1. Introduzione
Nell’ottobre 2017 – durante le settimane di dibattito infuocato sul monumento al generale confederato Robert E. Lee a Charlottesville – la storica americana e docente di History and Italian studies Ruth Ben-Ghiat pubblica un articolo sulla rivista «New Yorker» dal titolo Why Are so Many Fascist Monuments still Standing in Italy? L’articolo commenta l’apparente pacifica convivenza dei cittadini italiani con le tracce materiali del regime fascista, presenti in ogni angolo della Penisola. Ben-Ghiat descrive la noncuranza dei cittadini – e soprattutto delle istituzioni – nel relazionarsi con i monumenti e le architetture del ventennio fascista. L’autrice commenta, ad esempio, la conferenza stampa tenuta da Matteo Renzi nel 2014, in occasione della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024, svoltasi di fronte all’affresco L’apoteosi del fascismo, presso la sede del Coni al Foro italico: «It would be hard to imagine Angela Merkel standing in front of a painting of Hitler on a similar occasion» [Ben-Ghiat 2017]. L’articolo di Ben-Ghiat, se letto con attenzione, non ha obiettivi iconoclastici o di promozione di una damnatio memoriae tardiva. Al contrario, il testo cerca di evidenziare un dato di fatto, spesso ignorato dalla società italiana, ovvero la presenza diffusa e ingombrante di monumenti che ancora oggi, oltre settant’anni dopo la caduta del regime, ricordano il ventennio fascista e non sono opportunamente inseriti in una cornice interpretativa che permetta invece di comprenderli con gli occhi della storia e non quelli della nostalgia. Tuttavia, l’articolo di Ben-Ghiat ha scatenato un dibattito particolarmente acceso [Giacobone 2017; Gentile 2017], che spesso è sfociato in accuse misogine e razziste nei confronti della studiosa [Arthurs 2019]. Inoltre, il testo è stato presto inserito all’interno del più ampio dibattito sulla proposta di legge Fiano contro la propaganda fascista, in discussione alla Camera in quei mesi. Come ha scritto Elena Pirazzoli nel saggio di apertura di questo dossier, i monumenti pubblici – in apparenza “impermeabili” e nascosti alla vista, come descritti da Robert Musil – sono in realtà pericolosamente infiammabili in certi momenti della storia. Tra il 1943 e il 1945, i monumenti promossi dal fascismo hanno bruciato in diversi luoghi d’Italia, attraversando un processo di damnatio memoriae da parte di una popolazione che aveva perso la fiducia nel regime. Oggi, tali monumenti prendono metaforicamente fuoco solo in poche occasioni e la pubblicazione dell’articolo di Ben-Ghiat è stata una di queste.
L’azione pervasiva del regime fascista in Italia ha avuto degli effetti di lunga durata che vanno ben oltre la cornice temporale 1922-1945. Istituzioni, enti pubblici, figure politiche, leggi, proverbi, mitologie: tanto è rimasto del fascismo nella società italiana dopo la morte di Benito Mussolini. Ancora oggi si può dire che i conti col regime fascista non sono mai stati chiusi del tutto [Filippi 2020]. Come ha rilevato Ben-Ghiat, tra le tracce più evidenti del totalitarismo in Italia vi è la manipolazione dello spazio pubblico, attraverso monumenti, lapidi, targhe e opere d’architettura. Negli oltre vent’anni di governo fascista, il regime è riuscito a modellare una versione materiale e fisica di sé, sponsorizzando monumenti in grado di veicolare un senso di coesione nazionale e, soprattutto, di egemonia del proprio potere politico. La presenza di tanti monumenti promossi dal regime all’interno dello spazio pubblico crea un legame indissolubile tra la propaganda monumentale e la scala urbana, che diventa uno sfondo architettonico spesso imprescindibile dal monumento stesso. Inoltre, l’architettura pubblica promossa dal regime ha assunto una dimensione monumentale, capace al tempo stesso di accogliere alcune funzioni a servizio della comunità e di essere intrinsecamente legata ad ambizioni di propaganda politica. Per questo motivo è importante considerare la dimensione architettonica che accoglie la presenza – e l’assenza – di statue, obelischi e altri segni del potere totalitario. L’architettura e le opere monumentali sono state uno strumento prediletto per «educare le masse in senso fascista», «elemento indispensabile della svolta totalitaria del regime» [Nicoloso 2008, xvi]. Questo «fascismo di pietra», come lo ha definito lo storico Emilio Gentile [Gentile 2007], ha avuto un peso rilevante nella formazione dello Stato fascista e nella creazione di un generale consenso tra i cittadini. Al tempo stesso, la produzione artistica e architettonica del regime non è stata unitaria, ma ha seguito mode, estetiche, preferenze politiche. È infatti complesso definire cosa sia l’architettura e l’arte “fascista”: si tratta infatti di un linguaggio frammentato, influenzato dalle stesse figure artistiche che lo hanno creato e che hanno tentato di inserirsi nelle pieghe del potere di Mussolini, cristallizzandosi in un linguaggio maggiormente unitario solo dopo la guerra in Etiopia nel 1935-36 [Nicoloso 2008, xxvii].
Oggi, in tante città d’Italia, la quotidianità si svolge ancora su uno sfondo architettonico definito durante il Ventennio. Alcuni contesti urbani presentano tracce rarefatte del passato regime, in alcuni casi invece i segni sono particolarmente densi. Roma, senza dubbio, come capitale d’Italia e dell’impero, culla del mito della “romanità” [Arthurs 2012; Kallis 2014] è la città che ha subìto maggiormente l’influenza del fascismo, e dove sono stati innalzati i monumenti artistici e architettonici più rilevanti del regime. Lontano da Roma, un territorio che più di altri è stato plasmato fisicamente dalla retorica fascista e che ancora oggi presenta tracce indelebili delle politiche del regime è la Romagna. Terra natale di Mussolini, da Predappio a Ravenna, da Forlì a Bologna, in questa regione la capacità trasformativa del regime nei confronti dello spazio pubblico è stata particolarmente evidente [Balzani 2001, 145-189].
Questo saggio ha tre obiettivi. Per prima cosa intende ripercorrere la complicata relazione che la società italiana ha instaurato con i segni tangibili del regime fascista nello spazio pubblico, dal dopoguerra a oggi, adottando le categorie di undesirable e difficult heritage, spesso usate come lenti attraverso cui leggere l’eredità materiale dei regimi totalitari. In secondo luogo, si vuole valutare il modo in cui oggi, in Italia, si affronta l’eredità materiale fascista intesa come patrimonio da salvaguardare e restaurare, la cui dimensione storica e politica è talvolta ridotta a canoni puramente estetici e tecnologici. Infine, il saggio ha l’obiettivo di evidenziare la rilevanza dei monumenti pubblici promossi dal regime in Romagna, analizzando in particolar modo il loro rapporto con la città contemporanea [1].
2. Dopo il littorio: dalla damnatio memoriae al difficult heritage
Alla caduta del regime, molte delle sue manifestazioni materiche e artistiche sono state in parte distrutte o danneggiate da un processo di damnatio memoriae che è iniziato nel luglio 1943. Numerosi fasci littori che marcavano gli edifici pubblici sono stati scalpellati – spesso solo “neutralizzati” dalla rimozione degli elementi rappresentanti le asce [Benton 1999, 218] –, alcune statue di Mussolini demolite o trafugate, le iscrizioni con accenni all’“era fascista” (E.F.) cancellate. Queste assenze hanno generato quello che Rodney Harrison chiama «absent heritage», tramite un processo di “umiliazione” dei simboli del regime politico appena caduto [Harrison 2013, 172-173].
Tuttavia, nonostante le “presenze negative o fantasma” che si percepiscono ancora nello spazio pubblico, la “finestra di opportunità” per un’azione iconoclasta pervasiva è stata soffocata sia dall’occupazione tedesca, sia dalla presenza militare alleata [Arthurs 2014, 288-289]. Alla fine del conflitto, tanti segni tangibili del regime sono rimasti intoccati e, conclusa la delicata fase di transizione da monarchia a repubblica, la società ha imparato a convivere con le tracce di un regime fallito. Le Case del fascio sono diventate municipi e caserme, le Case del balilla scuole e palestre, le lapidi apposte per ricordare le “inique sanzioni” sono state trasformate in lapidi per ricordare i caduti partigiani o altre memorie [Wu Ming 2 2020]. Ancora oggi, il panorama di qualsiasi ordinaria città italiana è segnato, in modo più o meno intenso, dalle tracce del fascismo – architettoniche, urbanistiche e monumentali [Cianfarani 2020].
Questo patrimonio, poiché eredità di un regime totalitario e divisivo, è spesso interpretato come difficult heritage – un patrimonio difficile, complesso, che divide l’opinione pubblica e le cui tracce non sono facilmente ignorabili nella quotidianità. Difficult heritage è una definizione coniata dall’antropologa e studiosa britannica Sharon Macdonald, in relazione al patrimonio architettonico e monumentale della Germania nazista, in particolar modo a Norimberga. Già nel 1995 John Tunbridge e Gregory Ashworth, studiosi di geografia e turismo, avevano proposto la definizione di dissonant heritage, avanzando l’idea che ogni tipo di patrimonio abbia una natura divisiva, perché contemporaneamente abbraccia ed esclude parte della società [Tunbridge & Ashworth, 1995]. Nel 2006, Macdonald riprende questa categoria proponendo una nuova definizione: undesirable heritage, ovvero patrimonio non desiderabile, poiché scomodo – «a heritage that the majority of the population would prefer not to have» [Macdonald 2006, 9]. Secondo Macdonald, il patrimonio formato da una cultura materiale può essere interpretato come una prova tangibile di una identità o di una certa ideologia [Macdonald 2006, 11]. Il rischio, nel caso della cultura materiale di un regime totalitario, è la sua capacità non solo di ricordare un certo momento storico, ma di continuare a veicolare il messaggio propagandistico originale, «generating an inappropriate identification» [Macdonald 2006, 16].
Qualche anno più tardi, il patrimonio prima percepito come “dissonante” e “non desiderabile” diviene, infine, “difficile”:
a past that is recognised as meaningful in the present but that is also contested and awkward for public reconciliation with a positive, self-affirming contemporary identity. Difficult heritage may also be troublesome because it threatens to break through into the present in disruptive ways, opening up social divisions, perhaps by playing into imagined, even nightmarish, futures. [Macdonald 2009, 1].
La difficoltà di questo patrimonio sta quindi nell’essere riconosciuto e vincolato come bene storico-artistico e, al tempo stesso, essere potenzialmente divisivo e angoscioso per il tempo presente. È tuttavia importante ricordare che la definizione di difficult heritage non si limita necessariamente ad una correlazione tra patrimonio e regime totalitario. In alcuni casi, questa definizione è stata estesa ai siti di eventi traumatici, come genocidi o massacri, prigioni, campi di concentramento, cimiteri di guerra [Logan, Reeves 2009], definiti da Patrizia Violi come siti del trauma [Violi 2014]. In altri casi, difficult heritage è quel patrimonio il cui ricordo fa emergere condizioni passate di difficoltà economiche e sottosviluppo sociale. In Islanda, ad esempio, l’antropologo Sigurjón Baldur Hafsteinsson definisce come patrimonio difficile le case di torba della tradizione contadina, che ricordano una vita di stenti e un’arretratezza che la società islandese contemporanea vorrebbe dimenticare [Hafsteinsson, Jóhannesdóttir 2015]. Il largo campo di applicazioni dell’etichetta difficult heritage – che va ben oltre l’ambito architettonico, entro il quale questa definizione è stata coniata – ci permette subito di comprendere la complessità del rapporto che necessariamente una società instaura col patrimonio artistico e culturale ereditato dal proprio passato.
Gli studi di Macdonald si concentrano sulle tracce materiali della Germania nazista e non fanno accenni al patrimonio del regime fascista in Italia. Tuttavia, molti studiosi hanno seguito le sue tracce e hanno interpretato il lascito del fascismo nello spazio pubblico come patrimonio undesirable o difficult [Arthurs 2010; Hökerberg 2018; Carter, Martin 2019; Belmonte 2019; Bartolini 2020]. È evidente come la maggior parte degli studi legati al difficult heritage dell’Italia fascista siano stati realizzati – con pochissime eccezioni – da studiosi attivi presso istituzioni non italiane. Sembra infatti che la coesistenza con i monumenti risalenti all’era fascista non abbia ancora creato una consapevolezza collettiva in Italia. La convivenza con la cultura materiale del fascismo, che continua da quasi un secolo, ha definito un rapporto tra la società italiana e i monumenti del regime che oscilla tra la noncuranza e l’elogio – un rapporto che la studiosa e antropologa americana Mia Fuller dice essere caratterizzato da una «inertia memoriae» [Fuller 2021] [2].
Non è stato sempre così. Nell’immediato dopoguerra, molte voci hanno espresso una dura opposizione contro le politiche architettoniche del regime. L’archeologo e giornalista Antonio Cederna, ad esempio, ha criticato aspramente le visioni urbane del Ventennio e le tante demolizioni compiute nei centri storici italiani [Cederna 1956; Cederna 1979]. Al tempo stesso, dopo la fine della guerra si è presto definita una spaccatura che ancora caratterizza il nostro rapporto con l’architettura e la monumentalità del fascismo. Da un lato si è applaudito ai risultati “buoni” dell’architettura di regime, ovvero quanto catalogabile come “razionalismo”: quello che lo storico dell’architettura e critico Bruno Zevi ha definito «la più eroica e tragica pagina di resistenza artistica alla dittatura» [Zevi 1975, 161]. Dall’altro è stata criticata la «maschera pseudo-moderna della megalomania classicistica» [Zevi 1948, 114], ovvero l’architettura di Marcello Piacentini e della scuola romana. Nel 1972, Cesare De Seta ha pubblicato La cultura architettonica italiana tra le due guerre, battezzando la scuola romana d’architettura come «una scuola a delinquere», in grado di creare «una santa alleanza in cui colludono potere politico, potere economico e potere accademico» [De Seta 1972, 150]. Le sette caratteristiche che, secondo Zevi, identificano l’architettura del fascismo – dalla simmetria all’uso della pietra, dagli «spazi statici e monumentali» all’isolamento dell’edificio dal contesto [Zevi 1993, 146] – hanno avuto una lunga influenza nel modo in cui valutiamo e percepiamo gli esiti architettonici del regime fascista. Seguendo il punto di vista di Zevi, il razionalismo di architetti come Giuseppe Terragni e Adalberto Libera è interpretabile come segretamente democratico. Al contrario, i capricci di Armando Brasini e la monumentalità di Piacentini sono percepiti come il vero volto del regime fascista. Il risultato di questa categorizzazione è spesso esplicitato in una semplificazione molto comune, per la quale «a Fascist architect must be a bad architect, and, a more slippery corollary, a good architect cannot really have been a Fascist» [Benton 1999, 214].
Tuttavia, le tracce del fascismo sono variegate: dalla monumentalità di Piacentini al razionalismo pulito e astratto di Terragni, in entrambi i casi si assiste ad un’architettura pensata per fini ideologici e di propaganda. Anzi, spesso proprio gli architetti più giovani e più vicini all’estetica del movimento moderno condividevano pienamente le politiche e le ideologie del regime. Questo doppio sistema di valori ha, per molto tempo, alterato la storiografia sull’architettura del fascismo, eliminando qualsiasi accenno alla dimensione politica delle opere del razionalismo [Fuller 2020, 260]. Se questa frattura negli ultimi decenni è stata ampiamente sanata all’interno della comunità scientifica, grazie al lavoro di numerosi storici dell’architettura in Italia e all’estero [Ghirardo 1980; Doordan 1988; Ciucci 1989; Nicoloso 1999], nella dimensione pubblica c’è ancora notevole confusione sulla percezione delle architetture e dei monumenti costruiti durante il Ventennio. La separazione tra valore estetico e messaggio politico della cultura materiale fascista è forse l’ostacolo maggiore nella formazione di un dibattito collettivo sul difficult heritage del regime in Italia. Senza nulla togliere ai pregi estetici dell’arte e dell’architettura del periodo fascista, la comprensione delle ideologie politiche intrinseche di queste opere rappresenta un passaggio fondamentale per la loro contestualizzazione storica e comprensione nel momento presente. Al ricco dibattito storiografico sulle tracce architettoniche e monumentali del regime, negli ultimi decenni si è aggiunto un secondo livello interpretativo. La cultura materiale del regime è infatti diventata patrimonio, a tratti difficile, a tratti estetizzato, ma sempre inteso come bene culturale da tutelare e restaurare.
3. La cultura materiale del regime fascista e la tutela del patrimonio storico-artistico
Negli ultimi anni, l’architettura del Novecento in Italia è stata sempre di più al centro di un’attenzione pubblica che ha unito operazioni di restauro a denunce collettive in caso di abbandono o demolizione. Grazie al lavoro di associazioni che si occupano di documentazione, conservazione e valorizzazione dell’architettura del Novecento – un esempio tra tutte è Docomomo Italia [3] – l’architettura e le opere pubbliche costruite durante il Ventennio hanno ottenuto notevole diffusione mediatica [4]. Anche le arti visive realizzate durante il regime hanno attraversato un simile processo di riscoperta. Un esempio su tutti è l’affresco L’Italia tra le arti e le scienze di Mario Sironi (1935) nell’Aula magna dell’Università La Sapienza di Roma, il cui restauro è stato inaugurato nel novembre 2017 ed è stato salutato dalla stampa come «la fine di un’epoca iconoclasta» [Bartolini 2020, 25].
La tutela dell’architettura del Novecento è, per ovvi motivi cronologici, un’esigenza relativamente recente. Al momento, possono essere oggetto di tutela diretta solamente opere d’architettura, pubbliche e private, costruite da almeno settant’anni. Nonostante tale misura abbia stimolato un dibattito articolato, non immune da critiche da parte di esperti e conservatori [Carughi 2012], questo significa che la totalità degli edifici costruiti in epoca fascista è, potenzialmente, tutelabile con un vincolo. Da un lato, queste misure hanno portato a importanti interventi di conservazione – si pensi al restauro dell’ex Casa della Gil (Gioventù italiana del littorio) a Trastevere, progetto di Luigi Moretti. Al tempo stesso, numerosi gruppi di ricerca hanno approfondito le tecniche di restauro dell’architettura moderna in Italia, con particolare attenzione alla conservazione dei fragili materiali edilizi utilizzati durante l’autarchia [Di Resta, Favaretto, Pretelli 2021]. D’altro canto, tuttavia, l’imposizione di un vincolo di tutela ha portato ad un ulteriore appiattimento della dimensione politica originaria di certe architetture e opere artistiche, ostacolando interventi di risignificazione di un patrimonio che, seppur tutelato, rimane “difficile”. Come ha notato Macdonald nel 2018, non esistono siti Unesco relativi a beni architettonici-culturali legati ai regimi totalitari del Novecento. Tuttavia, le architetture costruite da regimi totalitari sono sempre più tenute in considerazione dalle legislazioni nazionali e, spesso, tutelate come beni culturali. Da un lato, si tratta di una situazione senz’altro positiva: la tutela di un bene architettonico-artistico implica la sua conservazione, e quindi la possibilità che tale bene possa essere utilizzato per progetti educativi e riflessioni collettive [Macdonald 2018, 283]. Tuttavia, il vincolo rischia anche di far percepire il patrimonio del totalitarismo come una delle tante eredità del passato, estetizzandone la dimensione artistica e dimenticando di contestualizzare la sua portata politica e ideologica.
Mentre si discute su come, tecnicamente, restaurare il patrimonio dell’architettura moderna in Italia [Morelli, Losi 2021], si assiste a un generale silenzio sulla portata simbolica ancora evocata da alcuni edifici costruiti durante il Ventennio. Sono rare le operazioni di restauro durante le quali si è cercato di conciliare la conservazione della struttura con un processo di conoscenza della funzione originaria dell’edificio e, soprattutto, del significato delle opere in esso contenute. Un esempio evidente è proprio quello dell’ex Casa della Gil a Trastevere: un edificio più volte definito come «manifesto esplicito del razionalismo romano» [5], del quale sono giustamente celebrate le caratteristiche tecniche e spaziali. Lo stesso edificio, tuttavia, è corredato da opere come la grande parete in stucco che rappresenta le imprese coloniali in Africa, nella sala Globo, e il motto «Necessario vincere, più necessario combattere» sulla parete esterna della torre littoria. Di questi tetri ed espliciti accenni alla violenza militare e coloniale del regime, tuttavia, il sito di WeGil – così si chiama «l’hub culturale della Regione Lazio» – non dedica neanche una parola. Simili approcci alla conservazione che valorizzano l’estetica e ignorano la dimensione politica delle architetture e delle opere d’arte sono purtroppo comuni – si pensi ad esempio al Palazzo della civiltà italiana all’Eur, dal 2013 Maison Fendi e ormai interpretato unicamente come elegante simbolo del made in Italy [Somma 2020].
Un’eccezione alla regola si può rintracciare a Bozen/Bolzano, dove due interventi di restauro di monumenti prodotti durante il fascismo sono stati affiancati da operazioni di contestualizzazione della dimensione storica e di risignificazione del messaggio politico totalitario. Le opere interessate sono il Monumento alla vittoria, progetto di Piacentini costruito tra il 1926 e il 1928 per marcare il controllo fascista e, di fatto, colonialista del territorio sudtirolese, e l’ex Casa del fascio, costruita tra il 1939 e il 1942 da Guido Pelizzari, Francesco Rossi e Luis Plattner, ora sede di uffici della Provincia di Bolzano. Dopo decenni di contestazioni, spesso violente, attorno al progetto di Piacentini, tra il 2011 e il 2014 il Monumento alla vittoria è stato protagonista di un progetto intitolato BZ ’18-’45. Un monumento, una città, due dittature, che lo ha trasformato in un centro espositivo e di documentazione dedicato al nazi-fascismo in Sudtirolo [6]. Esteriormente, nessuna variazione fisica al manufatto, se non l’apposizione di un anello led attorno a una delle colonne, conformate da Piacentini come giganteschi fasci littori. L’anello riporta continuamente una scritta luminosa con il titolo dell’installazione, ma al tempo stesso destabilizza la simmetria ieratica del progetto originale, de-monumentalizzandolo e modificandone l’equilibrio visivo [Schnapp 2020, 541].
Anche l’ex-Casa del fascio di Bolzano è stata oggetto di un depotenziamento politico e risignificazione artistica. Il fronte dell’edificio è infatti caratterizzato da un immenso bassorilievo dello scultore Hans Piffrader, completato solo nel dopoguerra, raffigurante Mussolini a cavallo al centro di una composizione che celebra il trionfo del fascismo, corredata dal motto «Credere, obbedire, combattere». Nel 2011, la Provincia di Bolzano ha lanciato un concorso di idee per un «intervento di storicizzazione» della facciata [7], vinto dagli artisti Arnold Holzknecht e Michele Bernardi, che hanno sovrapposto al bassorilievo una citazione di Hannah Arendt riportata in caratteri illuminati a led, «Nessuno ha il diritto di obbedire», in italiano, tedesco e ladino. Nella piazza di fronte all’edificio, inoltre, sono state installate alcune tavole che spiegano la storia del monumento e le motivazioni dell’operazione artistica. Nonostante la resistenza da parte di gruppi politici dell’estrema destra [8] e di associazioni come Italia nostra [9], la particolare sensibilità che la Provincia di Bolzano ha mostrato nei confronti del rapporto tra la società contemporanea e le tracce del regime fascista ha le sue radici nella particolare storia sociale e amministrativa della città e del suo territorio, e negli effetti di lunga durata della dominazione fascista [Favargiotti, Busana, Cappelletti 2020]. Tuttavia, l’attenzione mostrata dalla città di Bolzano nel lavorare con le tracce scomode, spesso contestate, di un passato totalitario rimane, purtroppo, un esempio isolato nel panorama italiano. La maggioranza degli interventi del regime sullo spazio pubblico in Italia rimangono tracce ignorate di un messaggio politico che ancora parla di sé stesso, rappresentando contemporaneamente una vittoria e un fallimento dell’ideologia fascista [Canevari 2020, 484]. Se ignorato e trattato alla stregua di altre eredità del passato, questo patrimonio spesso rischia di diventare il baricentro di nostalgie politiche e pellegrinaggi, come ad esempio accade attorno all’obelisco Mussolini Dux presso il Foro italico [Arthurs 2010]. Come afferma Flaminia Bartolini, dopo una fase di reticenza e rimozione, l’eredità materiale del regime in Italia è oggi percepita come una «fonte di fascino» ed è spesso legata ad una «preoccupante» sensazione di «orgoglio fascista» [Bartolini 2020, 30].
4. Nella regione di Mussolini: monumenti, architetture, spazio pubblico
L’alta densità di opere pubbliche e monumenti lasciati sul territorio romagnolo dal regime fascista è difficilmente ignorabile. La regione di Mussolini è costellata di architetture e opere d’arte che sono state inserite nel tessuto urbano e rurale, nonché di riscoperti monumenti di archeologia romana, con lo scopo preciso di inventare una tradizione classica per la regione. Anche l’annessione, nel 1923, delle sorgenti del Tevere all’interno della Romagna ha fatto parte di una strategia che voleva avvicinare simbolicamente la terra di Mussolini alla capitale Roma [Proli 2006, 52]. Tante città, da Bologna a Rimini, da Ravenna a Ferrara, fino a centri minori come Predappio, Lugo e Imola, sono state interessate da interventi sullo spazio pubblico, ancora oggi ben visibili [Cassani Simonetti 2015].
Cuore pulsante degli interventi architettonico-monumentali a scala urbana è Forlì, con la vicina Predappio. Nelle parole di Roberto Balzani, «fra il 1919 e il 1925, Forlì passa dalla periferia al centro, da “cittadone” rurale a culla dell’“uomo nuovo”» [Balzani 1999, 17]. Forlì e il suo territorio diventano il fulcro di politiche urbane volte a rappresentare la modernità del regime e creare un nuovo luogo di pellegrinaggio politico verso la regione natale del duce [Prati, Tramonti 1999; Tramonti 2015]. Inoltre, Forlì è anche la città dove si viene a creare il polo per l’aviazione [Balzani 2015, 18] e che vede la costruzione del primo collegio aeronautico in Italia, su progetto dell’architetto romano Cesare Valle, inaugurato nel 1937 [Tramonti 2015, 162-199]. All’interno dell’edificio si trova un grande mosaico su disegno di Angelo Canevari, dedicato alla storia del volo. Il mosaico celebra una parabola di modernità militare che va dal mito di Icaro fino alla dichiarazione di guerra del 1940, e ancora oggi sono numerose le perplessità relative al modo migliore di raccontare l’insita violenza di quest’opera [Pirazzoli 2019].
Come avviene a Roma e nel resto d’Italia, il regime fascista non è solo interessato a una monumentalità propria, ma mira anche ad appropriarsi dei simboli del passato. In tutta la regione le ambizioni del regime si condensano anche attorno ai monumenti storici: l’arco di Augusto a Rimini viene isolato dalle mura nel 1937-38 [Cassani Simonetti 2015, 37] e l’area “dantesca” di Ravenna, attorno alla tomba del poeta, è inaugurata nel 1936 [Bolzani 2003, 242-254]. Le tracce del regime fascista sullo spazio pubblico sono ben evidenti anche a Bologna, città sulla quale il fascismo ha investito molto dal punto di vista architettonico e infrastrutturale. Dallo stadio del Littoriale, promosso da Leandro Arpinati e inaugurato nel 1927, al villaggio della rivoluzione fascista (1938), dall’apertura di via Roma – oggi via Marconi – alla realizzazione di numerose sedi universitarie, Bologna è ricca di testimonianze materiali del Ventennio [Lipparini 2001; Legnani 2001; Gresleri 2006]. In certi casi, il regime ha lasciato dietro di sé indizi intangibili come certi toponimi legati al colonialismo [10].
Nell’immediato dopoguerra, quello che rimane del fascismo nel territorio della Romagna sono «gli scheletri della dittatura, l’ossame dell’autarchia», descritti dal giornalista Giorgio Vecchietti nel 1949, sulle pagine de «La Stampa» [Pirazzoli 2019]. Quale è il rapporto tra i segni del fascismo in Romagna e la società contemporanea? Come per il resto d’Italia, in molti casi si tratta di una relazione silenziosa, che si fonda sull’esperienza quotidiana di certi edifici senza davvero comprenderne l’apparato monumentale, in certi casi optando per un vero e proprio abbandono. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, si è assistito a una maggiore presa di consapevolezza da parte della cittadinanza e delle istituzioni nei confronti del patrimonio scomodo del regime sul territorio. La più importante esperienza che ha permesso di valutare il lascito monumentale del regime nella regione è senz’altro il progetto Atrium (Architecture of Totalitarian Regimes of the Twentieth Century in Urban Management), attivo dal 2011 al 2013, da cui è nata l’omonima associazione. Il progetto è stato fortemente voluto dal Comune di Forlì, in relazione ad altre istituzioni dell’Europa meridionale e orientale, al fine di creare consapevolezza sul patrimonio dei regimi totalitari del Ventesimo secolo, con particolare attenzione al restauro e alla valorizzazione turistica. Atrium coordina infatti una Cultural route, che comprende vari siti legati al patrimonio del fascismo in Italia, di cui molti si trovano in Romagna (Bertinoro, Fratta Terme, Castrocaro Terme, Cervia, Cesenatico, Forlì, Forlimpopoli). Come ha ricordato Patrick Leech, docente dell’Università di Bologna e presidente di Atrium, è stata proprio la municipalità di Forlì a interrogarsi sull’eredità materiale del fascismo durante i lavori di restauro dell’ex Casa della Gil [Leech 2018, 246]. Particolarmente complessa è stata la decisione di restaurare o meno non solo la struttura dell’edificio, ma anche il giuramento fascista collocato sulla sommità della torre, parzialmente cancellato da un’operazione di damnatio memoriae alla caduta del regime. Il restauro – coordinato da Stefania Pondi e Alberto Gentili – ha optato per una via intermedia: è stato infatti restaurato il giuramento fascista, oggi dunque ben visibile lungo il viale della Libertà, lasciando tuttavia le cicatrici delle demolizioni del 1943 [Leech 2018, 250].
Negli ultimi anni, l’influenza del progetto Atrium e della sua rotta culturale ha senz’altro avuto effetti benefici per la rivalutazione del patrimonio architettonico e monumentale fascista in Romagna, tra interventi di restauro e nuovi itinerari per il turismo [Favaretto, Pretelli, Zampini 2020]. Al tempo stesso, il lungo dibattito pubblico sul restauro dell’ex Casa del fascio di Predappio come sede del museo nazionale sul fascismo [Carrattieri 2018] sembra sottolineare l’evidente difficoltà di operare in un contesto imbevuto non solo di simbologia del Ventennio, ma anche di rituali e pellegrinaggi neofascisti. A questo si aggiunge l’effettiva complessità tecnica posta dal restauro della struttura, fragile fin dalla sua costruzione a causa della cattiva gestione del cantiere [Antonucci, Signorelli 2021]. Al momento l’incarico per seguire i lavori di restauro è stato affidato allo Studio Valle di Roma (eredi dell’architetto Cesare Valle), ma l’idea di un museo nazionale dedicato alla storia del fascismo sembra tramontata. Anzi, in piena linea con l’esaltazione del razionalismo sopra accennata, l’attuale sindaco di Predappio, Roberto Canali, ha annunciato che all’interno dell’ex Casa del fascio – progetto monumentale e “piacentiniano” dell’ingegnere forlivese Arnaldo Fuzzi – si sta pensando di collocare un «centro studi permanente sull’architettura razionalista» [Gavelli 2022] [11].
Tuttavia, ben poche architetture del Ventennio in Romagna sono al centro di un dibattito che le sappia interpretare al tempo stesso come patrimonio storico da conservare e come difficult heritage da interrogare e contestualizzare. L’ex Casa del fascio di Imola, ad esempio, presenta bassorilievi e iscrizioni che celebrano l’invasione dell’Etiopia e la formazione dell’impero. Nonostante le numerose pubblicazioni che ne hanno evidenziato la storia progettuale [Antonucci, Nannini 2019; Giberti 2021], la presenza silenziosa di questa architettura lungo la via Emilia non sembra essere percepita come “scomoda” dalla comunità che quotidianamente la osserva e la attraversa.
Una sorte analoga è quella di un particolare tipo di eredità materiale del fascismo, ovvero le gigantesche rovine in calcestruzzo che un tempo ospitavano colonie per l’infanzia, costruite lungo la costa adriatica. Tanta è stata la fascinazione per questi ruderi del regime nel corso dei decenni, spesso veicolata attraverso progetti fotografici [Dubowitz 2010], ma anche attraverso il cinema [12] e la musica pop [13]. Al tempo stesso, forse a causa della loro precaria condizione strutturale, spogliata di qualsiasi simbologia relativa al fascismo, tali edifici sono raramente percepiti come difficult heritage di un regime totalitario, quanto piuttosto come rovine di un mondo lontano [14].
Come le ex-colonie sono da decenni al centro di un interesse artistico e visuale che le allontana dal loro significato politico originario, così anche la cittadina “di rifondazione” di Tresigallo [Massaretti 2004, 12], paese natale di Edmondo Rossoni, sta cavalcando l’onda della propria popolarità estetica, largamente rappresentata su Instagram. L’ufficio turistico, il cui sito internet è intitolato Tresigallo: La città metafisica offre un’approfondita panoramica sulla storia della cittadina e della sua architettura, tuttavia senza fare riferimenti alla dimensione politica della sua pianificazione e costruzione. In tutto il sito internet, la parola “fascismo” non compare mai, quasi a voler nascondere il contesto socio-politico in cui Tresigallo è stata rifondata [15]. L’estetica metafisica di Tresigallo sembra essere abbastanza forte da depoliticizzare un’intera operazione urbana e sociale, ed è ora usata come sfondo per pubblicità della Ducati [16] o per i video del giovane cantante gIANMARIA [17]. La depoliticizzazione dell’architettura del periodo fascista sembra essere un tratto comune a tanti uffici del turismo della Regione. Dietro lo scudo di parole come “razionalismo” e “modernità”, l’architettura promossa dal regime è spesso presentata come un patrimonio dalle caratteristiche unicamente positive. Sul sito di Emilia-Romagna turismo si legge che «gli interventi architettonici e urbanistici miravano [...] a creare un modello di progresso e modernità che fosse un punto di riferimento per tutta l’Italia». La torre littoria dell’ex Casa del fascio di Predappio è addirittura descritta col virgolettato «virile e modernissima» [18]. Analogamente, l’assessore alla Cultura del Comune di Forlì ha di recente annunciato l’idea che il viale della Libertà sia candidato a patrimonio dell’umanità dell’Unesco, come «unicum nel panorama urbanistico mondiale», una sorta di «catalogo di tutti gli stili architettonici del ventennio» [«Il ‘Miglio bianco’ diventi patrimonio dell’Unesco» 2022]. Senza nulla togliere alla promessa di modernità e alla dimensione artistica e tecnologica che queste architetture incarnano, l’appiattimento del loro significato politico è a dir poco preoccupante e riduce la nostra comprensione di questo patrimonio a una pura dimensione estetica.
Le tante architetture relative al Ventennio presenti in regione non sono che il fondale architettonico per altrettanti monumenti attraverso i quali il regime ha lasciato traccia di sé. Gli eroi di cui il fascismo si appropria per autorappresentarsi nello spazio pubblico sono tanti, dall’aviatore Francesco Baracca a Lugo (si veda l’articolo di Giuseppe Masetti in questo dossier) a Giulio Cesare, celebrato a Rimini (come racconta Daniele Susini nel suo intervento). In altri casi il fascismo ha fatto propri dei monumenti costruiti all’inizio del secolo, sposandone la dimensione di propaganda, come raccontano Latino Taddei e Domenico Vitale in relazione al monumento a Vittorio Bottego a Parma. Considerato il sogno di trasformare Forlì in un polo aeronautico per l’Italia, non stupisce che tante città romagnole abbiano ospitato numerose statue e lapidi in memoria dei caduti, alcuni aviatori, durante la guerra di Etiopia [19]. Nonostante una sempre maggiore attenzione critica nei confronti delle tracce del colonialismo italiano, culminata con la protesta attorno alla statua dedicata a Indro Montanelli a Milano, nel giugno 2020 [Maida 2020], i monumenti della Romagna sembrano essere sopravvissuti alle proteste del movimento globale Black lives matter. Un’eccezione è il caso della statua a Francesco Azzi (1914-35), tenente di cavalleria morto in Etiopia. Collocata a Imola presso i giardini di San Domenico, la scultura è stata oggetto di un’azione performativa da parte del comitato Imola antifascista, il 14 aprile 2019, anniversario della Liberazione della città. In linea con le tante contestazioni che hanno interessato l’Europa, la statua di Azzi è stata vestita con una parrucca rosa ed è stato aggiunto un cartello recante la scritta «Strumento del colonialismo fascista». Nel comunicato rilasciato dal collettivo Imola antifascista, la statua è stata assunta come pretesto per far emergere le violenze del colonialismo italiano in Africa. Inoltre, il collettivo ha richiesto di «realizzare e posizionare una targa fissa sulla statua, per recuperare la memoria storica delle atrocità perpetrate dal colonialismo fascista» [20]. Ad oggi, tuttavia, il monumento rimane intoccato da interventi di recupero e contestualizzazione, e sembra essere tornato nel torpore del giardino imolese.
Un caso interessante è l’ambivalenza nella relazione tra Forlì e la statua che più rappresenta le ambizioni fasciste per questa città: il monumento a Icaro posto di fronte all’ex Collegio aeronautico, oggi sede di un liceo e di una scuola media. Nata come immagine del volo e dell’aviazione, la statua è ancora oggi considerata «uno dei simboli della città», punto di incontro privilegiato per gli abitanti e per gli studenti della scuola [21]. Tra il 2012 e il 2014 il monumento è stato restaurato con la supervisione della Soprintendenza. Tuttavia, negli ultimi anni le unghie di Icaro sono state a più riprese dipinte di rosso, in un’operazione che forse implicitamente vuole contestare e ridimensionare la monumentale virilità della figura mitologica. Più di recente, una porzione del piede di Icaro è stata addirittura scalpellata in modo violento [22]. È interessante notare la reazione della stampa locale a queste azioni, che ha interpretato la colorazione delle unghie di Icaro unicamente come «vandalica», scegliendo di intervistare, tra tutti, un esponente di CasaPound di Forlì [23].
La statua di Icaro sembra essere al centro di un implicito e forse non voluto processo di “trivializzazione” o banalizzazione (trivialisation), simile a quanto identificato da Macdonald nel caso dello Zeppelinfeld di Norimberga, con la precisa strategia di promuovere usi futili e banali per far cadere l’aura di sacralità di certi luoghi o oggetti [Macdonald 2006]. Icaro non è più il simbolo di un aviatore caduto in volo, perché l’edificio alle sue spalle non è più un collegio aeronautico, ma un liceo. Le classi, una volta concluso l’esame di maturità, si scattano un selfie di fronte alla statua e al grande portico monumentale, banalizzando così la dimensione sacrale e la matrice bellica dell’edificio. La sede storica della Scuola di Ingegneria dell’Università di Bologna, opera di Giuseppe Vaccaro che unisce razionalismo e monumentalità, sembra aver perso il suo messaggio retorico e monumentale, nonostante ancora ospiti il bollettino della vittoria all’ingresso e le ombre dei fasci littori sulla torre libraria. Gli studenti che vanno e vengono ignorano le lapidi ai caduti della Prima guerra mondiale, così come ignorano la recente targa apposta dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) per ricordare le violenze perpetrate nei confronti dei partigiani da parte della Guardia nazionale repubblicana tra il 1943 e il 1945 [Gaetani, Nannini 2021].
5. Conclusioni: quale difficult heritage? Estetizzare o confrontarsi con il totalitarismo
Come afferma l’Association for critical heritage studies, tutto il patrimonio culturale può essere interpretato in chiave critica, considerando non solo la sua dimensione estetica, ma anche quella politica e sociale [24]. Negli ultimi anni, a livello internazionale, discipline come la storia dell’arte e dell’architettura hanno sempre di più approfondito queste dimensioni, offrendo nuove interpretazioni sul patrimonio storico-artistico esposto nei musei o nello spazio pubblico. L’eredità del fenomeno coloniale e dello schiavismo, ad esempio, è sempre più spesso resa evidente nei grandi musei d’Europa, come dimostra la recente iniziativa Rijksmuseum & Slavery all’interno della collezione permanente del Rijksmuseum di Amsterdam [25].
Perché considerare, dunque, il patrimonio dei totalitarismi del Novecento come un’eredità difficile da affrontare in modo critico? La relativa vicinanza temporale che ancora viviamo coi regimi totalitari del Ventesimo secolo rischia di veicolare ancora il messaggio originario della politica che ha prodotto un certo manufatto, soprattutto se con palese intento di propaganda. Infatti, nonostante le rimozioni e le dimenticanze, la dimensione militarista e violenta è la struttura portante del patrimonio pubblico costruito dal regime fascista – spesso ben più longeva del fragile cemento armato di cui molte delle sue architetture sono costituite. Se in Germania una delle strategie più comuni per neutralizzare la portata politica delle tracce materiali del nazismo è stata un’operazione di trivializzazione, in Italia assistiamo invece ad una vasta operazione di estetizzazione delle tracce del regime, promossa più o meno volutamente su più fronti, dalla cultura del restauro all’appropriazione in chiave turistica o identitaria dell’arte e dell’architettura prodotte durante il Ventennio. Estetizzare la cultura materiale del fascismo è rischioso perché questa operazione ne relativizza la portata politica: non solo apre la porta a fenomeni nostalgici nel presente [26], ma soprattutto riduce la nostra capacità di comprensione storica di questi manufatti. Al contrario, sarebbe necessario «riconoscere la coesistenza tra qualità estetica e sostanza ideologica – tra bellezza e violenza – e analizzarne il difficile, disturbante, portato culturale» [Pirazzoli 2019]. La vera difficoltà sta nel mostrare l’eredità della cultura materiale fascista come parte della storia italiana – esattamente come il nazionalsocialismo è una «parte inevitabile dell’identità tedesca» [Macdonald 2006, 22] –, senza tuttavia ignorarne le origini storiche e la dimensione politica.
Nonostante la Romagna e l’intera Penisola siano costellate di tracce materiali del fascismo, a volte sembra difficile definire tale eredità come difficile o divisiva. A settant’anni dalla sua caduta, l’arte e l’architettura promosse dal regime fascista affascinano il pubblico e sono diventate protagoniste di scatti fotografici degni di Instagram, se non addirittura contenitori di lusso per brand come Fendi. Nonostante la storia violenta e controversa che li ha generati, i monumenti del regime fascista sono in grado di suscitare reazioni compatte da parte degli studiosi, della stampa e dei social network – come ha dimostrato la risposta collettiva, agguerrita e quasi stizzita nei confronti dell’articolo di Ben-Ghiat citato all’inizio di questo saggio. Al contrario, il dibattito – e a volte anche il conflitto – sembra essersi spostato verso un altro tipo di monumenti, ovvero quelli dedicati ai caduti partigiani durante la Resistenza, con la loro dimensione estetica in rottura rispetto ai canoni del periodo fascista [Dogliani 1999]. Il danneggiamento di lapidi e monumenti dedicati alla Resistenza, spesso effettuato in occasione della festa della Liberazione, è un sintomo della storia italiana recente e del rapporto della società con le proprie mitologie (per approfondire un esempio imolese, si veda il saggio di Silvia Pizzirani in questo dossier). Il contrasto mai sanato della guerra civile italiana svoltasi tra il 1943 e il 1945 ha portato, negli anni dell’immediato dopoguerra, a un acceso dibattito contro le tracce materiali del fascismo che lentamente si è spento e, a meno di casi eccezionali, sembra essere ancora sopito. L’accanimento contro le statue e i monumenti alla Resistenza può essere invece visto come un’opposizione all’establishment culturale e politico che ha dominato l’Italia, tra alti e bassi, fino all’ascesa del berlusconismo negli anni Novanta e alla «crisi dell’antifascismo» [Luzzatto 2004].
Al contrario, oggi, a quasi ottant’anni dalla sua caduta, l’estetica del regime fascista sembra essere diventata simbolo di coesione identitaria ed è percepita, a tutti gli effetti, come un patrimonio da conservare e, in certi casi, elogiare. Se la conservazione è importante e necessaria, quello che manca è la contestualizzazione storica di tali manufatti a servizio dei visitatori, soprattutto se si tratta di monumenti che ancora plasmano lo spazio pubblico. I casi del Monumento alla vittoria e dell’ex Casa del fascio di Bolzano rimangono esempi più unici che rari nel panorama italiano, dove si è riusciti a unire installazioni artistiche, contestualizzazione storica e educazione museale. È proprio la mancanza di spiegazioni storiche che rischia di far assimilare i monumenti del fascismo al resto del patrimonio storico italiano, estetizzandone le forme e dimenticando la matrice violenta, bellica, colonialista di queste tracce onnipresenti nello spazio pubblico.
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Note
1. Desidero ringraziare Elena Pirazzoli per il continuo scambio sui temi trattati nel saggio e Roberta Mira per il suo impeccabile lavoro redazionale.
2. Si veda il progetto di ricerca portato avanti dalla studiosa: Mussolini Threshing Still: Inertia Memoriae, Italy, and Fascist Monuments, https://nationalhumanitiescenter.org/fellow/mia-fuller-2018-2019/.
3. Si veda il sito dell’associazione: https://www.docomomoitalia.it/.
4. Un esempio recente è la rilevanza internazionale ottenuta dalla petizione lanciata per “salvare” lo stadio A. Franchi di Firenze, progetto di Pier Luigi Nervi costruito tra il 1929 e il 1932, e a rischio demolizione nel 2020. L’apposizione di un vincolo su alcune parti della struttura ha definito un cambio di rotta da parte del Comune di Firenze, che nel 2021 ha lanciato un concorso internazionale per l’ampliamento dello stadio con l’obbligo di tutela del progetto originale. Si veda: https://salviamoilfranchi.org/.
5. Si veda il sito: https://wegil.it/larchitettura/.
6. Il progetto del percorso espositivo è stato curato da Andrea Di Michele, Hannes Obermair, Christine Roilo, Ugo Soragni e Silvia Spada, insieme a Gruppe Gut e Jeffrey T. Schnapp. Si veda: https://www.monumentoallavittoria.com/it.html.
7. Si veda: https://www.comune.bolzano.it/stampa_context.jsp?area=295&ID_LINK=426&id_context=32037.
8. Si veda ad esempio la protesta di CasaPound contro l’installazione sull’ex Casa del fascio: https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/bassorilievo-piffrader-al-via-ponteggio-la-protesta-casapound-bolzano-61390/.
9. Si vedano i molti articoli pubblicati sul sito di Italia nostra, sezione di Bolzano: https://italianostrabz.wordpress.com/tag/memoria-del-novecento/page/2/.
10. Il rione Cirenaica e il palazzo Faccetta nera in via Marconi sono esempi di come le vicende del colonialismo italiano, avvenute prima e durante il regime fascista, siano riuscite a cristallizzarsi nei nomi delle strade e dei palazzi della città. Il rione Cirenaica era un tempo ricco di odonimi assegnati dopo la guerra di Libia del 1911-12, immutati negli anni del fascismo e sostituiti nel dopoguerra dal Comune di Bologna con l’intitolazione di molte strade a caduti della Resistenza. Oggi, via Libia è l’ultima strtada che ancora porta il nome originario. Negli ultimi anni, il collettivo Resistenze in Cirenaica si è interrogato su questo residuo coloniale, ragionando sulle azioni di “guerriglia odonomastica”: https://resistenzeincirenaica.com/. Al contrario, il palazzo Faccetta nera, progetto dell’architetto Francesco Santini, inaugurato nel 1936 insieme all’apertura dell’allora via Roma, è oggi identificato da una targa che non spiega le origini coloniali e razziste del toponimo.
11. Eletto nel 2019, Canali è il primo sindaco di centrodestra di Predappio.
12. Il film horror Zeder di Pupi Avati (1983) è stato in parte ambientato all’interno dell’ex colonia Varese di Milano Marittima.
13. Il video della canzone La Dolce Vita, di Fedez, Tananai e Mara Sattei (2022) è stato di recente girato di fronte all’ex colonia Bolognese di Miramare di Rimini: https://www.youtube.com/watch?v=TX_csdgqhxA.
14. Al momento, l’unico lavoro di mia conoscenza che interpreta le ex-colonie del regime fascista attraverso la lente del difficult heritage è la ricerca di dottorato attualmente condotta dall’architetto e fotografo Tim Brown, presso la Huddesfield University. Si veda l’abstract della sua ricerca presentata al convegno Verso nuove estati. Passato, presente e futuro delle colonie per l’infanzia in Europa, Ravenna, 15-16 settembre 2022, https://towardsnewsummers.wordpress.com/.
15. Si veda: https://www.tresigallolacittametafisica.it/.
16. Si veda: https://www.tresigallolacittametafisica.it/ducati-sceglie-tresigallo/.
17. Si veda: Samuele Govoni, gIANMARIA a Tresigallo: «In un paese normale ho scoperto edifici unici», in «La Nuova Ferrara», 29 gennaio 2022, https://lanuovaferrara.gelocal.it/tempo-libero/2022/01/29/news/gianmaria-a-tresigallo-in-un-paese-normale-ho-scoperto-edifici-unici-1.41180480.
18. Si veda: https://emiliaromagnaturismo.it/it/arte-cultura/citta-darte/razionalismo-forli-castrocaro-predappio.
19. Si vedano ad esempio i monumenti a Francisco Busignani (Rimini) e William D’Altri (Cesena), entrambi morti durante la guerra di Etiopia nel 1936.
20. Imola antifascista, Una statua per ricordare le atrocità del colonialismo fascista, Facebook, 14 aprile 2019, https://www.facebook.com/ImolAntifascista/posts/3334486149910686/. Si veda anche: Imola, «nessuna celebrazione ai crimini del colonialismo italiano», in «Zic», 15, aprile 2019, https://zic.it/imola-nessuna-celebrazione-ai-crimini-del-colonialismo-italiano/.
21. Si veda: Piero Ghetti, I forlivesi da decenni sulle ali di Icaro, in «Forlì Today», 9 luglio 2018, https://www.forlitoday.it/blog/forli-ieri-e-oggi/forli.ieri-oggi-storia-icaro.
22. Si veda: Germano, Vandalizzata la statua di Icaro, forse con un martello, in «Forlì Today», 20 febbraio 2022, https://www.forlitoday.it/social/segnalazioni/vandalizzata-la-statua-di-icaro-forse-con-un-martello-8800425.html.
23. Si vedano i seguenti articoli: Di nuovo un vandalismo contro i piedi della statua di Icaro, in «Forlì Today», 24 settembre 2021, https://www.forlitoday.it/cronaca/di-nuovo-un-vandalismo-contro-i-piedi-della-statua-di-icaro.html; La statua di Icaro in piazzale della Vittoria finisce un’altra volta nel mirino dei vandali, in «Forlì Today», 6 novembre 2021, https://www.forlitoday.it/cronaca/la-statua-di-icaro-in-piazzale-della-vittoria-finisce-un-altra-volta-nel-mirino-dei-vandali.html; Forlì, che tristezza le unghie colorate alla statua di Icaro, in «Corriere Romagna», 29 settembre 2021, https://www.corriereromagna.it/forli-che-tristezza-le-unghie-colorate-alla-statua-di-icaro/.
24. Si veda il manifesto dell’assocazione: https://www.criticalheritagestudies.org/.
25. Si veda: https://www.rijksmuseum.nl/en/whats-on/exhibitions/rijksmuseum-and-slavery.
26. Si veda il noto catalogo di arte e architettura prodotte durante il Ventennio, dal titolo Arte fascista, con finalità dichiaratamente estetiche e volutamente nostalgiche – l’epoca fascista è infatti presentata come un «Secondo Rinascimento»: http://www.artefascista.it/.