Presso l’Istituto Storico Parri di Bologna l’11 aprile 2013 è stato presentato il volume delle grafologhe Nicole Ciccolo ed Elena Manetti (Mussolini e il suo doppio. I diari svelati, Pioda Editore, Roma 2012) relativo alla vicenda dei falsi diari di Mussolini pubblicati da Bompiani. Le autrici ricostruiscono la storia dell’operazione e delle falsarie che non si sono limitate ad architettare una truffa ma hanno fatto dell’edificazione di un’immagine artificiale ed edulcorata del fascismo (attraverso i pensieri intimi del suo duce) una vera e propria missione di vita.
Al di là dell’utile perizia calligrafica fra i diari e la grafia mussoliniana e fra i diari e il segno grafico delle falsarie (Rosetta e Amalia Panvini, madre e figlia) il libro ci serve per indagare su processi psicologici di condizionamento fra madre e figlia e di identificazione col mussolinismo. Ed è su questo piano che l’incontro bolognese ha riservato i maggiori spunti di interesse, a partire dall’analisi del “linguaggio totale” fascista, della sua pervasività comunicativa che omogeneizza aspetti grafici e di contenuto, facendo quasi diventare quello del fascismo non solo un “pensiero unico” ma un “pensiero collettivo”.
Gli aspetti più importanti che si desumono dalla vicenda ricostruita nel libro riguardano in primis la desolante prassi italiana di un’editoria dalla quale non si pretende assunzione di responsabilità (si confronti la vicenda con quella dei falsi diari di Hitler in Germania).
Segue la questione del perché dell’interesse ai diari di Mussolini da parte di un pubblico che, piuttosto che all’aspetto della loro autenticità, sembra solo interessato a poter accedere al “verbo del duce” anche se inventato da altri.
Importante poi la dimensione psicologica, il forte condizionamento culturale di chi, come Amalia Panvini, giunge a immedesimarsi così profondamente in una mitologia mussoliniana da voler correggerne storia, fortuna e giudizi morali, costruendo un duce (e attraverso di lui un regime) alternativo a quello che è stato.
Rilevante inoltre la dimensione pedagogica e storiografica del ragionamento, infatti appare legittimo chiedersi per quale motivo un’operazione di questo tipo (che prevedeva anche l’uscita con il quotidiano “Libero”) avrebbe dovuto far rileggere la storia del fascismo secondo una luce nuova. Perché cioè chi affronta i diari dovrebbe valutare diversamente la violenza del regime, il suo razzismo, il bellicismo e l’antidemocrazia dopo aver letto che il duce in privato professava condotte differenti? Perché il giudizio storico sull’antisemitismo fascista dovrebbe cambiare se Amalia Panvini si inventa un duce che alla promulgazione dei provvedimenti antiebraici scrive «No, non approvo»?
Interessante è riflettere su quell’Italia nient’affatto residuale, reducistica, nostalgica che si rivolge a una modesta famiglia di Vercelli affinché produca firme del duce come cimeli mussoliniani. E lo scarto successivo è rilevante: si fabbricano per soldi falsi diari ma soprattutto si presenta un duce bonario, “dittatore riluttante”, antinazista nonostante l’alleanza con Hitler, contornato di personaggi che giudica squallidi e pericolosi come Ciano e Grandi ma che lui stesso ha scelto.
I falsi diari quindi sono importanti perché, assieme al favore che li hanno accolti, sono parte dell’autobiografia di un’Italia popolata da difensori del fascismo, per affetto e nostalgia. Un Paese di editori senza scrupoli né etica, di senatori come Dell’Utri (possessore dei diari) più adatti evidentemente alle Camere del Ventennio che a quelle uscite dalla Resistenza al nazifascismo. Una nazione dove si continuano a rilanciare contenuti che sono alla base del mito degli “italiani brava gente”. L’operazione Dell’Utri-Bompiani-“Libero” è pensata per recuperare il fascismo tirando un tratto di penna sulle ricostruzioni degli “storici faziosi antifascisti” e proporre una lettura di prima mano: addirittura le congetture del duce. Tutto questo dimostra il riduzionismo e l’imbarbarimento a cui è soggetta la divulgazione storica: perché infatti la reinterpretazione storiografica del fascismo dovrebbe necessariamente passare attraverso lo scavo sulla personalità del duce? E perché è così tenace l’associazione fra aspetti biografici del dittatore e la conoscenza del fascismo storico?
Nel momento in cui la storia d’Italia durante il fascismo declina verso il senso comune si verifica questa sorta di automatica associazione con la sola figura di Mussolini e questo può anche essere comprensibile (anche per le caratteristiche totalizzanti che il mussolinismo stesso ha dato del ventennio). Il problema però è che il metro del senso comune appare l’unico spendibile in un Paese che non dimostra di avere stabilito dei livelli minimi accettabili di consapevolezza del significato del passato fascista italiano.