Nella prolusione al noto convegno dell’ottobre 1985 sulla Repubblica sociale italiana organizzato dalla Fondazione Micheletti di Brescia, Frederick William Deakin, autore oltre vent’anni dianzi del primo sistematico contributo storico in argomento (Deakin 1963), esordì affermando che «c’è ancora da approfondire l’esame della struttura sociale ed economica della Repubblica […] e il caos dell’amministrazione ministeriale e provinciale» (Deakin 1986, 5). Trascorsi altri vent’anni, di nuovo nel contesto di un convegno di studi tenutosi a Fermo nel marzo 2005, era Enzo Collotti a introdurre il proprio intervento «con un’affermazione apparentemente paradossale: una storiografia sulla Repubblica sociale italiana nasce in epoca relativamente recente», osservando che «è proprio sulla novità della Repubblica sociale che gli studi sono apparsi anche troppo a lungo muti» (Collotti 2005, 15).

Proprio il convegno del 1985 appariva a Collotti quale momento di svolta negli studi, poiché da allora «si fece strada la consapevolezza che era ormai maturo il tempo perché la Rsi venisse studiata nella sua autonomia» (Collotti 2005, 17). Al rilievo storiografico del convegno bresciano egli accostava la rilevanza di quello di poco successivo di Belluno, dedicato nel 1988 al tema Guerra, guerra di liberazione, guerra civile. In quella sede era stato Lutz Klinkhammer, allora impegnato nell’ampia e originale ricerca sul sistema d’occupazione tedesco in Italia che avrebbe visto la luce nei primi anni Novanta, a dichiarare il proprio stupore per l’assenza di «un quadro generale, un esame dettagliato della Rsi, del suo funzionamento, dei suoi fini, del suo consenso nonché del dissenso», in considerazione del fatto che «i fascisti non erano né pochi né impotenti. Neppure il loro Stato fu soltanto un fantoccio. Esistevano un governo, una dozzina di ministeri ed un’amministrazione abbastanza intatta con migliaia di funzionari» (Klinkhammer 1990, 110). L’invito era rivolto a sollecitare ricerche su «tutte le sfumature del collaborazionismo fascista», a «creare una tipologia del fascista di Salò comprendendovi una vasta gamma di comportamenti e motivi», a rivolgere lo sguardo verso la popolazione civile, il cui comportamento non poteva andare disgiunto da quello dell’occupante, certo, ma anche da quello del collaborazionista fascista e del suo avversario, il partigiano (Klinkhammer 1990, 113-115). In altre parole, Klinkhammer manifestava l’esigenza di una storia a parte intera del 1943-45, nella quale riconnettere tra loro e ricomprendere le vicende della guerra degli eserciti e della guerra partigiana, dell’occupazione tedesca e della collaborazione della Rsi, degli aspetti militari e di quelli amministrativi del governo di una società in guerra, nonché di individuare e ricostruire i diversi profili dei soggetti sulla scena, tedeschi e fascisti, renitenti e partigiani, civili e combattenti.

Da allora, la storiografia più avvertita si è mossa in questa prospettiva. In particolare, è la guerra - in quanto cornice essenziale dei fenomeni che si vanno ad interrogare - che dagli anni Novanta in avanti campeggia al centro degli studi. Se ne tenta una ricomposizione complessiva, accostando il 1940-43 della “guerra fascista” al 1943-45 della “campagna d’Italia”, di modo da evidenziare come le caratteristiche - e i limiti - della mobilitazione bellica contribuiscano a spiegare i comportamenti collettivi e i mutamenti in seno alla società italiana dell’epoca (Legnani 1992). Si individua nello spazio urbano la dimensione privilegiata dell’indagine sulle forme dell’esperienza di guerra, sulle pratiche di governo dell’emergenza bellica, sul mutare del rapporto tra il regime e la società, sulla riallocazione politica e sociale dei gruppi di potere, delle élite come anche degli aggregati di classe (Ganapini 1988; Dalla Casa e Preti 1995; Trieste in guerra 1990). Si pone un’attenzione particolare alla varietà dei profili e delle culture del fascismo repubblicano, non solo restituendo la dialettica dei poteri e dei “fascismi” all’ombra delle insegne della Rsi, ma anche portando in primo piano il “policentrismo” interno ad essa, in coerenza ed analogia con quanto parallelamente si viene elaborando in riferimento all’organizzazione dell’occupazione tedesca (Ganapini 1999; Klinkhammer 1993). Si mette in evidenza la specificità della violenza fascista - compiaciuta della propria essenza terroristica (Gagliani 2004; Rovatti 2011) - nel quadro della violenza bellica e, soprattutto, di quella della guerra civile, così come contestualmente messa a fuoco dalla complessa ed articolata elaborazione di Claudio Pavone (Pavone 1991; Gagliani 1999). Se forse non si può definire questa come una vera e propria stagione di studi - giacché non tanto di articolati e sistematici programmi di ricerca si tratta, quanto semmai di percorsi d’indagine individuali e di disseminazione di sensibilità storiografiche - è altresì vero che nell’arco di un ventennio la prospettiva da cui guardare alla Rsi muta significativamente e che nuovi elementi di comprensione delle vicende italiane tra il 1943 e il 1945 si rendono disponibili.

Di questa produzione storiografica sarà Toni Rovatti a cogliere con chiarezza «l’acquisita consapevolezza del rapporto esistente fra la lacerante crisi attraversata dalla società italiana dopo l’8 settembre 1943 e la possibilità di rinascita di un nuovo fascismo», cosicché «la Rsi non può presentarsi agli italiani senza tentare di delineare, almeno nei limitati spazi d’agibilità che le sono concessi, un proprio incisivo progetto politico». Che deve misurarsi con gli obiettivi e le necessità dell’occupante in una condizione di sostanziale subalternità che ne erode l’autonomia d’azione «al centro, ma che trova forme di compromesso, di articolazione e di potere residuale alla periferia, là dove diviene dirimente il ruolo di mediazione e di supporto sul territorio della struttura amministrativa del governo collaborazionista» (Rovatti 2014, 294-295). Ed è proprio tale ambito interstiziale di compromessi e mediazioni alla periferia delle strutture di potere della Rsi a costituire il territorio privilegiato delle incursioni di ricerca riunite nel presente aggregato di contributi, che dunque si colloca in linea di solida continuità e di coerente sviluppo con la storiografia che a partire dai convegni di Brescia e Belluno ha assunto la Rsi quale autonomo oggetto d’indagine, e che ancora da un convegno - quello di Ferrara del settembre 2017, I molti territori della Repubblica fascista. Amministrazione e società nella Rsi - trae a sua volta origine e titolo.

Se Rovatti nel 2014 concludeva il proprio percorso di lettura della storiografia sulla Repubblica sociale osservando criticamente che «inadeguati si presentano ancora gli studi sull’azione svolta dagli enti territoriali della Rsi nel quadro di dipendenze caratterizzato dal rapporto di collaborazionismo con l’occupante», in tal modo mancando di «dare spessore al ruolo politico ricoperto dal sistema amministrativo periferico almeno fino alla primavera del 1944 [e di] verificare attraverso lo studio delle figure istituzionali e politiche di spicco a livello locale, persistenze o rotture a livello di uomini con il fascismo di regime» (Rovatti 2014, 299), Roberto Parisini oggi può rivendicare nella sua introduzione a questa raccolta proprio la feconda originalità di un approccio alla storia della Rsi che muova «dalla debolezza del centro, come elemento indiscutibile di una repubblica il cui governo risulta anche fisicamente polverizzato [assumendo] fin dal principio l’aspetto di un mosaico di aree solo relativamente collegate, piuttosto che di una compagine nazionale unitaria». Del resto, già un quindicennio or sono, nella documentata ricerca sul ferrarese, Parisini aveva richiamato l’attenzione sul fatto che la guerra, la crisi del fascismo e la nascita della Rsi, l’occupazione tedesca «distaccano centro nazionale e periferie, svincolano queste ultime trasformandole in tanti centri (le città) che, a loro volta, con sempre maggiore difficoltà governano la propria periferia (le campagne)», laddove «nello sbandamento nazionale i fili più solidi delle continuità locali prendono il sopravvento» (Parisini 2005, 139-140). Ciò che Rovatti indicava come un limite della letteratura storica allora disponibile, a pochi anni di distanza i curatori di questa raccolta - Roberta Mira e gli stessi Parisini e Rovatti - hanno saputo volgerlo in positivo, sollecitando in proposito riflessioni ed approfondimenti a muovere da singoli casi di studio, dunque producendo una spinta al superamento di quel limite ed elaborando una proficua ipotesi di lavoro e d’interpretazione con concreti riscontri nei saggi da essi riuniti.

Il punto di partenza di qualsivoglia considerazione intorno a quest’ipotesi storiografica non può che essere dunque la presa d’atto che nell’autunno 1943 l’Italia è un territorio frantumato, uno spazio politico ed amministrativo che d’un colpo perde la sua pur fragile dimensione unitaria e viene parcellizzato in mille luoghi differenti, “esplode” in tanti contesti territoriali, ognuno dei quali con una propria specificità, particolari bisogni e necessità d’intervento, determinate caratteristiche economico-sociali e strategiche. Non solo l’Italia si ritrova divisa tra due governi, il Regno del Sud e la Repubblica sociale, e due occupazioni militari, quelle tedesca e anglo-statunitense - cui a breve si sommerà la resistenza (e come fatto militare, e come azione politico-istituzionale), complicando ulteriormente il quadro (Pavone 1988) - ma la gracilità degli apparati amministrativi risulta amplificata dalla debole e contrastata legittimazione politica dei diversi soggetti in campo. I drammatici effetti degli eventi bellici - i bombardamenti, la fame, i combattimenti, lo sfollamento - contribuiscono a frantumare ulteriormente l’esperienza della vita in guerra dei territori, a suscitare bisogni differenti, talora anche antagonistici tra aree limitrofe, in un mosaico complesso e variegato di contesti dove la somma dei tanti e diversi luoghi - le piccole repubbliche, come le definisce Parisini, quasi pungolando il lettore ad assumere il termine “repubblica” con un’inclinazione concettuale che sembra ispirarsi a Machiavelli - non riesce a comporsi in uno spazio omogeneo, compatto e unitario.

In questo quadro, la Rsi ambisce a proporsi come l’unica statualità legittima dopo il “tradimento” consumato dalla monarchia insieme a settori conniventi del fascismo stesso, garantendo una continuità con lo Stato fascista al contempo rinnovandone e rilanciandone l’originaria spinta rivoluzionaria, e assicurando una protezione al paese dalle minacce della furia tedesca dinanzi al venire meno della lealtà italiana verso l’alleato. E tuttavia, più che uno Stato, la Rsi sembra delinearsi col profilo istituzionale ed organizzativo del “regno”, poiché della modernità politica della forma Stato paiono infatti mancare alla Repubblica sociale alcuni attributi essenziali: manca l’unitarietà del territorio e del popolo di uno Stato dai confini incerti - variabili in relazione all’andamento del conflitto - e amputato di amplissime e crescenti quote dello spazio nazionale e dei suoi abitanti; la sovranità del potere statale risulta fortemente limitata non solo dalla presenza delle strutture militari ed amministrative del III Reich, ma anche dalla messa in discussione del monopolio statale dell’uso legittimo della forza che le varie polizie e formazioni paramilitari del fascismo repubblicano finiscono col suscitare sottraendone il controllo alle strutture della Rsi (Legnani 1986); la difficoltà - quando non l’impossibilità - di controllo del territorio da parte degli apparati della Rsi comporta una centralità della dimensione urbana, circondata da campagne spesso insicure e potenzialmente ostili, che evoca un’organizzazione premoderna del potere, quando nelle città si concentravano le élite politiche ed economiche, i funzionari amministrativi, i soldati e i gendarmi, nonché tutte quelle figure sociali destinate a soddisfare i loro bisogni, in uno sforzo contrastato e competitivo di esercizio del dominio della città sulla campagna circostante, il cui compito era quello di garantire le eccedenze alimentari necessarie al sostentamento della popolazione urbana (si pensi qui alla polemica del tempo sulla campagna che “affama” la città, Ganapini 1988, anche se non mancano esperienze territoriali di presa e tenuta del fascismo repubblicano in ambiente rurale, Parisini 2005); la forte differenziazione sociale della popolazione produce una stratificazione fondata su marcate disuguaglianze e nette fratture politiche e di consenso, foriere di separazioni e segmentazioni interne, tali da minare la già fragile coesione politica e sociale; le difficoltà nelle comunicazioni e nei trasporti, nella circolazione delle merci e delle persone, non possono che indebolire la capacità di controllo del territorio e debilitare il centro, dando di conseguenza maggiori spazi di autonomia alle periferie ed enfatizzando la dialettica di potere nella dimensione locale.

Se il profilo della Rsi può dunque apparire sul piano della forma istituzionale quella di un “regno” dalle fondamenta deboli, privo di un reale centro del potere, disseminato e parcellizzato sul territorio (nelle cento capitali di cui scrive Marco Borghi e nella frammentazione che in maniera straordinaria è restituita dalla cartografia di supporto ai testi), sul piano dell’effettiva azione di governo quella delle strutture di Salò appare quasi una forma di occupazione politico-militare del proprio stesso territorio, quasi che la Rsi esercitasse un’occupazione parallela, in una competizione funzionale - e talora antagonistica - con quella tedesca, condividendone alcuni obiettivi (l’orizzonte ideologico, la necessità di controllo del territorio) e distinguendosi per altri (la volontà di rappresentare la propria azione di governo con contorni di autonomia dagli indirizzi dell’occupante). Il doppio volto della Repubblica, quello politico-amministrativo (la collaborazione) e quello della violenza repressiva, militare e poliziesca (il collaborazionismo), mostra ora l’una ora l’altra delle sue facce, che a loro volta assumono espressioni differenti a seconda del bilanciarsi di volta in volta di quella competizione, alternando o intrecciando arcigna e minacciosa aggressività con mellifluo patriottismo localistico.

Una delle forme peculiari di tale dualismo è restituito in questa sede da Nicola Adduci, secondo il quale nella dialettica tra Stato e partito quest’ultimo, attraverso l’esperienza della guerra, pare guadagnare terreno rispetto alla consolidata centralità del primo. Peraltro, che quella tra Stato e partito possa considerarsi una vera e propria diarchia, come scrive Adduci, pur con solide ragioni dalla sua parte, è questione che può discutersi, giacché sembrerebbe invece di poterlo ritenere un nodo costitutivo essenziale del fascismo. Il ricorso consapevole di Mussolini alle strutture tradizionali dello Stato liberale, in primis i prefetti, è infatti la spia della difficile convivenza di più fascismi e di più figure che ambiscono ad un ruolo di spicco nazionale, e l’indice della volontà del duce di subordinare e depotenziare queste istanze e personalità politiche della periferia attraverso il rafforzamento del centro (Lupo 2000). Pratica certo non nuova nella storia italiana, anzi una costante attraverso i regimi politici. Che nel ventennio può sembrare assumere i contorni di una diarchia in ragione delle vocazioni autoritarie e totalitarie espresse dallo stesso Mussolini e dalla propaganda fascista, e di cui il partito avrebbe dovuto essere lo strumento principe. Ma la realtà è altra cosa dalla sua rappresentazione: la conquista dello Stato e l’edificazione del regime, insieme al controllo ed al disinnesco delle spinte centrifughe, è per Mussolini prioritaria, e impone, in una sorta di divisione dei compiti, che il partito venga tenuto ai margini della macchina burocratica ed amministrativa dello Stato, contestualmente rafforzando la figura del duce non solo come capo politico del fascismo, ma anche come guida del governo e personalità dal profilo istituzionale, dunque leader politico e statista al contempo. Se poi consideriamo la debolezza della classe politica fascista, che fatica ad esprimere uomini per ricoprire ruoli amministrativi (Baldissara 1998), abbiamo un quadro in cui all’ipotesi di una collaborazione tra concorrenti per la gestione del potere si sovrappone, sino a sbiadirla, la supposizione che tra Stato e partito vi sia un intreccio funzionale, dove il primo rimane garante - nella sua consolidata pratica ed esperienza di uomini ormai specializzati in tal senso - delle tradizionali attribuzioni di presidio e controllo del territorio e della società, e il secondo, in collocazione subalterna, si incarica dell’inquadramento e della mobilitazione passiva delle masse, in tal modo operando nella prospettiva di una fascistizzazione della società.

Sarà nella seconda metà degli anni Trenta - al riguardo si concorda con Adduci - che trova maggiore solidità una prospettiva realmente totalitaria del fascismo: basti pensare all’operato - ancora da studiare con attenzione - di Buffarini Guidi come sottosegretario di Stato agli Interni (1935-1943, poi alla guida di tale dicastero tra il 1943 ed il 1945) nel contesto del progressivo avvicinamento al nazismo e del tentativo di accrescere ed accentrare le funzioni del Pnf, quindi del Pfr. Se già nel 1937 una legge conferiva al segretario del partito il titolo e le funzioni di ministro segretario di Stato, è nella condizione di eccezione dovuta allo stato di guerra che il Pnf tenderà ad erodere gli spazi d’azione delle strutture statali. Dal campo della propaganda, ormai stabilmente acquisito, il partito si espande verso l’assunzione di prerogative pubbliche: già nel 1936 al segretario del Pnf era stata assegnata la presidenza del Comitato di vigilanza sui prezzi, nel 1940 ulteriori competenze in materia sarebbero toccate al Comitato interministeriale annonario costituito presso il partito, e nel 1941 le deliberazioni di quest’ultimo avrebbero assunto un carattere vincolante per le Sepral; nello stesso anno, tra novembre e dicembre, interventi legislativi avrebbero ricondotto al Pnf il controllo di coloro con «incarichi di interesse pubblico o di portata politica» e stabilita l’attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale a tutti i dirigenti e quadri del partito, sino ai gradi più bassi. Sempre nel 1941, il Pnf avrebbe bloccato la creazione – in sostituzione del disciolto Comitato per la mobilitazione civile – di una struttura unitaria di coordinamento, in tal modo rendendo praticamente impossibile la pianificazione della mobilitazione civile e militare. L’attivazione di un più modesto Ufficio di coordinamento dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, privo di reali poteri di comando, di fatto lasciò all’attività di decretazione del Capo del governo il compito tra il 1940 e il 1943 di organizzare la mobilitazione. Nell’autunno del 1943 al Pfr, subentrato al Pnf, sarebbe stato inoltre assegnato l’esercizio dell’assistenza. Si tratterebbe, lo notava già Massimo Legnani, di «un disegno non occasionale», di un tentativo di fascistizzare la mobilitazione entro un quadro di progressiva e più generale “totalitarizzazione” della società e dello Stato, che la dirigenza fascista poneva in essere per ridefinire il «precario assetto della coabitazione partito-Stato, e più particolarmente l’incerta collocazione di un partito che, in definitiva, non riesce ad assurgere a quel ruolo di grande protagonista cui aspira, ma strappa per così dire un diritto di interdizione delle iniziative altrui». In tal modo, le necessità della mobilitazione bellica generano il paradossale esito, di nuovo con le parole di Legnani, di produrre «una spinta centrifuga proprio in quelle strutture che, nella architettura del regime, avrebbero dovuto, più di altre, esprimere l’originalità della ‘rivoluzione fascista’». Così che il dirigismo fascista verrebbe ricondotto «al diretto rapporto tra la dittatura ed i centri del potere economico, al “corporativismo reale” rispetto a quello proclamato», nel quadro di una pratica negoziale di accordi «che emarginano le istituzioni in cui maggiormente si riflette l’ideologia del regime» (Legnani 1993, 771-773) in primis proprio quelle corporative (uno sguardo che parzialmente si discosta da questa interpretazione è quello di Parisini, che vede invece una continuità delle strutture corporative locali, che «contribuiscono […] a mantenere insieme le componenti fondamentali della società locale […] a impedire […] che la frammentazione di trasformi in disgregazione», Parisini 2005, 160).

In questo quadro, la contrapposizione evocata da Adduci tra «un agire politico paternalista, spregiudicato e pericoloso per la Resistenza e un agire ideologico […] che allarga a dismisura il fronte dei nemici e trascina rapidamente il partito da una condizione di estraneità dalla comunità, ad una di alterità», sembra piuttosto rinviare ad una “specializzazione” di funzioni, ad una diversa composizione dei rapporti con le élite locali, a esigenze differenti cui i diversi settori del fascismo repubblicano sono chiamati a dare risposta nel contesto di una perdita di potere (e di legittimazione politica) del centro che obbliga le periferie, territori e città, a trovare risposte e compromessi in loco entro margini di manovra resi sempre più ristretti dagli eventi bellici e dallo sviluppo della guerra civile.

Del resto, che la dimensione bellica costituisca un fattore determinante nel condizionare l’azione delle strutture del fascismo repubblicano, anche provocando linee di frattura interne, risulta evidente e confermato in altri contributi. Matteo Mazzoni, ad esempio, ricorda le «straordinarie emergenze determinate dal conflitto» per porre in evidenza che «le istituzioni della Rsi devono dimostrarsi capaci non solo e non tanto di ricostituire organizzazioni e assegnare cariche, quanto di garantire un governo efficace e corrispondere ai bisogni della popolazione» (e ciò è tanto più vero per il territorio toscano, allora immediata retrovia del fronte, come conferma anche il contributo di Matteo Bennati). La quotidianità si scontra con l’eccezionalità, la normalità con l’emergenza, la politica con l’amministrazione, l’occupazione con la guerra civile: a seconda del combinarsi di queste simultanee dimensioni del vivere in guerra al tempo della Repubblica di Salò, gli esiti sono differenti, i rapporti tra strutture statali e organizzazioni del partito variabili. «Le autorità della Rsi […] cercano di riaffermare una normalità di vita», scrive ancora Mazzoni, in uno sforzo vanificato dalla pressione degli eventi bellici, in primis dai bombardamenti, rendendo «lo stesso impegno delle istituzioni e del partito sempre più insufficiente e inadeguato, mentre si accentua il divario con la popolazione […] sempre più identificata, nelle sue diverse componenti (lavoratori, donne, giovani, sacerdoti…), con il nemico». Laddove la violenza delle frange più radicali del fascismo repubblicano dunque risulta anche un riflesso dell’incapacità di governo del territorio di fronte all’emergenza bellica, così individuando un più stretto nesso funzionale tra i due livelli dell’azione fascista: alla distanza crescente tra la popolazione e il Pfr, tra il governo della Rsi e i governati sparsi su un territorio che si va contraendo col passare delle settimane, si risponde con la radicalizzazione repressiva, rabbiosamente destando ed alimentando la “paura”.

Nel contesto toscano è la vicenda lucchese a confermare questo nesso. Il capo della provincia, Mario Piazzesi, tra il settembre 1943 e il maggio 1944 tenta in ogni modo di praticare un’attività di governo del territorio ricorrendo agli strumenti amministrativi a disposizione, in primo luogo provvedendo alla nomina dei podestà e tentando di istituire tra di essi una vera e propria rete di gestione dell’emergenza (l’assistenza, il razionamento, lo sfollamento - sulla cui organizzazione e funzionamento si legga qui il documentato saggio di Elena Cortesi). «Tratto distintivo dell’operato di Piazzesi - scrive Bennati - fu il tentativo di ricostruire un tessuto amministrativo vivo e, il più delle volte, non coincidente con il potere partitico», al punto che nel febbraio 1944 avrebbe ricordato in una sua circolare che gli impiegati degli uffici comunali «non devono fare politica, ma devono essere dei perfetti burocrati». Ma nella primavera 1944 Piazzesi viene inviato a Nord, sostituito dapprima con un altro dirigente del fascismo locale, e dopo poco da Idreno Utimpergher, capo della XXXVI brigata nera “Mussolini”, la cui nomina sarebbe per Bennati la riprova appunto della «definitiva militarizzazione del potere fascista su quel territorio», giacché «a partire da questo momento, non si può più parlare, per Lucca, di una struttura amministrativa funzionante; sembra più lecito parlare, invece, di un potere autoritario militare in stretto contatto – anzi, in contiguità – con le forze armate tedesche».

È nel saggio di Toni Rovatti sul reclutamento di manodopera da inviare in Germania, cui presiede il Commissariato nazionale del lavoro guidato da Ernesto Marchiandi, che, attraverso un caso di studio territoriale (il modenese), viene restituito il concreto dipanarsi dei rapporti tra centro e periferie, tra apparati dello Stato e del partito, tra occupante tedesco e burocrazia della Rsi. Ad una prima fase, nella quale il reclutamento sembra funzionare grazie alle retate ed alla precettazione di “indesiderabili” e marginali nel tessuto locale, fanno seguito mesi in cui le difficoltà ad assolvere agli obbiettivi prefissati si fanno sempre più marcate. Quando ad essere investita da una direttiva centrale - su sollecitazione tedesca - è la popolazione stabilmente insediata ed integrata nel territorio, la resilienza all’applicazione delle norme e degli obblighi si fa via via più accentuata, e nella forma dell’elusione da parte della popolazione, e in quella della “protezione” municipalistica delle autorità locali: «l’immediata personificazione dell’autorità pubblica e i rapporti d’affinità e di conoscenza diretta fra reclutatori e reclutati - scrive Rovatti - alimentano le pressioni orientate ad ottenere favoritismi o la volontà di opposizione nei confronti di prescrizioni ritenute vessatorie, determinando l’incontrollata proliferazione di richieste d’esonero, minacce o tentativi di utilizzare a proprio vantaggio qualsiasi tipo di relazione intrattenuta con le autorità provinciali […] al punto da raggiungere la condizione di paradosso in cui l’indebito potere discrezionale affidato alle commissioni comunali è apertamente denunciato dalle stesse autorità di polizia fasciste quale strumento di discriminazione dei cittadini a fini personali». Di “intima ribellione” scriverà il podestà di Carpi al capo provincia nell’aprile 1944, non solo testimoniando delle difficoltà al reclutamento poste dalle esigenze del lavoro agricolo, dalla corruzione e dal favoritismo, dall’azione dei gruppi partigiani, ma anche dall’operato delle stesse commissioni preposte alla selezione della manodopera, i cui membri - di nuovo con le parole di Rovatti - risultano «incapaci di una valutazione priva di condizionamenti a carattere privato, divenuti oggetto di minacce di morte da parte delle forze antifasciste e della disapprovazione delle comunità locali, o addirittura responsabili dell’inclusione di nominativi non rispondenti ai criteri di selezione per vendetta personale, si dimostrano incapaci di portare a termine la selezione, determinando di fatto un “sabotaggio interno” del piano di precettazione fascista per cartolina». Il contesto sociale e le esigenze dell’economia del territorio provinciale dunque producono negli uomini alla guida delle amministrazioni locali, ma anche del partito e del sindacato, un atteggiamento ostruzionistico delle direttive del governo. Tale attitudine politico-amministrativa - ma di vera e propria “corale volontà di contrasto” e di “sotterranea ma pervicace volontà di sabotaggio” scrive più recisamente Rovatti, con evidenti riscontri nella documentazione citata nel saggio di Roberta Mira - sarebbe intesa a tutela del «proprio residuale potere di rappresentanza istituzionale a livello locale», in tal modo rivelando una pratica di condotta che - sono ancora parole di Rovatti - «più che altrove si dimostra consonante all’esperienza di resistenza espressa dalla popolazione civile (come, del resto, non mancano di evidenziare le autorità germaniche)».

È proprio dalla Militärkommandantur di Firenze che viene una notazione che coglie la natura ad un tempo centralizzata e frammentata della struttura amministrativa italiana, mettendone a fuoco una caratteristica essenziale: che l’articolazione in molteplici uffici e in plurime competenze ripartite tra di essi finisce con l’annullare il potenziale positivo - secondo il punto di vista dell’occupante - della centralizzazione dell’ordinamento. Il prefetto, a parere del colonnello von Kunowski, le cui parole sono riportate nel denso contributo di Roberta Mira, resta così un “concetto teorico”. L’ufficiale tedesco infatti acutamente osservava nel novembre 1943 che «all’interno dell’apparato istituzionale, estremamente frammentato e specializzato, le mansioni sono talmente ramificate che il pericolo di lavorare in parallelo o di giustapporre le competenze è particolarmente grosso». Al punto che «nessuno di questi uffici competenti ha una visione chiara dell’intera situazione» e che «il prefetto potrebbe sì esercitare in certo qual modo il suo controllo politico ma che, in considerazione della loro specifica attività, hanno una propria autonomia nei confronti della prefettura», e dunque «egli non è in ogni caso l’autorità che rappresenta il perno o il vertice o per lo meno l’istanza comprensiva di tutte le altre all’interno della provincia». Questa caratteristica strutturale dell’ordinamento amministrativo italiano era certo all’origine degli spazi di vischiosità che consentivano l’elusione, e talora l’aggiramento o l’inosservanza, delle norme, e che aprivano ambiti di negoziazione intorno alle forme della loro applicazione (come mostrano i saggi di Bennati e Rovatti tra gli altri). Ma proprio per questo potevano anche consentire ai rappresentanti della Rsi di marcare nei fatti una loro autonomia dalle autorità naziste, poiché in quegli interstizi che si venivano a creare nei meandri degli uffici e delle competenze si definivano anche gli spazi di manovra discrezionale degli uomini del regime. È certo questo uno dei terreni principali della collaborazione antagonistica tra il sistema d’occupazione tedesco e il sistema politico-amministrativo della Rsi, che nel locale trova la dimensione privilegiata e manifesta della competizione. Esempi evidenti e convincenti della complessità di tale dialettica sono in questa sede forniti dai contributi di Matteo Stefanori e di Paolo Ferrari e Alessandro Massignani: il primo ricostruisce le forme concrete e discrezionali dell’attuazione della politica antisemita svolta dalle autorità fasciste, notando che «applicare la normativa italiana senza cedere alle richieste tedesche serviva quindi a dimostrare l’esistenza amministrativa dello Stato di Salò»; i secondi evidenziano non solo che il contributo dell’industria italiana allo sforzo bellico tedesco fu meno irrilevante di quanto spesso si sia scritto («un significativo numero di piccole e medie aziende […] misero le forze armate tedesche in grado di rendersi relativamente autonome rispetto all’importazione di armamenti ed equipaggiamenti dalla Germania»), ma anche che, nelle maglie del sistema policratico nazista, gli industriali potevano operare in condizioni di “autogoverno” e di cooperazione (e non di controllo coercitivo) con le strutture d’occupazione, mentre decisamente più tesi erano al riguardo i rapporti tra autorità tedesche ed italiane. Roberta Mira dimostra con ampiezza di documentazione e puntualità di riferimenti i contorni di questa competizione, cogliendone anche il mutare con l’evolversi degli eventi bellici, nel senso che ovunque l’avvicinarsi del fronte e l’inasprirsi della guerra civile riducono i margini di mediazione e le possibilità di movimento.

Che pure la scelta delle località ove insediare il governo e gli apparati della Rsi fosse parte di questa competizione - come Collotti a suo tempo ipotizzò - sembra escluderlo, o almeno attenuarne la portata, il saggio di Marco Borghi. A suo parere, infatti, la dislocazione ebbe a che fare soprattutto con la maggiore solidità e radicamento della presenza tedesca nelle aree in cui vennero disseminati i dicasteri e gli uffici governativi, costituendo un simulacro di amministrazione “centrale” e di “centro” politico dello Stato. Così che - ve ne fosse la volontà e l’intenzione o meno, dipendesse da una scelta politica ovvero dalla situazione caotica - di fatto «alla proliferazione disordinata di uniformi, simboli e distintivi, corrispose una moltiplicazione geografica amministrativa destinata a depotenziare i risicati margini di credibilità del potere fascista. Per gran parte degli italiani del Centro-Nord, divenuti improvvisamente “repubblicani”, la Rsi resterà un’entità territoriale astratta». Di questa eclissi del centro vengono conferme anche da Amedeo Osti Guerrazzi, il quale, ricostruendo le modalità di funzionamento della segreteria del duce a Gargnano, ricalcate su quelle precedenti il 25 luglio, nota come più incalzanti e frequenti si facciano le udienze con le autorità locali (non solo i capi provincia, ma anche i “capetti” espressi nei tanti territori repubblicani), a conferma del rilievo assunto dalle periferie e viceversa dell’evanescenza di una piena funzione “statale” della Rsi. Anzi, si può rintracciare in questa polarizzazione dell’agenda del Mussolini “repubblicano” proprio il tratto dominante dell’organizzazione del potere del fascismo saloino: si incrementano le visite dei prefetti (che si vorrebbero restituire al ruolo di figure di riferimento in ambito provinciale e di tramite con lo Stato) ma anche quelle di ras e capitani di ventura locali, rappresentanti di «un insieme di centri di potere locale che avevano spesso un rapporto assai labile con il “centro” e con il governo, e alle volte dovevano la loro potenza e la loro influenza al rapporto con i tedeschi».

I saggi riuniti in questa raccolta delineano dunque in modo convincente un nuovo ambito di studio ed approfondimento della vicenda della Rsi: ciò che era stato a lungo rappresentato nei termini quasi esclusivi di una sostanziale inefficienza degli apparati di Salò, oggi è restituito alla complessità ed alla variabilità di una fitta trama di relazioni politiche ed istituzionali interne al fascismo repubblicano, alla dialettica geopolitica tra territori, nonché ai rapporti di forza tra italiani e tedeschi. Pur con accenti differenti tutti i contributi insistono su di un centro fortemente indebolito dai rovesci politici e militari del fascismo e dall’occupazione germanica, e periferie in parte abbandonate a se stesse, in parte rinvigorite dagli spazi di manovra che tale situazione offre ai poteri locali. Già il fascismo del ventennio, «presentatosi sulla scena del dopoguerra come l’alfiere della modernizzazione […] ripiegava in definitiva sul patrimonio di equilibri antichi, si atteggiava a geloso custode di tradizioni non solo preborghesi ma addirittura premoderne […] vecchio e nuovo, piuttosto che elidersi, si fondevano. […] Contavano i contesti locali, le reti di relazione concretamente esistenti, le persistenti realtà dialettali, i tanti mondi dai quali era segnata l’Italia contemporanea» (Melis 2018, 236-237).

Nei venti mesi della Rsi l’eclissi del centro e le necessità di governo dell’emergenza bellica riportano appunto in evidenza reti e contesti locali, frammentano lo spazio politico della Repubblica e lo spazio militare dell’alleanza tra fascisti e nazisti in mille e mille luoghi, dove riemergono equilibri del passato e nuove opportunità di distribuzione del potere, permeati da conflitti interni e tensioni politico-sociali. L’inefficienza, la corruzione, il clientelismo non mancano, certo. Ma si manifestano almeno altre due dimensioni, a lungo sottovalutate: quella della concorrenza e negoziazione tra istituzioni (prefetture e comuni, ad esempio) e tra Stato e partito, mettendo a nudo le contraddizioni e le impossibilità di un progetto totalitario all’italiana, che pure esiste - ma è «saldamente praticato nelle sue articolazioni autoritarie tradizionali» (Melis 2018, 538) - e semmai conduce soprattutto ad una nazificazione del fascismo; e quella di un corporativismo municipale, in cui convivono un localismo protettivo ed un patriottismo urbano-territoriale, quale ad esempio quello di Piero Parini a Milano, evocato da Osti Guerrazzi per notare come alcuni esponenti del fascismo tentassero di occultare nel loro operato «quasi ogni accenno al fascismo e alla repubblica, per far leva invece sulle necessità della zona e sul senso di appartenenza cittadino o provinciale» (ma potremmo ricordare anche Mario Agnoli a Bologna, Dalla Casa e Preti 1995). Lo studio di queste dimensioni dell’operato politico-istituzionale ed amministrativo degli apparati della Rsi appare una delle vie possibili non solo per l’acquisizione definitiva della Repubblica quale autonomo oggetto di indagine, ma anche per storicizzarne l’esperienza, per ricondurla ad un più ampio quadro storico, tra un prima e un dopo i seicento giorni di Salò.


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