Introduzione
La storiografia italiana sta focalizzando sempre più la sua attenzione sulla storia delle università in età repubblicana, aprendo nuove prospettive di ricerca che hanno spostato l’interesse verso il periodo successivo alla caduta del regime fascista. Tale attenzione ha posto in evidenza alcune carenze, tra cui la mancanza di una storia delle università di carattere regionale, soprattutto in riferimento al periodo dall’immediato dopoguerra alla prima metà degli anni Sessanta.
Per venire incontro a questa esigenza il saggio si propone di utilizzare, come una sorta di lente d’ingrandimento e in modo comparato, dati numerici inerenti la situazione dell’Emilia-Romagna, per mettere in luce alcuni aspetti locali in relazione al più ampio quadro nazionale. L’ambito cronologico prende avvio dal dopoguerra, con riferimenti anche al periodo precedente, e si sviluppa fino al 1967, escludendo così il ’68 e la sua specificità che richiederebbe, anche a livello di analisi numeriche, una trattazione a sé stante.
I dati presi in esame sono relativi agli iscritti, considerando le variabili degli studenti stranieri e delle donne, ai docenti e ai diversi settori disciplinari nei quattro Atenei dell’Emilia-Romagna: Bologna, Ferrara, Modena e Parma. A corredo di questo saggio le mappe realizzate dalla dott.ssa Nieves López Izquierdo, sulla base dei numerosi dati raccolti, ci permettono di avere un immediato riscontro alla nostra analisi e, laddove i dati di carattere nazionale non sono direttamente utilizzati nel saggio, di essere consultabili con immediatezza nelle mappe.
Per ciò che concerne gli studenti, nel corso della ricerca non si sono tenuti in conto soltanto i numeri complessivi, riguardanti cioè gli iscritti maschi e femmine a livello nazionale, ma anche gli stranieri e quelli immatricolati soltanto al primo anno, sia nel dato generale che in quello inerente le donne. In questo caso si sono riportati i numeri necessari a rimarcare un notevole andamento al rialzo o al ribasso, rimandando alle mappe la visione d’insieme. I dati sugli stranieri, dal 1945 disponibili correttamente nei volumi di statistica e classificati per corso e per sede, rappresentano una tematica interessante che probabilmente necessita di un ulteriore approfondimento. Quello sugli studenti stranieri è infatti, come sostiene Andrea Cammelli, un capitolo appena sfiorato dalla storiografia, sebbene l’Italia abbia rappresentato tra alti e bassi una meta di primaria importanza [Cammelli 2000, 16].
Per ogni singolo Ateneo si sono ricercati gli iscritti nel complesso, quelli del primo anno e gli immatricolati provenienti da paesi stranieri, ma anche gli studenti dei singoli settori disciplinari: giuridico, economico, letterario, medico, ingegneria, scientifico e agrario/nautico. Non è stato ignorato ovviamente il corpo docenti, nel quale si sono tenuti in considerazione i professori di ruolo e gli esterni, i liberi docenti e gli assistenti; tutto ciò attuando sempre la comparazione tra il piano nazionale e quello regionale. Lo scopo è stato inoltre quello di valutare anche i diversi settori disciplinari. Come per la situazione nazionale, si è preferito anche in questo caso riflettere sugli andamenti a cadenza quinquennale, approfondendo cifre che possono evidenziare al meglio mutamenti e continuità.
Ponendo l’accento sulle statistiche, si è cercato quindi di contribuire alla ricostruzione delle vicende storico-politiche dell’università nel periodo segnato dal passaggio dalla legge Gentile al disegno di legge di riforma presentato da Gui nel 1965, aggiungendo il tassello dell’Emilia-Romagna come campo di indagine paradigmatico. I quattro Atenei regionali, con storie molto diverse tra loro, ci restituiscono di fatto non solo un quadro locale, ma anche un importante esempio dei cambiamenti avvenuti a livello nazionale.
Gli strumenti che hanno permesso la raccolta di questa ingente mole di dati sono i volumi dell’Istituto Centrale di Statistica. Come è noto, con l’avvento del fascismo si assistette alla nascita dell’Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia che diede il via a una attività intensa nel campo delle indagini statistiche non solo sull’istruzione superiore. A partire dal 1926-27, l’Istituto tentò di dare una panoramica dell’intero sistema universitario italiano: oltre alle notizie inerenti gli studenti, i laureati e i docenti, cominciarono a essere pubblicate quelle riguardanti i fuori corso e gli studenti stranieri. La stessa indagine venne ripetuta per il biennio 1931-32, mantenendo come paradigma l’allargamento dei medesimi criteri all’intero mondo universitario. Un settore interessante d’analisi fu quello sulla condizione sociale degli studenti, attuata estendendo l’indagine alle famiglie e alla professione del capofamiglia.
I primi volumi analizzati, sotto la denominazione di Statistica dell’istruzione superiore, coprono il periodo 1945-46 e 1946-47 e furono editi rispettivamente nel 1948 e nel 1949, vennero dati alle stampe dopo tredici anni di sospensione e furono posti all’attenzione del presidente del Consiglio De Gasperi da parte di Alberto Gaudenti, dirigente dell’Istituto Centrale di Statistica. Dopo il 1930, infatti, non furono più svolte specifiche rilevazioni statistiche, per quanto riguarda l’istruzione superiore si segnalano i dati sommari pubblicati annualmente nelle pagine dell’Annuario statistico italiano, fino alla sospensione del 1942-43 dovuta agli eventi bellici. Per gli anni seguenti, sotto la dicitura di Annuario statistico dell’istruzione italiana, si trovano invece i volumi che vanno dal I (edito nel 1950) per l’anno scolastico 1947-48 fino al XXIII (1971).
Il presente lavoro adotta un’analisi che procede cronologicamente a blocchi quinquennali e decennali, poiché solo in questo modo è possibile notare le evidenti differenze nell’incremento o decremento degli iscritti e dei docenti. Nel primo arco cronologico (1945-1955) si è tenuto in considerazione il decennio cruciale successivo alla guerra segnato dai primi anni della ricostruzione con riferimenti anche alle caratteristiche dell’istruzione universitaria sotto il regime fascista. Un secondo blocco (1955-1960) analizza gli anni che portarono al boom economico, connotati da una ripresa del paese sempre più rapida, da un riformismo lento e da un incremento di iscritti negli Atenei mano a mano più consistente. Il terzo blocco cronologico (1960-1965) tiene invece in considerazione gli anni del cosiddetto miracolo economico, connotato da una crescita vertiginosa degli iscritti, dalla nascita di nuove Facoltà, ma anche dalla discussione sulla riforma Gui. Nel quarto e ultimo periodo, che comprende solo il biennio 1966-1967, si è deciso di soffermarsi sugli anni che fanno da trampolino al ’68, contrassegnati da un numero di studenti che raggiunge la soglia dei 370.000 [Annuario Statistico dell’istruzione italiana 1969].
Prima di affrontare l’analisi dei dati riguardanti l’immediato dopoguerra, occorre però fare un passo indietro e tornare agli anni del conflitto, per quanto ci è concesso dalle fonti numeriche disponibili, e a ritroso fino alla fine degli anni Trenta. Ciò è necessario per comprendere in che modo sia avvenuto il passaggio dagli ultimi anni del regime, attraverso la guerra e la liberazione, fino alla Repubblica. Studi su singoli Atenei [Salustri 2010], e approcci più generali dedicati all’intera vicenda delle università in epoca fascista, hanno dimostrato come il regime abbia messo in campo progressivi provvedimenti finalizzati a ridurre gli spazi di autonomia lasciati aperti dalla riforma Gentile [Signori 2007, 381-423]. In merito agli studenti, la riforma del 1923 evitò da un lato l’introduzione del numero chiuso per l’ammissione alle Facoltà, ma dall’altro aumentò le tasse di iscrizione e avviò una disciplina degli accessi che aprì tutti i corsi di laurea ai diplomati dei licei classici, una élite molto ristretta, mentre escluse dagli studi giuridici e letterari coloro che avevano frequentato il liceo scientifico. A ciò si aggiunse la discriminazione nei confronti delle donne, alle quali vennero posti ostacoli all’accesso alle professioni.
Per ciò che riguarda i docenti, questi furono distinti in due categorie: i professori di ruolo, inseriti negli organici e nei bilanci statali, e gli incaricati, ai quali provvedevano gli Atenei con le loro risorse. Ad essi si sommavano i liberi docenti, abilitati per un quinquennio e retribuiti con le tasse degli studenti iscritti ai loro corsi. Il numero di cattedre di ruolo in ogni Facoltà era definito per legge. I successivi aggiustamenti introdotti dal fascismo alla riforma Gentile impressero una progressiva virata nel reclutamento dei professori universitari, mettendone di fatto la nomina nelle mani del Consiglio superiore della Pubblica istruzione e del ministro [Fois 2007, 472-475].
Con l’ascesa del ministro Cesare Maria De Vecchi scomparvero gli ultimi resti della vecchia università liberale con l’imposizione di una sempre più pressante irreggimentazione negli indirizzi, attraverso l’introduzione di nuove discipline, e nei costumi universitari. Il punto di arrivo fu la Carta della Scuola proposta nel febbraio 1939 da Giuseppe Bottai, in simmetria con la Carta del Lavoro e la Carta della Razza, avente come obiettivo la «fascistizzazione integrale della società». Tuttavia il progetto di Bottai rimase un edificio incompiuto a causa della mancanza di mezzi finanziari e del sopraggiungere del conflitto mondiale, ma anche per contraddizioni ad esso congenite. In breve si può dire che Bottai lasciò un pesante segno in due ambiti: quello dell’antisemitismo di Stato introdotto nella scuola italiana e quello della promozione di un clima culturale in sintonia con le necessità imperiali dell’Italia e con la sua proiezione verso la guerra [Signori 2007, 381-423].
Per quanto riguarda la popolazione universitaria degli anni Venti e Trenta, va sottolineato che i giovani liceali optavano principalmente per le Facoltà di Giurisprudenza e Medicina, e che solo come terza scelta si rivolgevano agli indirizzi umanistici, anche se nel decennio 1929-30/1939-40 il numero degli iscritti a Lettere e filosofia passò da poco più di 2.000 studenti ad oltre 11.500, così come crebbero costantemente gli iscritti alle nuove Facoltà quali Economia e commercio.
All’interno del quadro nazionale particolare interesse ricoprivano gli studenti stranieri che, ben prima del fascismo, furono una presenza rilevante all’interno della popolazione studentesca. Questi, dispensati dal pagamento di metà delle tasse universitarie, affluirono costantemente per tutti gli anni Trenta con una punta massima nel 1933-34 con 2.932 iscritti (il 5% del totale della comunità studentesca italiana). Il fascismo favorì la loro affluenza attraverso agevolazioni e borse di studio per facilitare le collaborazioni politiche e diplomatiche, ma soprattutto per dare una buona immagine del regime all’estero, in modo da incrementare al contempo i movimenti filofascisti fuori dai confini italiani. Tale segnale si può individuare nella presenza degli studenti albanesi, una costante fino a oltre l’annessione dell’Albania all’Italia, ma anche degli studenti ungheresi, bulgari e rumeni negli anni in cui si guardava all’Europa orientale come ad un’importante area di influenza politica. A partire dalla metà degli anni Trenta le università italiane furono segnate da un’inedita ondata migratoria poiché giunsero nel paese un gran numero di studenti di origine e famiglia ebraica, spinti verso l’Italia dall’incalzare della persecuzione antisemita in Polonia, Romania, Ungheria e Germania. Aumentarono così gli iscritti stranieri nelle Facoltà di Medicina, Scienze, Farmacia e Ingegneria convinti che nella Penisola non sarebbero mai stati introdotti provvedimenti antisemiti e razzisti [Signori 2007, 394-414]. Con la successiva approvazione anche in Italia delle leggi razziali e la chiusura delle università a docenti e studenti ebrei [Galimi-Procacci (eds.), 2009], la presenza studentesca straniera si attestò su livelli molto modesti; è superfluo dire che durante gli anni della guerra non trovarono posto nel paese immatricolati francesi, inglesi, e poi americani, in quanto nemici dell’Italia fascista.
Tuttavia, se si guarda alle cifre riportate negli Annuari, sul finire degli anni Trenta il numero di iscritti totali nelle università italiane continuò ad aumentare attestandosi a 77.429 nel 1938-39 (erano 44.940 nel 1929-30) con un successivo incremento nel 1939-40, a un passo dall’entrata in guerra dell’Italia, giungendo a 85.535 e a ben 127.058 nel 1940-41 [Istituto Centrale di Statistica 1948, 36]. Anche la presenza femminile, pur se disincentivata dal fascismo, crebbe, passando nel corso del decennio 1930-40 dal 13 al 21% dell’intera popolazione studentesca; nel 1942-43 erano iscritte 38.714 donne. Se si guarda inoltre nello specifico agli anni centrali della guerra, la tendenza alla crescita non si arrestò e a livello nazionale il numero degli iscritti totali crebbe da 127.058 nel 1940-41 a 145.793 nel 1941-42 fino a 168.323 nel 1942-43. La risposta a tale andamento è da ricercarsi ovviamente nell’incedere del secondo conflitto mondiale. L’aumento degli iscritti nel mondo universitario italiano, specialmente nei primi anni di guerra, fu dovuto essenzialmente alla volontà dei giovani di sfuggire alla chiamata alle armi; si spiega così la cifra quasi raddoppiata degli studenti immatricolati al primo anno, passati dai 27.526 nel 1939-40 ai 54.507 nel 1940-41 [Istat 1968, 44]. Un andamento crescente che trova conferma anche nell’ingresso dei ceti medi, sempre più presenti in un sistema che agli occhi del fascismo doveva rimanere chiuso ed elitario, ma che in realtà non riuscì ad opporsi ad una crescente mobilità sociale [Istat 1968, 374].
Queste variabili ci aiutano indubbiamente a comprendere il quadro nazionale trovando conferma nei dati regionali. In riferimento al periodo tenuto fin qui in considerazione, ovvero quello compreso tra la fine degli anni Trenta e i primi anni di guerra, nell’Ateneo felsineo gli iscritti aumentarono da 5.500 circa nell’anno accademico 1939-40 a 8.000 nel 1940-41 fino a 12.859 nel 1942-43. La stessa tendenza all’aumento riguardò anche gli altri tre Atenei dell’Emilia-Romagna. Tenendo come estremi gli anni accademici 1939-40 e il 1942-43, emerge dai dati che a Parma gli iscritti totali passarono da 725 a 1.828, a Ferrara da 367 a 562 e a Modena da 485 a 992 [Istituto Centrale di Statistica 1948, 39].
1. 1945-1955. Il dopoguerra
A partire dal 1945 l’Istituto Centrale di Statistica riprese con rinnovato interesse l’attività di rilevazione ed elaborazione dei dati riguardanti l’istruzione superiore rendendo le statistiche regolari e sistematiche. Le cifre riguardanti la popolazione studentesca furono pubblicate per sede, per Facoltà e corso di laurea ed anno di corso frequentato; dal 1950 i fuori corso furono distinti in relazione al completamento del corso di laurea, allo scopo di fornire dati utili all’analisi della regolarità degli studi; le statistiche sui professori si limitarono invece al sesso, alla sede universitaria e alla posizione giuridica, tralasciando l’età [Cammelli 2000, 12].
Si giunge così al primo dato utile del dopoguerra, fornitoci dal primo annuario di Statistica dell’istruzione superiore successivo agli eventi bellici, pubblicato nel 1948 e riportante i dati dell’anno accademico 1945-46. Il dato generale degli iscritti totali nelle università italiane è di 189.665 individui (fra i quali 53.653 iscritti al primo anno) [Istituto Centrale di Statistica 1948, 11], ma in questo numero vanno inseriti soprattutto coloro che ottennero benefici per aver militato nel conflitto, e più in generale tutti coloro che avevano una particolare condizione economico-familiare. Il numero delle donne iscritte si attestò invece sulle 47.600 unità [Istituto Centrale di Statistica 1948, 14] e senza grandi balzi in avanti si mantenne stazionario almeno per tutti gli anni Cinquanta. Solo dai primissimi anni Sessanta si ebbe un aumento esponenziale della presenza femminile nelle università. È interessante prestare attenzione anche agli studenti stranieri, come si è visto diminuiti drasticamente sia dopo il 1938 che durante gli anni del conflitto; così nel 1945 solo 2.045 stranieri si trovavano a frequentare gli Atenei italiani [Istituto Centrale di Statistica 1948, 24].
Mentre per ciò che riguarda i settori disciplinari, in linea con quanto messo in evidenza per gli anni Trenta, il settore con il maggior numero di iscritti fu quello letterario [1] (con 44.214 individui) seguito dalle Facoltà di Medicina e di Economia e commercio; solo Giurisprudenza, una delle Facoltà di punta durante gli anni del regime, ebbe un calo notevole degli iscritti.
Nell’analizzare infine i dati sui docenti, bisogna fare una premessa: il decreto legislativo luogotenenziale n. 238 del 5 aprile 1945 stabiliva la riabilitazione di tutti quei docenti che erano stati allontanati dal regime ed escludeva quanti avevano usufruito della loro adesione al fascismo per ottenere una cattedra. Tuttavia i processi di reintegrazione e di epurazione furono lenti e difficoltosi; la laboriosità della normativa fu inversamente proporzionale alla sua incidenza pratica [Fois 2007, 475-476]. Una serie di concorsi e norme riparatorie furono attuati per riabilitare candidati ebrei e antifascisti esclusi da cattedre e selezioni, ma solo con la legge sui concorsi del 1954 si iniziò ad intervenire strutturalmente sulla situazione creata dal fascismo. Tra il 1944 e il 1945, oltre all’abolizione e alla modifica degli insegnamenti introdotti durante il fascismo, si procedette anche al ripristino dell’elettività dei rettori, dei direttori degli Istituti superiori (eletti dal corpo accademico) e dei presidi di Facoltà [Sandulli 2007, 282].
Emerge così dagli Annuari che nel 1945 nelle università italiane erano in attività 3.535 docenti di ruolo e incaricati, oltre a 6.000 assistenti [Istituto Centrale di Statistica 1948, 31-32]. È bene specificare che la maggior parte di questi ultimi erano assistenti volontari, professionisti che prestavano servizio senza retribuzione.
Nella regione Emilia-Romagna i problemi maggiori del dopoguerra furono legati alla ricostruzione che incise sull’andamento del numero degli iscritti nei singoli Atenei: a Bologna nel 1945 gli immatricolati erano 11.371, Ferrara e Parma – meno danneggiate rispetto al capoluogo e a Modena – contavano rispettivamente 705 e 2.312 studenti [Istituto Centrale di Statistica 1948, 10]. Generalmente i fondi da destinare alla ricostruzione delle università, stanziati dai governi post-bellici, risultarono insufficienti e spesso furono erogati senza un piano stabilito, favorendo così le critiche anche dei rettori emiliano-romagnoli. Soltanto attraverso il Piano Marshall, anche se a volte in modo ineguale da sede a sede, gli Atenei riuscirono a trovare i fondi per avviare una prima ricostruzione. Una terza via alternativa a quella degli aiuti del Piano e all’intervento statale fu la rinata collaborazione con le amministrazioni cittadine: si ripresero così i rapporti che durante il periodo fascista si erano rinsaldati attraverso i consorzi, permettendo la costruzione di nuovi legami tra università ed enti locali, anche grazie alle competenze tecniche del corpo accademico finalizzate alla riattivazione dei tessuti produttivi locali [Istituto Centrale di Statistica 1948, 3; Pepe 2007, 240; Tavilla 2007, 361].
Nell’immediato dopoguerra, come in passato, Bologna si presentava come la più grande università dell’Emilia-Romagna: 3.068 erano solo gli immatricolati al primo anno contro gli altri tre Atenei che singolarmente non superavano i 500 iscritti. In proporzione anche le donne risultavano in maggioranza iscritte nell’Ateneo felsineo (circa 2.200) e anche in questo caso le altre sedi non superavano quota 600. Inoltre Bologna tornò ad essere meta di immigrazione studentesca con circa 350 studenti stranieri, una enormità in confronto ai 6 di Modena, ai 3 di Parma e al singolo immatricolato di Ferrara [Istituto Centrale di Statistica 1948, 66]. La superiorità numerica del capoluogo regionale si può far risalire, oltre che all’importanza della sua università, pur se minata da venti anni di regime e dalla guerra, anche alla mancanza presso le altre città di interi settori di studio. Alcuni ambiti disciplinari quali lettere, economia e ingegneria non erano ancora presenti nelle altre sedi, dunque anche un confronto diretto può risultare difficile. Per gli altri ambiti, quali giurisprudenza, Bologna rimase in testa, così come nel settore medico e in quello scientifico [Istituto Centrale di Statistica 1948, 62]. Lo stesso primato si rintraccia anche per quello che concerne il corpo docenti con circa 200 professori di ruolo, 377 liberi docenti e 382 assistenti [Istituto Centrale di Statistica 1948, 61]. Interessante in questo periodo il dato relativo agli assistenti, in modo particolare nell’Università di Parma dove in un quinquennio la loro incidenza raddoppiò rispetto ai liberi docenti. Tale mutamento rifletteva l’istituzione nel maggio 1948, durante il ministero Gonnella, della figura degli assistenti ordinari e la successiva generale espansione degli organici [Bonini 2007, 433]. Anche i professori di ruolo aumentarono dai 3.600 circa del 1946 a 4.286 nel 1950 e gli assistenti da 6.643 a oltre 10.000 [Istituto Centrale di Statistica 1953, 249].
Tornando ai dati relativi agli studenti, soffermiamoci brevemente sul 1946. Come si è visto nel 1945, pur con tutte le difficoltà politiche ed economiche del momento, il numero degli iscritti a livello nazionale superò quota 189.000, l’anno successivo gli immatricolati raggiunsero la soglia dei 190.799 [ICS 1949, 12], un dato che tornò ad essere così elevato solo nel 1960. Dal 1947 si assistette infatti a una costante diminuzione degli iscritti protrattasi per oltre un decennio.
Nel panorama emiliano-romagnolo emerge ancora la preponderanza dell’Ateneo felsineo nel numero di immatricolati, pur con una diminuzione rispetto al 1945, mentre un aumento minimo lo registrarono Modena e Ferrara [Istituto Centrale di Statistica 1953, 258]. A Bologna, il rettorato Battaglia coincise con la nuova convenzione di metà degli anni Cinquanta e il coinvolgimento nel rilancio dell’Ateneo di comune, provincia, Camera di commercio, Cassa di risparmio, Banca del Monte, Credito romagnolo e Banca popolare. Provvedimenti similari vennero presi negli altri Atenei regionali con partnership più o meno estese, basti pensare a Ferrara dove fu creato il Consorzio per il potenziamento dell’Università dall’accordo tra comune e Ateneo. A Modena invece il dialogo tra amministrazione cittadina e università fu più difficoltoso e si giunse ad una convenzione solo nel 1958.
Il quinquennio che dal 1950 conduce al 1955 fu all’insegna di un’ulteriore diminuzione degli iscritti a livello nazionale con un decremento da 145.170 a 139.018. Stazionario invece il numero delle donne, sempre oscillante attorno a 38.300. Gli studenti stranieri risultavano invece quasi raddoppiati, da 1.000 a circa 2.000, a testimoniare il rinnovato interesse verso le università italiane in conseguenza del pieno ingresso della Penisola tra i paesi dell’area occidentale. È da registrare, nel 1951-52, la creazione di un nuovo settore di studio denominato “Agrario e nautico” con circa 3.000 studenti a livello nazionale. Quest’ultimo, prima incluso nel settore scientifico, comprendeva, nel 1955, Scienze agrarie, Scienze forestali e Medicina veterinaria [ICS 1958, 255].
Proseguendo con la tendenza del quinquennio precedente, si registrò un aumento graduale e costante dei docenti. I professori di ruolo salirono da 4.286 a oltre 6.000, così come i liberi docenti e gli assistenti [Istituto Centrale di Statistica 1958, 260], favoriti dalla legge del luglio 1954 che riaffermava l’autonomia delle Facoltà anche nella scelta dei componenti delle commissioni giudicatrici dei concorsi a cattedra [Fois 2007, 476].
Anche in questo periodo Bologna rimase l’Ateneo più popoloso con circa 8.000 iscritti concentrati soprattutto nell’ambito giuridico, tuttavia i settori di studio più popolosi della regione risultavano essere lo scientifico e il medico [Istituto Centrale di Statistica 1958, 253]. Solo successivamente ebbero infatti una qualche incidenza nuovi indirizzi come la Facoltà di Magistero, nata nel 1955 sotto le due Torri; e centri di ricerca quali il Centro di documentazione e studi per l’Unione Europea, creato nel 1953 presso l’Ateneo di Ferrara, dove in successione si ebbe l’istituzione di un corso di Diritto ecclesiastico gestito da Giuseppe Dossetti e la nascita del corso di Scienze biologiche [Pepe 2007, 240].
2. 1955-1960. Verso il boom
Sul finire degli anni Cinquanta l’Italia era proiettata verso una svolta radicale della sua storia. Il miglioramento delle condizioni economiche e sociali, l’aumento della produzione industriale e le migrazioni interne favorirono un maggior benessere. Anche l’istruzione risentì di questo mutamento.
Già dalla metà degli anni Cinquanta si assistette a un aumento annuale e progressivo degli iscritti. Se nel 1955 questi a livello nazionale erano 139.018, aumentarono a 163.945 nel 1958, fino ai 191.790 nel 1960. Il benessere economico portò le famiglie ad un più facile accesso al più alto livello di istruzione, anche se erano ancora principalmente le classi sociali più agiate quelle a potersi permettere un figlio iscritto all’università. Dati confermati dagli immatricolati al primo anno: 40.536 nel 1955, 50.233 nel 1958, 59.708 nel 1960. Anche la popolazione femminile aumentò ulteriormente da 38.300 nel 1955 fino a 53.000 circa nel 1960 [Istituto Centrale di Statistica 1963, 36-37]. Anche per quanto riguarda i settori di studio, ad eccezione di quello medico e agrario, vi fu un progressivo incremento degli scritti al quale corrispose un aumento graduale e ininterrotto dei membri del corpo docente per tutti gli anni Sessanta.
L’Emilia-Romagna si presentò alla fine del decennio con circa 6.000 studenti in più rispetto al 1955 [Istituto Centrale di Statistica 1963, 364], preparandosi a diventare una delle regioni con maggior popolazione studentesca nei dieci anni seguenti. Al pari della situazione nazionale, nella regione si ebbe un aumento degli studenti suddiviso per tutti gli Atenei, con Bologna che fece registrare il maggior incremento passando dagli 8.102 del 1955 ai circa 12.000 del 1960 [Istituto Centrale di Statistica 1963, 366].
Per quanto riguarda il corpus dei docenti, da quelli di ruolo agli assistenti, si passò dai 3.045 nel 1955 ai 4.634 nel 1960 [Istituto Centrale di Statistica 1963, 377], soprattutto in seguito al riconoscimento del ruolo degli assistenti ordinari e alla legge sulla libera docenza del 1950 che ebbero piena attuazione nel corso della seconda legislatura (1953-1958). Con le leggi n. 311 e n. 349 del marzo 1958, recanti le norme sullo stato giuridico ed economico dei professori e degli assistenti universitari, si verificarono in breve tempo accelerazioni di carriera e miglioramenti economici. Venne garantita, oltre alla libertà di insegnamento, l’inamovibilità dei professori di ruolo e il riconoscimento agli assistenti dell’appartenenza al personale insegnante [Bonini 2007, 433].
È Ferrara, a livello regionale, l’Ateneo nel quale il corpo docenti fu segnato dal cambiamento più significativo. Se infatti a Bologna, come a Modena e a Parma le ripartizioni tra docenti, assistenti e liberi docenti seguirono l’andamento nazionale, nella città estense i professori di ruolo, che nel 1950 costituivano la metà del corpo docente (73 su 149), nel corso di un decennio subirono una drastica riduzione fino a ricoprire nel 1960 appena un quarto della docenza (136 su 534), soppiantati da 184 liberi docenti e da 211 assistenti. Tale cambiamento sembra essere il risultato del riassetto generale dell’Ateneo e in particolare della Facoltà di Medicina, la cui nuova sede, con il completamento degli indirizzi e quindi con un forte incremento di liberi docenti e assistenti a cui i corsi erano affidati, venne inaugurata nel 1954 [Fabbri 2004, 269].
3. 1960-1965. Gli anni del miracolo economico
Con l’incedere degli anni Sessanta, le politiche attuate nei quindici anni precedenti, seppur con una serie di provvedimenti ancora in fase di discussione, portarono i primi risultati innanzitutto numerici. Nei 25 anni compresi tra il 1956 e il 1981 la popolazione studentesca quintuplicò superando il milione di iscritti. Il periodo del “miracolo economico” vide però anche una grave carenza di personale qualificato da inserire nei poli produttivi del paese. Per venire incontro a questa esigenza, nel dopoguerra i corsi del settore ingegneristico, del settore scientifico e di quello economico, oltre a quelli vocati all’insegnamento, subirono un significativo aumento degli iscritti e dei laureati [Cammelli 2000, 17].
Nel quinquennio 1960-1965 il numero degli studenti passò da 191.790 a 297.783 [Istituto Centrale di Statistica 1968, 27]. Un aumento considerevole che denota un miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie, ma anche una maggiore mobilità all’interno del paese e delle singole regioni. In questo contesto il dato relativo alle donne, che in cinque anni aumentarono da 53.196 a 105.736 [Istituto Centrale di Statistica 1968, 27], lascia intravedere meglio di altri i mutamenti che toccarono la società italiana, così come le cifre inerenti la crescita degli studenti stranieri attratti dallo sviluppo italiano.
Anche per i docenti si può parlare di un aumento costante, ma certamente non sufficiente per sopperire al grande afflusso degli studenti. Nel periodo in oggetto, bisogna ricordare, era ancora in fase di discussione la proposta Gui, e nel 1965, quando il progetto di riforma venne presentato per la prima volta alla Camera, a fronte dei circa 297.000 studenti iscritti nelle università italiane, vi erano solamente 51.000 professori fra quelli di ruolo, i liberi docenti e gli assistenti [Istituto Centrale di Statistica 1968, 29]. Nonostante i provvedimenti del 1950 sull’istituzione degli assistenti ordinari e del 1958 recanti norme sullo stato giuridico ed economico dei professori e degli assistenti i numeri erano ancora proporzionalmente insufficienti.
Anche gli Atenei emiliano-romagnoli dovettero far fronte all’incremento degli iscritti. Mentre a Ferrara si ponderava l’introduzione del numero chiuso, a Bologna, che contava nel 1965 oltre 16.000 studenti, i segnali di una sproporzione tra studenti e docenti erano evidenti, soprattutto di fronte all’apertura di nuove Facoltà come quella di Scienze politiche. Soltanto gli iscritti al primo anno nell’Ateneo felsineo nel 1965 erano 4.883; seguiti da Parma con oltre 1.900 studenti, Modena con circa 600 e Ferrara con 431 [Istituto Centrale di Statistica 1968, 285].
Se si guarda infine al numero dei docenti, e lo si confronta con il numero di iscritti nella stessa regione, emerge lo stesso squilibrio che si segnalava precedentemente a proposito della situazione nazionale: solo 5.725 docenti, di vario grado, contro i 25.414 studenti [Istituto Centrale di Statistica 1968, 319].
Tuttavia, proprio a cavallo dei profondi cambiamenti intervenuti per effetto della liberalizzazione degli accessi all’università, nel periodo in cui sarebbe stato necessario un più puntuale monitoraggio delle performance della popolazione universitaria, le indagini dell’Istat subirono un inspiegabile ridimensionamento. Dopo infatti l’indagine del 1964-65 sui laureati, bisognerà aspettare il 1984 per un’analisi più approfondita in grado di cogliere i mutamenti più significativi all’interno del corpo studentesco e gli effetti della trasformazione dell’università in università di massa [Cammelli 2000, 14]. A causa della rarefazione delle rilevazioni e del ritardo nella pubblicazione dei dati, rimangono così scoperti buona parte degli anni Sessanta e degli anni Settanta, rendendo maggiormente difficile una comparazione su scala nazionale e regionale.
4. 1966-1967. Verso il Sessantotto
Per comprendere il 1968, anche semplicemente da un punto di vista quantitativo, occorre necessariamente guardare al biennio precedente.
Proprio per venire incontro a tale esigenza e alle attese di sbocchi di carriera di una larga parte degli assistenti con incarico d’insegnamento, con la legge n. 585 del 25 luglio 1966 venne istituito il ruolo dei professori aggregati. Nel corso dello stesso anno, con la legge n. 602 si allargarono ulteriormente gli accessi all’università, ai diplomati degli Istituti tecnici e delle Scuole di magistero, sempre in una logica di apertura mirata. L’anno successivo, con la legge n. 62 del 24 febbraio 1967, si provvide alla istituzione di 1.000 cattedre universitarie, di 7.000 posti di assistente, fissando anche nuove norme sulla disciplina degli incarichi di insegnamento e degli assistenti volontari [Bonini 2007, 439]. Molte altre proposte restarono però ferme nei due rami del Parlamento.
In conseguenza di questi cambiamenti, si ebbe un considerevole aumento degli iscritti. Se nel 1965 questi erano 297.783, nel 1966 crebbero fino a 338.516 [Istituto Centrale di Statistica 1968, 27] e a ben 370.000 nel 1967. Sempre più sbilanciato risultò però essere il rapporto con i docenti: solo 58.480 nel 1967 [Istituto Centrale di Statistica 1969, 292 e 328].
Nei singoli Atenei regionali la sproporzione fu ancora più evidente. A Bologna, a un anno dal ’68, a fronte dei circa 18.500 studenti, vi erano poco più di 800 docenti di ruolo, e a Parma su 7.800 immatricolati ve ne erano 347 [Istituto Centrale di Statistica 1969, 293 e 328]. Un evidente segnale dell’incapacità da parte dei governi italiani e delle singole università di reagire prontamente all’enorme afflusso dei nuovi iscritti. Tra essi particolare attenzione va posta al mondo femminile: le donne immatricolate salirono infatti oltre 140.000, circa 20.000 in più rispetto al 1966 [Istituto Centrale di Statistica 1969, 292]. Un dato ancora distante da quello della fine degli anni Ottanta, quando si assistette al sorpasso femminile sulla componente maschile, ma già significativo di un trend in costante crescita [Malatesta 2006, 301-312].
Alla fine del 1967 gli studenti italiani si opposero al disegno di legge Gui, dando inizio alle occupazioni. L’introduzione dei tre titoli di studio (diploma, laurea, dottorato), sui quali si era a lungo discusso, avrebbe a loro avviso comportato una grave differenziazione fra gli studenti dei vari ceti. Il mondo accademico, da parte sua, compresi anche i vertici degli Atenei regionali, non colse l’occasione offerta dal movimento di contestazione per avviare una seria riforma del sistema universitario, limitandosi, nella sua componente maggioritaria, a una difesa dello status quo [Bonini 2007, 440].
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Note
1. Il settore disciplinare comprendeva i seguenti corsi: Lettere, Filosofia, materie letterarie, Lingue e letterature straniere, Pedagogia, Geografia, il diploma di abilitazione per la vigilanza nelle scuole elementari, Lingue e letterature orientali, Lingue e letterature europee.