Lo scorso 9 novembre si è tenuto a Reggio Emilia il seminario di studi dedicato a Metodi e temi della storiografia sull’anarchismo, «cucina» – secondo la bella metafora usata in apertura dei lavori dal coordinatore del progetto, Giampietro Berti – del «ristorante» che vedrà come «sala da pranzo» il convegno nazionale che si terrà nella stessa città il 10 e 11 maggio 2014 con il titolo 150 anni di lotte per la libertà e l’uguaglianza. Per un bilancio storiografico dell’anarchismo italiano. Promotori dell’iniziativa la Biblioteca Panizzi e l’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, da diversi anni impegnati nella promozione degli studi sull’anarchismo in Italia. Scopo della giornata: «discutere su come fare le pietanze per maggio», ovvero presentare al pubblico e fare il punto tra relatori su metodi e contenuti da sviluppare in vista del prossimo appuntamento, che dovrà offrire un bilancio non apologetico della storiografia sull’anarchismo prodotta dal dopoguerra a oggi.
All’introduzione dei lavori è seguita la presentazione delle sessioni di lavoro. La prima, curata da Pietro Adamo e Nico Berti, farà il punto su “Storie complessive dell’anarchismo/Le interpretazioni” prodotte dal secondo dopoguerra a oggi, occupandosi di otto libri «e mezzo»: Anarchism di George Woodcock (1962), The Anarchists di James Joll (1964) e Stato e potere nell’anarchismo di Mirella Larizza Lolli (1986), quindi la revisione – per questo Adamo parla di «mezzo volume» – pubblicata da Woodcock nel 1986 del suo classico del '62, Demanding the Impossible: A History of Anarchism (1992) di Peter Marshall, Histoire de l’anarchisme di Jean Préposiet e Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento (1998) di Giampietro Berti. Una parte della sessione tratterà delle storie complessive dell’anarchismo scritte in Italia e sarà tenuta da Lorenzo Pezzica. La seconda sessione, presentata da Carlo De Maria e Antonio Senta, si occuperà di “Biografie e Generazioni”. Mentre Senta offre con la sua relazione un’analisi dettagliata circa le influenze delle radici risorgimentali sul primo internazionalismo, De Maria entra nel merito dell’organizzazione della sessione, spiegando che essa si comporrà di quattro relazioni «pensate su scansioni generazionali», nella convinzione che il «metodo biografico» sia stato – e sia tutt’ora – uno strumento fondamentale per lo studio dell’anarchismo, nonché da esso sempre valorizzato. La prima generazione, nata a metà Ottocento, è quella dei Cafiero, Costa, Malatesta e Merlino, studiati prima da Pier Carlo Masini e poi da Giampietro Berti e Renato Zangheri; la seconda è quella dei nati negli anni Settanta dell’Ottocento, che hanno avuto come primo banco di prova della militanza la crisi di fine secolo, e ha come esponenti più incisivi Luigi Fabbri – studiato da Masini, Maurizio Antonioli, Roberto Giulianelli e Santi Fedele – e Armando Borghi – oggetto degli studi di Gianpiero Landi e Antonioli. La terza generazione, che vive in pieno l’esilio antifascista, si concentrerà intorno alle due coppie Berneri-Caleffi e Fedeli-Premoli, cercando di cogliere l’occasione per far emergere la natura della partecipazione femminile al movimento; infine la quarta generazione, quella nata negli anni tra le due guerre mondiali, con Maria Luisa Berneri, Masini, ma anche Carlo Doglio, Virgilio Galassi e molti altri ancora in attesa di un approfondimento bibliografico. Giorgio Sacchetti e Pasquale Iuso hanno invece presentato la terza sessione “L’insediamento territoriale e le forme associative/organizzative”, che deve a Ugo Fedeli la sua prima analisi storiografica sistematica e poi, agli anni Settanta del Novecento, un ulteriore approfondimento che sfocia nell’analisi e nelle interpretazioni del ruolo dell’anarchismo. L’indagine dei relatori vuole però spingersi oltre, verso lo studio delle contaminazioni culturali che un raffronto sincronico degli eventi può mettere in luce e verso l’analisi dei mestieri per individuare perché il lavoro non fordista favorisca l’organizzazione libertaria. La quarta sessione, “L’esilio e le comunità italiane all’estero”, s’interroga su sviluppi e problematiche degli studi sull’esilio anarchico, considerando questo fenomeno (come già fatto dalla storiografia consolidata) un elemento caratterizzante dell’età contemporanea e dei suoi protagonisti – gli esuli – soprattutto per quanto riguarda la politicizzazione e la circolazione delle idee. Hanno presentato la sessione Enrico Acciai e Pietro Di Paola, seguendo una scansione geografica. Il primo facendo il punto sull’area mediterranea e insistendo sull’opportunità/necessità di valorizzare lo studio dell’esilio come elemento storiografico a sé stante, che ha fatto di quello anarchico «il primo movimento veramente transnazionale a organizzarsi dal basso». Il secondo, Di Paola, si concentra sul mondo anglosassone sottolineando l’interesse per il recente dibattito internazionale sull’esilio anarchico (Anarchism and Syndicalism in the Colonial and Postcolonial World, 1870-1940 e New Perspective on Anarchism, entrambi usciti nel 2010, inoltre Italian immigrant Radical Culture del 2011 curato da Marcella Bencivenni), che propone uno sguardo meno disincantato sull’esilio, attento sia alla specificità dell’esilio anarchico che alle sue potenzialità quale fattore transnazionale. “Arte e letteratura” è la sessione proposta da Alberto Ciampi e Franco Bunčuga, che affronta il tema arte-anarchia come una «costante nell’agire […] ben rappresentato nella pubblicistica», con profonde radici che affondano «nella società in maniera sistematica sin dall’Ottocento». Al prezioso e dettagliato elenco di pubblicazioni sul tema offerto da Ciampi, succede la presentazione di Bunčuga che ripercorre le radici della relazione tra arte e movimento anarchico, e tra architettura e movimento anarchico. Bunčuga evidenzia come la riflessione su arte e anarchismo, avviata solo alla fine degli anni Settanta del Novecento, si sia rapidamente sviluppata determinando una relazione diretta tra pensiero anarchico e artisti, che si declina sia nella militanza, sia nella rappresentazione della stessa. Sono presentate immagini a testimonianza di tale legame: gli Spaccapietre (1849) di Courbet, che indurrà Proudhon a scrivere Il principio dell’arte e la sua destinazione sociale (1863); Pisarro, «archetipo dell’anarchico artista», maestro di Gauguin e Van Gogh e grande amico di Cezanne, che si avvicinerà in seguito al neoimpressionismo in quanto ancora più attiguo all’anarchismo; i neoimpressionisti, che prefiguravano un nuovo mondo anarchico (Paul Signac, Au temps d’harmonie, 1893-1895); il dadaismo con Duchamp e le sue provocazioni artistiche, riflesso dell’anarchismo inteso come momento di distruzione dei meccanismi dell’arte contemporanea; il surrealismo con Breton, Enrico Baj – «anarchico e con temi anarchici» (I funerali dell’anarchico Pinelli, 1972) – e infine Harald Szeemann, che ha inaugurato un nuovo modo di fare arte “usando” gli artisti per trasmettere il suo messaggio destrutturante. Quanto poi all’architettura, o meglio alla pianificazione urbana, essa nasce da Peter Kropotkin (Campi, fabbriche officine, 1898) – spiega Bunčuga – e dai suoi studi geografici e territoriali, che sono l’ispirazione per una pianificazione basata sul federalismo: filone questo che nasce nella seconda metà dell’Ottocento e arriva fino ai giorni nostri raggruppando quasi la totalità degli urbanisti e architetti contemporanei che si sono dichiarati anarchici. Al rapporto tra “Ecologia e neo-anarchismo” è dedicata la penultima sessione dei lavori, presentata da Salvo Vaccaro e Selva Varengo. Vaccaro si concentra sul dibattito culturale globalizzato e transnazionale, che ha come obiettivo quello di «valorizzare una pratica teorica di ibridazione». Dove per ibridazione s’intende il tentativo di mettere insieme gli aspetti principali del pensiero anarchico con una serie di dispositivi teorici innovatori, finalizzati a coprire dei vuoti teorici all’interno della cultura anarchica e, in secondo luogo, a rispondere all’inevitabile crisi dei principi di seduzione del pensiero anarchico. Ibridazione che, dunque, altro non è che una forma di narrazione in cui i deficit teorici riscontrati nella pratica sono analizzati esclusivamente da un punto di vista culturale. In una parola il post-anarchismo, di cui Todd May con il suo The Political Philosophy of Poststructuralist Anarchism (1994) è il capostipite. Varengo fa invece il punto sul rapporto tra anarchismo ed ecologismo, che ha oggi un profilo complesso, riconducibile a quattro tendenze principali: l’ecologia sociale di Murray Bookchin, secondo cui il problema ecologico è in realtà un problema sociale per risolvere il quale occorre cambiare radicalmente i rapporti sociali attraverso l’eliminazione della gerarchia del dominio; la decrescita di Serge Latouche, che ritiene necessario l’abbandono del mito occidentale e capitalista della crescita illimitata, presupponendo uno sviluppo né sostenibile né durevole; l’anticivilizzazione teorizzata da John Zerzan, che individua nell’agricoltura e nell’allevamento le cause prime della divisione del lavoro, della gerarchia, dell’alienazione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’essere umano sulla natura che porteranno a un prossimo collasso del pianeta, per evitare il quale l’unica soluzione risiede nella distruzione della civilizzazione e dell’industrializzazione in favore di un ritorno a un mondo pre-agricolo e nomade; infine l’antispecismo di cui, pur esistendo più declinazioni, si può affermare che le prevalenti siano quella data da Peter Singer (Animal Liberation, 1975), secondo cui «lo specismo è un pregiudizio», e una più recente secondo cui «lo specismo non è un pregiudizio ma viene considerata un’ideologia».
“Strumenti, repertori e fonti” è il titolo della sessione di chiusura, tenuta da Massimo Ortalli e Luigi Balsamini. Ortalli propone un quadro critico delle monografie sull’anarchismo pubblicate dal 1946 a oggi; riscontra una iniziale «insensibilità degli anarchici verso la loro storia», segnalando che dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta le opere storiografiche riguardanti la storia dell’anarchismo ammontano a una settantina di titoli appena, «riflesso – secondo Ortalli – del sostanziale declino della presenza anarchica nella società italiana, ma anche della capacità del movimento di riflettere su se stesso». Osserva, però, che il periodo successivo ai fenomeni di insorgenza sociale degli anni Sessanta, che esprimevano in larga misura principi di affermazione del pensiero libertario (autogestione, partecipazione dal basso, rifiuto della delega, ecc.), porta a un consistente aumento dell’interesse verso l’anarchismo nelle società occidentali. I riferimenti bibliografici a tal proposito sono: il testo del 1969 di Masini, «il primo libro del secondo dopoguerra – fa notare Ortalli – che parla dell’anarchismo come movimento specifico con una sua forza e una sua valenza»; la pubblicazione degli atti del Convegno promosso dalla Fondazione Einaudi di Torino nello stesso anno (Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, 1971), che contiene contributi sull’anarchismo come protagonista e non solo più come comprimario della storiografia; i fondamentali lavori sull’anarchismo pubblicati negli anni Settanta, da una parte di «area anarchica», che nonostante una forte adesione intellettuale «costituiscono le basi per una nuova scuola storiografica legata al movimento anarchico»; e gli studi provenienti da aree differenti (come ad esempio quelli di Bravo, Della Peruta, Zangheri, etc.), tra i quali alcuni di ambito marxista che riconoscono per la prima volta il valore storico e storiografico del movimento anarchico. Ortalli segnala, infine, la presenza oggi di «una nuova scuola di studiosi davvero importante e davvero numerosa, un fermento di studi che non affronta solo la storia dell’anarchismo nella sua complessità, ma anche nella sua settorialità».
Ha chiuso la sessione e la giornata Balsamini dell’Archivio Travaglini di Fano con una relazione sul progetto – al quale sta lavorando da circa un anno un gruppo di lavoro formato da informatici e bibliotecari di Castel Bolognese, Fano, Imola, Bologna, Pisa e Milano – finalizzato alla costituzione di un catalogo collettivo internazionale specializzato in storia del movimento libertario, che consentirebbe di interrogare contemporaneamente i diversi opac delle varie biblioteche «come se l’utente avesse a che fare con un unico catalogo». Un catalogo collettivo che non solo permetterebbe di socializzare materiali, ma anche di orientare gli istituti culturali coinvolti «al servizio piuttosto che alla mera conservazione delle memorie, con la finalità ultima di spostare l’attenzione e il perno attorno a cui ruotano le attività dal documento all’utente».