1. Introduzione
Le colonie di vacanza erano nate negli ultimi decenni dell’Ottocento con finalità igienico-profilattiche, pur essendo presenti, sin dall’inizio, anche esplicite intenzionalità educative [Rey-Herme 1954; Balducci 2007]; con il fascismo la dimensione pedagogica di queste iniziative si era rafforzata decisamente, declinata però in una lucida, pianificata e strutturata opera di propaganda: l’idea di fondo era quella di irrobustire corpi e “plasmare anime”, cioè di costruire, secondo un chiaro progetto antropologico di tipo autoritario, un’umanità nuova obbediente ai precetti del regime [Gentile 1913-1914; Balducci 2013]. La colonia era divenuta così uno dei principali strumenti del pervasivo ed efficace indottrinamento esercitato dal fascismo, che individuava nel settore extrascolastico uno dei terreni di elezione: con il suo carattere di microcosmo affascinante ed evocativo, con la sua radicale alterità – di spazi, di persone, di routine – rispetto alla vita ordinaria, la colonia appariva infatti molto più efficace della scuola nel fidelizzare i bambini, influenzandone l’immaginario. Al termine della Seconda guerra mondiale, venuto meno il monopolio del regime fascista nell’ambito dell’educazione, la Chiesa cattolica conquistò rapidamente un ruolo preponderante nell’organizzazione delle colonie di vacanza.
Questo contributo intende presentare le principali coordinate pedagogiche delle iniziative direttamente promosse dalle istituzioni pontificie nel periodo 1945-1960, epoca nella quale si va definendo la nuova natura e ragion d’essere delle colonie di vacanza, in una articolata dialettica tra dimensione medica ed educativa. Nella prima parte dell’articolo si proporranno alcuni cenni riguardanti la nascita e i primi passi della Pontificia commissione di assistenza (Pca), la quale, dedita in una prima fase ad un’attività di sostegno alle vittime del conflitto in sinergia con importanti istituzioni internazionali, amplia progressivamente la propria azione, trasformandosi nel 1953 nella Pontificia opera di assistenza (Poa), istituzione che rimarrà attiva fino al 1970, per poi cedere idealmente il testimone alla Caritas [Di Giovanni 2009]. Nella seconda parte del contributo si cercherà poi di delineare, principalmente attraverso il ricorso agli atti congressuali dell’epoca, il ruolo che la Chiesa assegna in quegli anni alle colonie di vacanza nel panorama delle agenzie educative, offrendo alcuni cenni sugli aspetti organizzativi più eloquenti da un punto di vista pedagogico. Nell’ultima parte del lavoro si proporrà infine un breve affondo sulla Colonia pontificia bresciana Leone XIII di Cesenatico, avviata nel 1952 e gestita dall’Opera diocesana di assistenza venerabile Alessandro Luzzago.
2. La Pca e la Poa nel quadro dell’assistenza postbellica
Nell’aprile del 1944, su incarico di papa Pio XII, monsignor Ferdinando Baldelli (1886-1963) fonda la Pontificia commissione assistenza profughi, istituzione che ha l’obiettivo di rispondere all’urgente necessità di razionalizzare e rendere capillare la distribuzione tra i rifugiati nella capitale degli aiuti che giungono dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti [Di Giovanni 2009]; l’attività svolta dal nuovo organismo assume immediatamente un ruolo chiave nell’alleviare le sofferenze della popolazione nei mesi di epilogo della fase bellica, al punto che, al termine del conflitto, la Chiesa sceglie di non dismettere questo importante patrimonio di competenze e di consolidate relazioni internazionali, ma di riorientarlo alla luce delle nuove necessità sociali.
Nel 1945 la Pontificia commissione assistenza profughi si fonde con la Pontificia commissione assistenza reduci e, con la presidenza dello stesso Baldelli, nasce la Pontificia commissione di assistenza (Pca), che progressivamente ottimizza le strutture ricevute in eredità, migliorandone le capacità di intervento [Violi 2013, 137-138]; la Pca partecipa ai programmi dell’Ente nazionale per la distribuzione dei soccorsi in Italia e collabora con la delegazione italiana dell’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (Unrra), soggetto che, tra il settembre 1944 e il giugno 1947, si occupa di consegnare gli aiuti dell’Onu (Organizzazione nazioni unite), inizialmente indirizzati alle madri, ai bambini e ai profughi e a partire dal 1946 rivolti a tutte le categorie di bisognosi [Salvatici 2011; Inaudi 2015]. Nel 1947 all’Unrra subentra l’Amministrazione per gli aiuti internazionali (Aai) [Cigliana 2002, 13; Violi 2013, 139], la quale, se in una prima fase punta a soddisfare le sole necessità primarie delle vittime del conflitto, ben presto inizia ad impegnarsi anche in altri settori assistenziali, dando vita a strutture per anziani, a scuole di formazione all’assistenza sociale e, per ciò che più interessa in questa sede, organizzando direttamente soggiorni per minori [Vetritto 2002, 195] e attivando, grazie al sostegno dell’Unicef (Fondo delle nazioni unite per l’infanzia), un importante programma di refezione rivolto alla generalità delle colonie estive [Collari 1959, 55 e ss.; Cigliana 2002; Inaudi 2015, 377].
La Pca, con la sua articolazione solida e capillare che le ha consentito di sviluppare un’ottima capacità di gestione delle risorse, si rivela uno tra i soggetti più efficienti, autorevoli e affidabili nel settore dell’assistenza postbellica [Violi 2013, 139]: la sua attività caritativa si fa sempre più ampia e differenziata, nella consapevolezza che, colmati i bisogni più immediati legati alla guerra (quali ad esempio quelli connessi all’alimentazione), diviene necessario migliorare progressivamente le condizioni di vita della popolazione, al di là delle necessità primarie [Di Giovanni 2009]. La missione della Pca si rivolge in particolare ai minori, categoria già al centro dell’accorata enciclica Quemadmodum, con la quale Pio XII, nella prima Epifania dopo il conflitto, aveva esortato a prendersi cura dell’infanzia ferita e impoverita:
Riflettano tutti attentamente che questi fanciulli sono il fulcro dell’avvenire e che quindi è assolutamente necessario che essi crescano sani di mente e di corpo, perché non si abbia un giorno una generazione che porti in sé i germi di malattie e l’impronta del vizio [1].
La medesima enciclica sottolineava inoltre come i positivi effetti dell’intervento della Chiesa in ambito sociale e assistenziale non fossero limitati alla comunità dei credenti, bensì si estendessero a beneficio dell’intera collettività nazionale:
Tutto ciò non solo è di grande vantaggio per la religione cattolica, ma anche per il civile consorzio; giacché, come tutti sanno, le carceri e i reclusori non sarebbero così affollati di colpevoli e di criminali, se i metodi e gli accorgimenti preventivi fossero applicati opportunamente e su più larga scala nei riguardi della gioventù; e se la fanciullezza crescesse dappertutto sana, integra e operosa, più facilmente si avrebbero cittadini forniti delle migliori qualità morali e fisiche: in una parola, di probità e di fortezza [2].
La consapevolezza di contribuire al benessere dell’intero «civile consorzio» rafforza nell’organizzazione pontificia il proposito di accreditarsi sempre più quale principale attore nel panorama dell’assistenza, e, in particolare, nel sostegno all’infanzia; tra i settori che maggiormente suscitano l’interesse e lo slancio della Chiesa vi è quello delle colonie di vacanza, iniziative dal grande impatto simbolico e sociale durante il regime fascista ed ora, venuto meno il monopolio delle organizzazioni di regime, in attesa di un nuovo soggetto in grado di utilizzarne gli ampi e suggestivi spazi [Mira, Salustri 2019, 9-14]. Numerose sono le realtà del mondo cattolico che all’indomani della guerra mondiale si dedicano ai soggiorni per minori: accanto alle Opere pontificie va segnalato lo sforzo delle parrocchie, delle organizzazioni dei lavoratori e del Centro italiano femminile (Cif), che nel triennio 1948-1950 accoglie nelle sue strutture una media di 200.000 bambini l’anno e costituisce un punto di riferimento per la formazione del personale direttivo e assistenziale [Centro italiano femminile 1959; Chiaia 2015].
La Pca, che nel 1945 aveva già accolto 256.135 bambini in 995 colonie [Manzia 1958, 10], diviene progressivamente uno dei principali protagonisti nell’ambito delle colonie di vacanza: il punto di forza dell’organizzazione pontificia rispetto ai concorrenti è sicuramente la solida rete di legami intrecciati con le principali organizzazioni assistenziali di livello internazionale ma, come emerge in una riunione svoltasi nel 1949 tra i delegati regionali della stessa Pca, è considerato elemento vincente anche la rigorosa osservanza delle norme sanitarie. Tale aspetto, che evoca la storica essenza profilattico-sanitaria delle colonie per minori, è particolarmente curato nelle iniziative a gestione cattolica ed è ritenuto parametro facilmente verificabile e comparabile, oltre che probabilmente più “spendibile” in quanto di matrice non strettamente confessionale. Lo strumento che concretizza questa fedeltà all’elemento medico è la scheda sociale e sanitaria, che consente un censimento dei minori e il monitoraggio del loro sviluppo nel corso degli anni [Violi 2013, 140]; l’importanza della scheda, che ha un’impostazione «rigidamente scientifica» ed è definita «base essenziale» del lavoro in colonia [Manzia 1958, 32], viene sottolineata anche in documenti successivi [Pontificia opera di assistenza 1960, 6] [3].
La Pca si propone anche di subentrare nell’uso delle strutture della disciolta Gioventù italiana del littorio (Gil), che portano in sé un rilevante valore dal punto di vista patrimoniale e di immagine [Violi 2013, 141]: il progetto ha successo e, nel 1952, l’organizzazione pontificia sottoscrive con la Gioventù italiana, ente incaricato della liquidazione dell’ex Gil, una convenzione che prevede la cessione alla Pca di tutte le colonie organizzate negli immobili del vecchio ente fascista, oltre ai diritti d’uso degli edifici nei quali esse sono ospitate e di altre innumerevoli strutture quali palestre, cinema, teatri e aree sportive, per un totale di 1.330 fabbricati [Violi 2013, 141]. La Pca, che punta ad accreditarsi come soggetto più efficace e autorevole rispetto alle altre organizzazioni religiose già esistenti sul territorio, incontra però una certa resistenza da parte di alcuni episcopati, specie nell’Italia del Nordest: i vescovi desiderano infatti tutelare il forte radicamento locale della propria Diocesi e sono preoccupati della scarsa propensione dell’istituzione pontificia a coinvolgere i laici nella gestione e nella responsabilità delle opere di carità; soprattutto, però, non apprezzano l’idea di un’azione sociale condotta direttamente da Roma attraverso un ente di diretta espressione della Santa sede: il timore è quello di dover trattare con un interlocutore ingombrante che può, in caso di disaccordo con le Diocesi e le realtà del territorio, appellarsi alla dipendenza gerarchica dei vescovi nei confronti del papa [Violi 2013, 141]. Un polemico ma interessante articolo del settimanale «La voce del popolo» della Diocesi di Brescia evidenzia nell’estate 1952 come la natura vaticana della Pca offra facilmente il fianco alle critiche anche da parte dei «comunisti»: la rivista accusa la sinistra di scatenare un’«offensiva» contro l’organizzazione pontificia, in quanto ente che agirebbe «all’ombra di una bandiera straniera» [4].
L’importanza della dialettica con il contesto locale traspare anche dallo statuto della Poa, che a partire dal 1953 succede alla Pca [Di Giovanni 2009]; l’articolazione organizzativa del nuovo soggetto prevede una struttura centrale a Roma, 28 delegazioni regionali – una in ogni regione ecclesiastica – con un ruolo di raccordo tra la sede centrale e le Conferenze episcopali e infine oltre 300 Opere diocesane di assistenza (Oda), erette dagli ordinari, che operano a beneficio della popolazione del territorio di riferimento [Pontificia Opera di Assistenza 2020]; ciascuna Oda è soggetta alle «norme tecniche, organizzative, sanitarie, disciplinari e amministrative» della Poa [5], dalla quale riceve anche sostegno economico [Violi 2013, 141-143].
3. Le colonie cattoliche nella visione del Congresso nazionale medico-pedagogico del 1953
3.1. Colonia e medicina
Nei primi anni del dopoguerra, venuti meno gli scopi propagandistici propri del regime fascista, ai quali si è già accennato nella parte introduttiva, gli organizzatori di colonie dell’epoca repubblicana si chiedono quale configurazione dare a queste iniziative che pur conservano una grande utilità sociale: la strada scelta dalle organizzazioni cattoliche è quella di un forte orientamento educativo che progressivamente, al mutare dei bisogni nella società, si imporrà in modo sempre più deciso sulle tradizionali finalità assistenziali. È un dibattito ben presente negli atti dei vari appuntamenti congressuali organizzati dalla Pca e in seguito dalla Poa, incontri che si collocano nel solco di una tradizione che vede le colonie di vacanza, sin dai primi decenni del loro sviluppo, oggetto di frequenti momenti di approfondimento nei quali si intrecciano tematiche sanitarie e pedagogiche, a conferma di un secolare nesso tra medicina e pedagogia dei quali il «Journal» di Héroard [6] e i testi di Jean Itard su Victor de l’Aveyron [7] sono solo due delle più note testimonianze. Tra questi eventi organizzati dalle istituzioni pontificie, uno particolarmente significativo è il Congresso nazionale medico-pedagogico (V Congresso dei medici, I dei pedagogisti), che accoglie a Roma i più prestigiosi collaboratori della Pca tra il 15 e il 17 maggio del 1953, esattamente un mese prima dell’udienza del 15 giugno con la quale Pio XII promulgherà lo statuto della Poa; gli atti di questo congresso sono uno strumento particolarmente utile per ricostruire la natura e gli obiettivi della colonia di vacanza nella concezione delle organizzazioni pontificie: non solo è un appuntamento che, come si è accennato, cade in un momento di importante snodo nella storia istituzionale dell’assistenza cattolica all’infanzia, ma è anche il primo congresso a vedere la presenza dei pedagogisti, che vi partecipano accanto ai medici.
3.2. Colonia e famiglia
Agostino Gemelli, presidente della Pontificia accademia delle scienze, nella sua relazione di apertura della sezione congressuale dei medici offre una definizione di ciò che la colonia rappresenta per l’istituzione pontificia: essa è una «comunità» che si riconosce nella «carità cristiana» e che ha l’obiettivo di «giovare alla salute fisica, mentale e morale» di «fanciulli e adolescenti che provengono da varie condizioni, sociali e familiari» [Gemelli 1953, 9]. Gemelli torna poi su un tema già caro alla filantropia di inizio Novecento, cioè l’idea della colonia come benefico distacco dall’ambiente cittadino, considerato malsano da un punto di vista sia igienico sia morale:
Sono figli di operai e figli di contadini, ma soprattutto membri di famiglie logorate dalle condizioni in cui vivono purtroppo le famiglie italiane in molti settori, specie nelle grandi città; logorate fisicamente, mentalmente, moralmente, in guisa che questo prezioso patrimonio della società, i figli, che sono l’avvenire della società, viene profondamente intaccato; bisogna raccogliere, selezionare questi fanciulli e questi adolescenti, ridare quello che è il patrimonio loro vitale, ricondurli con mezzi curativi, fisici e mentali, a vivere una vita che sia utile per loro e per gli altri [Gemelli 1953, 9].
La colonia si sostituisce dunque temporaneamente all’azione educativa delle famiglie – in particolare di quelle più disagiate –, ma ciò non implica, secondo l’autorevole relatore, una svalutazione dell’istituzione familiare come educatrice naturale e neppure un affievolimento dei legami tra il bambino e il proprio nucleo di origine:
Né si può dire che la Colonia, strappando il fanciullo all’ambiente suo familiare, quindi alle cure del padre e della madre, i quali hanno il dovere e la responsabilità dell’educazione, con questo viene a sminuire il vincolo familiare. No, anzi si verifica il contrario; il figlio impara ad amare sempre più la sua famiglia, a condizione però che la comunità della Colonia sia ben regolata [Gemelli 1953, 9].
Sul delicato rapporto tra colonia e famiglia torna poi Giuseppe Flores d’Arcais, nell’ambito del congresso dei pedagogisti: egli avverte che la colonia non deve sopperire in toto, con la sua capacità educativa “professionale”, ai compiti che spettano alla famiglia, proprio per evitare il rischio di marginalizzare l’«istituto educativo familiare», soggetto dal quale non si può invece prescindere [Flores d’Arcais 1953, 222]. La colonia mantiene tuttavia nei confronti della famiglia un suo preciso valore, che va oltre il temporaneo sollievo offerto nel breve periodo in cui accoglie il bambino: attraverso l’educazione del piccolo ospite, il centro di vacanza può infatti esercitare anche un’azione pedagogica indiretta nei confronti della stessa famiglia, coinvolgendola in un «circuito educativo» virtuoso e solidale che vede quali attori l’assistente sociale della colonia e i famigliari del bambino [Flores d’Arcais 1953, 223].
Dalle relazioni dei pedagogisti si delinea dunque un nuovo modello di colonia, nel quale forte è l’accento sulla «funzione educativa» [Barbano 1953, 214], che acquista progressivamente più spazio e importanza rispetto alla dimensione sanitaria e caritativa; se, accanto alla Chiesa, la principale educatrice rimane la famiglia [Moro 2011] – secondo lo spirito delle encicliche di Pio XI Divini illius magistri del 1929 e Non abbiamo bisogno del 1931 –, la colonia può comunque svolgere un utile ruolo di ausilio e di integrazione, unendo il proprio contributo a quello di altre agenzie educative [Barbano 1953, 214]. È dunque importante che anche i pedagogisti si accostino alla colonia come oggetto di studio e di azione, come da tempo fanno i medici: essa offre agli educatori l’opportunità di osservare il bambino nella sua globalità, grazie alla condivisione della vita quotidiana in una dimensione più libera e affrancata dalle abituali preoccupazioni dell’anno scolastico; in questa felice condizione, l’adulto può stabilire più facilmente una relazione autentica con il bambino, riuscendo così a cogliere gli eventuali segni premonitori di pericolosi atteggiamenti antisociali [Barbano 1953, 214-215].
Sono elementi che richiamano le istanze dell’attivismo, corrente pedagogica che, come è noto, torna a circolare con forza nell’Italia dei primi anni del dopoguerra e che afferma la centralità del bambino e dei suoi interessi, ponendo fra l’altro in rilievo l’importanza della dimensione sociale: se negli atti del congresso la colonia è persino indicata come il contesto privilegiato per realizzare un’educazione attiva [Flores d’Arcais 1953, 218], va però ricordato che i cattolici guardano a questa innovativa corrente pedagogica con un certo sospetto, non solo perché laici sono i suoi più autorevoli esponenti e i più prestigiosi centri di diffusione, ma anche perché l’attivismo – e in genere le istanze di carattere “naturalistico” – appaiono alla Chiesa un punto di vista parziale e insidioso, in quanto emarginano dal processo educativo l’elemento trascendente [Chiosso 2012, 174 e ss.; Scaglia 2019]. Conformemente a quanto affermato nella già citata enciclica Divini illius magistri [8], Flores d’Arcais sottolinea come l’attenzione alla socialità che caratterizza l’attivismo debba essere comunque ricondotta a una cura, soprattutto spirituale, del singolo bambino, in quanto è proprio la dimensione religiosa ad avere in educazione la «preminenza totale», essendo in grado di vincere i condizionamenti di carattere fisico e psicologico che agiscono sul minore [Flores d’Arcais 1953, 218-219].
3.3. Colonia e scuola
Interessante è poi la riflessione sul rapporto tra colonia e istituzione scolastica, tema che idealmente si innesta nella più ampia dialettica tra tempo dell’obbligo e tempo libero che animerà a lungo il dibattito pedagogico degli anni successivi [Frabboni 1971; Scurati 1986; Comerio 2020]. Partendo dall’auspicio che entrambe le istituzioni accolgano un’impostazione ispirata all’attivismo, si sostiene la necessità di costruire un’armoniosa continuità tra scuola e colonia, affidando all’insegnante una preziosa funzione di raccordo: si ipotizza che il docente, alla chiusura delle scuole, si trasferisca in colonia, continuando così a lavorare, con il ruolo di assistente, insieme al medesimo gruppo di bambini a lui affidato durante l’anno scolastico; il maestro (o la maestra) rappresenterebbe così in modo tangibile il legame tra scuola e colonia e avrebbe la possibilità di esplicare senza soluzione di continuità la propria «missione», la propria «autorità liberatrice» [Flores d’Arcais 1953, 220]. A tale idea è sotteso il concetto di una sostanziale unità del processo educativo, visto come flusso coerente nel quale tutte le esperienze del bambino sono profondamente interconnesse e in costante dialogo; la continuità tra scuola e colonia è però vista anche come soluzione volta a scongiurare che le due istituzioni vengano a porsi l’una quale antitesi dell’altra, mettendosi reciprocamente e pericolosamente in discussione [Flores d’Arcais 1953, 220]. Nella realizzazione di questo nuovo assetto, un passo importante viene chiesto alla scuola, la quale, oltre ad abbracciare un’impostazione di tipo attivo, dovrebbe nel contempo accogliere tutte quelle attenzioni di carattere igienico, medico, psicologico, che sono già abituali nella colonia [Flores d’Arcais 1953, 221]; il centro di vacanza, del resto, viene visto come contesto assai più propizio per l’azione educativa rispetto alla scuola: in colonia i bambini trascorrono con gli educatori l’intera giornata, c’è maggiore libertà nelle attività e nel movimento, senza l’ansia legata al lavoro didattico e soprattutto alla valutazione; a differenza di quanto accade nella scuola, in colonia i bambini possono agevolmente rivelare la propria natura, nei momenti di gioco e di cura di sé [Pini 1953, 249]. Questa visione del contesto informale e naturale come luogo di rivelazione autentica del bambino e del giovane non è nuova nell’ambito delle vacanze per minori: è ad esempio presente in Rodolphe Töpffer (1799-1846), il quale, nei suoi Voyages en zigzag, sottolinea come nella dimensione all’aria aperta l’insegnante possa agevolmente cogliere le attitudini e le personalità dei ragazzi, osservandoli mentre agiscono finalmente liberi e gioiosi [Töpffer 1854].
La colonia è considerata una «condizione ambientale felice» anche per l’educazione religiosa, grazie all’abbondanza di tempo a disposizione, alla contemplazione dell’ambiente, all’assenza delle ansie programmatiche tipiche delle statiche e trasmissive lezioni di catechismo; il contatto con le bellezze del creato favorisce la preghiera spontanea, in un ambiente prezioso anche per la già richiamata lontananza «dalle insidie e dai cattivi esempi della città» [Nosengo 1953, 258]. Il tema della “fobia urbana”, del quale Rousseau è in qualche modo precursore [Rousseau 1997, 98], si ritroverà anche negli atti dell’Incontro medico-pedagogico della Poa del 1960, nel quale l’«urbanesimo», con la sua frenesia e la «meccanizzazione» della vita quotidiana che riduce l’attività fisica, sarà visto come insidia alla quale contrapporre la colonia come «saldo pilastro» dell’«assistenza preventiva» [Pontificia opera di assistenza 1960, 9-12].
4. Declinazioni nella pratica educativa
Le colonie hanno un periodo di apertura annuale di due o tre mesi, coincidenti con le vacanze scolastiche, scandito in turni della durata di un mese caratterizzati da una rigida ripartizione per genere: ogni turno è riservato esclusivamente ai bambini o alle bambine, tranne nei «rarissimi casi» in cui è possibile separare in modo netto gli alloggi e i servizi igienici riservati ai maschi e alle femmine, «quasi fossero colonie distinte» [Collari 1959, 53]; questa rigida divisione dei generi è del resto coerente con quanto accade anche nella scuola fino agli anni Sessanta, dove si aderisce a un modello tradizionale per lungo tempo non messo in discussione [Debè, Polenghi 2017]. La ripartizione per genere riguarda anche il personale dirigente, amministrativo e di servizio che è esclusivamente femminile nelle colonie per bambine; nelle colonie che ospitano maschi di età superiore ai dieci anni è invece prevista la presenza di assistenti uomini ai quali, in alcuni casi, sono affidati anche bambini di età inferiore [Manzia 1958, 52].
Gli ospiti sono suddivisi in squadre costituite da 20-25 unità poste sotto la responsabilità di un assistente munito di diploma magistrale o altro diploma di scuola superiore, oltre che dell’attestato di partecipazione a uno specifico corso di preparazione [Collari 1959, 53]. L’assistente «attua il quotidiano programma di lavoro educativo, fisico, spirituale, educativo»; nella descrizione del profilo, ci si sofferma in particolare sul ruolo di vigilanza e di gestione degli aspetti procedurali: tutela la disciplina e presidia il mantenimento dell’ordine nella camerata e dell’igiene personale, si occupa di compilare le schede sociali dei bambini affidatigli, cura il rapporto con il guardaroba e si assicura che gli ospiti scrivano settimanalmente alla famiglia, tenendo una precisa contabilità della corrispondenza [Manzia 1958, 61-62].
L’azione educativa della colonia si esplica in tre grandi campi, che negli atti dell’Incontro medico-pedagogico della Poa del 1960 troviamo riassunti in quest’ordine: 1) educativo; 2) civico; 3) igienico [Pontifica opera di assistenza 1960, 15]. Nel primo campo, identificabile con l’ambito dell’educazione religiosa e morale, una figura di primo piano è rappresentata dal cappellano, il quale ha un ruolo pedagogico ampio e rilevante, in quanto è chiamato a collaborare con la direttrice e le assistenti «in tutti i compiti educativi, specialmente quelli che richiedono particolare prudenza»; oltre a curare i momenti di preghiera comune nel corso della giornata e a formare un gruppo di chierichetti per il servizio all’altare, il cappellano affianca la direttrice nella «revisione della corrispondenza dei minori» [Manzia 1958, 57-58], esplicando quel ruolo di censura della posta degli ospiti che è pratica abituale in molte colonie di quegli anni, non solo di quelle della Poa [Comerio 2023]. Dal punto di vista dell’educazione a carattere religioso e morale, importanti sono anche le “conversazioni” – termine presente anche nei programmi di epoca fascista [Partito nazionale fascista 1935] – a carattere ricreativo, educativo o religioso, gestite dall’assistente con la propria squadra [Manzia 1958, 123].
L’azione educativa si esplica poi anche in altre due direzioni, la prima delle quali è la formazione civica in senso patriottico, finalizzata a rendere il bambino, oltre che «buon cristiano», anche «buon cittadino» [Manzia 1958, 6]; una strategia chiave a questo scopo è rappresentata dall’esperienza del piccolo ospite nella squadra [Manzia 1958, 46], considerata la cellula fondamentale della vita in colonia, nella quale il bambino può apprendere a comportarsi con gli altri in modo corretto e a rispettare le norme della collettività [Pontificia opera di assistenza 1960, 16]. Un cenno meritano i criteri di formazione delle squadre: se non viene generalmente prescritto un metodo unico di suddivisione quale l’età, la statura, la località o l’ente di provenienza, viene però indicata come preferibile una ripartizione basata sulla corporatura [Manzia 1958, 46], in analogia con quanto già accadeva nelle colonie di epoca fascista, scelta forse motivata anche dal desiderio di evitare comportamenti di sopraffazione da parte dei bambini più robusti a danno dei coetanei più gracili [Inaudi 2008, 143]. Un altro elemento strettamente legato all’educazione civica e patriottica è rappresentato, oltre che dalle già citate conversazioni, anche dall’alzabandiera e dall’ammainabandiera, passaggi rituali di grande solennità, accostati per importanza al culto religioso:
Al momento della preghiera, all’«alza» e all’«ammaina bandiera», come durante la S. Messa, tutto il movimento della colonia deve cessare in qualsiasi luogo interno o esterno: il pensiero rivolto a Dio e alla Patria lo esige [Manzia 1958, 152].
Il rito della bandiera, che idealmente apre e chiude ogni giornata, è condotto dalla direttrice, alla presenza dell’intera comunità della colonia, inquadrata intorno al pennone; Manzia offre dettagliate indicazioni per il corretto svolgimento di queste cerimonie quotidiane, che prevedono gesti e formule codificate:
[…] Appena sistemati i minori, la Direttrice dà l’«attenti». La cerimonia dell’alza-bandiera si può svolgere in vari modi. Il più usato è questo: Attenti! Scopritevi! (i maschi si tolgono il copricapo come è uso in Marina). Colpo di fischietto prolungato al quale si uniscono i fischietti di tutte le Assistenti, la campana (se c’è), il gong, i campanelli, ecc. Un minore porta, dalla Direzione, la bandiera piegata con la scorta di altri due minori. Si fermano dinanzi alla Direttrice che è presso l’antenna. La Direttrice lega la bandiera alla funicella (o dà l’ordine di farlo) e prima di lasciarla libera, la bacia. Poi comanda: Alza-Bandiera! […] e aggiunge subito dopo: Iddio salvi l’Italia! Tutti rispondono, rimanendo rigidamente sull’attenti: Italia! Uno dei tre minori tira lentamente la funicella per issare la bandiera sull’antenna. […] [Manzia 1958, 153].
Dal punto di vista dell’educazione igienica, il bambino viene infine abituato a curare la propria persona e a seguire una dieta corretta a orari fissi, secondo una precisa scansione dei tempi che dà forma all’intera organizzazione della giornata ed è considerata strumento educativo in senso ampio, utile a «formare il carattere», a scongiurare la trascuratezza e il disordine [Pontificia opera di assistenza 1960, 15]; strettamente connessa all’ambito igienico vi è l’educazione fisica, che si realizza con la ginnastica ritmica, correttiva, ma anche con l’elioterapia e la talassoterapia [Manzia 1958, 123], che richiamano la vocazione sanitaria – e, potremmo dire, ortopedagogica – tipica delle colonie dei decenni precedenti. Negli atti del 1960 è sottolineato il carattere della ginnastica come attività gioiosa, utile a potenziare l’apparato respiratorio, circolatorio e muscolare ma anche in grado di insegnare il rispetto delle regole e a superare i propri limiti [Pontificia opera di assistenza 1960, 16].
La stesura del programma concreto delle attività spetta alla direttrice della singola colonia; a questo proposito viene consigliata un’opportuna alternanza di esperienze caratterizzate da «novità», in modo da diversificare la routine e creare una positiva attesa, facendo avvicendare, nei diversi giorni, ad esempio un «gioco sportivo», uno «spettacolo con le filmine», la «visita a una nave ancorata nel porto», una «gita per l’intera giornata con pranzo al sacco», uno «spettacolo del teatro con i fantocci», la partecipazione alla «festa della Madonna», l’«omaggio al monumento ai Caduti» – qui emerge chiara l’intenzionalità educativa in senso religioso e patriottico –, la «visita ai Vigili del fuoco del paese con esperimenti di partenza improvvisa» [Manzia 1958, 133].
Non manca il suggerimento di un ampio catalogo di proposte, da graduarsi secondo le età dei bambini e le fasi della giornata [Manzia 1958, 139-150]: se al centro del programma di attività della colonia vi è il gioco, riconosciuto per il suo valore educativo e per la capacità di rivelare i tratti più spontanei del bambino, sono poi suggerite numerose esperienze di tipo espressivo, come canto corale, «musica con strumenti di fortuna, danze regionali, recitazione, teatro dei burattini», momenti di fruizione di «filmine, cinema, radio, televisione», attività di «gioco-lavoro» riconducibili alla manipolazione, quali l’«utilizzazione degli oggetti di scarto, lavoretti con sabbia, creta, cartapesta» e infine passeggiate, escursioni con osservazioni del mondo naturale e della realtà storica e produttiva del luogo ospitante [Manzia 1958, 123-124]. È una ricerca che sembra guardare, almeno nelle intenzioni, a quella emergente corrente di rinnovamento dei soggiorni per minori che si ispira all’attivismo, rappresentata in particolare dal movimento dei Ceméa (Centres d’entraînement aux méthodes d’éducation active), giunti in Italia dalla Francia negli anni Cinquanta [Clementi 1960]; si tratta però di un tentativo ancora troppo soggetto ai vincoli di una rigida impostazione che esalta i principi di ordine e di autorità [Frabboni 1971, 126 e ss.].
Un interessante esempio dell’attività della Pca-Poa è rappresentato dalla Colonia pontificia bresciana Leone XIII di Cesenatico, sia perché legata alla significativa figura di Monsignor Luigi Daffini, sia perché nella sua progettazione rivela con chiarezza l’intenzione di preservare una rigida distinzione dei generi e di favorire una gestione precisa e razionale della comunità. Daffini (1900-1969), ordinato sacerdote nel 1924 e dal 1939 prevosto della parrocchia San Faustino nel centro di Brescia, dopo l’8 settembre 1943 era divenuto il punto di riferimento per la resistenza dei cattolici bresciani rischiando l’arresto, che aveva evitato trovando rifugio, per oltre un anno, nell’abbazia benedettina di San Giovanni evangelista a Parma [Fappani 1978]. Assunta la responsabilità della Pca locale nel 1946, inizia ad organizzare un’ampia rete di colonie che nel 1952 accolgono complessivamente 4.000 bambini nelle strutture montane di Vione, Incudine, Sonico, Santicolo e Bagolino e nelle due strutture marine di Cattolica, alle quali, a partire da quell’estate, si aggiunge la nuova colonia Leone XIII di Cesenatico [9]. Leggiamo nel settimanale diocesano, che alle colonie della Pca dedica un’intera pagina dell’edizione 27 luglio 1952: «Era da anni allo studio il progetto per la costruzione di una Colonia marina di proprietà della P.C.A. per eliminare l’onere gravoso degli affitti […]» [10]; per la scarsità di mezzi finanziari, l’idea di realizzare una struttura di proprietà era restata a lungo nel cassetto, finché, grazie all’impegno di Daffini erano state reperite le risorse dapprima per l’acquisto del lotto di terreno e poi per l’avvio dei lavori. Il progetto della nuova colonia prevede «quattro ampi padiglioni, collegati fra loro da una galleria lunga m. 97 e larga m. 3 per tutti e quattro i piani». Al piano terra sono collocati i servizi, la direzione, la cappella, l’infermeria e l’appartamento delle suore; nei piani superiori «è prevista la divisione netta in due padiglioni maschili e due femminili»: in ogni piano vi è un dormitorio che conta complessivamente 80 posti letto; gli effetti personali dei bambini e del personale educativo sono collocati in un «mobile guardaroba suddiviso in tanti scompartimenti quanti sono i bambini e il personale che sorveglia». Al centro della colonia un viale alberato conduce alla spiaggia, che dista circa 100 metri; il viale ripartisce lo spazio esterno in due grandi aree, l’una riservata ai bambini e l’altra alle bambine, destinate alle attività di gioco all’aperto [11].
Nell’estate del 1952 due padiglioni sono già completamente realizzati e accolgono in tutto 180 bambini [12]. La colonia Leone XIII, gestita dall’Opera diocesana di assistenza venerabile Alessandro Luzzago (Odal), continuerà il proprio servizio fino al 2006, quando verrà ceduto l’immobile [13], in un’epoca nella quale la Chiesa, al pari di altri soggetti pubblici e privati, avrà già da tempo deciso di ridurre il proprio impegno nell’offerta di vacanze collettive per minori, sia per la loro difficile sostenibilità economica, sia più in generale per il mutato modo di guardare alla vacanza, divenuta esperienza estesa anche ai ceti popolari e vissuta dall’intero nucleo famigliare.
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Note
1. Pio XII, Quemadmodum, lettera enciclica, 6 gennaio 1946.
2. Ibidem.
3. A questo proposito è interessante tornare alle origini delle colonie di vacanza italiane e ricordare la figura di Malachia De Cristoforis (1832-1915), fondatore nel 1881 a Milano con altri filantropi dell’Opera pia per la cura climatica gratuita ai fanciulli gracili e personalità di spicco nel dibattito internazionale intorno alle colonie di vacanza; egli fu un convinto assertore dell’approccio medico-scientifico, sostenendo fra l’altro la necessità di utilizzare rigorose misurazioni atte a rilevare e comparare gli effetti delle colonie sui bambini. De Cristoforis promosse tale posizione anche in un suo intervento al Primo congresso internazionale delle colonie di vacanza svoltosi a Zurigo nel 1888, nel quale affermò l’esigenza di elaborare una serie condivisa di parametri fisiologici, in modo da consentire la compilazione di statistiche chiare e raffrontabili [Rey-Herme 1954, 142; Forti Messina 2003, 110].
4. Archivio storico «La voce del popolo», Brescia, Un milione di bimbi vengono assistiti anche quest’anno da quella che i comunisti chiamano «un’organizzazione straniera», in «La voce del popolo», 24 agosto 1952, p. 4.
5. Archivio storico diocesano di Bergamo, Fondo dell’Opera diocesana di assistenza, Assistenza estiva, Piani e relazioni, fasc. 155-168, Pontificia opera di assistenza, Circolare n. 3, prot. n. 6988/3/5, 10 marzo 1958, “Programma per l’Assistenza Estiva 1958 alla gioventù”.
6. Diario nel quale il medico Jean Héroard (1551-1628) descrive l’infanzia del futuro Luigi XIII, sottolineandone scrupolosamente gli aspetti fisiologici e della personalità [Héroard 1868].
7. Jean Marc Gaspard Itard (1774-1838), anch’egli medico, registra quotidianamente i progressi psicofisici e cognitivi del fanciullo trovato nei boschi dell’Aveyron, del quale ipotizza l’educabilità [Itard 2007].
8. «Falso è perciò ogni naturalismo pedagogico, che in qualsiasi modo escluda o menomi la formazione soprannaturale cristiana nell’educazione della gioventù […]»: Pio XI, Divini illius magistri, lettera enciclica, 31 dicembre 1929.
9. Archivio storico «La voce del popolo», Brescia, Le colonie estive della P.C.A., in «La voce del popolo», 27 luglio 1952, p. 4.
10. Archivio storico «La voce del popolo», Brescia, Sorge a Cesenatico una grandiosa Colonia della P.C.A. per 800 bambini, in «La voce del popolo», 27 luglio 1952.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Archivio storico Convitto vescovile San Giorgio, Brescia, Lettera del presidente dell’Odal al Comune di Cesenatico, 16 novembre 2007.