Il ruolo dinamico assunto dalla diplomazia vaticana nel corso di tutto il Novecento ha acquisito con papa Francesco uno slancio rinnovato, generando – tra fedeli e non – un interesse capace di superare la mera mediatizzazione del “fenomeno Francesco”. I viaggi del pontefice al di fuori dell’Italia (a oggi tredici) sono parte di un insieme di gesti epocali e posizioni nette nei confronti di questioni sociali, economiche e spirituali che valicano i confini del cattolicesimo globale per raggiungere altre confessioni, religioni, nazioni e comunità con un messaggio ispirato ai temi distintivi del pontificato, l’amore e la misericordia. Cogliere le direttrici di questo dinamismo è stato l’obiettivo della lezione congiunta La diplomazia ai tempi di papa Francesco che la Cattedra Unesco sul pluralismo religioso e la pace ha organizzato a Bologna il 10 marzo 2016 nella sala dello Stabat Mater della biblioteca dell’Archiginnasio.

L’evento, promosso dalla Fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII” in collaborazione con l’Università di Bologna, il Comune e l’Istituzione biblioteche, ha visto il susseguirsi degli interventi dell’ambasciatore del Cile presso la Santa Sede Mónica Jiménez de la Jara, dell’ambasciatore di Germania presso la Santa Sede Annette Schavan e dell’ambasciatore di Italia presso la Santa Sede Daniele Mancini. L’ambasciatore cileno è stata Presidente della Commissione giustizia e pace del Cile, membro della Commissione presidenziale Verdad y Reconciliación e del Pontificio consiglio della giustizia e della pace. Prima di assumere l’incarico in Vaticano è stata ministro dell’educazione, così come l’ambasciatore Schavan. L’ambasciatore italiano ha invece intrapreso la carriera diplomatica nel 1978 ricoprendo numerosi incarichi tra i quali quello di ambasciatore a New Delhi.

Nella sua introduzione alla lezione, Alberto Melloni, docente di storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia e titolare della Cattedra Unesco, ha brevemente inquadrato i temi di un pontefice “incomodo globale”, che attraverso la predicazione raggiunge le periferie, negli incontri – siano essi con i capi di stato o delle comunità di fede – tocca i nervi scoperti dei conflitti, e nell’azione convoglia i temi comuni al Vangelo e alla politica, mettendo il primo al servizio (e non a servitù) della seconda.

L’analisi di Mónica Jiménez de la Jara ha inteso comprendere la novità portata nella chiesa cattolica da Jorge Mario Bergoglio alla luce della storia personale del gesuita e dell’idea di riforma che ha portato con sé. Secondo Jiménez, infatti, la natura della riforma bergogliana è ancorata alla volontà di sanare i conflitti – interni ed esterni alla chiesa – in una prospettiva di lungo periodo e attraverso l’opera pastorale. Per questo motivo, la riforma di Francesco è, per l’ambasciatore, una riforma nello stile (un nuovo modo di fare le cose), una riforma della struttura della chiesa (che smantella il modello centralista e monarchico) e una riforma della cultura del Vaticano, la quale modifica profondamente i valori e le pratiche attraverso la testimonianza. Sul piano diplomatico, questo nuovo stile ha prodotto uno spostamento del focus dalla politica all’individuo, che diviene fulcro dell’azione volta al bene comune (con l’enciclica Laudato Si’), all’incontro (come il contributo al riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba) e al dialogo ecumenico e interreligioso di cui, tra i tanti, l’incontro con il patriarca di Mosca e tutte le Russie Kirill è stato senza dubbio a oggi il più significativo.

Secondo l’ambasciatore Annette Schavan, tale mutamento di priorità è in definitiva orientato al superamento dell’indifferenza che ha portato, primi tra tutti i cristiani, a perdere la capacità di concepire un’idea di Stato, comunità e chiesa fondate sul dialogo, la solidarietà e il confronto. Per questo Schavan è convinta che l’impulso spirituale del pontefice possa portare a una rivitalizzazione dell’impegno della diplomazia a incoraggiare l’incontro, l’empatia. Non più teorie scisse dalla realtà, ma idee che permettano di cogliere, comprendere e dirigere la realtà in modo efficace, così da mostrare un nuovo cammino che, per l’ambasciatore, risponde alla chiamata di Dio all’obbligo verso gli uomini.

Daniele Mancini muove proprio dalla crisi dei modelli interpretativi della realtà per individuare le linee di sviluppo futuro dell’incontro tra la chiesa e la modernità, tra la chiesa e il mondo. Mancini si interroga dunque sulle specificità dell’azione diplomatica della Santa Sede nel pontificato bergogliano e vi individua almeno tre caratteri di innovazione: la ricerca antropologica, il rifiuto dello scontro di civiltà e lo spostamento del baricentro al di fuori dell’Europa. Mantenere il focus sull’umanità e gli individui allarga la portata del messaggio del pontefice al di fuori della comunità dei credenti, senza perdere il contatto con la cultura nella quale questi stessi individui si collocano; nel contempo, tale approccio è garanzia dell’abbandono di tutte le forme di fondamentalismo e di scontro tra imperi, in favore di una prospettiva globale di dialogo.

Con il pontificato di Francesco l’architettura della politica internazionale della Santa Sede, in definitiva, ha preso piena coscienza del significato della globalizzazione: se da un lato individua nella persona umana il punto di contatto tra il messaggio universalista e le culture locali, dall’altro ambisce a modificarne le storture con quanto le è più proprio, la testimonianza. Ciò che rimane ancora da comprendere è la capacità di papa Francesco di penetrare con questo messaggio nel profondo la cultura del corpo diplomatico vaticano, modificando i meccanismi di raccordo tra il centro e la periferia in favore di una maggiore attenzione alle culture, ai bisogni e alle peculiarità delle chiese locali.