadriportico del Pavaglione del XVIII secolo, adibito a mercato dei bozzoli, il decoro della città era circoscritto alla rigorosa sobrietà dei palazzi del notabilato locale, disposti lungo le vie principali improntate alla centuriazione romana. Il patrimonio scultoreo di questa cittadina, di circa 30.000 abitanti, era appannaggio esclusivo delle chiese locali, eccezion fatta per i piccoli busti dedicati a Mazzini, Garibaldi e Andrea Costa [Gordini 1988, 9].
Francesco Baracca nacque qui il 9 maggio 1888 da una agiata famiglia di proprietari terrieri. Sarebbe divenuto un pioniere dell’aviazione italiana e il più famoso tra i piloti della Prima guerra mondiale. Per le 34 vittorie ottenute in combattimenti aerei, un primato assoluto che gli fece guadagnare l’appellativo di “asso degli assi” e lo pose al comando della 91a squadriglia, cioè dei migliori piloti da caccia italiani, Baracca ottenne una medaglia d’oro al valor militare, dopo aver ricevuto tre medaglie d’argento, tre di Bronzo, la croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia e la croce di cavaliere ufficiale della corona belga. Durante la “battaglia del solstizio”, il 19 giugno del 1918, fu probabilmente colpito dagli austriaci e cadde tra le colline vicentine presso l’abbazia di Nervesa. Il corpo, tra i resti bruciati del suo Spad XIII, fu rinvenuto solo dopo cinque giorni da un collega militare e dal giornalista Raffaele Garinei de «Il Secolo» di Milano [Serafini 2015, 19-20] [2].
In quegli stessi giorni di fine giugno il giornale milanese si faceva già carico di indire una sottoscrizione nazionale per la costruzione di un monumento a Baracca sul Montello che, sotto gli auspici di D’Annunzio, raccolse in poco tempo la somma di 127.000 lire.
Il giorno 26 giugno si tennero a Quinto di Treviso le solenni esequie passate alla storia per via del roboante elogio funebre dettato da Gabriele D’Annunzio e la sera del giorno 28 il feretro dell’eroe giunse nella sua città natale vestita a lutto, tra due ali di folla commossa, rappresentate in un originale dipinto notturno del pittore Licio Benini.
Il 30 giugno dello stesso anno Antonio Beltramelli sulle colonne de «Il Resto del Carlino» replicava l’idea dannunziana dell’eroe invitto trasfigurato in gloria per il suo coraggio, la cui grandezza vince la morte stessa [3].
I genitori di Baracca si erano rivolti subito al ministro dell’Assistenza militare Leonida Bissolati, che a sua volta scrisse personalmente al re, affinché la salma del pilota fosse resa immediatamente alla famiglia, anziché essere sepolta in un cimitero militare in zona di guerra [4].
Baracca era infatti all’epoca un giovane rampollo dell’alta borghesia agraria, figlio unico della contessa Paola dè Biancoli e del possidente Enrico, che dopo aver studiato dai Salesiani e nel collegio degli Scolopi alla Badia Fiesolana, aveva conseguito la maturità al liceo Dante di Firenze, prima di iscriversi nel 1907 alla Scuola militare di Modena [5].
Dal 1909 frequentò la Scuola di cavalleria a Pinerolo e nel 1912 seguì in Francia dei corsi di pilotaggio per aerei civili a Reims [6]. Là conseguì il brevetto di pilota militare su apparecchi Henriot, perfezionando Oltralpe anche il suo addestramento sui nuovi modelli da caccia Nieuport coi quali nel settembre 1913 partecipò alle prime esercitazioni che videro l’impiego della nuova arma aerea.
Nelle lettere inviate alla famiglia in quei mesi [7] Baracca confessava il suo entusiasmo per la scelta fatta, quasi casualmente, di passare dalla cavalleria all’aviazione e al tempo stesso descriveva le meraviglie dei suoi primi voli, l’emozione per le velocità raggiunte e il piacere ingenuo di sorvolare paesaggi e quote impensabili. Le tensioni politiche che in quei mesi agitavano il paese, caratterizzato dai rumori di guerra e dall’acceso confronto fra interventisti e neutralisti non lo toccavano particolarmente [Varriale 2006, 17]. Il suo spirito patriottico si fermava alla consapevolezza dei doveri militari, ma era lontano dai furori interventisti che agitavano i cuori di molti suoi coetanei. Anzi, nei mesi in cui stava deflagrando la guerra europea Francesco si prestò per una curiosa funzione religiosa.
Baracca aveva 26 anni ed era già tenente di cavalleria, oltre che affermato pilota, quando nell’estate del 1914 posò come modello nei panni del Cristo che riceve il battesimo tra le acque del Giordano. Il giovane pittore lughese Anacleto Margotti, proveniente da una famiglia colonica dei Baracca, aveva ricevuto dal parroco di Alfonsine l’incarico di affrescare una nuova scena battesimale al posto di una preziosa tela della scuola di Guido Reni, andata distrutta durante i moti della Settimana rossa poche settimane prima. Margotti, nel ricordare la scena riallestita sul greto del fiume Senio, descriveva così, anni dopo, il suo padrone in posa:
Il giovane Francesco Baracca era un ricco egualmente nobile quanto affettuoso e democratico. Per lui non esistevano distinzioni di classe. Gli piaceva interessarsi dei coetanei, affabilmente, alla pari con tutti, ed anche con me, che pure ero minore di lui di parecchi anni [Margotti 1967, 16].
Successive vicende belliche, che ci aiutano a comprendere ampiezza e diverse declinazioni del mito sviluppatosi intorno a Baracca, vollero che anche quell’affresco andasse poi distrutto durante i bombardamenti che colpirono Alfonsine nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. Un commerciante americano che negli anni Settanta si occupava di rapporti import-export con l’Italia ebbe per puro caso tra le mani una rivista d’arte in cui si narrava di Francesco che posava nei panni di Gesù; e poiché il lettore anni prima aveva preso parte come aviatore ai bombardamenti su quest’area della Romagna, essendo anche un sincero ammiratore di Baracca, si sentì in colpa per quella perdita e, preso contatto con Margotti, nel 1974 si fece carico delle spese necessarie perché fosse dipinta nuovamente la scena battesimale, oggi visibile nella nuova chiesa alfonsinese di Santa Maria.
La carriera del “cavaliere alato”, di predestinato alla fama, era davvero cresciuta di pari passo con gli sviluppi tecnologici dell’arma aeronautica, ai cui progressi Baracca non fu estraneo. Il 7 aprile 1916 egli ingaggiava il primo duello aereo nei cieli friulani e conseguiva la sua prima vittoria, abbattendo un Aviatik austriaco ben più potente e moderno del suo Nieuport. Poi, vedendolo atterrato, Baracca era andato a rendere visita al pilota nemico ed a constatare il ferimento del secondo osservatore che sarebbe deceduto poco dopo.
E così anche in altre occasioni durante quei primi anni di guerra, dopo aver abbattuto o costretto al ritiro l’aereo nemico, Baracca si recava a verificare le condizioni del pilota austriaco, come se partecipasse ad una competizione sportiva, più che ad un terribile conflitto europeo.
Fino al giugno del 1918 Baracca collezionò in volo ben 34 successi, due nella stessa settimana precedente il suo abbattimento, ricevette complimenti e onori da ogni parte e dal 1917 adottò sul proprio aereo il simbolo del 2° reggimento Piemonte reale, cioè una sagoma di cavallino rampante in argento su fondo rosso oggi divenuto, con piccole varianti, un’icona del made in Italy, grazie all’adozione nel 1932 da parte della scuderia di Enzo Ferrari a cui la contessa Paolina Biancoli Baracca l’aveva affidato come portafortuna nel 1923 [Serafini 2015, 19-20].
Il mito di Francesco Baracca conobbe tuttavia varie gestioni e stagioni diverse. Durante l’ultimo anno di guerra i fortissimi toni della propaganda nazionalista, impegnata a ribaltare gli esiti di Caporetto, si nutrivano già di ogni sua vittoria con smisurate iperboli retoriche, che si spiegano solamente con un’attenta analisi del momento bellico. Nonostante la modesta efficacia della guerra aerea, ogni successo di Baracca veniva enfaticamente celebrato da cronisti e politici come si trattasse dell’affondamento di un incrociatore nemico, saccheggiando tutte le figure della retorica risorgimentale e antigermanica, fino ad arrivare al giuramento di Alberto da Giussano. Già in quel 1917 l’abbattimento di un aereo nemico veniva utilizzato per prefigurare l’immagine della riscossa e della vittoria finale. In più, la marea epico-celebrativa favoriva una sorta di astrazione visionaria dalla brutalità di un conflitto, in cui si usavano ancora le mazze ferrate per finire i soldati storditi dai gas, e si avvaleva felicemente dell’immagine dei duellanti in cielo, che si sfidano cavallerescamente, e fanno visita allo sconfitto una volta abbattuto. Anche se nella realtà il più delle volte l’aviatore colpito periva o precipitava tra le fiamme, il mito tecnologico e futurista della velocità pura, esaltato dalla propaganda e dalla prosa di Filippo Tommaso Marinetti, finiva col prevalere o compensare le atrocità della guerra, grazie alle sue rappresentazioni popolari, affidate ancora alle copertine di Achille Beltrame, che non si recò mai al fronte fra i combattenti.
Fin dai primi successi Baracca risultò così il tramite involontario di una propaganda nazionalista che impattava fortemente sulla fantasia collettiva di masse entusiaste per la nuova tecnologia e i successi dell’Italia.
Per comprendere la popolarità raggiunta dal personaggio e dalle sue imprese si pensi che in occasione dei funerali intervennero di persona il vice presidente della Camera, onorevole Luigi Rava, il rappresentante delle forze armate statunitensi in Italia, tenente Rollins Winslow, il rappresentante del comando inglese di stanza a Faenza; si contarono inoltre 52 corone d’alloro, numerosissimi gonfaloni e, dopo quello del re, del duca d’Aosta e del generale Diaz, pervennero più di cento telegrammi da ogni parte d’Italia [8].
Il mito dell’“eroico volatore”, del cavaliere dell’aria, della giovane vita troncata in cielo dopo tanti successi, conteneva una materia epica che avrebbe poi alimentato infinite pagine di letteratura patriottica. Fin dai primi anni Venti la vicenda terminale di Baracca si presta e si intreccia saldamente con l’elaborazione del culto dei caduti nella Grande guerra, peraltro diffuso in tutta l’Europa post-bellica [9].
L’entusiasmo conseguente alle imprese di Francesco Baracca, le imponenti manifestazioni in suo ricordo e, non ultimi, i numerosi aiuti concreti e le esortazioni che la madre dell’eroe profuse nei confronti dei giovani lughesi affinché intraprendessero la carriera aeronautica, fecero in modo che dal comprensorio di Lugo alla vigilia del secondo conflitto mondiale provenisse un numero quasi triplo di piloti rispetto alla media nazionale [10].
Punti di forza che nel tempo ingigantirono il mito di Baracca [11] furono sicuramente il nobile lignaggio familiare, l’insuperato record di vittorie in combattimento, il non risultare mai sconfitto nei cieli, ma l’essere stato abbattuto probabilmente da un fatale colpo di fucile sparato da terra, quasi un inciampo sulla via della gloria e, non ultimo: provenire dalla terra di Mussolini. Poco dopo questa prima fase, che potremmo dire “dannunziana”, prese infatti avvio una stagione diversa, tutta interna al ventennio fascista, tesa al superamento del lutto e all’esaltazione dell’uomo nuovo, audace e dominatore degli spazi, in unione con la macchina volante, simbolo della modernità, asservita agli ambiziosi disegni di potenza riservati alla patria.
Il conflitto era terminato da poche settimane quando a Bologna, sul finire del 1918, si inaugurò a Palazzo Bonora, l’esposizione nazionale della guerra, nella quale un’intera sala era destinata ad ospitare i cimeli dell’eroe lughese. Nel 1919 venne pubblicata la prima biografia di Baracca.
Il fascismo si impadronì ben presto della vittoria del 1918 e plasmò una propria autorappresentazione sulla base di un eroismo di massa, bisognoso di simbologie forti per la storia nazionale, più che di singoli protagonismi [Baioni 2017, 20]. Fu così che dopo l’alluvione monumentale che segnò le piazze italiane nei primi anni Venti si giunse a fermare la celebrazione dei tanti caduti in ogni singola città o borgata, preferendo la realizzazione di grandi sacrari nazionali nelle terre redente o comunque teatro di famose battaglie.
A partire dal 1927 infatti il fascismo preferì sottrarre alle comunità locali le occasioni del ricordo e dei costi della guerra, ed avviò una monumentalizzazione della vittoria che poneva la grandezza della patria al di sopra di ogni lutto privato, accompagnata da coreografie rituali e grandi pellegrinaggi che sancivano la necessità dell’eroismo come virtù di Stato e alimentavano la sacralizzazione di luoghi che sarebbero presto entrati nella pedagogia del regime. In più le grandi simbologie nazionali così conseguite facevano scomparire le profonde divisioni e il dissenso sociale che l’intervento in guerra aveva dolorosamente prodotto nel paese. Ulteriori monumenti a ricordo di figure gloriose, oltre quella data, furono consentiti solamente all’interno di progetti per la costruzione di nuove scuole, asili e ospedali, laddove l’intitolazione a persone poteva richiedere la presenza di sculture dedicate. Seguirono tempi di stasi, dovuti a questa transizione, ma soprattutto alla crisi economica del 1929 che per alcuni anni non consentì più tutte quelle raccolte di offerte per iniziative benefiche e celebrative che avevano animato gli anni precedenti [12].
2. Lo spazio del monumento
La vicenda del monumento a Francesco Baracca si affranca in parte da queste circostanze, poiché il rango della famiglia d’origine e gli onori conseguiti ancora in vita mal si conciliavano con un normale ricordo cittadino per il grande aviatore. La sua figura leggendaria aveva ottenuto molto presto riconoscimenti anche internazionali e pertanto fu subito ampia la comunità di soggetti che coltivarono aspettative grandiose, fatte successivamente proprie dal regime fascista, per una celebrazione monumentale di livello nazionale, condizionata perciò da tempi ancora più dilatati per il suo compimento.
A questo si aggiungeva la particolare situazione urbanistica della città di Lugo che nei primi decenni del Novecento non aveva ancora definito uno spazio pubblico centrale, in grado di ospitare un grande monumento di rilevanza nazionale. Anzi, la demolizione degli ultimi edifici settecenteschi della dominazione pontificia, e il lungo dibattito sulla destinazione da dare agli spazi così aperti davanti all’antica Rocca estense, si protrasse fino alla fine degli anni Venti attraverso piani urbanistici che non producevano poi iniziative concrete. L’erezione del monumento di Rambelli rappresentò così l’epilogo di un lungo dibattito urbanistico. La prima ipotesi prevedeva «una statua di Francesco Baracca in una delle vaste piazze intorno alla Rocca, nel centro della città. Essa doveva balzare su da un largo basamento a pedana, quasi a sembrare una cosa viva tra i vivi» [13].
Solo all’inizio del decennio successivo, con i provvedimenti urbanistici che tenevano conto sia dell’incremento demografico, sia della vocazione mercantile della città, si giunse alla risoluzione di eliminare il residuo diaframma che separava ancora la piazza della fiera, destinata all’importante mercato settimanale, dall’attigua piazza Maggiore [Domenico Rambelli 1988, 10].
Nel 1932 la Cassa di risparmio, titolare di una significativa porzione di edifici affacciati sul centro, aveva affidato all’architetto Giuseppe Vaccaro l’incarico di ridisegnare il profilo di quegli ampi spazi confinanti, in accordo con l’amministrazione comunale. Ma il radicale progetto dell’architetto – che pure prevedeva anche un ricordo monumentale dell’eroe Francesco Baracca presso la Torre dei caduti – non incontrò allora il favore dei committenti, perché nonostante l’armonia dei moduli e l’ideazione di una grande torre arengaria gradita al regime, ignorava del tutto ogni traccia preesistente e risultava eccessivamente impattante rispetto al contesto urbano perimetrale. Così il progetto di Vaccaro fu momentaneamente accantonato e il problema degli spazi pubblici al centro della città rimase insoluto ancora per qualche anno [Marziliano 1998, 100].
Lavorava invece intensamente fin dal 1918 un locale Comitato promotore per le onoranze a Baracca, che, senza definire a priori una precisa collocazione urbanistica per il monumento, intendeva non solo onorare la memoria del grande aviatore con un monumento di carattere nazionale, ma ribadire un sostanziale cambio di passo rispetto alla precedente amministrazione socialista, sempre piuttosto timida nell’alimentare celebrazioni attinenti la Grande guerra.
A Lugo i socialisti avevano infatti prevalso largamente sia alle elezioni politiche del 1919 e del 1921, che alle amministrative del 1920 ma in pratica dopo la guerra avevano governato la città solo tra l’ottobre 1920 e il maggio 1921. Dopo gli anni prebellici di governo liberale, tutto lo sforzo costruttivo dell’amministrazione socialista fu orientato all’edilizia sociale e di pubblico servizio. Fondamentalmente contrari a stanziare risorse importanti per l’esaltazione di eroi e caduti nella Grande guerra i socialisti valutarono in un primo tempo un’idea della precedente amministrazione liberale, cioè di erigere in Lugo un istituto tecnico professionale che portasse il nome dell’eroe per formare
maestranze in stabilimenti per la costruzione di apparecchi e strumenti di aviazione […] poiché gli eroici compagni di Baracca avevano subito pensato, con squisito senso di memore affetto, e caldeggiato la erezione di un monumento sul Montello, sul luogo ove l’eroe cadde [14].
Ma accantonata questa idea, il Comune si era limitato ad apporre qualche targa memoriale sulla facciata delle case natali dei soli cittadini decorati con medaglie d’oro al valor militare ed a collocare una grande lapide in marmo sullo scalone d’onore della Rocca per ricordare i concittadini caduti [15] [Domenico Rambelli 1988, 10].
Nel 1920 il Club sportivo romagnolo di Lugo aveva organizzato in memoria dell’eroe una grande competizione aeronautica, intitolata Raid Baracca, che, partendo dalla Romagna lungo un percorso di oltre mille chilometri, avrebbe dovuto attraversare luoghi celebri della memoria irredentista come Belfiore, Trento, Nervesa, Trieste, Fiume e Pola. Ma nonostante i preparativi avanzati, pochi giorni prima dell’avvio, la manifestazione fu annullata d’ufficio dal governo per la critica situazione politica relativa a queste ultime due località [16]. Si temeva infatti che diversi piloti, approfittando dell’occasione, si unissero ai legionari fiumani e non facessero più ritorno alla base. L’impegnativa competizione si tenne per la prima volta solamente il 19 giugno 1921, sempre promossa dai lughesi, ma successivamente le edizioni del 1922 e 1923 vennero fatte proprie dal Commissariato generale per l’aeronautica e riservate esclusivamente alle squadriglie dell’aviazione militare, anticipando il dominio sul mito di Baracca che di lì a poco avrebbe assunto la Regia aeronautica, riconosciuta come nuova forza armata.
3. Prove di grandeur
A partire dal settembre 1918 si era costituito a Roma un comitato nazionale per celebrare l’eroe, sotto la presidenza di Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio dei ministri, supportato da Eugenio Chiesa, commissario generale dell’Aviazione, e da Luigi Rava, vice presidente della Camera e commissario generale delle Opere nazionali di propaganda e resistenza interna.
Nel giugno 1920 era lo stesso Ispettorato generale dell’Aeronautica militare [17] a chiedere formalmente al Ministero della Guerra che il 19 giugno fosse consacrato come festiva ricorrenza dell’aviazione italiana. A Lugo fin dal 1919 ogni anno il 19 giugno si tenevano commemorazioni ufficiali, come per nessun altro caduto, ma la prima importante celebrazione per Baracca si ebbe nel giugno 1926, allorché intervenne per le onoranze il principe Umberto di Savoia che, dopo aver incontrato i genitori, inaugurò una preziosa saletta affrescata al pian terreno della Rocca ospitante i primi cimeli dell’eroe ed una grande targa in marmo sull’esterno della casa natale, oggi totalmente occupata dal Museo Baracca [18].
La famiglia dell’aviatore e l’amministrazione comunale auspicavano da tempo un’iniziativa di grande respiro che, nel nome dell’aviatore più famoso d’Italia, facesse emergere Lugo dall’anonimato della provincia. Nel 1930 i genitori avevano già finanziato l’erezione del sacello memoriale a Nervesa della Battaglia. La madre Paolina Biancoli, all’epoca delegata provinciale dell’Associazione nazionale madri e vedove famiglie dei caduti e dispersi in guerra, poi dal 1934 anche segretaria del Fascio femminile di Lugo, unitamente ad alcune personalità locali, si fece carico di una lunga vicenda commemorativa che solo nel giugno del 1936, avrebbe avuto un epilogo trionfale [Bassi Angelini 2008, 22-43].
Risalendo agli inizi di tale percorso, è una fotografia molto nota quella che l’11 settembre 1921 ritrae i due genitori di Baracca, fra Dino Grandi e Italo Balbo, attorniati dalle camicie nere di Bologna e Ferrara, davanti alla tomba di Dante, a conclusione della marcia su Ravenna che aveva preso a pretesto le celebrazioni – ad avviso dei fascisti troppo modeste – per il VI centenario della morte del sommo poeta. Il nascente movimento, divulgando quell’immagine, intendeva così accomunare le due grandi personalità storiche di indiscutibile prestigio – legate al territorio – per alimentare i focosi animi del nazionalismo dilagante.
Anche negli anni seguenti furono numerosi e costanti i gesti di beneficenza di Paolina Biancoli nella sua veste pubblica e in nome dell’eroico figlio dato alla patria, fatti propri dal regime: dalle offerte agli ospizi e alle colonie marine che ospitavano i bambini delle famiglie disagiate, a quelle agli orfani di guerra di Villa San Martino e alle Adoratrici perpetue, all’omaggio di uva dei propri poderi ai soldati della guarnigione che si avvicinavano alla città. Ma per arrivare alla tanto attesa realizzazione del monumento, sotto la spinta della famiglia e del fascismo locale, fu importante il lavoro dei due comitati per le onoranze sopra ricordati: quello d’onore a carattere nazionale, la cui presidenza era passata al duca d’Aosta Emanuele Filiberto, che contava fra i propri membri grandi nomi fra cui anche Gabriele D’Annunzio; e quello locale, con funzioni più esecutive e facente capo al nuovo sindaco, poi al podestà di Lugo [19].
Quando nel novembre 1925 i rappresentanti di quest’ultimo comitato giunsero a Roma per un colloquio con Mussolini, al quale avevano offerto la presidenza onoraria, avevano già predisposto una relazione della Commissione esecutiva del monumento nazionale a Francesco Baracca e all’aviazione italiana in guerra, dal nuovo nome assunto dal comitato.
In quell’occasione il duce lasciò intendere di nutrire particolari aspettative per l’opera da erigere in Lugo e invitò il comitato a rivolgersi direttamente ad un artista di chiara fama, evitando inutili procedure concorsuali.
I concorsi, parlo degli ultimi che hanno punti di contatto e di somiglianza col nostro, hanno dato risultati poco soddisfacenti. I concorsi fanno parte del bagaglio e della mentalità democratica, per la quale i mediocri e gli sgobboni, tentando per scarsità di meriti reali, di raggiungere la ribalta con tutti i mezzi leciti e illeciti, ingombrano la via ai valorosi, che schivi di queste forme di concorrenza preferiscono tenersi in disparte [20].
E poco dopo il coordinatore del comitato lughese, il ragionier Guglielmo Tamburini, scriveva al senatore Corrado Ricci, già direttore generale delle Antichità e belle arti, che Mussolini l’aveva congedato con queste parole:
ricordatevi che non voglio si faccia uno dei soliti monumenti che infestano troppo numerosi le piazze d’Italia. Dovrà essere una cosa grande, perché grandissimo è l’eroe che vogliamo onorare [21].
Dietro a tali indicazioni e premesse si può immaginare, con fondato sospetto, l’intervento decisivo di Margherita Sarfatti che il 17 novembre 1925 si era molto esposta scrivendo di persona allo scultore Domenico Rambelli affinché valutasse con interesse la preziosa opportunità che si presentava nel progettare un monumento a carattere nazionale. La raffinata ispiratrice di Mussolini non si limitava infatti all’individuazione del possibile artista, ma gli suggeriva anche una proposta concettuale scrivendogli:
La stilizzazione architettonica dell’aeroplano con l’aviatore dentro che ne forma parte come nel gruppo del cavaliere a cavallo, in antico si ideò nel centauro. L’aeroplano che si impenna al volo e Baracca devono formare un tutt’uno. Ci pensi, è un compito superbo [22].
All’invito della Sarfatti, che soggiornò a Lugo nel 1926 per individuare l’eventuale collocazione dell’opera, si aggiunsero per Rambelli lettere di incitamento da parte di Ugo Ojetti, di Filippo Tommaso Marinetti, di Massimo Bontempelli e del lughese Francesco Balilla Pratella per incoraggiare la realizzazione di un grande monumento a Baracca nella sua città natale.
Lo scultore, nato nel 1886 e formatosi alla Scuola di arti e mestieri che rappresentava un’eccellenza della città della ceramica, aveva frequentato il cenacolo di Domenico Baccarini e nel 1907, a soli 21 anni, aveva esposto le sue opere alla Biennale di Venezia. Aveva poi soggiornato a Parigi, avvicinandosi a Picasso e all’arte di Rodin, per approdare in seguito ai cenacoli fiorentini e conoscere Ardengo Soffici, Lorenzo Viani, De Witt e Boccioni.
Dopo aver realizzato alcuni importanti monumenti a Viareggio, nel 1926 aveva partecipato alla prima mostra milanese del Novecento italiano e nel 1932 ebbe un’intera sala personale alla mostra per il decennale della rivoluzione fascista, poiché Mussolini vedeva nella sua opera «l’autentica, totale partecipazione alla cultura della rivoluzione» [Griffini 2016].
Risale infatti al 1926 l’incarico del Comune di Lugo affidato all’ormai affermato scultore che si mise all’opera ragionando in un primo tempo su un complesso monumentale di ispirazione classicheggiante da collocarsi ai margini della città in quanto bisognoso di ampi spazi circostanti. Questo progetto prevedeva un «monumento a tempio con statua centrale» [Domenico Rambelli 1988, 29] alto 12 metri al centro di una base circolare del diametro di 42 metri, dedicato all’eroe centauro, circondato da 34 colonne alte ciascuna 7 metri, pari al numero delle vittorie di Baracca, racchiuse da un capitello in stile bizantino. Il bozzetto fu sottoposto al giudizio del duce nel giugno 1927, raccogliendone un apprezzamento di massima che però si infrangeva sullo scetticismo relativo agli alti e impensabili costi di realizzazione, stimati in quattro milioni di lire, ben lontani dalle reali disponibilità del comitato lughese. A nulla valsero le lettere inviate dal coordinatore Tamburini a Mussolini nel 1930, come le pressioni della contessa Paolina, affidate nel 1931 anche all’onorevole Carlo Delcroix, grande invalido di guerra, il quale le rispondeva cortesemente così:
Il momento non è assolutamente propizio per portare la questione al Duce, il quale non solo si oppone ad ogni richiesta di fondi, ma vieta anche che si facciano raccolte in pubblico; in queste condizioni è meglio aspettare che la situazione si rischiari piuttosto che esporci ad un rifiuto che potrebbe se non compromettere, danneggiare la cosa [23].
La grave crisi finanziaria si sovrapponeva in quel periodo sia alla sospesa ristrutturazione urbanistica della città, sia alla difficoltà di reperire i fondi necessari per una grande opera monumentale.
Per alcuni anni Rambelli immaginò la collocazione del suo progetto in zone periferiche, come gli orti Busi presso la stazione ferroviaria o ancor meglio l’area antistante l’aeroporto di Villa San Martino appena fuori Lugo, così da far dialogare le dimensioni dell’opera con uno skyline aperto e neutrale. Ma dopo tanti indugi l’unica cosa certa era ancora la modesta disponibilità economica che, insieme alle raccomandazioni di Mussolini, inducevano a ridimensionare di gran lunga il progetto originario, sebbene ciò comportasse l’annullamento di tutto il lavoro già compiuto.
Per portare a termine la realizzazione del monumento, ridotto nei costi ma non nelle ambizioni, alla fine del 1933 giunse la notizia che alle risorse del comitato si poteva aggiungere anche il contributo straordinario del duce stesso di 500.000 lire, così da indurre Rambelli a metter mano ad un nuovo progetto che del precedente bozzetto salvava solamente la statua dell’eroe [24].
A lui che aveva messo tanta cura nell’ambientazione dei precedenti monumenti ai combattenti di Viareggio e al Fante dormiente di Brisighella non venne chiesto alcun parere sull’eventuale collocazione. Nonostante ciò, alla fine di aprile del 1934 Rambelli presentò al Comune una nuova soluzione, completamente diversa dalla prima ipotesi, che in qualche modo rispondeva anche all’impasse creatasi riguardo al centro della città. Se la grande torre arengaria in cotto prevista da Vaccaro sconvolgeva non poco l’immaginario dei lughesi, un complesso monumentale di grandi volumi, realizzato in travertino bianco, ma tutto ispirato al noto eroe cittadino, che emanava la sua gloria anche sulla nuova arma aeronautica nazionale, poteva offrire una degna conclusione al dialogo di quello strano spazio urbano, risultante dall’unione di due piazze contigue.
Il nuovo progetto di Rambelli ricopriva praticamente quasi tutta la superficie della piazza Maggiore, privando di fatto la comunità di uno spazio pubblico centrale, ma offriva in cambio una sicura visibilità alla città, come mezzo per accreditarsi delle glorie patrie e per affrancarsi dallo stigma di centro meramente agricolo e mercantile, frequentato per lo più da contadini e allevatori. Il monumento all’eroico concittadino sarebbe diventato il simbolo nazionale dell’aviazione italiana in guerra [25].
Risale forse a questo compromesso virtuoso, e alla grandiosità dell’inaugurazione, il senso di accettazione e di appartenenza maturato fin da allora fra i lughesi e quest’opera monumentale, decisamente fuori scala rispetto alla corona degli edifici circostanti, ma anche portatrice di volumi grandiosi e di contenuti moderni, tali da suscitare un profondo orgoglio cittadino in ogni ambito sociale. Quell’ala maestosa finiva per superare in altezza ogni edificio circostante, sia civile che religioso, e per ricordare a tutti l’assoluta centralità dei nuovi poteri dello stato fascista, che aveva così fortemente orientato la nascita del monumento; per questo motivo anche il grande mercato settimanale del mercoledì poteva trasferirsi altrove. Rambelli finì per accettare la collocazione della sua opera nella piazza centrale, ma non rinunciò minimamente al respiro dimensionale immaginato per un dialogo con il cielo aperto, che doveva essere nel suo pensiero un contenuto specifico del monumento.
Quest’ultima versione dell’opera richiese per basamento un’ampia platea sopraelevata di 1.040 m2, simboleggiante la spianata del campo d’aviazione, necessaria ad ospitare i due grandi corpi monumentali. Prima ancora però fu necessario consolidare il terreno d’appoggio con 48 palafitte in calcestruzzo armato, lunghe 6 metri ciascuna, per stabilizzare il grande basamento stimato in 8.876 quintali, e ripavimentare tutta la residua cornice di piazza Maggiore.
Poi i due grandi elementi centrali, in dialogo fra di loro. L’ala di aereo che si slancia per 27 metri verso il cielo reca ai lati, segnati in bassorilievo, il simbolo del cavallino rampante adottato da Baracca con il motto Ad Maiora da una parte, e dall’altra quello dell’ippogrifo appartenente alla sua 91a squadriglia, quella degli assi dell’aviazione, che viene trasfigurato da Rambelli in un Pegaso ugualmente impennato [Baldini 2017, 33]. Poco più avanti, un poderoso basamento cilindrico di 3 metri, sempre in travertino bianco, con incise le lingue fiammeggianti della gloria perenne e i nomi delle 34 vittorie aeree, sorregge la statua in bronzo dell’eroe, alta esattamente 5 metri e 70 cm. Per il completamento dell’opera occorsero 200 giornate lavorative e l’impiego di circa 8.500 giornate/operaio [26].
La lunga gestazione dell’opera e la sua collocazione finale risolvono in chiave metafisica il complesso rapporto con le architetture che si affacciano su quella piazza. Vi ritroviamo un campionario «di stili e di epoche, dove tutti i secoli, dal Trecento in poi, sono rappresentati: il monumento fornisce a questo ampio scenario una direzionalità ed un riferimento univoco, concludendone con un netto contrappunto i profili marcatamente orizzontali» [Gordini 1988, 14-15].
Nonostante si tratti di uno dei pochissimi monumenti ad personam di combattenti del primo conflitto mondiale, posto nel cuore della città natale di Baracca, che dovrebbe identificarlo come il suo figlio più celebre, la statua presenta ben poche rassomiglianze con l’elegante silhouette del maggiore Baracca e con l’iconografia che lo ha reso famoso in Europa. Lo stile arcaico dell’artista, riconoscibile nella povertà di dettagli e nell’essenzialità di poche linee ricurve, affida a pochi elementi distintivi, come il casco, i grandi occhiali o la tuta gonfiata dal vento, l’identificazione dell’eroico aviatore. Per di più l’alta collocazione della statua e la superficie opaca del bronzo impediscono all’osservatore da terra di raggiungere i tratti somatici del volto e ci fa capire che si è già compiuto il passaggio dalla persona fisica al mito nazionale.
A sottolineare questa declinazione che a 18 anni dalla sua scomparsa voleva celebrare l’italiano nuovo, l’uomo macchina, più che l’elegante ufficiale di cavalleria, gioca qui a favore il tratto specifico dell’artista, che diceva di ispirare le proprie rudi sculture a Rodin e a Michelangelo, nella ricerca di un risultato mitico-simbolico, «primitivo per sottrazione di dettagli» [Baldini, Casadio, Serafini 2017, 33], anziché cercare la rappresentazione del protagonista in vita.
Il fascismo aveva bisogno di forti evidenze per riscrivere una propria storia che traeva origine dagli arditi della trincea e da un combattentismo frustrato e irrequieto. L’eroe di Rambelli è molto distante dall’uniforme attillata, dalle pose studiate e dalle decorazioni che di solito ricoprivano il petto di Baracca. Qui è avvolto in una tuta da aviatore, sconosciuta ai piloti del primo conflitto, poiché entrata nelle dotazioni aeronautiche solamente negli anni Trenta. Così come la grande ala monumentale termina con una forma arrotondata che evoca più gli aerei di quel decennio che i velivoli della Prima guerra mondiale. Ma il linguaggio di Rambelli, fatto di forme morbide e fluide, finiva per eternare qui un’altra aviazione, cioè quella che aveva appena deciso le sorti della guerra in Etiopia e che si preparava a sancire anche in Spagna l’affermazione dei dittatori alleati di Franco.
Inoltre in quegli ultimi anni aveva preso corpo, grazie alle trasvolate atlantiche e ai raid aerei di Italo Balbo, un ambizioso progetto di supremazia aeronautica nel Mediterraneo da parte del fascismo, in cui Mussolini stesso riponeva grandi aspettative.
Nonostante qualche incidente la realizzazione del monumento, iniziata il 5 novembre 1935, si compì rapidamente entro la primavera del 1936.
Per raggiungere la somma necessaria a far fronte a tutte le spese, come in tanti altri casi analoghi, il podestà fece ricorso
ad una sopratassa sui fabbricati e terreni, appellandosi ai concittadini italianissimi che risiedono all’estero perché vogliano contribuire anch’essi secondo le proprie forze finanziarie a che il ricordo monumentale dica tutta la riconoscenza dei figli rimasti. [Baldini, Casadio, Serafini 2017, 25-26].
In quella primavera, poche settimane prima dell’inaugurazione del monumento, venne meno il padre di Baracca, il conte Enrico, che nel suo testamento faceva dono al Comune del suo palazzo in città – l’attuale sede del Museo Baracca – affinché vi si raccogliessero reperti storici e si conservasse la camera da letto di Francesco con quanto gli era appartenuto in vita [Rignani 1973, 115, 117].
4. L’«apoteosi dell’Italia fascista». La grandiosa manifestazione inaugurale
[27].
La cerimonia di inaugurazione, slittata di due giorni alla domenica 21 giugno 1936 per consentire la più ampia partecipazione popolare intorno al monumento di Lugo, fu una delle più grandi manifestazioni del regime, tenute lontano da Roma. La scelta necessaria della data diventò la celebrazione del «Solstizio che segna il culmine della luce di Roma» e il pilota caduto, «l’Aquila dell’Impero» [28]. Alla comprensibile soddisfazione per il compimento di una grande opera monumentale a lungo attesa, si sovrapponeva il clima di esaltazione nazionale per la recente proclamazione dell’Impero. Nei discorsi celebrativi delle autorità la perdita del valoroso aviatore, del cavaliere celeste, si piegò subito all’enfasi patriottica che sublimava il sacrificio in vanto del regime, la difesa dei patri confini in volontà di dominio.
Quella fiamma di vita e di eroismo che ha illuminato ai soldati dell’Italia fascista le vie nuove dell’impero, ed ha fatto echeggiare la lingua di Dante e di Macchiavelli [sic], per un saluto al tricolore, sulle ambe abissine, dove il valore della stirpe, già prima, aveva rifulso non domo, per dare alla Patria la sua potenza e la sua degnità nel mondo [29]
è il passaggio centrale dell’orazione tenuta dal segretario del Fascio locale Giuseppe Seganti e riportata nel fascicolo, stampato per l’occasione, in cui si precisa anche «che la Vecchia Guardia lughese sollevò in alto l’insegna dei Fasci, prima in Romagna, delle primissime in Italia, assegnando alla squadra d’azione il nome sacro di Francesco Baracca».
Comunicata all’intera nazione da innumerevoli manifesti affissi in tutte le grandi città, si volle dare a quella giornata tutta l’imponenza di chi pescava da un mito della Prima guerra mondiale le ragioni di una nuova politica di potenza.
Ottocento le autorità civili, politiche, militari e religiose ospitate su due grandi tribune laterali; sette treni speciali, grazie anche allo sconto del 50% sui biglietti ferroviari, oltre alle numerose auto, bici e moto, fecero confluire su Lugo 60.000 [30] persone gestite da un rigoroso servizio d’ordine.
L’Istituto Luce garantì la miglior copertura mediatica con riprese ancora oggi visibili. Da Milano il 18 marzo la ditta Publilux, che in piazza Duomo mostrava un modernissimo giornale luminoso con notizie spot “a lettere fuggenti” offriva al podestà di Lugo un preventivo per 20 passaggi serali con la dicitura «Visitate Lugo – Inaugurazione Monumento Baracca – Riduzioni ferroviarie» [31]. Lo stesso podestà si era invece impegnato a chiedere un testo da pubblicare a Gabriele D’Annunzio ed aveva scritto a Recanati per sondare la disponibilità del grande tenore Beniamino Gigli ad esibirsi a Lugo nel quadro delle celebrazioni, che si volevano del massimo rilievo. D’Annunzio inviò poche righe e Gigli fece sapere di essere impegnato all’estero [32]; ma nel pomeriggio ci fu la spettacolare esibizione aerea dei nove piloti componenti ancora la 91ª squadriglia che insieme a Baracca avevano combattuto «durante la guerra Italo-Austriaca» [33]. Da Tripoli il maresciallo Italo Balbo scrisse di scusarsi per gli impegni che lo trattenevano in Africa, ma garantendo in spirito la sua adesione alla manifestazione in onore del «più puro, del più nobile e del più grande eroe dell’epopea aviatoria» [34]. Le presenze più autorevoli furono quelle di sua altezza reale Amedeo duca d’Aosta in rappresentanza del re-imperatore e del capo di Stato maggiore del Ministero dell’Aeronautica Giuseppe Valle, in rappresentanza del governo, che tenne in piazza l’orazione ufficiale. Altre presenze illustri furono il vicesegretario nazionale del Pnf Renzo Morigi, il soprintendente Corrado Ricci, entrambi ravennati, e l’arcivescovo militare Angelo Bartolomasi, di Imola, i rappresentanti del Senato e della Camera dei deputati, lo scultore Domenico Rambelli e tutti i podestà ravennati.
Ad un cenno dell’Augusto Principe cade la tela che copre la statua dell’Eroe ed il monumento appare in tutta la sua grandiosa e superba bellezza che tiene per un attimo sospesa la marea di popolo, la quale scatta poi in una nuova travolgente dimostrazione acclamando al DUCE, mentre le truppe presentano le armi, il Duca si irrigidisce, nel saluto militare, la folla alza il braccio romanamente e le musiche intonano la Marcia Reale e Giovinezza. Nello stesso momento nove apparecchi della 91ª Squadriglia sorvolano ripetutamente la Piazza a bassa quota e vengono lanciati alcune centinaia di piccioni viaggiatori [35].
Era assente la contessa madre Paolina, per problemi di salute ma aveva ricevuto a casa quel giorno il telegramma del re-imperatore: «Mentre il popolo di Lugo e con esso tutti gli italiani rivolgono il pensiero al sacrificio eroico di Baracca, tengo ad essere presente in ispirito a questo commosso rito che la patria offre al suo grande figlio. Vittorio Emanuele» [Rignani 1973, 120].
Al termine della cerimonia il presidente del Comitato promotore, allora il conte Giacomo Manzoni, consegnava simbolicamente il possesso del monumento al podestà di Lugo. Nei giorni successivi giunsero dalle autorità politiche telegrammi di compiacimento per l’ottima riuscita della manifestazione, ma la sua organizzazione era stata un’impresa titanica, e alla fine di quell’anno il podestà Seganti – che era stato tenente della Regia aeronautica – era ancora perseguitato dai solleciti di pagamento delle ditte che avevano fornito addobbi e servizi al grandioso evento.
Un grande striscione che campeggiava sul fondo della piazza con la scritta «Duce ti vogliamo a Lugo» ha decretato nel dopoguerra la scarsa fortuna delle immagini di quella giornata trionfale, ma occorre pensare che tale cerimonia seguiva di poche settimane la proclamazione dell’impero, quando il consenso al fascismo toccò i massimi livelli e riempire le piazze non era un problema.
Da quel momento però il grande monumento lughese a Baracca entrò di diritto nella galleria delle icone simboliche destinate a rappresentare un luogo del policentrismo municipale della Romagna. Sarà proprio un pannello in piastrelle di maiolica, realizzato dallo stesso Rambelli nel 1939 per l’Istituto d’arte ceramica a Faenza, ad avviare tale consacrazione [36].
5. Il dopoguerra
Negli anni successivi Rambelli ottenne altre importanti commesse e riconoscimenti prestigiosi che confermarono la sua convinta adesione al regime, pur circoscritta al suo impegno artistico. Nel 1938 realizzò per la Casa littoria di Ravenna un grande gruppo scultoreo di otto metri intitolato Gioventù fascista in marcia e nel 1939 vinse il Premio nazionale per la scultura alla III Quadriennale di Roma. Nel 1940 per conto del Comune di Faenza realizzò un’opera in bronzo alta più di cinque metri raffigurante il Monumento all’Impero, che incrociava la spada e l’aratro con incise frasi del re e del duce, mentre per Forlì realizzò ancora nel 1942 un grande monumento in marmo in onore di Mussolini, tutte opere celebrative andate volutamente distrutte alla fine della guerra [Dirani 2017, 178-179].
Nel 1943 Rambelli aveva aderito anche alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e nel 1944 si era trasferito a Bologna presso il fratello, dove nell’immediato dopoguerra rischiò anche una grave condanna partigiana, dalla quale lo salvò l’amico, pittore comunista, Aldo Borgonzoni [Griffini 2016]. Negli anni successivi si dedicò di nuovo all’insegnamento artistico a Roma dove nel 1951 riprese l’attività di scultore con una grande statua di San Francesco nella basilica di Sant’Eugenio e nel 1955 Faenza inaugurò una grande statua in memoria di Giuseppe Donati, il giornalista cattolico antifascista, perseguitato e costretto dal regime a morire in esilio a Parigi. Nonostante quest’ultimo approdo, per molti anni l’artista subì una drastica damnatio memoriae, malgrado i numerosi riconoscimenti accademici nazionali ricevuti ancora in tarda età.
Diversamente il suo monumento a Baracca sopravvisse praticamente indenne alle opposte stagioni della politica. L’unica rimozione, nell’estate 1943, riguardò il cartiglio littorio, cioè le sei grandi lettere in travertino bianco che occupavano la fronte degli ultimi due gradini di accesso all’enorme basamento, con la dicitura XIV AEF (anno dell’era fascista) sostituite poi da un blocco anonimo dello stesso materiale.
Una volta inaugurato nel 1936, per quasi un decennio il grandioso monumento di Lugo era stato meta di cerimonie, raduni e rituali di regime, come la raccolta della lana per i combattenti e i pellegrinaggi dei manipoli giovanili, attraversando senza problemi sia gli ultimi anni del fascismo che i venti mesi della Rsi.
I cittadini di Lugo seppero riconoscere e separare il carico simbolico con cui il fascismo vi aveva rappresentato i propri valori, dalla vicenda propria dell’eroico pilota, precipitato nel 1918. Il fascismo romagnolo, forte in quel momento di alcuni nomi ai vertici nazionali, aveva fortemente investito in quella realizzazione monumentale, non inventando, ma potendo contare su una popolare affezione al nome dell’eroe.
Durante l’ultimo anno di guerra la statua in bronzo di Francesco Baracca sfuggì alla richiesta fusione di tanti monumenti in bronzo per scopi militari e fu opportunamente protetta da una casseratura in legno che la ricopriva completamente, a protezione dei numerosi bombardamenti subiti dalla città di Lugo, situata in posizione strategica lungo la statale 253 per Bologna, all’intersezione con il fiume Senio.
Quando nella tarda primavera del 1945 la statua fu scoperta, i soldati alleati presenti in città la scambiarono per un monumento al duce e poco mancò che non fosse abbattuta [Guerrini, Pluviano 2000, 151] [37].
Negli anni del dopoguerra, benché le contrapposizioni ideologiche fossero ancora profonde in questa parte della Romagna, è una ricca serie di fotografie pubbliche a testimoniare la convinta riappropriazione del grande monumento da parte dell’intera comunità lughese.
Già nella primavera del 1946 un folto gruppo di appassionati motociclisti del Moto club Francesco Baracca – la cui base sociale esprimeva un prevalente orientamento di sinistra – si faceva fotografare ai piedi del monumento, prima di partire per la storica gita a Nervesa della Battaglia in prossimità del 19 giugno, anniversario della morte dell’eroe [Casadio 2019, 6]. Poco tempo dopo, in un contesto politico che aveva visto prevalere il blocco social-comunista alle amministrative del 1946, era il sindaco Vincenzo Giardini, ex confinato politico e partigiano, a rendere omaggio all’eroe locale deponendo una corona d’alloro ai piedi del monumento di Rambelli in occasione del 4 novembre [Casadio 2019, 40].
Per non parlare di tutto l’associazionismo sportivo locale, società di calcio in testa, che fin dal campionato 1946-47 mantenne orgogliosa la denominazione di Baracca Lugo conseguendo risultati importanti, fino a comparire più volte nella schedina del Totocalcio. Allo stesso modo il ricordo in onore dell’eroico aviatore venne tenuto alto dalla Società ciclistica Francesco Baracca, che fin dagli anni Venti organizzava il prestigioso Giro di Romagna, oggi noto come Coppa Placci, portando i più noti assi del ciclismo mondiale ad omaggiare il monumento di Rambelli prima della partenza della corsa. È proprio una foto di questa competizione del 13 maggio 1951 a ribadire anche la sacralità repubblicana di quel prestigioso palcoscenico. Nell’immagine ufficiale che precede l’avvio della gara, oggetto di un servizio della Settimana Incom, rendono omaggio all’eroe, fra le autorità cittadine, Fausto Coppi che arriverà secondo, Gino Bartali che sarà nono al traguardo, il belga Alberic Shotte campione del mondo in carica e lo svizzero Ferdi Kübler che pochi mesi dopo lo sarebbe diventato. È assente Fiorenzo Magni, vincitore poi di quell’edizione, emarginato dalla rituale posa per via dei suoi trascorsi nella Rsi [Casadio 2019, 19].
Ma anche altre pose della ritualità civile o sportiva possono documentare il pieno recupero identitario del monumento a Baracca nel sentimento popolare cittadino, anche quando forti pregiudiziali politiche facevano del recente passato motivo di profondi rancori.
Nel 1956 il corpo dei netturbini comunali si fa ritrarre in posa davanti al monumento per festeggiare l’introduzione del nuovo camioncino attrezzato per la raccolta meccanica dei rifiuti [Casadio 2019, 107]; nel 1970 un gruppo di giovani tifosi scalmanati si fa riprendere in costumi messicani ai piedi del monumento, dopo la vittoria per 4 a 3 nella storica partita con la Germania, orgogliosi di essere penetrati all’interno della grande ala per appendervi una bandiera tricolore [Casadio 2019, 37]. Pochi anni dopo altre immagini pubbliche ritraggono, sempre ai piedi di Baracca, una grande manifestazione di protesta sindacale, un raduno contro i rigurgiti fascisti e una iniziativa ambientalista dei Verdi del comprensorio lughese, con punto di ritrovo sul monumento [38].
Se si esclude un indignato articolo del professor Marcello Savini [39], che negli anni Ottanta, sul periodico «BassaRomagna», chiedeva la rimozione del monumento dalla piazza centrale, ritenendolo opera di regime non degna di quella collocazione, restano tutt’oggi numerose le occasioni scelte per le foto di gruppo sul complesso monumentale ideato da Domenico Rambelli, come quella dei dipendenti di una nota ditta di cavi elettrici che festeggia lì i 40 anni di attività, o come tante altre associazioni cittadine. L’ultimo attestato di un’appartenenza largamente condivisa resta il voto all’unanimità con il quale il Consiglio comunale di Lugo approvava nel 2013 una spesa considerevole per la pulizia, il restauro e una nuova illuminazione, tutta dedicata al monumento.
Dopo un lungo silenzio che sapeva di epurazione, l’opera di Rambelli ha conosciuto, dagli anni Ottanta in poi una profonda rivalutazione che torna a collocare l’autore oggi tra i più significativi della scultura italiana del Novecento. A cominciare da Renato Barilli che nel 1980 presentò una sua grande mostra personale dell’artista a Faenza, per arrivare alle lusinghiere citazioni di Antonio Paolucci, di Philippe Daverio, di Dino Gavina, fino all’enfasi patriottica di Beatrice Buscaroli.
Orsola Ghetti Baldi, probabilmente la storica dell’arte romagnola più attenta e vicina all’opera di Domenico Rambelli, così concludeva un suo saggio del 1988:
Rambelli merita in pieno di primeggiare in questa rivalutazione per aver raggiunto nel nostro paese gli esiti più felicemente allineati con la miglior scultura europea del nostro tempo ed essere compreso nel novero di quegli artisti che sono stati fautori del rinnovamento del Novecento italiano: Soffici, Carrà, Casorati, Severini, Sironi, De Chirico, Morandi, Campigli, Rosai, Messina, Marini, Manzù. Lo stile grandiosamente conciso, coerente e inconfutabile ne determina al di là di ogni dubbio la statura artistica di primo piano [Domenico Rambelli 1988, 24].
Un contributo decisivo a riscattare l’opera di Rambelli e ad allontanarla dalla mediocre produzione di regime è venuto infine dal giudizio di Vittorio Sgarbi che, dopo aver ironicamente immaginato nel monumento la mano di Altan, il vignettista de L’Espresso creatore dell’operaio Cipputi, per via della tuta rigonfia, nel 2018 ha scritto che:
Rambelli è stato un grande scultore, antiretorico pur durante il fascismo e con soggetti che il fascismo prediligeva… lo scultore che ha rappresentato la dimensione monumentale del fascismo, attraverso una visione, però, assolutamente personale e originale. Tra i grandi, è il paradigma dell’artista fascista senza che il fascismo abbia in qualche modo proiettato la propria ombra su di lui [Sgarbi 2018, 191-192].
In conclusione, se il plauso al monumento di Baracca fu, in epoca fascista, prodotto e alimentato dal regime per finalità politiche ed autocelebrative, si può dire che, anche in epoca repubblicana, il mito dell’eroe lughese e il suo celebre memoriale sono sopravvissuti intatti, in virtù di altre discipline e codici civili di forte impatto popolare che hanno saputo ammirare nella grandiosità dell’opera di Rambelli la benevolenza per l’aviatore insieme alla celebrazione della modernità e delle cavalleresche sfide sportive [40]. Può esserne prova il fatto che, dal dopoguerra ad oggi, non risulta che il monumento a Baracca abbia subito atti vandalici o dimostrazioni offensive di qualche rilievo.
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Risorse
- A Milano si inaugura il monumento a Francesco Baracca
https://www.youtube.com/watch?v=C7bADFqzbNo - La celebrazione di Francesco Baracca
https://www.youtube.com/watch?v=ZWITAOZtemE - Centenario della morte di Francesco Baracca
https://www.youtube.com/watch?v=QVtS22XZ6uU - Francesco Baracca. Asso degli assi
https://www.youtube.com/watch?v=CV4E3ZxSnAw - Francesco Baracca, l’asso degli assi dell’aviazione italiana
https://www.youtube.com/watch?v=Eg1J1wD3gNc - Francesco Baracca 2021 – Cavaliere e aviatore
https://www.youtube.com/watch?v=sSIL9aiFNFQ - L’inaugurazione del monumento dedicato a Francesco Baracca
https://www.youtube.com/watch?v=WmuiBoFhr3Y - Lugo 19 giugno 2018
https://www.youtube.com/watch?v=Jxjlv3ieKTM
Note
1.
Curioso notare come tale espressione, più volte ricorrente sulla stampa encomiastica del regime fascista, sia poi stata utilizzata come parola in codice per le decisive comunicazioni tra i partigiani di Lugo e gli Alleati pronti ad entrare in città nell’aprile 1945.
2. È questa l’ipotesi più ricorrente tra le varie narrazioni circa la morte del pilota, raggiunto da un proiettile non meglio identificato. Altre versioni attribuiscono l’abbattimento dell’aereo di Baracca ad opera di un equipaggio della 28a compagnia delle forze aeree austriache. Infine si è fatta strada l’ipotesi del suicidio a cui, una volta colpiti, alcuni piloti ricorrevano per evitare di perire tra le fiamme dell’aereo. Tale versione è basata sul fatto che la pistola Glisenti di Baracca fu trovata fuori dalla custodia, in prossimità del corpo senza che sia mai stata analizzata la provenienza del colpo, rimasto dentro al cranio del pilota [Guerrini, Pluviano 2000, 144-146].
3. Si può dire che inizia subito dopo la morte la copiosa produzione di saggi e monografie sulla vita di Baracca, ricca ormai di una trentina di titoli, curati da storici militari e da cultori di storia locale. Nell’impossibilità di citarli tutti ci preme far presente i lavori più recenti come l’indagine tutta incentrata sulle circostanze relative alla fine dell’eroe lughese: Antonellini 2020; e l’attesa pubblicazione integrale dell’epistolario di Baracca in Varriale, Garuffi 2021.
4. Archivio storico Comune di Lugo (d’ora in poi ASCL), 1918, Magistrati 4, Onoranze funebri a Francesco Baracca. Le carte relative a Baracca e al monumento sono consultabili presso la biblioteca Trisi di Lugo.
5. «Uscito nel 1909 dopo due anni dall’Accademia Militare di Modena, si avvicinò nel 1912, infatti, all’aviazione senza sentire in sé ardere alcun fuoco sacro. […] Le trasfigurazioni dannunziane del mito dell’aeronautica, intrise di sacri destini e di superominismo, gli sono assai lontane» [Varni 1984, 205].
6. Per non dare pensiero alla madre preoccupata per i rischi delle nuove macchine volanti, Francesco l’aveva tranquillizzata dicendo di recarsi all’estero per studiare le lingue [Varriale 2006, 14].
7. L’analisi più recente di queste lettere ha dimostrato come nelle prime pubblicazioni della corrispondenza con i genitori questi abbiano emendato alcune frasi di Francesco, per motivi familiari più che politici, allo scopo di costruirne un’immagine più conforme allo stile di vita irreprensibile dell’eroico ufficiale di cavalleria. Si veda in proposito Guerrini, Pluviano 2000, 152.
8. ASCL, 1918, Magistrati 4, Onoranze funebri a Francesco Baracca.
9. Nei maggior paesi europei l’erezione dei grandi monumenti ai caduti è stata veicolo, non solo di intenti commemorativi, ma anche di forti idealità politiche, volte a rielaborare in funzione consolatoria il trauma della morte di massa. Sul culto dei caduti si vedano in particolare: Mosse 1990; Gentile 1993; Winter 1998; Isnenghi 2010; Janz, Klinkhammer 2008; Miniero 2008.
10. Al di là degli effetti militari il fascismo celebrò continuamente il mito del volo, che sintetizzava in sé due cardini dell’enfasi futurista come la velocità e la modernità; Mussolini dedicava molto spesso una rubrica del «Popolo d’Italia» all’aviazione, mentre Nello Quilici, direttore del «Corriere Padano», scriveva che «non si può essere aviatori senza essere fascisti» [Emiliani, Antonellini, Filippi 2001, 11].
11. Per una interessante disamina delle cause che fin dagli anni della Grande guerra alimentarono il mito e la popolarità dei primi aviatori si veda Pluviano 2008.
12. Fa eccezione a questo periodo di austerità, l’inaugurazione a Milano del monumento a Francesco Baracca nel settembre 1931 in quanto l’opera fu offerta a quella municipalità da Giuseppe Monfrini, fratello di Silvio autore della scultura, e voluta dal gruppo Camicie nere di Milano.
13. «Corriere Padano», 20 ottobre 1934, 1.
14. ASCL, 1936, Comitato Pro Francesco Baracca, Carteggio 1925-1936.
15. Lugo ebbe infatti, oltre a Francesco Baracca, altre tre medaglie d’oro assegnate rispettivamente ad Aurelio Baruzzi, il liberatore di Gorizia, al tenente Giovanni Bertacchi e al fante Antonio Calderoni, caduti entrambi sull’altopiano di Asiago nel 1917 e nel 1916. Le 44 medaglie d’argento al valor militare di altri lughesi non portarono ad alcun riconoscimento.
16. ASCL, 1918, Magistrati 4, Onoranze funebri a Francesco Baracca.
17. Ibidem.
18. ASCL, 1926, Visita S.A.R. il Principe di Piemonte per le Onoranze a Francesco Baracca, Album fotografico La venuta a Lugo di S.A.R. Umberto di Savoia per le onoranze a Francesco Baracca. 16 giugno 1926. «Il servizio fotografico, commissionato dall’Amministrazione comunale, è stato realizzato dalla Premiata Fotografia G. Gorini di Lugo rivelandosi non solo la testimonianza di un avvenimento importante per la città, ma un’interessante documentazione per studi di tipo storico e sociale. Umberto di Savoia era accompagnato dal generale Clerici e a Lugo erano presenti oltre ai genitori di Francesco Baracca, Enrico e Paola Biancoli, le maggiori cariche pubbliche locali tra le quali il Sindaco, Edgardo Nostini, il Pretore Giuseppe Palmintieri, il vescovo di Imola mons. Paolino Tribboli, deputati e senatori (Giuseppe Albini, Luigi Rava, Corrado Ricci) e molti cittadini»: Medri 2003, 242.
19. ASCL, 1936, Comitato Pro Francesco Baracca, Carteggio 1925-1936.
20. Ibidem.
21. Ibidem.
22. Ibidem.
23. Ibidem. Anche in Orlandini 2018, 23.
24. «Ad Maiora», numero unico per l’inaugurazione del monumento a Francesco Baracca, 21 giugno 1936, 13.
25. ASCL, 1936, Categoria 10, Classe 10, f. 2, Pratiche monumento Francesco Baracca, b. Comitato d’Onore per il monumento.
26. «Ad Maiora», numero unico per l’inaugurazione del monumento a Francesco Baracca, 21 giugno 1936, 12.
27.
È l’espressione che ricorre in più pagine della stampa locale per descrivere la giornata del 21 giugno 1936.
28. Lugo per Francesco Baracca. Lo scultore e il monumento, in «La costa verde adriatica», 1 (gennaio 1936), 5.
29. ASCL, 1936, Categoria 10, Classe 10, f. 2, Pratiche monumento Francesco Baracca, b. Onoranze.
30. Questa è la cifra riportata nel sottotitolo della prima pagina del settimanale della Federazione fascista ravennate «Santa Milizia» del 27 giugno 1936. Più credibile la cifra riportata dalle cronache lughesi di Pasquale Rignani che parlano invece di circa 30.000 persone convenute in città [Rignani 1973, 120].
31. ASCL, 1936, Categoria 10, Classe 10, f. 2, Pratiche monumento Francesco Baracca, b. Onoranze.
32. Ibidem.
33. La manifestazione aviatoria, in «Il Messaggero. Settimanale di Lugo», 27 giugno 1936, 2.
34. ASCL, 1936, Categoria 10, Classe 10, f. 2, Pratiche monumento Francesco Baracca, b. Onoranze.
35. L’inaugurazione del monumento, in «Santa Milizia» 27 giugno 1936, 1.
36. La presenza di questa icona, come la tomba di Dante a Ravenna, l’arco di Augusto a Rimini, San Mercuriale a Forlì, a parte la casa del duce a Predappio, sopravvive ancora oggi in versione pop, stampata a mo’ di gioco dell’oca sulle salviette da tavolo offerte ai turisti nelle varie case del vino romagnolo. Circa gli effetti promozionali e turistici avviati dal fascismo nella terra del duce con tale iconografia convenzionale si veda il testo fondamentale Balzani 2001, 174-177.
37. Il testo di Guerrini e Pluviano riporta una vulgata molto diffusa in città nell’immediato dopoguerra ma la tentazione dell’abbattimento non può essere attribuita a militari canadesi, come scrivono gli autori, in quanto essi avevano abbandonato l’Italia nel febbraio 1945. Più probabilmente si trattò di una reazione maturata fra gli ufficiali dell’VIII armata britannica.
38. Archivio Istituto Storico Ravenna, fondo Marina Guerra. Anche in Guerra 1989, 50.
39. Scrittore e docente di Lettere al Liceo classico di Lugo.
40. Si veda in proposito il recente volume Deggiovanni, Roncuzzi 2018.