Questo saggio rielabora il mio più ampio lavoro Il futuro non si cancella, Rimini: Panozzo, 2015.

 

1. Le origini

Quando nell’aprile del 1999 partirono i primi pullman reggiani per Mauthausen, in Italia la cultura dei viaggi della memoria non era ancora particolarmente radicata. La memoria stessa non godeva di ottima salute e in diversi, un po’ ovunque, cominciavano a pensare che fosse ora di ridarle vigore: troppe generazioni stavano crescendo in una società che sembrava via via perdere il senso del proprio passato.

Qualche anno prima, nel 1994, uno dei più importanti storici del Novecento, Eric Hobsbawm, nel suo famoso volume Il secolo breve aveva formulato una categoria destinata a diventare celebre tra coloro che avevano a cuore il tema della memoria: «presente permanente». Un tempo, cioè, che non aveva più un rapporto «organico» con il passato, in cui erano venuti meno i «meccanismi sociali che connettevano l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti». Un tempo in cui, secondo Hobsbawm, sembrava vivere la maggior parte dei giovani.

In effetti, da almeno un ventennio, giornali e sondaggi nelle scuole ripetevano ossessivamente che la maggior parte dei ragazzi non aveva memoria storica o aveva una visione distorta e confusa del passato. Molti, poi, pensavano che il problema maggiore fosse un altro, e cioè che oltre a mancare di conoscenza e consapevolezza del passato, il mondo giovanile non sapesse cosa “farsene”. Ovvero la storia non era più una delle categorie attraverso cui i giovani misuravano, comprendevano e confrontavano la propria esistenza. Tra gli adolescenti – ma forse non solo tra loro – sembrava diffusa la convinzione che il passato non avesse più nulla da insegnare, che ciò che stavano vivendo fosse sempre accaduto e che nulla potesse cambiare: se il tempo era un eterno presente, il futuro non sarebbe stato che una sua insignificante ripetizione.

Ciò che sembrava essersi spezzato, insomma, sembrava essere il filo della storia.

Anche per queste ragioni, quando partirono i primi pullman reggiani per Mauthausen, ad organizzare il viaggio non fu Istoreco ma l’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia.

Alcuni al suo interno, infatti, ormai anziani ex partigiani, avvertivano l’urgenza di irrobustire il lascito della propria esperienza, di rafforzare la traccia della straordinaria fase storica che avevano vissuto. La guerra, la Resistenza, la Liberazione. Il fascismo e il nazismo, fenomeni con una loro storicità, certo, ma considerati ancora minacce da non sottovalutare. E gli ex partigiani dell’Anpi cominciarono a pensare che un viaggio in un Lager potesse funzionare da anticorpo alla cultura neofascista che puntualmente riemergeva nella storia d’Italia, soprattutto tra i più giovani e soprattutto per la loro ignoranza del passato.

La questione, in quegli anni, cominciò ad essere dibattuta un po’ dappertutto: chi era convinto che un’esperienza simile potesse segnare i giovani e li potesse preservare da visioni escludenti o addirittura razziste e chi, invece, non riteneva Auschwitz in grado di redimere nessuno e non considerava la memoria né una garanzia per evitare il ripetersi dei crimini né un vaccino per costruire un futuro democratico.

Il dubbio era certamente legittimo e ampiamente dibattuto, ma quando nel 1999 l’Anpi reggiana immaginò di portare i ragazzi delle scuole a Mauthausen, un’idea chiara ce l’aveva: mostrar loro l’abisso in cui fascismo e nazismo avevano condotto milioni di persone appena cinquant’anni prima; mostrare per ridare vigore alla cultura antifascista.

La scelta di Mauthausen non fu infatti casuale: tra i Lager del sistema concentrazionario nazista, era uno di quelli in cui, in misura maggiore, erano stati imprigionati gli oppositori politici, tra cui molti partigiani e antifascisti italiani. Anche reggiani. Andare a Mauthausen in quel periodo, dunque, aveva anche — e soprattutto ‒ un valore “politico”, perché in Italia rimbombavano piuttosto clamorosi i colpi che, dai primi anni Novanta e da più parti, settori diversi del mondo intellettuale e della classe politica avevano cominciato a muovere contro la cultura antifascista.

Con la crisi delle ideologie novecentesche e con il precipitare del sistema politico della prima Repubblica, antifascismo e Resistenza subivano attacchi continui e delegittimanti. Un’aggressione più sottile e pericolosa rispetto a quella che li aveva sfidati negli anni Sessanta e Settanta, quando era stata soprattutto la cultura neofascista ad avversarli. Una lunga e strisciante delegittimazione, cominciata con i “ragazzi di Salò” di Luciano Violante nel 1996, continuata con una altrettanto lunga serie di revisioni della storia: dal “fenomeno” Pansa – con il successo dei suoi libri da Il sangue dei vinti in poi – alle numerose fiction televisive che via via misero in discussione, in un discorso pubblico di grande impatto mediatico, la storia fondante la democrazia italiana.

A tutto ciò si accompagnava poi, in quegli anni, una sostanziale indifferenza della classe dirigente italiana verso politiche della memoria che, in altri paesi europei, avevano invece rimesso il passato – e la sua idealità democratica – al centro della discussione pubblica, alla base di importanti progetti culturali e di consistenti finanziamenti economici. In Italia, toccava ancora a una marginale minoranza il compito di tutelare e rivendicare la memoria antifascista, motivo per cui l’Anpi di Reggio Emilia decise di organizzare quel primo viaggio.

A quell’epoca, Mauthausen ‒ come gran parte degli altri ex Lager — era ancora per lo più meta delle associazioni degli ex deportati che, alcuni decenni dopo la fine della guerra, cominciarono a trovare la forza e il coraggio di tornarvi, soprattutto negli anniversari della liberazione dei campi.

Nel 1999, dunque, l’idea che posti come quello potessero essere luoghi di insegnamento non era ancora così assodata: gli ex Lager erano ancora per lo più memoriali, non luoghi di studio ed erano pochi gli studenti che dall’Italia vi venivano accompagnati. Basta pensare, ad esempio, che il centro visitatori di Mauthausen – cioè la base del programma didattico oggi predisposto nel memoriale – fu istituito solo nel 2003.

Anche quel primo esperimento reggiano non era pensato come un viaggio di istruzione. C’erano alcune scuole, certo, ma anche molti adulti, amministratori della città, iscritti dell’Anpi, testimoni, rappresentanti delle associazioni degli ex deportati e delle vittime civili, una piccola troupe di Telereggio. In tutto circa 400 persone che in tre giorni visitarono Salisburgo, Linz e qualche monastero austriaco ma avevano come obiettivo principale partecipare alla manifestazione ufficiale per la liberazione del campo.

Come le altre spedizioni organizzate da molte città, dunque, quel viaggio era ancora un pellegrinaggio per rivendicare l’importanza che quei luoghi avevano per gli uomini che si riconoscevano nei valori e nelle idealità democratiche e antifasciste.

Ad accompagnare i viaggiatori reggiani, e a condurre la visita guidata al campo, fu Piero Iotti, un partigiano di Sant’Ilario d’Enza lì deportato nel novembre 1944. Nessuno può dire cosa abbia significato per gli ex deportati tornare là, forse nemmeno loro. Tuttavia, l’intensità del loro abisso emotivo rendeva certamente quei pellegrinaggi fortemente suggestivi e anche in quel viaggio del 1999 ci fu molta più commozione che studio.

Già l’anno seguente, però, alcuni in Istoreco cominciarono a chiedersi se fosse ancora giusto così e l’edizione 2000 del viaggio reggiano fu già molto diversa. Intanto a organizzarlo non fu più l’Anpi ma Istoreco e la meta non fu più Mauthausen ma Terezin, un campo lontano dalle vicende italiane, sia geograficamente che storicamente visto che nessun ebreo italiano vi fu mai deportato.

Organizzare il viaggio della memoria a Terezin, dunque, non significava commemorare una storia che in qualche modo chiamava in causa Reggio Emilia, come erano stati i pellegrinaggi a Mauthausen, quanto viaggiare per studiare. E, in particolare, studiare i modi, le forme e gli strumenti della propaganda nazionalsocialista, visto che i nazisti avevano presentato al mondo quel campo come un ridente e tranquillo luogo di re-insediamento ebraico.

Con quel viaggio, quindi, nell’aprile del 2000 per Istoreco e per il viaggio della memoria iniziò una nuova fase il cui obiettivo non era solo il ricordo delle vittime del nazionalsocialismo quanto il confronto con la storia europea, la storia della persecuzione razziale e politica e quella della Resistenza.

2. La preparazione al viaggio

Dal 2000 al 2005 hanno viaggiato con Istoreco 300 ragazzi ogni anno, dal 2006 i numeri sono raddoppiati: 500 studenti a Berlino nel 2005, 600 a Dachau nel 2008, 750 nel 2009. Dal 2010 ad oggi, la cifra si è attestata su un migliaio di studenti ogni anno. Un migliaio di studenti da 16-17 scuole della città e della provincia, divisi in tre turni, perché farli viaggiare tutti insieme è diventato via via logisticamente impossibile.

Nei primi anni le destinazioni erano sempre diverse: Auschwitz-Cracovia e Berlino più frequentemente, ma anche Terezin, Dachau e Monaco, Dora-Mittelbau, Buchenwald. Negli ultimi anni la mole crescente di viaggiatori ha imposto un ripensamento continuo delle scelte e delle modalità, anche perché alcuni luoghi di memoria non sono tuttora attrezzati per accogliere un tal numero di studenti italiani, non hanno un numero sufficiente di guide italofone, non hanno le strutture adeguate. Per ragioni logistiche, quindi, la destinazione delle ultime edizioni è stata per lo più Auschwitz-Cracovia, Berlino-Sachsenhausen/Ravensbrück e Praga-Terezin, ma l’offerta didattica è stata continuamente rinnovata e aggiornata con nuovi temi, nuovi musei o nuovi luoghi da visitare.

Al centro del viaggio sono sempre state la storia europea e quella italiana e, in particolare, quella di Reggio Emilia: i suoi orizzonti vanno ben oltre il contesto locale ma non lo dimenticano. Si va in Europa, si studiano altre culture, si incontrano altri stili di vita ma poi si ricolloca la storia a Reggio Emilia, qui se ne cercano le tracce. Dimensione internazionale e dimensione locale, la grande storia e la mia città: né localismo né storia astratta.

A ogni scuola, anche a seconda della propria specificità, viene data la possibilità di approfondire temi affini ai propri interessi e di confrontarsi, oltre che con la storia della deportazione e della Resistenza, anche con quella del paese o della città meta del viaggio. In particolare a Berlino, l’offerta formativa è molto articolata. Oltre alle visite ai vicini campi di Sachsenhausen e Ravensbrück, le scuole possono scegliere percorsi sulla città nazista o sul rapporto tra arte, sport e nazionalsocialismo ma anche sulla vita quotidiana berlinese dopo la costruzione e l’abbattimento del Muro, o sul movimento gay durante la Repubblica di Weimar.

Gli studenti che partecipano sono impegnati per diversi mesi in una serie di iniziative: incontrano ricercatori, studiosi, testimoni. Il viaggio dura una settimana ma è un progetto di un intero anno ed è preceduto da una preparazione molto accurata perché considerata l’unica cosa che consente ai ragazzi di leggere «l’opacità dei luoghi»: come dice Annette Wieviorka, in ogni ex Lager «non c’è assolutamente nulla da vedere se non si sa prima quello che si cerca».

Questa preparazione, dunque, è diventata nel tempo una condizione indispensabile: chi vuole partecipare deve prendere parte agli incontri introduttivi che, nei primi anni, erano conferenze tenute da ricercatori di Istoreco o da altri specialisti, e rivolte soprattutto agli insegnanti. Poi ci si è resi conto che mancava qualcosa, bisognava migliorare il coinvolgimento dei ragazzi, renderli più consapevoli di ciò che stavano per fare.

Oggi, la partecipazione di studenti e insegnanti è massiccia e capillare e mira a provocare negli studenti quei ragionamenti senza i quali prevarrebbe non solo una confusione generale di dati e dettagli, uno scollamento tra cause ed effetti, ma anche un’abbondanza di stereotipi sugli ebrei e sui nazisti, sui tedeschi e sugli italiani, sull’antisemitismo e sul razzismo, generalmente prodotti nei ragazzi dalla grande e spesso importante produzione cinematografica sul tema della deportazione e della Shoah.

Obiettivo della preparazione propedeutica, quindi, è superare questa banalizzazione mediatica ma anche costruire una cornice storica ampia, nella quale inserire il progetto nazista di eliminare non solo gli ebrei, ma di schiavizzare e opprimere numerose altre categorie di persone: oppositori politici, sinti e rom, omosessuali, testimoni di Geova… Per questo, ogni anno viene scelto un tema specifico che riguarda a volte la storia della deportazione – non solo razziale ma anche politica – a volte quella della Resistenza, sia italiana che europea.

A differenza di altre esperienze simili, quindi, il progetto di Istoreco non si concentra solo sulla Shoah e sulla persecuzione degli ebrei.

Negli ultimi anni, ad esempio, i ragazzi che hanno partecipato al viaggio hanno potuto approfondire tematiche che, generalmente, hanno una ricaduta nell’attualità, nella discussione sul presente, come la figura femminile durante il fascismo o come «bottino di guerra», la disobbedienza al potere costituito — quella degli internati militari italiani (Imi) e quella dei disertori durante la Grande Guerra —, la persecuzione e la deportazione di sinti e rom, la resistenza militare ebraica, oppure il modo in cui “si diventa nazisti”, come cioè — tramite la scuola o la propaganda — una società riesce a formare gli assassini che lavorano allo sterminio di un popolo.

La scelta di questi temi nasce di anno in anno da domande ricorrenti dei ragazzi, e dal tentativo di fornire loro non solo delle risposte ma anche delle chiavi di lettura per il presente.

Oltre al seminario di approfondimento, Istoreco propone alle scuole altri tre incontri preparatori.

Il primo, che si svolge scuola per scuola, è un’introduzione al viaggio, alla città e ai luoghi che gli studenti visiteranno, alla sua cultura, alle sue particolarità. Agli studenti viene spiegato il progetto, le sue ragioni di fondo, che approccio vuole avere, cosa viene chiesto loro.

I successivi due incontri sono quelli con i testimoni, generalmente i più attesi dai ragazzi perché permettono loro di dare un nome e un volto alla storia, suscitano empatia, emozione, coinvolgimento. Da diversi anni, Istoreco propone l’incontro con un sopravvissuto al Lager – solitamente italiano, per aiutarli a comprendere che la storia della deportazione è “anche” una storia italiana – e con un partigiano, spesso straniero, per segnalare loro che la Resistenza è stata un fenomeno europeo.

Solitamente, questi incontri si tengono nella sala di un importante teatro cittadino, il teatro Ariosto, non solo per consentire ai mille ragazzi di assistervi tutti insieme ma anche perché una sala teatrale è un luogo che induce all’ascolto, che è capace di creare un’atmosfera di palpabile tensione emotiva e di grande — e quasi incredibile visti i numeri — attenzione.

Per tanti, è questa preparazione così accurata e meditata che dà valore al viaggio di Istoreco, che consente ai ragazzi di comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, di comprendere il valore dell’esperienza che viene offerta loro.

3. Un viaggio di studio

È ovvio che la visita a un ex Lager richiede una concentrazione difficilmente compatibile con le visite di massa. Per questo, i mille ragazzi che ogni anno partono dalla provincia di Reggio Emilia sono suddivisi in tre turni settimanali, circa 350 ragazzi su sette pullman per ogni settimana. A parte la partenza e l’arrivo, tuttavia, essi non si trovano mai tutti insieme, se non alla commemorazione dell’ultimo giorno. Per l’intera settimana, sono suddivisi in gruppi piccoli, e ognuno segue il proprio programma in modo autonomo. Ciò consente loro di avere spazio e tempo per ascoltare, seguire, porre domande. Non c’è la calca e la distrazione delle comitive affollate.

Giunti a destinazione, la settimana è impegnativa, ci si alza presto al mattino, si sta in giro tutto il giorno, si torna alla sera tardi. Ogni classe ha un programma fitto di incontri, conferenze, visite guidate, concordato prima della partenza.

Le necessità dello studio condizionano tutta l’organizzazione del viaggio. Ad esempio la scelta di far soggiornare i ragazzi in camere doppie – massimo triple — anziché in ostelli, per concedere loro spazi riservati e intimi e momenti di riposo e tranquillità. Oppure il proporre loro un viaggio in pullman — e quindi un viaggio lungo e lento — durante il quale vedere film che aiutano a entrare nell’atmosfera del viaggio o ad aggiungere elementi per una discussione che a volte inizia già sul pullman. O, ancora, organizzare le visite guidate o gli incontri per piccoli gruppi di 20-25 studenti al massimo, per permettere ai ragazzi di interagire con le guide e approfondire, per poter usufruire di un dialogo che in tanti diventerebbe impossibile.

Durante il viaggio con i ragazzi c’è sempre un collaboratore di Istoreco, il responsabile pullman, che si occupa di tutte le questioni pratiche e logistiche, degli appuntamenti con le guide, di organizzare i punti di ritrovo con gli autisti, di procurarsi i biglietti nei musei o nei luoghi di memoria, di distribuire le stanze in albergo, di accompagnarli a cena, di seguire, insomma, passo per passo il programma logistico del proprio gruppo. E questo perché gli insegnanti non devono avere nulla cui pensare se non ai propri studenti.

Ogni responsabile pullman, per una settimana vive insieme ai ragazzi, li introduce a ciò che vedranno, li motiva a tenere un certo comportamento rispetto alle guide e ai luoghi, spiega loro il significato delle scelte organizzative e come, spesso, esse vadano al di là delle semplici necessità pratiche. Sono loro, ad esempio, a spiegare ai ragazzi perché sul pullman si possono guardare alcuni film e non altri o perché, se vogliono, possono lasciare un fiore in un luogo che li ha colpiti. Sono loro che li invitano ad avvicinarsi a Istoreco, a riunirsi la sera in redazione, a scrivere le loro impressioni. Sono loro che, soprattutto durante il viaggio di ritorno, stimolano le discussioni sul pullman, rispondono alle domande dei ragazzi, commentano insieme ciò che hanno visto. Sono loro, insomma, il volto di Istoreco. E tutto questo va oltre la dimensione logistica.

Nei primi anni del viaggio erano quasi esclusivamente collaboratori e ricercatori di Istoreco, poi, una quindicina di anni fa il gruppo si è allargato a ragazzi più giovani che collaborano con l’istituto per altri progetti, dai Sentieri partigiani ai Mondiali antirazzisti o che a Istoreco decidono di svolgere il servizio civile volontario. Intorno al 2009-2010, infine, quando i partecipanti sono aumentati al punto di doverli suddividere in tre turni, sono arrivati addirittura ragazzi che avevano fatto il viaggio con la scuola qualche anno prima e che, colpiti dall’esperienza, hanno chiesto di poter collaborare in qualche modo.

Oggi, la maggior parte dei responsabili pullman è molto giovane, tra i 23 e i 30 anni. Ed essere quasi coetanei degli studenti, o poco più grandi, non è un elemento secondario. Anche perché, molto spesso, riescono a instaurare rapporti amichevoli con loro, a guadagnarsene la fiducia e a diventare facilmente punti di riferimento.

Quando la sera si torna in albergo, il lavoro continua. In alcune stanze è allestito un ufficio, una sorta di redazione. I ragazzi vi trovano tavoli e computer e, a fine giornata, possono sedersi e scrivere. Brevi post, riflessioni, piccoli video girati durante il giorno, fotografie dei luoghi che li hanno colpiti di più: tutto poi viene condiviso sul web, sui social network, sui siti dei media reggiani.

Alla fine del viaggio, il giorno della partenza, per la prima e unica volta i 350 ragazzi di ogni turno si trovano insieme. È il momento della commemorazione che, generalmente, viene organizzato nell’ex Lager. A differenza di molte altre cerimonie, in cui protagonisti sono gli ex deportati o i rappresentanti delle istituzioni che spesso accompagnano gli studenti della loro città, il viaggio di Istoreco mette al centro di questo rito i ragazzi e le loro impressioni. La parola va a loro che, a volte timidamente, a volte con maggiore spavalderia, prendono il microfono e raccontano agli altri le sensazioni della settimana, cosa si portano a casa, cosa non avrebbero mai creduto di incontrare, con cosa i loro 18 anni si sono scontrati. Molti riflettono su di sé.

Alla fine, a loro disposizione ci sono fiori bianchi. Uno per ciascuno: chi vuole può prenderlo e lasciarlo nel campo, nel luogo che più lo ha colpito. Può, cioè, lasciare una traccia di sé, che si aggiungerà alle tracce di altri milioni di esseri umani che per quel campo sono passati.

È un piccolo gesto che, nelle mani di un ragazzo, sembra assumere un grande potere simbolico. O almeno questo è ciò che traspare dai tanti resoconti scritti negli anni dagli studenti a fine viaggio, nei quali questo momento è stato spesso raccontato come capace di dare un particolare significato all’intera esperienza: compiendolo, molti hanno percepito la sensazione di farsi carico di una storia e di una memoria che prima non apparteneva loro, di essersi portati via una coscienza nuova.

Per tutte queste cose, la commemorazione finale è il momento più intenso dell’intero progetto, e spesso i ragazzi hanno scritto di essersi sentiti finalmente parte di una comunità, di essersi percepiti parte di qualcosa di grande, di essere riusciti ad annodare legami con altri compagni e compagne.

Terminato il viaggio vero e proprio si apre l’ultima fase del progetto: la restituzione. Ovviamente i ragazzi tornano con un grande carico emotivo che secondo tutti – dagli insegnanti agli operatori di Istoreco – non va abbandonato. L’emozione se ne va presto. E prima che questo accada deve essere trasformata in consapevolezza e crescita. Fondamentale è certo il lavoro quotidiano che ogni insegnante fa in classe ma considerevole è anche l’attività che Istoreco propone al ritorno.

Si tratta, in genere, di laboratori che cercano di dare spazio a una rielaborazione creativa dell’esperienza che gli studenti hanno vissuto. Nei diversi anni, scrittori, grafici, musicisti, creativi, giornalisti, conduttori radio si sono alternati a progettare coi ragazzi nuove forme di comunicazione della storia, dalle audioguide a installazioni grafiche in spazi pubblici, dalle sperimentazioni musicali ai racconti radiofonici.

Dopo il viaggio a Dachau nel 2008, ad esempio, un gruppo di studenti ha partecipato a Hai visto che storia, un laboratorio che si è concluso con la pubblicazione di un volume e che ha stimolato i ragazzi a creare testi ispirati a tre foto della Liberazione di Reggio Emilia, installate poi da Istoreco in altrettante piazze cittadine in occasione del 25 aprile.

L’anno successivo, di ritorno da Berlino, alcuni studenti hanno lavorato con lo scrittore Paolo Nori e insieme hanno creato un racconto intorno a sette luoghi importanti per la storia della Resistenza reggiana. Un racconto che è diventato un’audioguida, Hai sentito che storia. Altri studenti – che a Berlino avevano visitato l’ex azienda-museo di Otto Weidt – hanno curato la traduzione di Papà Weidt, un libro per bambini scritto da Inge Deutschkron, un’ebrea sopravvissuta grazie alla piccola fabbrica per la produzione di spazzole e scope in cui Weidt fece lavorare, e protesse, molti ebrei non vedenti.

Dal 2010 al 2012, ad accompagnare il viaggio è stato Perché i vivi non ricordano gli occhi di, un progetto multimediale nato da domande frequenti dei ragazzi, dal loro chiedersi come mai certe vicende o certe persone non vengano più ricordate. Durante i laboratori, dunque, sono stati i ragazzi a scegliere le storie da raccontare e a svolgere le ricerche per riportare in città i nomi e le vicende di uomini e donne sconosciuti o, ancor peggio, dimenticati.

Dal 2012 al 2014, tutti i lavori degli studenti – mostre, scritti, rappresentazioni teatrali – sono stati presentati al pubblico e agli altri compagni di viaggio, a Correggio, durante ERA (European Resistance Assembly) una festa che ha concluso il viaggio della memoria mettendo a confronto alcune esperienze antifasciste d’Europa.

4. Un viaggio per riflettere

Fin dalle prime edizioni, il viaggio della memoria di Istoreco si è chiamato Progetto 25 aprile perché, più che la Shoah, il suo tema centrale è sempre stato la Resistenza: non solo piangere le vittime del passato ma dare ai ragazzi dei modelli positivi, responsabilizzarli, farli riflettere sul grande tema della scelta individuale, valorizzare eventi, luoghi e figure in grado di aiutarli a ridefinire e rifondare una tensione ideale a un mondo più giusto.

Per questo, ad esempio, durante la preparazione, ogni anno i ragazzi hanno finora incontrato un testimone della deportazione e un partigiano o, durante il viaggio, qualunque sia stata la meta, hanno visitato luoghi di memoria diversi: un ex Lager – certo — ma anche luoghi significativi per la storia dell’opposizione al fascismo e al nazismo.

Insomma, il viaggio reggiano non si è mai focalizzato solo sulla morte, sulla sconfitta, sulla tragedia, ma ha sempre cercato di trasmettere ai ragazzi che c’è stato anche chi ha fatto altro. Che si poteva far qualcosa d’altro, che la possibilità di scegliere c’è sempre, anche nelle situazioni più difficili come quelle di quasi ottant’anni fa.

Quando diversi anni fa — nel 2014 — iniziai a studiare l’esperienza reggiana, questo fu uno degli aspetti che mi colpì di più e che mi sembrava meglio caratterizzarla e differenziarla dalle tante che, negli anni, si erano attivate in molte altre città italiane. Trasmettere il valore della responsabilità individuale in una società che tendeva a distaccare i mezzi dai fini, a favorire la deresponsabilizzazione delle persone e a inibire il senso critico, non mi parve pedagogicamente superfluo.

“Il futuro non si cancella” associato alla freccia del reload è, da qualche anno, lo slogan del viaggio. Slogan che sottende un concetto molto semplice ma, di questi tempi, anche non del tutto scontato e cioè che la memoria non può essere solo conservazione del passato ma deve soprattutto rimettere in gioco il futuro. Sia durante il viaggio che nella sua preparazione, l’approccio di Istoreco non è mai retorico e nostalgico, ma mira a lasciare agli studenti un orizzonte aperto e, soprattutto, a spingerli a superare una certa interpretazione moraleggiante della storia — «Ricordate!», «Mai più Auschwitz!», «Per non dimenticare!» — che, generalmente, alimenta una visione compassionevole del passato, più che aiutare a comprendere i meccanismi sociali e politici che hanno permesso all’umanità di concepire Auschwitz.

Il progetto reggiano presta generalmente molta attenzione a che la riflessione storica e politica non sia sostituita con la morale, a che l’insegnamento della deportazione non sia ridotto a una predica per la tolleranza e per la difesa dei diritti umani. L’obiettivo finale è offrire ai ragazzi un percorso di studio che metta al centro il ragionamento e la comprensione: lo scopo del viaggio non è colpire i ragazzi su un piano emotivo per la vastità del crimine compiuto, quanto far conoscere una parte della storia del nazismo e del fascismo, far capire che non si è trattato di eventi ineluttabili, che ci sono state responsabilità precise e diffuse.

Non che l’emotività si possa mai escludere da una visita a un ex Lager, nemmeno quando i viaggi sono di studio, ma certamente ciò che Istoreco tenta di fare non è impressionare i ragazzi con l’orrore, quanto ripercorrere le strutture del pensiero antidemocratico, portando il discorso e l’attenzione sull’interrogativo del come sia stato possibile, per la società europea di ottant’anni fa, perdersi nell’intolleranza.

5. Una comunità intorno al viaggio

A Reggio Emilia, il viaggio della memoria coinvolge una grossa parte della comunità che da anni si impegna a realizzarlo, al punto che, tuttora, rimane un’esperienza condivisa da un bel pezzo di città e provincia. Dai ragazzi e dagli insegnanti prima di tutto, ma anche da molte altre persone: le famiglie, i giornalisti e i media locali, gli amministratori, i lavoratori di I Teatri e Til – la società dei trasporti che ogni anno fornisce i pullman –, i cooperatori e i finanziatori.

Certamente, quella di Reggio Emilia è sempre stata una provincia relativamente prospera, con mezzi e denari per appoggiare e finanziare progetti come il viaggio. E in tanti, in questi vent’anni, lo hanno sostenuto economicamente: le amministrazioni locali della città e di molti Comuni del territorio provinciale, le cooperative, le fondazioni. Esso, poi, fin dalla sua nascita ha goduto del sostegno politico delle istituzioni, i cui rappresentanti in molte edizioni vi hanno partecipato direttamente. Anche questo supporto politico e finanziario ha reso possibile la sua crescita sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Pur essendo una provincia piccola, unendo tante energie, Reggio è riuscita a costruire un progetto impegnativo e grande, di cui gran parte della città è soddisfatta. Oggi il viaggio della memoria è un momento atteso da gran parte dei ragazzi di tutti gli istituti scolastici e con loro, in qualche modo, anche dalle loro famiglie.

Perché tanto successo? C’entra la città, la sua storia? Il lavoro di Istoreco? O ci sono altre cause che determinano la fortuna di questo progetto?

Reggio Emilia è una piccola città dalla ricca storia. Può vantare solide radici antifasciste, è medaglia d’oro per la Resistenza ed è stata uno dei teatri più importanti delle manifestazioni del luglio 1960, a difesa delle fondamenta democratiche della Repubblica italiana. La sua robusta tradizione cooperativa e solidaristica ne ha fatto, a lungo, un modello per altre città e regioni. Da oltre un secolo la storia della cooperazione reggiana è nota un po’ ovunque, così come il ruolo delle sue amministrazioni, espressione dal dopoguerra di uno stato sociale attento e rigoroso. Dagli anni Sessanta, poi, è diventata anche punto di riferimento internazionale per l’attenzione all’infanzia e all’educazione.

Quella di Reggio Emilia è dunque una provincia che non solo ha una profonda memoria antifascista, ma anche un forte interesse per i giovani, per la formazione, la solidarietà, la cooperazione, il lavorare insieme. Un contesto che negli anni ha senza dubbio creato un humus favorevole e sensibile, sia sul piano delle istituzioni pubbliche che su quello delle imprese private, alle tematiche dell’antifascismo e dell’antirazzismo e una sensibilità attiva e propositiva nel sostenere iniziative per divulgarne memoria.

A Reggio, insomma, ci sono molte persone che giudicano importante che i ragazzi maturino certe idealità, credano in certi valori, possano fare certe esperienze. Come in altre città emiliane, anche qui ci sono anziani che sono stati protagonisti di una storia troppo eccezionale per non essere raccontata, ma ci sono anche giovani “sensibili al passato”, o meglio giovani che, negli ultimi anni, hanno recuperato l’antifascismo e la Resistenza come elementi identitari, come una cosa di cui riappropriarsi.

Alcuni dunque pensano che la fortuna del viaggio della memoria sia frutto di una particolarità locale, di qualcosa che ha a che fare anche con la storia di questo territorio.

Altri, pur ritenendo Reggio una città senz’altro peculiare, pensano che siano altre cose a contare rispetto all’importanza che il viaggio ha assunto in questi ultimi anni, come gli insegnanti e la loro motivazione, il passa parola tra i ragazzi, il fatto che il viaggio è un’esperienza strana: è una gita ma non solo di classe.

Ma ciò che conta è anche e soprattutto il lavoro di Istoreco esteri, che è stato capace di organizzare un progetto scientificamente valido, ma anche di creare relazioni con gli enti locali, con il sistema economico della città e soprattutto con le scuole.

Ogni anno il viaggio della memoria traccia in città segni profondi, la copertura mediatica è imponente e anche altre realtà organizzate lo prendono come modello. Nell’ultimo decennio, ad esempio, Istoreco esteri ha organizzato viaggi simili per cooperative, amministrazioni comunali della provincia, sindacati, associazioni. Oltre alle scuole, ogni anno un pullman del viaggio è riservato agli “adulti”. Persone di ogni età che vogliono farne l’esperienza per le ragioni più diverse. Perché ne hanno sentito parlare dai figli, perché hanno padri o parenti che sono stati partigiani o deportati, perché in città è ormai un progetto conosciuto.

Ciò che sembra essersi sviluppata in questa zona, insomma, è una sorta di cultura del viaggio della memoria che coinvolge tantissime persone: cittadini, insegnanti, dirigenti scolastici, autisti, lavoratori, amministratori, dirigenti di cooperative, intellettuali e giornalisti, operatori di memoria, e poi mille studenti ogni anno, più due mila genitori, fratelli, amici.

Il viaggio della memoria è una semina che coinvolge migliaia di persone in una città di poco più di 170 mila abitanti. Un esperimento che, da vent’anni, mostra come sia possibile trasmettere interesse per il passato tra le nuove generazioni e, insieme ad esso, cultura della cittadinanza e senso d’appartenenza a una comunità democratica. Un esperimento lontano tanto dai consueti riti dell’ufficialità quanto dagli slogan retorici e che, soprattutto, sembra molto efficace nello strappare le giovani generazioni al vuoto e al conformismo del “presente permanente”.


Bibliografia

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    Il presente ha un cuore antico. Atti del seminario residenziale sulla didattica della shoah, Milano: Thélema
  • Fontana L. 2007
    Insegnare Auschwitz nella scuola. Riflessioni sulla didattica della Shoah: questioni etiche, storiografiche e metodologiche, “Bollettino Istituto Storico di Rimini”, 2
  • Mantegazza R. 2012
    Nessuna notte è infinita. Riflessioni e strategie per educare dopo Auschwitz, Milano: Franco Angeli
  • Mantegazza R. 2014
    Diventare testimoni. Riflessioni e percorsi per la Giornata della Memoria a scuola, Parma: Edizioni junior
  • Rinaldis A. 2015
    Il treno della memoria, viaggio nel presente di Auschwitz, Reggio Emilia: Imprimatur
  • Traverso E. (ed.) 1995
    Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino: IRRSAE Piemonte-Bollati Boringhieri
  • Wieviorka A. 1999
    L’era del testimone, Milano: Raffaello Cortina

Risorse