1. Dieci parallelepipedi
Dall’8 settembre 1943 alla Liberazione e al difficile lavoro di ricostruzione post bellica, passando per la persecuzione degli ebrei, la violenza nazifascista, le innumerevoli difficoltà quotidiane di una città in guerra, i bombardamenti e, ovviamente, la Resistenza. Un percorso fatto di parole e immagini, certo, ma soprattutto di memorie solide che, per un oltre un mese, hanno ingombrato le strade di Modena con la loro robusta corporeità, difficile da ignorare.
È un’idea stimolante quella dell’Istituto della Resistenza di Modena, che ha celebrato il 70° anniversario della Liberazione in modo tutt’altro che retorico, dislocando per le strade della città dieci parallelepipedi di compensato pressato alti due metri, rivestiti di fotografie e ritratti a grandezza naturale, manifesti dell’epoca, e testi scelti dalle Cronache di Adamo Pedrazzi, archivista e bibliotecario che, a suo tempo, descrisse quotidianamente l’esperienza dell’occupazione nazifascista nel Modenese. Al loro interno, poi, vi ha collocato cose di un tempo andato, di vita andata, quella che migliaia di modenesi hanno vissuto, in quegli stessi posti, 70 anni fa.
Nel tepore della scorsa primavera, dunque, camminando per il centro storico, era possibile imbattersi in queste dieci installazioni, ognuna dedicata ad un tema specifico di quella fase straordinaria che ha segnato la storia del nostro paese negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Installazioni frutto di una rigorosa ricerca storiografica e iconografica e, al tempo stesso, capaci di rianimare ambienti, atmosfere, vite, come nella migliore tradizione museologica francese. Solo che qui il museo era la città stessa, con le sue piazze e i suoi vicoli, teatro en plein air di quel sorprendente abbraccio tra presente e passato che ogni solido condensava in sé.
2. Fare storia a cielo aperto
«La storia ha bisogno di uscire dai libri o dalle stanze dei musei per tornare laddove è partita», recitava la presentazione della mostra, ideata dal’Istituto per popolare gli spazi della città, del lavoro, della vita quotidiana, del tempo libero, del vivere comune. Spazi in cui il senso di ciò che è accaduto tra il 1943 e il 1945 – diceva ancora la presentazione – poteva e doveva «tradursi in condivisione, collettività, libertà e democrazia».
E ci appare, questo, un fare storia ispirato a necessità prima di tutto politiche: riportare la memoria antifascista, che sta alla base della nostra convivenza democratica, al centro della città e della battaglia delle idee, riportarla nelle strade di tutti i giorni per riconquistarle a ideali comuni, per sottrarle alla noncuranza e al disinteresse cui per troppo tempo sono state costrette. Al di là della retorica dei discorsi d’occasione, infatti, l’antifascismo è stato per lo più trattato dall’intera classe dirigente degli ultimi vent’anni come una zavorra del Novecento, un peso del quale disfarsi per avere finalmente un paese “pacificato”, dove tutti quanti – rossi e neri, fascisti e antifascisti – potessero riconoscersi. Oggi più che mai, dunque, ogni Istituto storico della Resistenza dovrebbe far proprio un simile modo di fare storia, capace di rimettere in discussione la delegittimazione politica che la memoria pubblica dell’antifascismo ha subito negli ultimi anni, capace di individuare linguaggi adeguati ai tempi del nostro vivere quotidiano, capace di superare la retorica delle orazioni ufficiali, capace di uscire dalle stanze ovattate e protette di chi in quella memoria già si riconosce. Capace, infine, di suscitare nuove curiosità anche nei più giovani, cresciuti in un clima politico strumentalmente poco interessato a quel passato.
3. Oggetti quotidiani in tempo di guerra
Basterebbe questo per fare di Memorie Solide – e del suo modo singolare di raccontare alla città il suo passato – uno dei progetti di maggior rilievo, anche a livello nazionale, delle celebrazioni per il 70°. Ma questo non è che uno dei tanti tratti di suggestivo interesse che lo caratterizzano. Colpisce, ad esempio, il fatto che, sebbene i solidi fossero ben riconoscibili dai passanti, le installazioni non lo erano altrettanto: rimanevano anzi custodite al loro interno, quasi nascoste, ed esplorabili soltanto attraverso fessure cui bisognava avvicinarsi. Squarci nel velo di questo eterno presente in cui viviamo. Squarci che, nella frenetica quotidianità cittadina, riportavano agli occhi di chi aveva voglia di fermarsi frammenti di passato, un passato non solo visibile ma tangibile, concretato in pochi oggetti di vigorosa suggestione evocativa.
E così, in un pugno di pasta al centro di un piatto diventavano concrete, ai nostri occhi, tutta la miseria e le difficoltà quotidiane del razionamento alimentare in tempo di guerra; un portacenere pieno di mozziconi di sigarette raccontava potentemente la tensione della clandestinità; un mucchio di libri bruciati evocava, con una forza simbolica altissima, la violenza tremenda della discriminazione e dell’annientamento culturale che il nazismo mise a sistema nel Terzo Reich e nei territori occupati. Le stoviglie, le scarpe e i portafoto dal vetro rotto affioranti da un cumulo di calcinacci immergevano nella disperazione di una guerra che, con la prepotenza delle bombe dall’alto, entrava nelle case e le trasformava in trappole mortali, violandone l’intimità; mentre una borsa di paglia appesa al manubrio di una bicicletta riportava alla mente centinaia di volti di donna, giovani e meno giovani, capaci di sfidare la strada, la neve, la fatica e il terrore del posto di blocco. Riportava alla mente un mondo femminile che provò a uscire da uno stato di minorità ancora difficile da oltrepassare ma messo da parte, almeno in quel glorioso e drammatico momento, dalla potenza di piccoli e straordinari gesti di resistenza.
E poi – ancora – un paio di scarponi, un elmetto e uno zaino militare gettati su un tricolore sabaudo erano sufficienti a raccontarci la disillusa amarezza dell’8 settembre, lo sfaldamento reale e simbolico, agli occhi di un intero paese, delle istituzioni monarchiche. Un foglio ingiallito, abbandonato su un palchetto vicino ad un letto sudicio, bastava a ricreare l’angustia della cella, la solitudine della prigionia e l’angoscia delle ultime parole prima di morire. Un mucchio di giornali gettati a terra e tessere di partito che sembravano scendere dal cielo ben raccontavano, invece, l’euforia della libertà ritrovata e di un’Italia, finalmente, tutta da ripensare e ricostruire.
4. Nomi, percorsi di vita, emozioni
Altra cosa che colpisce è che su ogni solido campeggiava un nome, solo un nome proprio senza cognome, nomi di uomini e donne la cui storia di vita assurgeva in tal modo a simbolo di migliaia di vite che, in tutta Italia, hanno condiviso l’eccezionalità di quel momento nel quale la storia di ognuno si è intrecciata inevitabilmente con la storia generale. Uomini e donne, però, che in quella difficilissima situazione fecero i conti con se stessi e seppero compiere una scelta di campo, in una guerra totale che lasciava sempre meno spazio alla grigia indifferenza e che, sempre più, rendeva nitida la distanza tra dittatura e democrazia, tra cieca obbedienza e cultura critica, tra gerarchia delle razze e convivenza tra i popoli.
Molti dei dieci solidi, dunque, raccontavano un diverso modo di vivere e opporsi alla guerra, esprimendolo attraverso percorsi di vita tra i tanti possibili, e accompagnandolo con pochi oggetti, correlativi oggettivi di emozioni che talvolta, nella monumentalizzazione dei racconti cui la storia della Resistenza è stata sovente condannata, tendiamo a ignorare, dimenticare, non considerare. Mentre, al contrario, anche la suggestione emotiva può essere, oggi più che mai, straordinaria interprete dell’umana potenza di una scelta di campo e via di fuga da una retorica che, per troppo tempo, ha allontanato intere generazioni dalla storia più straordinaria del Novecento italiano, spesso ridotta a celebrazione ufficiale di martiri ed eroi o a “monumento” al passato che fu.
E se torniamo dunque a chiederci quale dovrebbe essere il senso delle celebrazioni e delle politiche della memoria, in che modo sia possibile oggi trasmettere memoria dell’antifascismo e della Resistenza, qual sia il ruolo degli istituti di ricerca e di ognuno di noi nel far sì che questa società – che cambia vorticosamente e rimane travolta dalle brutture di una crisi economica e culturale devastante – non perda di vista i presupposti ideali che ci consentono di convivere nella differenza, direi che la mostra dell’Istituto di Modena offre straordinari spunti di riflessione.