Nell’ambito di un progetto finanziato dal Ministero degli esteri polacco, il 14 marzo 2015 l’Associazione Polonia di Cesena e l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena hanno presentato, presso il Palazzo del Ridotto di Cesena, il romanzo storico di Vincenzo Malavolti, Un padre in esilio (Risguardi, Forlì 2014). Pubblichiamo qui di seguito l’intervento tenuto, in quella occasione, da Carlo De Maria, direttore dell’Istituto storico di Forlì-Cesena.

La storia narrata dal romanzo di Vincenzo Malavolti comincia a Cracovia alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Le truppe naziste occuparono la città polacca nel settembre del 1939; negli stessi giorni le forze sovietiche invasero la parte orientale del paese, secondo quanto previsto dal patto Molotov-Ribbentrop del mese precedente. Come noto, la campagna di Polonia dell’esercito tedesco rappresentò il casus belli della Seconda guerra mondiale e diede il via a una nuova spartizione del territorio polacco, dopo quelle che si erano consumate tra Sette e Ottocento.

In seguito all’occupazione nazista Cracovia divenne la capitale del Governatorato generale, una struttura coloniale controllata dal Terzo Reich. L’occupazione fu pesante, soprattutto per l’identità culturale della città. A essere preso particolarmente di mira fu il ceto intellettuale di Cracovia: un gruppo sociale al quale appartiene anche il protagonista principale del romanzo, Pawel Oziemski, che è un maestro di musica. Perché, viene da chiedersi, le autorità di occupazione si rivolsero in primo luogo contro insegnanti, professori e studiosi? Lo fecero per colpire la cultura nazionale e i suoi interpreti. Furono, del resto, numerose e di inusitata gravità le ferite inferte a una città, Cracovia, che negli anni immediatamente successivi vide sorgere nei suoi pressi i campi di concentramento di Auschwitz e Plaszow.

Nell’opera di Malavolti realtà e finzione si sovrappongono. Pawel Oziemski, infatti, è un nome di fantasia scelto per raccontare una storia vera. Si tratta di una commistione che suggerisce l’opportunità di una breve riflessione sul rapporto tra storia e letteratura. È forse il momento di superare le reciproche diffidenze: il riferimento è all’abitudine degli studiosi a guardare con un certo “sopracciò” ai romanzi storici e, viceversa, all’insofferenza degli scrittori verso la produzione storiografica, fitta di note e richiami, spesso per nulla accattivante agli occhi del lettore non esperto.

Attraverso la scelta di un tema specifico, in questo caso la vicenda di un intellettuale e musicista polacco durante la Seconda guerra mondiale, Malavolti ci fornisce un esempio delle potenzialità proprie del romanzo, come genere letterario in grado di narrare il passato in modo efficace e significativo e di proporre riflessioni convincenti su eventi e processi storici. A condizione naturalmente, ma l’autore se ne mostra ben consapevole, di rimanere fedele – quando possibile – alle fonti; e laddove la documentazione non arriva, di lasciare spazio alla creatività e all’invenzione, sempre però nell’ambito della plausibilità e della verosimiglianza. Un romanzo storico viene dunque giudicato, in prima battuta, nella sua capacità di restituire una storia verosimile e congruente con quanto hanno appurato gli storici di mestiere. Ma le sue potenzialità non si esauriscono certo qui, nella credibilità. Il romanzo storico può avere una capacità ulteriore, quella di essere, rispetto a un saggio storico, più drammatico, cioè più umano, ed esattamente per questo più fedele alle fonti storiche. A ben vedere, infatti, cosa fanno le fonti storiche, le fonti d’archivio, se non restituirci – magari con un freddo stile burocratico – proprio storie di uomini e di donne, in attesa di essere ricostruite e interpretate nella loro complessità?

Toccati questi aspetti di “metodo”, veniamo alla trama del libro. Il protagonista, Oziemski, allo scoppio della Seconda guerra mondiale è costretto a lasciare la sua città e sua moglie e ad arruolarsi nell’esercito polacco, nel disperato tentativo delle forze armate del suo paese di resistere alla duplice invasione, nazista e sovietica. Insieme al suo reparto di cavalleggieri, viene fatto prigioniero dall’Armata Rossa. Lo aspetta una lunga prigionia nell’universo concentrazionario dei Gulag. Vi si trova già detenuto, quando gli arriva notizia della nascita di suo figlio, concepito poco prima di partire per la guerra.

Oziemski rimane prigioniero in Unione Sovietica per quasi due anni. Fino a quando, nel giugno 1941, parte l’attacco della Germania all’Unione Sovietica: l’operazione Barbarossa. A quel punto cambia il sistema delle alleanze, l’Urss si avvicina alla Gran Bretagna e su pressioni di Londra (sede del governo polacco in esilio) Mosca decide di liberare i prigionieri polacchi detenuti nei Gulag, tra i quali molti soldati. Si andò, così, costituendo in Russia un nuovo esercito polacco, il Secondo corpo d’armata, che si affiancava a quello già presente in Gran Bretagna.

All’inizio del 1944 Oziemski e i suoi compagni d’armi sono nel nostro paese, impegnati nella campagna d’Italia. Egli apprende in quei mesi la notizia della morte della moglie. Partecipa alla battaglia di Montecassino, poi alla liberazione di varie città, tra le quali Faenza, dove i soldati polacchi si fermano fino all’aprile 1945. A guerra finita torna finalmente verso Cracovia. Ma sta già calando la cortina di ferro tra Est e Ovest. In quel contesto, di dominio sovietico sull’Europa orientale, il nostro protagonista conosce nuovamente la prigionia in un lager in Siberia, dove muore alla fine del 1951 nel ventre di una miniera.

Il titolo del romanzo, Un padre in esilio, contiene in sé due elementi strettamente connessi. Esso richiama, in primo luogo, l’esperienza degli esuli (una realtà quella dell’esilio che ha una lunga storia in Polonia, come del resto in Italia, per le tante traversie e difficoltà che questi due paesi, questi due popoli, hanno dovuto affrontare, dall’Ottocento in avanti, per affermare la propria indipendenza, libertà e autodeterminazione), ma contiene anche un richiamo ai legami familiari: un padre, appunto. Nella sua brevità il titolo contiene, dunque, due dimensioni in un drammatico dialogo tra loro: quella dell’esilio e quella della famiglia. Si tratta di una scelta indovinata da parte dell’autore, perché capace di richiamare con immediatezza situazioni diffuse nell’Europa degli anni Venti, Trenta e Quaranta, quando l’esperienza dell’esilio e dell’opposizione clandestina ai totalitarismi coinvolse interi nuclei familiari. E molte donne vicine agli ambienti di opposizione, spesso rimaste sole con i propri figli, iniziarono un nuovo percorso di impegno, costruirono reti di mutuo appoggio e alimentarono forme originali di reciproca assistenza. Vicende che spesso non terminarono con la guerra; sicuramente non nel caso polacco.

La Polonia, aggredita da Hitler nel 1939, si ritrovò dopo il 1945 nella morsa dell’Unione Sovietica di Stalin. Nemmeno allora il popolo polacco poté essere padrone del proprio destino. Se, dunque, in Europa occidentale il 1945, con la capitolazione del nazismo, segnava la fine dei fascismi e la vittoria della democrazia liberale, esso assunse un significato profondamente diverso nella parte orientale del Vecchio continente, dove si formarono i regimi comunisti controllati dall’Urss. Nell’Europa del 1945 si chiudeva un’epoca, quella segnata dal confronto tra democrazie e fascismi iniziata negli anni Venti e Trenta, e si delineava una nuova contrapposizione, tra capitalismo e comunismo, protrattasi per oltre quarant’anni.

Il 1989, con il crollo del Muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica, ha chiuso a sua volta l’epoca iniziata nel dopoguerra. E la fine della Guerra fredda ha sicuramente agevolato quella necessaria riconsiderazione e quella nuova attenzione verso la storia della Polonia e dei polacchi durante il secondo conflitto mondiale, verso il loro impegno e la loro testimonianza contro nazismo e comunismo, a cui anche questo bel romanzo storico di Vincenzo Malavolti concorre portando un apprezzabile contributo.