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1. Una repubblica, cento capitali

Subito dopo la notizia dell’armistizio, e le febbrili consultazioni per allestire rapidamente un governo, uno dei quesiti che si presentarono all’attenzione del gruppo dirigente neofascista fu quello relativo alla nuova dislocazione geografica della sede del governo e dei ministeri.

Roma, dopo la breve parentesi del Governatorato di Roma, non si prestava più a essere la capitale del fascismo repubblicano. Lo spostamento della sede del governo «in località da scegliere in alta Italia», deciso il 23 settembre 1943 durante la prima affrettata riunione del Consiglio dei ministri, venne ufficialmente motivato per «evitare il più possibile i bombardamenti aerei nemici alle città e vittime innocenti», sebbene nella stessa occasione fosse approvata la proposta, suggerita dal neoministro dell’Agricoltura Moroni, di «tenere i Ministeri riuniti il più possibile» [Scardaccione (ed.) 2002, 2-3]. Nella decisione di abbandonare Roma influirono anche considerazioni di natura strettamente militare, perché la sua prossimità alla costa e il pericolo di interruzione delle vie di comunicazione non garantivano efficaci misure di sicurezza [Perticone 1947, 65].

Lasciare Roma non era stato facile. Le trasformazioni durante il ventennio avevano elevato la città capitolina a città simbolo del regime. Per molti esponenti fascisti, e per lo stesso Mussolini [1], aver abbandonato la capitale era stato un errore imperdonabile [Dolfin 1949, 262]. Roma, oltre a ricordare i fasti del ventennio, rappresentava anche la naturale immagine dell’unità nazionale:

L’insuccesso di Mussolini nel persuadere i tedeschi che Roma doveva essere la sede della nuova repubblica fascista simboleggiava agli occhi degli italiani lo sfacelo dell’Italia non solo come entità territoriale, ma anche come entità storica. Come potevano sussistere le strutture di unità nazionale senza la capitale storica? [Deakin 1970, 766]

Se Roma non poteva mantenere il suo storico ruolo di centro politico e amministrativo esisteva l’alternativa Milano, la capitale del Nord per eccellenza. L’eventuale candidatura del capoluogo lombardo, tuttavia, non registrò il gradimento dei tedeschi poco intenzionati a concedere ai loro «alleati» uno spazio funzionale, e consapevoli del radicamento dei sentimenti risorgimentali nella società milanese, come avrà modo di testimoniare un osservatore nel dicembre 1944 durante le giornate milanesi del duce: «in nessuna altra città italiana l’avversione ai tedeschi è stata forse così profondamente sentita come a Milano. L’atmosfera che si respirava era quella stessa delle Cinque giornate» [Manunta 1947, 73]. La città ambrosiana, che aveva dato i natali al fascismo, dunque, rappresentava il doppio rischio di concedere alla Rsi un dinamico centro amministrativo e una più immediata identificazione di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale.

Sulla questione della scelta della sede del governo e dei ministeri due sono le tesi storiografiche. Una prima, proposta da Enzo Collotti, ha addebitato ai tedeschi l’opera di frantumazione dell’apparato amministrativo italiano, al fine di evitare di offrire agli italiani delle possibilità di sganciamento dall’«alleanza» italo-tedesca [Collotti 1985, 363] [2]. Anche per Giorgio Bocca il sempre attuale principio del divide et impera era stato applicato con successo dai tedeschi [Bocca 1977, 49]. Carlo Fumian invece, accreditando la versione degli ambienti diplomatici tedeschi, ha sostenuto la localizzazione delle sedi ministeriali non l’effetto di un preciso disegno, bensì il risultato della situazione caotica contingente [Fumian 1985].

La volontà tedesca di allontanare rapidamente da Roma l’esecutivo fascista, e tutto l’apparato amministrativo, difficilmente può essere discussa. Fin dal 10 settembre 1943 Joseph Goebbels annotava sul suo diario:

Pavolini, Ricci e il figlio del duce sono ora al Quartier Generale a preparare un appello al popolo italiano e alle forze armate. […] Dovranno prendere residenza nell’Italia settentrionale non appena le condizioni si siano là consolidate [Goebbels 1947, 570].

Altre fonti e studiosi concordano sulla decisiva responsabilità dei tedeschi nell’allontanare velocemente il governo da Roma e sul veto a un eventuale ritorno di Mussolini nell’Urbe [Amicucci 1948, 38; Bocca 1977, 42-3; Perrone Capano 1964, 284; Deakin 1970, 749].

Sull’esistenza o meno di un progetto tedesco nello spezzettare le sedi dei ministeri, situandole in una miriade di centri, invece bisogna essere più prudenti. Le missioni esplorative al Nord per individuare la sede del governo e delle varie amministrazioni italiane furono numerose. Già prima dell’annuncio dell’armistizio gli organi militari tedeschi avevano effettuato ricognizioni nella zona del Garda [Collotti 1963, 61] e nel Veneto occidentale, requisendo ville e alcuni alberghi [Silvestri 1963*, 19]. Dopo l’8 settembre 1943 e il radicale mutamento della situazione geopolitica, i tempi si erano notevolmente accorciati. Ora il piano per trovare una sede al governo neofascista aveva anche un nome in codice: operazione «Gisela» [Kuby 1983, 377].

Non è ancora chiaro invece quali organi decisero la nuova residenza del governo e delle amministrazioni italiane. Per Deakin, l’incarico di scegliere la località dove insediare il governo italiano fu affidato a Rommel e Wolff. Entro il 29 settembre 1943 dovevano trovare un luogo facilmente raggiungibile dai loro quartieri generali, situati rispettivamente a Belluno e a Verona [Deakin 1970, 765]. Sicuramente non fu estraneo all’operazione l’ambasciatore Rudolf Rahn, il personaggio chiave nella gestazione della Rsi; secondo un altro studioso, infatti, la decisione di stabilire la sede del baricentro politico sulle sponde del lago di Garda venne presa l’11 o il 12 settembre 1943 (giorno della liberazione di Mussolini) quando l’ambasciatore inviò in ricognizione al Nord un piccolo gruppo di suoi stretti e fidati collaboratori [Kuby 1983, 375].

Nel frattempo le voci sulla nuova sede si erano moltiplicate. Le prime indiscrezioni filtrate negli ambienti ministeriali indicavano Cortina d’Ampezzo, Brescia e Vicenza quali possibili «capitali» della Rsi [Bolla 1982, 255; Tomsich 1995, 130]. Piero Calamandrei dal suo rifugio toscano citava Cortina, ma anche Padova o Verona [Calamandrei 1982, 215-6], mentre il pluriricercato Giuseppe Bottai, ancora nascosto in uno scantinato romano, riferiva prima di Cortina e di Como e, poi, di Verona [Bottai 1982, 448, 456]. A un certo momento invece affiorò la «candidatura» di un’altra località alpina: Belluno [Deakin 1970, 764].

Questa volta non era la solita voce di corridoio. La localizzazione di Belluno offriva delle discrete garanzie di difesa – era situata nella prossimità del quartiere generale di Rommel – e più «sorvegliabile» facendo parte della nuova zona d’operazione dell’Alpenvorland. Il 29 settembre l’ambasciatore Rahn si recava personalmente a Belluno per i preparativi necessari, e il giorno seguente informava Berlino che «il trasferimento del governo italiano nella sua nuova sede – a quanto è dato prevedere Belluno – avverrà all’incirca entro una settimana» [Deakin 1970, 772; Kuby 1983, 377]. E a Belluno, nonostante il prefetto Foschi informasse le autorità centrali che sulla sistemazione dei ministeri le trattative tra i due governi erano ancora in corso, tutto era stato predisposto e organizzato per poter immediatamente accogliere il governo e l’amministrazione centrale dello Stato [3]. Belluno non diventò mai la capitale della Rsi. Il console Moellhausen il 7 ottobre 1943, comunicando con Berlino, avvertiva che l’idea era stata scartata per l’energica opposizione del comandante militare tedesco della zona [Kuby 1983, 376]; determinante fu anche l’atteggiamento dell’Alto commissario Hofer, fortemente contrario a qualsiasi presenza istituzionale italiana nella sua zona d’operazione [Moellhausen 1948, 390], come le vicende del Sottosegretariato alla Marina – che per breve tempo si insediò proprio a Belluno – confermeranno qualche mese più tardi [Borghi 1995, 11-22]. Casomai è interessante sottolineare che il progetto cadorino prevedeva la concentrazione di tutte le strutture amministrative in un raggio limitato di chilometri, una strategia opposta alla logica della dispersione adottata in seguito.

Sfumata definitivamente l’ipotesi bellunese, l’epicentro politico del nuovo stato fascista repubblicano (del quale però non si conoscevano ancora i confini) venne localizzato sulla sponda occidentale del Lago di Garda. L’orientamento e i desideri italiani furono quasi ignorati dalle sfere politiche e militari tedesche. Mussolini avrebbe preferito stabilirsi a Merano o a Bolzano [Deakin 1970, 764], ma considerazioni di carattere politico/diplomatico rendevano impraticabile tale scelta, così come fu respinta la proposta di ospitare il governo in altre località trentine (Madonna di Campiglio e Riva del Garda) [Corsini 1984, 37].

Già da queste indicazioni si possono fare alcune considerazioni. È evidente, infatti, l’esclusione preventiva di alcune aree geografiche del Norditalia (Piemonte, Lombardia occidentale, Emilia-Romagna) quali possibili residenze del governo e dei ministeri della Rsi. E questo, sostanzialmente, rispondeva a due motivi: per prima cosa l’area gardesana e il Veneto offrivano maggiori garanzie di sicurezza e di controllo, essendo vicine alle grandi arterie di comunicazione per la Germania e alle due zone di operazioni. In secondo luogo le amministrazioni militari e civili tedesche avevano trovato un loro radicamento territoriale proprio in quell’area di confine tra il Veneto e la Lombardia elevando Verona a loro centro operativo [Collotti 1963, 118-9].

Quindi, si può affermare la dichiarata volontà tedesca di insediare l’apparato amministrativo italiano in una determinata area, mentre per l’esatta dislocazione dei ministeri la critica situazione e, forse, il caso avevano giocato un ruolo decisivo.

Nella localizzazione della sede della Banca d’Italia, ad esempio, il governatore Azzolini fu lasciato libero dal ministro delle Finanze di scegliere una località compresa tra Verona e Novara [Caracciolo (ed.) 1992, 471]. Per il Ministero della Giustizia, invece, in un primo tempo la sede fu ubicata a Padova, ma poi si cambiò idea e si optò per Cremona, nonostante nella città del Santo si fossero già distaccati i primi nuclei di funzionari e di impiegati [4]. Il 3 ottobre anche il sottosegretario di Stato per la Marina, ammiraglio Legnani, informava un suo collaboratore che, in caso negativo di Belluno, doveva essere scelta una località nei paraggi del Garda o di Treviso, incaricandolo subito di studiare le capacità ricettive di queste zone [5]. Ancora il 10 ottobre 1943, all’immediata vigilia delle operazioni di trasferimento al Nord, la sistemazione prevista per i ministeri italiani differiva nettamente da quella che di lì a breve trovò concreta applicazione. Secondo le disposizioni contenute in una circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri il Ministero dell’Interno avrebbe dovuto sistemarsi a Verona, il Ministero dell’Economia corporativa, gli Esteri, le Finanze e l’Agricoltura a Brescia; l’Educazione nazionale, la Giustizia, la Marina e il Fabbriguerra a Cremona; l’Aeronautica, la Presidenza del Consiglio e i Lavori pubblici nei dintorni di Padova; il Ministero delle Comunicazioni a Mantova; le direzioni generali della Stampa e della Radio del Ministero della Cultura popolare a Salò, quelle del Teatro e del Cinema a Venezia [6].

Salò, contrariamente all’etichetta con la quale è passata alla storia, ebbe un ruolo piuttosto marginale nella geografia amministrativa della Rsi. Nei pressi della località gardesana trovarono «ospitalità» solo alcune direzioni generali e uffici dei ministeri degli Affari esteri e della Cultura popolare, mentre nelle sue immediate vicinanze si era insediato il baricentro politico della Rsi: la segreteria particolare del duce a Gargnano, il Partito fascista repubblicano e il gabinetto del ministro dell’Interno a Maderno, la Presidenza del Consiglio dei ministri a Bogliaco e a Desenzano.

Gli altri ministeri, invece, risultavano così dislocati: il Ministero della Giustizia a Cremona (il ministro e il suo gabinetto a Brescia); il Ministero delle Finanze a Brescia; il resto del Ministero dell’Interno disseminato nella provincia di Brescia, tranne la Direzione generale della Pubblica sicurezza sistemata a Valdagno; l’ex Ministero dell’Africa Italiana a Cremona; il Ministero dell’Educazione nazionale e il Ministero dell’Economia corporativa a Padova e Ponte di Brenta; il Ministero dell’Agricoltura a Treviso; il Ministero dei Lavori pubblici, alcune direzioni generali del Ministero degli Esteri e il resto della Cultura popolare a Venezia; il Ministero delle Comunicazioni a Verona; il Sottosegretariato per la Marina a Belluno e a Vicenza; il Sottosegretariato per l’Aeronautica a Bellagio, con alcune direzioni generali sistemate a Bassano del Grappa; il Sottosegretariato per l’Esercito distribuito nella provincia di Treviso [Borghi 2001, 194-203].

L’«esodo» istituzionale al Nord ebbe un carattere totale interessando tutte le amministrazioni statali e parastatali e coinvolgendo migliaia tra impiegati e funzionari; a coordinare tutte le operazioni del trasferimento venne incaricato Francesco Barracu, nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri [Borghi 2001, 59-110]. Di centrale l’amministrazione dello Stato conservò solo il nome, perché i suoi uffici furono dispersi in decine di località, dalle grandi città ai più remoti paesini di provincia. Tanto che l’ambasciatore Rahn, alla fine del novembre 1943, conversando con Pavolini deplorò la dispersione geografica degli organi di governo, un inconveniente che doveva essere al più presto risolto [Klinkhammer 1993, 111].

Salò, e la sponda occidentale del Garda, comunque, rappresentavano soltanto il simulacro di ciò che era rimasto del centro politico; il nucleo amministrativo del neofascismo repubblicano si trovava ora prevalentemente nel Veneto. È difficile stabilire quanto il caso e quanto il calcolo influenzarono tale scelta. Non vi è dubbio però che la localizzazione veneta di numerose sedi ministeriali non fu per niente casuale. È il caso di Venezia dove, nella relativa quiete cittadina, l’insediamento di uffici e apparati, così vicini alla sua naturale vocazione di «capitale culturale», risultava addirittura ideale. Poco accidentale doveva essere anche la scelta di trasferire a Verona, strategico nodo stradale e ferroviario, il Ministero delle Comunicazioni, o di insediare, fianco a fianco alla prestigiosa Università degli Studi di Padova, il Ministero dell’Educazione nazionale. Più difficile spiegare altre localizzazioni (Belluno, e poi Vicenza, per il Sottosegretariato alla Marina; Padova per il Ministero dell’Economia corporativa; Motta di Livenza per la Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria; Treviso per il Ministero dell’Agricoltura) piuttosto eccentriche e periferiche.

Ma anche questa collocazione non fu definitiva. Impiegati e funzionari dovettero così sobbarcarsi altri faticosi e dispendiosi trasferimenti che modificarono nel corso del tempo la geografia amministrativa di Salò, come evidenziato dalle mappe pubblicate.

Salò, comunque, non diventò mai, a discapito del radicato luogo comune, la capitale dell’ultimo fascismo, anzi:

Si arrivava a Salò – ricorda Ugo Manunta – con la convinzione di raggiungere la centrale di un mondo politico: questa prospettiva svaniva appena si arrivava ai bordi del lago. Tutte le capitali hanno il difetto di deludere la provincia: in essa i problemi locali non possono che essere visti con il cannocchiale rovesciato. Ma questa capitale della Repubblica del Nord anziché assorbire la provincia ne subiva l’ascendente [Manunta 1947, 199-200].

La scelta del Garda, tuttavia, fu poco apprezzata nell’ambiente fascista a iniziare da Mussolini consapevole di trovarsi in un fazzoletto di terra schiacciato tra il nuovo invisibile confine con il Terzo Reich e un altro luogo simbolo dell’Italia nazionalfascista, il Vittoriale, le cui geometrie floreali e architettoniche gettavano un’ombra fastidiosa e inquietante: toccava ora a lui condividere il destino di «protagonista e prigioniero» prescritto dal regime a Gabriele D’Annunzio. Non stupiscono, pertanto, le sue ripetute esternazioni d’insofferenza per quella confortevole dimora simile però a un confino, ai limiti della prigionia, che lo separava dal resto del paese [Borghi 2008, 548-9]. Abbandonare un lago «melanconico e stagnante» [Dolfin 1949, 67], dall’«acqua klingsoriana e semi-tropicale» [Anfuso 1957, 400] e sede di un governo «natante» [Romualdi 1992, 83], resterà un pensiero ricorrente del «borgomastro» di Gargnano, che pur di allontanarsi da quel «buco» suggerirà insolite destinazioni, ma i tedeschi ormai consideravano «inopportuna» qualsiasi altra residenza. L’insofferenza per quel luogo, dal «clima morbido ed illusorio» [Silvestri 1949, 40], non tardò a manifestarsi anche nel resto dell’ambiente governativo fascista. Nel novembre 1943 si era parlato di un possibile trasferimento del governo in una regione più centrale, il ministro delle Finanze Pellegrini-Giampietro aveva addirittura auspicato un veloce ritorno a Roma, altri avevano suggerito Firenze, ma i tedeschi ormai consideravano pressoché impossibile lasciare il Garda e la Pianura Padana [Dolfin 1949, 66, 262].

Anche per la dislocazione di altre amministrazioni le critiche non si fecero attendere. Da Genova un appunto al duce chiedeva chi avesse autorizzato il trasferimento della Confederazione dei lavoratori dell’industria a Motta di Livenza (e non, secondo logica, a Milano o Torino) dove non c’era nemmeno un telefono intercomunale [7]. In seno al Ministero dell’Agricoltura si contestava la scelta piuttosto infelice di Treviso, sottolineando che la sede naturale sarebbe stata la Lombardia o l’Emilia dove risiedevano i veri centri dell’alimentazione italiana, inoltre tutti gli organismi dipendenti erano dispersi in località lontane centinaia di chilometri dal ministero, rendendo così intempestivo e superfluo qualunque provvedimento [8]. Nel giugno del 1944, per tonificare l’incerta attività politico-amministrativa della repubblica, si consigliò di trasferire i ministeri nei grandi centri urbani del Nord [9].

Alla proliferazione disordinata di uniformi, simboli e distintivi, corrispose una moltiplicazione geografica amministrativa destinata a depotenziare i risicati margini di credibilità del potere fascista. Per gran parte degli italiani del Centro-Nord, divenuti improvvisamente «repubblicani», la Rsi resterà un’entità territoriale astratta: pochi conosceranno l’ubicazione degli organi centrali e come raggiungerli visto che i loro recapiti si riducevano a una serie di anonime poste da campo, mentre il duce si rivolgeva a una nazione «mutilata» da un imprecisato «Quartier Generale» [Borghi 2008]. Una lontananza così netta da suscitare pungenti commenti sulla stampa quotidiana, portavoce di un malessere evidentemente diffuso. Un’insoddisfazione che il tempo non riuscì a stemperare, se la separazione «fisica» del governo dal resto del Paese continuerà a essere il nodo principale del noto articolo di Concetto Pettinato Se ci sei batti un colpo che reclamava di «poter vedere, ascoltare e toccare con mano il governo, perché in certe situazioni la gente crede soltanto alla presenza concreta» [10].

2. Estate 1944: varcare i confini nazionali?

Nell’estate del 1944, dopo la caduta di Roma e il progressivo avanzamento del fronte, cominciarono a fiorire i progetti di una riorganizzazione globale delle strutture amministrative e di un eventuale spostamento del governo. Gradualmente ministeri ed enti stavano lasciando il Veneto per raggiungere la Lombardia [11]. Uno spostamento dettato anche da motivi di sicurezza. Clamorosa, sotto questo punto di vista, fu nel luglio 1944 l’irruzione e il disarmo del presidio del Sottosegretariato alla Marina di Montecchio Maggiore ad opera dei partigiani garibaldini della brigata “Stella”, che rivelò la fragilità e la vulnerabilità delle misure di sicurezza adottate per la difesa degli edifici ministeriali [G. Zorzanello (ed.) 1980, 157-61; Vangelista 1995, 194-8].

Durante l’estate, caratterizzata dalla decisa offensiva partigiana e, soprattutto, dalla risalita delle truppe alleate, si cominciò seriamente a ipotizzare il trasferimento dei fascisti irriducibili in Germania. In agosto lo Stato maggiore dell’esercito tedesco, in previsione dell’ultima resistenza sull’arco alpino, studiò un progetto che prevedeva l’evacuazione delle famiglie dei gerarchi e dei funzionari ministeriali nelle foreste vicine a Monaco di Baviera, dove si stava edificando una enorme città prefabbricata di legno capace di ospitare trentamila persone [Costa 1997, 100-1]. L’organizzazione del piano di ripiegamento – che in un primo momento non entusiasmò Mussolini – fu affidato alla cura personale del segretario del Partito fascista repubblicano [12].

Nella frenesia di quei giorni, le voci sul trasferimento del governo cominciarono a moltiplicarsi fuori e dentro i ministeri. Dalle prime indiscrezioni la nuova sede avrebbe continuato a essere – nonostante si fosse ipotizzato il trasferimento del governo in terra austriaca [Deakin 1970, 974] – in Italia; si era parlato della Carnia, di Arco, di Treviso [Bolla 1982, 226], dell’Alto Adige, di Udine [Collotti 1974, 12; Deakin 1970, 966-8], infine di Colle Isarco [Kramer 1971, 377-8]. Per Mussolini, il governo della Rsi sarebbe rimasto entro i confini nazionali sino a quando l’ultimo lembo del territorio non fosse stato conquistato dalle truppe alleate; tuttavia, se proprio ci si doveva trasferire, la Valle del Sarca era la zona più adatta [Lamb 1996, 359-60].

A un certo momento la dissoluzione dell’apparato politico-amministrativo e il trasferimento del governo non furono più solo un’ipotesi remota. Il 23 settembre 1944 Barracu, ancora incaricato di organizzare il trasferimento di uffici e impiegati, avvertì tutti i ministeri di invitare il personale dipendente a scegliere velocemente una delle soluzioni proposte. Anche in questo caso, per coloro che più facilmente potevano dileguarsi (impiegati e piccoli funzionari), fu suggerito di adottare una «mimetizzazione preventiva» tra la gente comune; per i membri del governo, per i rappresentanti del partito, per gli alti funzionari e per il resto del personale si era deciso il trasferimento nel Terzo Reich nelle vicinanze del lago di Costanza, in tre diverse zone: 1) la zona A, individuata a Zürs, una cittadina alpina nella Germania meridionale, riservata ai nuclei familiari dei ministri e a coloro che in passato avevano fatto parte del governo; 2) la zona B, nella Franconia Bavarese, per le famiglie degli alti funzionari delle amministrazioni dello Stato e dei gerarchi del Pfr; 3) la zona C, nella Baviera meridionale, per i nuclei familiari di tutti gli altri funzionari [13].

Il governo non si trasferì mai né a Zürs né sul lago di Costanza. Nella Baviera trovarono ospitalità solo le famiglie dei più alti gerarchi e di alcuni membri del governo [Amicucci 1948, 206-7; Ruinas 1946, 153-8; Moellhausen 1948, 416-21], la stessa burocrazia ministeriale, tranne qualche eccezione, non gradì eccessivamente un ulteriore esodo, che assomigliava più a una fuga, nel territorio del Reich [Bolla 1982, 229].

3. Verso la fine: tutti a Milano

L’ultimo, parziale, spostamento del governo avvenne quando ormai le sorti della Repubblica sociale erano definitivamente segnate. Il 9 dicembre 1944, durante la riunione del Consiglio dei ministri, Mussolini manifestò l’intenzione di rompere l’isolamento fisico e politico del suo governo trasferendone la sede a Milano [Pini e Susmel 1955, 451; Deakin 1970, 983]. Una settimana dopo, il 16 dicembre, al teatro Lirico di Milano, si consumò l’ultima uscita pubblica di Benito Mussolini: l’effimero entusiasmo che suscitò il suo discorso incoraggiò il duce a proseguire nell’opera del trasferimento degli uffici governativi nel capoluogo lombardo [Mellini Ponce de León 1950, 91].

La «milanomania» contagiò anche altri settori politici e sociali della Repubblica sociale: «tutti a Milano» divenne lo slogan più ricorrente nell’inverno 1944-45, dimenticando presto l’iniziale sbandata per Venezia [Ruinas 1946, 73-80]. Nel marzo del 1945 [14] cominciarono le prime operazioni del trasferimento [Pini 1950, 290; Mellini Ponce de León 1950, 108] [15]. Il 16 aprile il Consiglio dei ministri della Rsi comunicò ufficialmente lo spostamento del governo a Milano [Deakin 1970, 1051]. Il 18 aprile Mussolini, che aveva rifiutato come sede la villa reale di Monza, si stabilì nel capoluogo lombardo nei locali della prefettura in corso Monforte.

I tedeschi osteggiarono subito questo trasferimento, progettato quasi a loro insaputa, motivandolo con ragioni di sicurezza [Almirante 1973, 126]. Secondo l’ambasciatore Rahn, l’arbitrario spostamento della sede del governo era stato effettuato senza valutare gli effetti e le conseguenze sul piano politico, inoltre, l’attrezzatura che essi avevano disposto sul Garda non poteva essere tempestivamente trasportata a Milano [16]. Il vero motivo di quell’avversione, tuttavia, era un altro. In quel momento i negoziati segreti di resa con gli angloamericani erano in una fase molto delicata, e la presenza a Milano di Mussolini e dei vertici politici della Rsi, ancora all’oscuro delle trattative, avrebbe potuto seriamente compromettere l’esito dell’operazione.

I rapporti italo-tedeschi così subirono un ulteriore, e definitivo, raffreddamento. La mattina del 25 aprile 1945, mentre da Milano una colonna di mezzi partiva alla volta del fantomatico ridotto della Valtellina, negli uffici ministeriali regnava un’aria di smobilitazione totale [Amicucci 1948, 259]: la breve parentesi nordista ormai stava per finire e il ritorno a Roma era imminente.


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    Mussolini, Graziani e l’antifascismo (1943-’45), Milano: Longanesi
  • I tedeschi e l’esercito di Salò, 1950
    “Il movimento di liberazione in Italia”, 6
  • Tomsich G. 1995
    Cantavo “Giovinezza”, in 1945, l’anno della rivolta, Firenze: Giunti
  • Vangelista O.A. 1995
    Guerriglia a nord, Milano: Vangelista
  • G. Zorzanello (ed.) 1980
    Brigata “Stella” del Gruppo di Brigate garibaldine. Archivio storico 24 maggio-17 settembre 1944, Valdagno: Biblioteca civica

Note

1. Il 17 agosto 1944, scrivendo all’ambasciatore del Giappone, Mussolini riconoscerà questo sbaglio: «E tutto questo accade, mentre il governo Bonomi ottiene l’autonoma amministrazione di altre provincie; compresa Roma, quella Roma che fu troppo precipitosamente abbandonata da noi nell’ottobre del 1943, colossale errore, di cui scontiamo le conseguenze»: Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS) Repubblica sociale italiana, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, (d’ora in poi RSI, SPD, CR), b. 86, f. 10.

2. A sostegno della tesi però non viene citato nessun specifico documento.

3. Archivio Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Fondo IIo Dopoguerra, b. 13, f. Documenti della Corte d’Assise speciale di Belluno; anche fonti militari tedesche confermavano la scelta di Belluno [Padovani 1984, 46].

4. ACS, Ministero Grazia e Giustizia, Gabinetto, b. 72, f. 168.

5. ACS, Ministero della Marina, Gabinetto del ministro, Archivio segreto 1934-1950, b. 509, f. Pratiche della Repubblica sociale italiana; anche la dislocazione nella provincia di Brescia dei servizi del Ministero dell’Interno fu decisa dalle autorità italiane: cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Ex-Intendenza Nord, b. 2, f. Decreto ministeriale concernente l’istituzione della “Intendenza del ministero dell’Interno”.

6. ACS, RSI, Presidenza del Consiglio dei Ministri (d’ora in avanti PCM), b. 35, f. 1; la circolare ricordava che tutto doveva essere disposto entro il 18 ottobre 1943, data d’arrivo del personale dei ministeri.

7. ACS, RSI, SPD, CR, b. 23, f. 11.

8. ACS, RSI, SPD, CR, b. 18, f. 98.

9. Era questa l’ultima possibilità per esercitare una sorta di «attrazione verso la Repubblica, che sarebbe finalmente presente col suo potere centrale nelle Regioni più nevralgiche dell’attuale territorio dello Stato»: cfr. ACS, Carte Bruno Spampanato, b. 2, f. RSI. Documenti originali.

10. C. Pettinato, Se ci sei, batti un colpo, “La Stampa”, 21 giugno 1944.

11. Per ordine di Mussolini s’iniziarono a trasferire le confederazioni sindacali nel triangolo Brescia-Bergamo-Milano, ACS, RSI, SPD, CR, b. 83, f. 655.

12. Archivio Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, I Sez., b. 25, f. Documenti nazifascisti.

13. ACS, RSI, PCM, b. 4, f. 48.

14. Durante una riunione con dei giornalisti tenutasi a Milano ai primi di marzo il sottosegretario alla Cultura popolare, Alfredo Cucco, dichiarò che il governo repubblicano si sarebbe trasferito a Milano entro il 23 marzo 1945 [I tedeschi e l’esercito di Salò 1950, 15]; nella prima settimana di marzo si era già trasferito il nucleo centrale del ministero della Giustizia [Pisenti 1977, 163].

15. Carlo Alberto Biggini il 15 marzo 1945 annotava: «Ho prospettato al duce la necessità che se i vari organi del governo centrale e i ministeri si trasferiranno in Milano e dintorni, anche il mio ministero si trasferisca da Padova a Milano o a Pavia; il Duce ha convenuto con me su tale necessità e ha detto che Pavia gli sembra conveniente e degna per l’Educazione Nazionale» [Garibaldi 1983, 312}; a Milano – a Palazzo Clerici, in piazza Castello, in via Francesco Sforza – si trasferirono alcuni uffici del Ministero della Cultura popolare e del nucleo propaganda; in piazza S. Alessandro n. 6 invece si trasferì l’ufficio del ministro delle Finanze.

16. ACS, RSI, SPD, CR, b. 16, f. 91.