1. Sull’esperienza recente

La didattica a distanza si è imposta come una necessità nella prima fase di emergenza pandemica, ma il protrarsi del suo utilizzo e, ancor più, le forme miste di didattica digitale integrata [Linee guida 2020] hanno provocato un senso crescente di frustrazione. Non discuterò in che misura la Dad (didattica a distanza) fosse inevitabile: mi limito a ricordare che l’assenza di dati per valutarne la necessità è stata denunciata da più parti [Giordano 2021; Ferretti 2021; Alleva, Zuliani 2020; Accademia dei Lincei - Commissione Covid-19 2020], e ad assumerla come un dato di fatto degli anni scolastici 2019-2020 e 2020-2021.

Nei primi mesi dell’epidemia è stato comprensibile affidarsi in certa misura all’improvvisazione, più o meno sostenuta dalla buona volontà o dalla rassegnazione. Tuttavia, l’insistenza sul ritorno in classe a tutti i costi (con un’organizzazione logistica che si è rivelata inadeguata e un ottimismo sull’andamento della pandemia comunque smentito in breve tempo) ha reso contemporaneamente più probabile il ricorso all’insegnamento a distanza e più complicato ragionare su di esso come qualcosa di diverso da un “rattoppo” temporaneo. Di conseguenza, la Dad ha continuato, in molti casi, ad essere relegata alla sola funzione emergenziale, senza che ci si chiedesse a quali condizioni – e con che limiti – poteva funzionare. La retorica che ha sistematicamente definito “chiuse” le scuole nelle quali l’attività proseguiva a distanza ha delegittimato il lavoro degli insegnanti, aggravando il disagio professionale e l’insofferenza: alla fine, il desiderio di tornare alla normalità si è sposato con quello di mettere da parte una volta per tutte l’ormai famigerata Dad.

Vorrei argomentare che la scuola ha avuto tutto da perdere nell’alimentare l’idea che tutte le pedine potessero tornare al loro posto se solo si fosse riusciti ad aspettare abbastanza [Maragliano 2020]. Anzi, questa posizione difensiva ha condotto all’uso di una Dad peggiore, che ha portato la profezia sulla sua inefficacia ad auto-avverarsi.

2. La Dad: un problema mal posto?

Il ricorso disomogeneo, frammentato e a singhiozzo alla Dad negli ultimi anni scolastici ha reso estremamente difficile programmare l’insegnamento riflettendo sui criteri e le scelte che presiedevano alla riorganizzazione imposta dal nuovo contesto virtuale. D’altro canto, le forme “miste”, con una parte degli alunni in presenza e un’altra a casa, si sono rivelate ingestibili anche nelle realtà nelle quali la Dad è stata praticata con successo [Rucci 2020]: lo testimoniano, tra l’altro, le richieste emerse al rientro dalle vacanze natalizie 2020-2021, affinché venissero offerte, in assenza delle condizioni per il rientro nelle aule, almeno quelle per una Dad costruttiva [Ficara 2021; Lettera del liceo Salvemini 2021; Lettera del liceo Carducci 2021].

La prima di queste condizioni era proprio che si accettasse di affrontare la questione della Dad superando la logica del ripiego di emergenza. Ciò non significava negare il carattere vicario della Dad, ma riconoscere che una Dad pensata per tempi più lunghi – per esempio un trimestre – avrebbe imposto di affrontare le scelte da fare in termini di programmazione specifica.

Pur in presenza di molte situazioni diverse, laddove l’incertezza generata da continui rinvii si è tradotta in una pressione ad “andare avanti con il programma” durante la Dad, rimandando tutto ciò che appariva potenzialmente accessorio all’agognato momento del rientro in presenza, la stessa Dad è risultata decisamente problematica. Questo approccio ha dato per scontato, infatti, che in un contesto virtuale non si potesse far altro che trasporre il binomio spiegazione-interrogazione: il prevedibile risultato è stata la richiesta di abbandonare la Dad al più presto, perché la semplice trasposizione non funziona. Tuttavia, si può sostenere che la Dad abbia messo in evidenza, piuttosto che causato, la fragilità di questo modello: non scopriamo adesso che, se il compito dell’insegnante di storia è insegnare “tutta la storia importante (per noi)”, esso si rivela semplicemente impossibile [Wineburg 2018, 14].

L’esplosione del problema con la Dad avrebbe dovuto dunque portare alla ribalta gli interrogativi sulle finalità dell’insegnamento storico: solo da qui si ricavano i criteri per i tagli – comunque dolorosi – quando sono necessari. Aver sottovalutato questo aspetto e legittimato o addirittura incentivato una sorta di “navigazione a vista” nella Dad, nella quale la programmazione è diventata impossibile perché i tempi e i contesti delle attività sono stati continuamente rinegoziati, ha portato in molti casi a sacrificare, nell’ottica del rinvio continuamente ripetuto, le attività che coinvolgevano più direttamente gli studenti. Ne è derivato in alcuni casi un circolo vizioso tra recupero dei programmi e demotivazione degli studenti che non poteva in alcun modo essere risolto dal prolungamento del tempo scuola durante le festività o in estate, come pure era stato proposto [Gavosto 2021].

L’emergenza Covid-19 nelle scuole ha, piuttosto, reso maggiormente attuale il problema di individuare dei quadri generali che costituiscano la trama della storia insegnata nelle scuole, sulla quale inserire in modo sistematico laboratori di approfondimento incentrati sulla capacità di pensare storicamente. La possibilità di ripensare i laboratori con l’utilizzo di tecnologie che ne permettano lo svolgimento a distanza è subordinata a questo aspetto. Infatti, software e piattaforme, che sono diventati via via più familiari negli ultimi anni, possono tranquillamente essere utilizzati trattando gli studenti come ricettori passivi di contenuti. Da questo punto di vista, può essere utile prendere in considerazione un esempio come quello estone, dove una politica ventennale di investimento sul versante tecnologico [Weale 2020], che ha incluso la formazione degli insegnanti e l’introduzione di esperienze di e-learning a prescindere dalla pandemia, si è accompagnata ad un approccio focalizzato sullo sviluppo di capacità (skills) disciplinari degli studenti [Oja 2020]. In caso contrario, esperienze come un tour virtuale in un museo o l’analisi di una fonte attraverso un documento di testo condiviso, possibili attraverso software comuni e di semplice utilizzo, perdono la loro potenziale utilità poiché non sono inseriti in un progetto che individui chiaramente la finalità didattica dell’attività.

Le scelte imposte da tempi e contesti di emergenza mettono in luce il senso profondo, non burocratico e cerimoniale, della programmazione: la pandemia ci ha posto con più radicalità la domanda su cosa/come/quando insegnare e il tentativo di rinviare la risposta, nella speranza o nell’incertezza che fosse tutta e solo una parentesi, ha condotto a confusione e insoddisfazione crescenti.

3. La sfida digitale per la storia dopo la pandemia

Il tentativo di praticare un insegnamento incentrato sulla spiegazione-interrogazione anche in Dad, di per sé faticosissimo, ha limitato anche la possibilità di considerare l’esplorazione dell’ambiente virtuale come parte dell’insegnamento stesso. Eppure, il trend che vede un numero crescente di persone cercare e condividere conoscenze storiche on-line è chiaramente antecedente alla pandemia, così come la circolazione di storie sui social network e il ricorso a un motore di ricerca per fare i compiti [Haydn, Ribbens 2017, 735]. Sicuramente, la didattica a distanza ha spinto ulteriormente in questa direzione: dobbiamo trarne le dovute conseguenze per la didattica dopo la pandemia. Può sembrarci evidente che usare un motore di ricerca per cercare informazioni non implichi comprendere il suo funzionamento né essere in grado di valutare l’affidabilità delle fonti che si consultano. Per tradurre questa constatazione in un intervento didattico, però, è necessario individuare e sperimentare esempi concreti, da inserire nella programmazione a prescindere dalla da un contesto di crisi.

La capacità di critica delle fonti, che è caratteristica del sapere storico, acquista un peso crescente al moltiplicarsi dei punti di accesso al passato che gli studenti frequentano. Tanto più che le ricerche relative al fact checking suggeriscono che le strategie tipiche della ricerca storica non permettano un’adeguata valutazione delle fonti di informazione on-line [McGrew, Wineburg 2017]. Più che di una radicale opposizione tra le due, si tratta di rendere esplicito il nostro ragionamento sulle operazioni che compiamo nell’interpretazione e sul modo in cui queste operazioni vadano compiute quando la fonte è digitale. Facciamo l’esempio di un documento iconografico: per interpretarlo, abbiamo bisogno di ricorrere a notizie extra fontes, che ci dicano chi ce lo ha tramandato, perché, chi rappresenta ecc. Ora, una prima considerazione, che si lega a quanto detto in precedenza sull’opportunità che la crisi che abbiamo attraversato ci dà per discutere collettivamente degli obiettivi dell’insegnamento, è che se non abbiamo allenato gli studenti a porsi questo tipo di domande, esse non sorgeranno spontanee. Lavorare sulla selezione, l’analisi, l’interpretazione delle fonti per arrivare al racconto storico [Brusa 2020] è importante tanto più quanto la disponibilità di informazioni aumenta: aver trascorso buona parte degli ultimi anni in un ambiente virtuale ha accentuato questo aspetto, ma è evidente che si tratta di una condizione che appartiene all’epoca contemporanea e non solamente alla fase della pandemia.

Una seconda considerazione è che se non insegniamo agli studenti a porre queste domande secondo specifiche strategie quando fanno ricerche on-line, il rischio di risultati assai scadenti è elevato. Questo perché un sito web può fornirci tutte le informazioni per rispondere a quelle domande senza farci uscire da esso: la consultazione delle pagine “chi siamo/about us” o la fiducia nella maggiore affidabilità di un dominio possono trarre in inganno [Can Students Evaluate 2018]. Se gli studenti non vengono adeguatamente guidati, dunque, si corre il rischio che si abituino a rispondere alle domande sull’attendibilità di un’informazione (la sua provenienza, l’autorevolezza dell’autore, le sue motivazioni ecc.) basandosi solo su ciò che il sito web che la trasmette dice di sé. Questo cortocircuito riguarda la storia da due punti di vista: primo, perché taglia fuori dalla comprensione dei nostri studenti un tipo di fonte che è probabilmente la più caratteristica dell’epoca nella quale vivono; secondo, perché l’esplosione della rete ha comportato il proliferare delle narrazioni storiche, molto spesso di quelle prive del necessario rigore.

Fig. 1. Sezioni della mostra virtuale dedicata dall’Indire alle leggi razziali.
Fig. 1. Sezioni della mostra virtuale dedicata dall’Indire alle leggi razziali.

4. La “storia virtuale” e gli insegnanti

Un ulteriore aspetto a proposito dell’uso delle tecnologie digitali nell’insegnamento della storia riguarda la facilità con la quale, nella didattica a distanza, i docenti hanno potuto integrare fonti multimediali (immagini, video d’epoca, audio) nelle loro lezioni. Lo sviluppo tecnologico aveva già tracciato questa direzione all’interno delle aule, ma è evidente che le lezioni a distanza hanno il potenziale di rendere più frequente l’uso di queste fonti. Nel corso degli ultimi anni risorse multimediali già disponibili on-line, come quelle degli archivi dell’Istituto Luce1 o dell’Istituto nazionale documentazione innovazione ricerca educativa-Indire2 hanno con più facilità potuto essere integrate all’interno di lezioni che si svolgevano già in classi virtuali.

Fig. 2. Tweet di presentazione dell’attività didattica basata su Assassins’ Creed.
Fig. 2. Tweet di presentazione dell’attività didattica basata su Assassins’ Creed.

Fig. 3. Trailer del gioco When we disappear, ambientato nella Amsterdam del 1943.
Fig. 3. Trailer del gioco When we disappear, ambientato nella Amsterdam del 1943.

Tuttavia, la disponibilità enorme delle fonti ha messo in evidenza l’importanza del modo in cui vengono trattate per introdurle nell’insegnamento. L’accesso gratuito al sito ActiveHistory3 (con un periodo di prova esteso durante la prima fase della pandemia), i materiali a libero accesso messi a disposizione dall’associazione Euroclio4, dallo Stanford history education group5 o, in italiano, alcuni degli articoli del sito Historia ludens6 forniscono non solo documenti, quanto, piuttosto, una serie di indicazioni ed esempi del loro potenziale utilizzo, con riflessioni esplicite sulle operazioni richieste agli studenti. Si tratta, fra l’altro, di esempi di risorse che permettono verifiche a distanza alternative all’interrogazione bendata o ai quiz facilmente eludibili con l’utilizzo di device multipli (o perfino con qualche suggeritore nascosto lontano dalla webcam). L’utilizzo di questo tipo di prove, sia che si tratti di esercizi incentrati su diverse dimensioni del pensiero storico più che sulla ritenzione dei contenuti [Breakstone 2014], sia che si configurino come esercizi di scrittura storica, è, evidentemente, tutt’altro che confinato alla didattica a distanza. Poiché, però, si rivelano utili per risolvere alcune delle difficoltà che emergono con la dad, questa circostanza ha rappresentato un’occasione per inserirle nella “cassetta degli attrezzi”, dalla quale si è potuto continuare ad attingere anche una volta tornati in classe.

Tra le nuove risorse disponibili, si segnala infine l’ampliarsi dell’offerta di esperienze immersive di grande impatto.

Al di là di singoli esempi, l’elevata qualità tecnica di alcune proposte richiede una vigile allerta e pone all’attenzione dei docenti il rapporto tra didattica e Public history. Anche se a prima vista potrebbe apparire paradossale, è proprio dalla consapevolezza della diffusione di un «ottimismo irrazionale» sulle potenzialità delle nuove tecnologie nel migliorare l’apprendimento [Woolgar 2002, 3] che deriva l’impegno a continuare ad utilizzarle con gli studenti. È precisamente il fascino ipnotico delle esperienze storiche e pseudo-storiche immersive a richiedere un intervento didattico, come ben sa chi abbia giocato una partita ad Assassins’ Creed, per citare solo un caso di ben noto successo [Éthier e Lefrançois 2018].

Due atteggiamenti opposti, cioè rifiutarsi di prendere in considerazione l’esistenza e la pervasività della narrazione storica attraverso i nuovi media o, all’opposto, demandare l’apprendimento all’esperienza dell’immersione della “ricostruzione”, hanno lo stesso effetto: privare l’insegnamento della storia del suo ruolo in un frangente delicato. La capacità di riflettere criticamente sugli usi della storia, fino ad arrivare a quelli contemporanei così squisitamente attraenti, non può essere frutto di un lavoro occasionale, ma richiede a monte un’impostazione dell’insegnamento che se ne faccia carico nell’affrontare qualunque periodo.

In conclusione, il momento storico che abbiamo vissuto ha generato incertezza e disagio e abbiamo indubbiamente avuto bisogno di alimentare la speranza che la situazione si risolvesse. Il ricorso alla tecnologia non ha potuto compensare pienamente la ricchezza dell’esperienza scolastica in presenza, né sostenere che si possa insegnare a distanza anche con successo significa attribuirle questo compito: speriamo tutti che la scuola possa continuare il proprio lavoro in presenza e in sicurezza. È giusto che si discuta delle condizioni a cui è possibile farlo e delle scelte che hanno allontanato da questo traguardo. Tuttavia, l’importanza di preservare l’insegnamento in presenza non deve renderci ciechi rispetto alle ragioni, non solo tecnologiche, per le quali la didattica durante la pandemia non ha funzionato: considerare la Dad in modo generico e omogeneo e soffermarsi solo sulle debolezze della distanza e non su quelle della didattica ci restituisce un’immagine distorta, che non può servire da base di partenza per sostenere l’attuale ripresa e sviluppi futuri.

Bibliografia

Risorse

Note