1. Introduzione
L’Emilia Romagna, più di altre regioni del nord Italia, è stata contraddistinta per i primi decenni del dopoguerra da un fortunato equilibrio fra economia, società e politica. A un’organizzazione produttiva diffusa, basata su piccole e medie imprese, s’è aggiunta un’elevata partecipazione alla vita politica. Il risultato in termini sociali è stato molto positivo in particolare per la mancanza di una struttura di classe non polarizzata come in altre realtà. È per questo motivo che il “modello emiliano”, descritto da studiosi e giornalisti, sembrava aver trovato proprio nel welfare locale una delle sue caratteristiche più forti e identificative. In Emilia Romagna, sino agli anni Settanta, il welfare aveva infatti rinvenuto un terreno molto fertile grazie alla presenza di un benessere diffuso e di una società con poche divisioni. A partire dagli anni Settanta la situazione sociale complessiva della regione è però iniziata a cambiare: se nel sistema produttivo la regione ha conservato i suoi tratti peculiari, con una struttura solida fatta di piccole e medie imprese, questo non si è verificato nella politica e nella società. Con il tempo è calata la partecipazione politica, e quelle caratteristiche virtuose che caratterizzavano la regione a livello sociale sono andate diminuendo d’importanza [Balzani 1997, 639-46].
Nonostante ciò il welfare locale continua a essere un tema chiave per una regione tra le più sviluppate in Italia e con tradizioni politiche radicate. Ne è la prova il dibattito che si è svolto nella città di Bologna nella primavera del 2013, su come impiegare le risorse finanziare comunali in tema di scuole dell’infanzia. A conferma di questo interesse nello stesso periodo si è svolto un referendum che ha portato la maggior parte dei votanti a scegliere di investire i fondi per le scuole verso le istituzioni pubbliche, bocciando l’opzione di darli anche alle scuole paritarie private in convenzione con il comune.
In questo articolo si vuole porre l’attenzione sull’amministrazione di Bologna e sulla classe politica che l’ha governata in maniera quasi ininterrotta dal dopoguerra. Si analizzeranno in maniera sintetica le politiche messe in atto e il dibattito interno ai partiti di sinistra sulla necessità di mantenere, rinforzare o limitare le politiche del welfare cittadino. Si inizierà però dando una definizione di welfare state e di welfare locale in particolare.
2. Una definizione di “welfare”
Il welfare state è un fenomeno complesso che nel corso della storia contemporanea si è evoluto in differenti modi. Questa locuzione andrebbe in realtà collocata in un preciso periodo storico, quello immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, e al ristretto ambito britannico. È infatti nel Regno Unito che il termine nasce e viene usato nell’immediato dopoguerra in contrapposizione alla parola warfare, utilizzata quest’ultima per definire il fabbisogno economico del conflitto. In quegli anni grazie all’opera di William Beveridge si superò la precedente impostazione delle politiche sociali imperniate su schemi prevalentemente occupazionali, diretti cioè a tutelare solo coloro che partecipavano in prima persona nell’accantonamento di fondi versando i propri contributi, ovvero i lavoratori. Si affermò quindi un nuovo principio universalista, volto a tutelare tutti i cittadini e non solo determinate categorie, assicurando servizi standard e finanziati attraverso la fiscalità [Conti e Silei 2005, 101].
Negli ultimi anni però con il concetto di welfare state si intende descrivere tutti i programmi di intervento statale che nel recente passato sono stati creati in favore dei cittadini e che forniscono servizi ritenuti essenziali nelle economie occidentali. La parola “welfare” è andata quindi a sostituire o a sovrapporsi al termine “stato sociale” con il quale gli storici intendevano quei programmi di intervento d’ambito sociale ben precedenti alla nascita del welfare universalista britannico. Per questo motivo gli storici hanno dato del welfare state sempre una definizione molto generica, che ha però il vantaggio di essere molto ampia e abbracciare vari campi d’intervento che hanno assunto valenze e connotazioni diverse a seconda dei periodi storici. La definizione data in un’opera di sintesi dagli storici italiani Fulvio Conti e Gianni Silei appartiene in pieno a questo modo di considerare il welfare state:
Con l’espressione Stato sociale o Welfare state s’intende oggi l’insieme di iniziative assunte dai vari paesi nell’ambito dell’assistenza, della previdenza, dell’istruzione, della sanità e più in generale per la tutela dei propri cittadini [Conti e Silei 2005, 9].
La definizione degli storici, di tipo descrittivo, ha il vantaggio di considerare il welfare come un elemento comune a tutti i paesi sviluppati, in quanto frutto dello sviluppo economico e industriale e della necessità di offrire una risposta ai problemi sollevati dall’economia di mercato. Ogni paese ha infatti realizzato il proprio percorso in maniera differente, arrivando però a convergere in risultati comuni in una generale protezione della persona.
Il limite di questa definizione riguarda gli aspetti politici del welfare e in particolare l’importanza che questo ha assunto nel caratterizzare gli elementi dello stato moderno. I politologi negli anni hanno infatti insistito molto sul fatto che uno dei compiti dello stato moderno è proprio quello di provvedere al benessere dei propri cittadini, in quanto dotati di cittadinanza. Il welfare state inoltre ha contribuito notevolmente al rafforzamento dello stato forgiando i propri cittadini. Si comprende così meglio il senso della definizione data dal politologo e storico tedesco Gerard Ritter:
Tra i compiti dello Stato sociale non c’è soltanto la garanzia della sicurezza sociale del singolo, realizzata con misure di tutela del reddito in caso di vecchiaia, invalidità, malattia, infortunio e disoccupazione, con gli assegni familiari, con l’assistenza sanitaria e l’edilizia sociale. Sono tipiche dello Stato sociale anche le misure volte ad eguagliare le diverse possibilità iniziali del singolo, con l’istruzione e la formazione statale e la redistribuzione parziale del reddito da parte del sistema fiscale, nonché con la regolamentazione del mercato del lavoro e con provvedimenti di tutela delle condizioni lavorative [Ritter 1996, 21].
Oltre agli storici e ai politologi, sono stati soprattutto i sociologi gli scienziati sociali che si sono dedicati di più allo studio del welfare state. In questo senso i sociologi hanno avuto il vantaggio di essere stati i primi a comprendere la necessità di studiare il welfare come un sistema che abbracciava più settori d’intervento e che andava al di là dei semplici casi nazionali. L’analisi del welfare come un unico sistema di protezione e formazione del cittadino ha così permesso l’elaborazione di importanti teorie evolutive che ne spiegano la presenza nelle società occidentali e industrializzate e la sua quasi completa assenza in società povere o meno sviluppate. In questo modo i sociologi sono stati tra i primi a individuare caratteri comuni nei vari sistemi di welfare che sono stati utili per impostare analisi di tipo comparato tra i paesi occidentali; tali elementi hanno permesso anche di comprendere le diverse evoluzioni storiche. Negli anni le riflessioni sociologiche si sono allargate all’utilizzo di metodi quantitativi, affiancati ai più classici metodi qualitativi, dando maggiore peso all’uso della scienza statistica. Sono state utilizzate così allo stesso tempo variabili socio-economiche (livello di industrializzazione, di urbanizzazione, di crescita del Pil totale o del Pil pro capite, struttura demografica) e variabili politico-istituzionali (la forza delle organizzazioni e dei partiti di diversa ispirazione ideologica, il grado di centralizzazione amministrativa, gli assetti costituzionali o il grado di corporativismo) e il livello di mobilità sociale [Ferrera 1993, 19-42].
Lavorando su più aspetti i sociologi sono arrivati con il tempo a creare una definizione ancora più ampia che abbraccia sia la tutela dei cittadini nel momento del bisogno (come nella definizione data dagli storici), sia la formazione del cittadino come parte della nazione (come nella definizione dei politologi), ma che unisce anche i doveri del cittadino come parte fondamentale del welfare state. La definizione in questione fu elaborata da Jens Alber nel 1988 e leggermente modificata dal sociologo italiano Maurizio Ferrera:
Il “welfare state” è un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l’altro specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria [Alber 1988; Ferrera 1993, 49].
3. Il dibattito nazionale sul welfare e il suo sviluppo in Emilia Romagna
Alla fine della Seconda guerra mondiale il dibattito politico nazionale sui sistemi di welfare ruotò tutto intorno al ruolo dello stato relegando in secondo piano la dimensione locale. Negli anni Cinquanta e Sessanta in realtà i comuni tornarono al centro del problema su due fronti, che divennero i principali campi d’intervento del welfare locale: l’assistenza sociale, in particolare agli anziani e alle persone con scarso reddito, e l’istruzione per l’infanzia. Fu il rapido cambiamento sociale ed economico, derivante dall’incremento della popolazione e dallo sviluppo industriale, a porre nuove sfide alle amministrazioni locali. Fu proprio l’autonomia lasciata dallo Stato ai comuni a permettere in alcune realtà locali, come l’Emilia Romagna, la realizzazione di strutture assistenziali e scuole materne di nuova concezione con risultati in certi casi all’avanguardia [Magagnoli, Sigman e Trionfini 2003; Panighi 2012].
Al di là dei singoli casi locali, nel campo delle politiche assistenziali la dimensione municipale ha sempre rappresentato il fulcro del sistema, sia in fase gestionale che in fase decisionale, questo anche prima che il decreto del Presidente della Repubblica n.616 del 1977 regolasse la materia dando maggiori funzioni amministrative agli enti locali. Il livello nazionale è sempre stato più debole poiché interessato a intervenire su altre tematiche del welfare come la previdenza sociale, soprattutto le pensioni, e la sanità. Si è così verificato l’intensificarsi di una differenza tra i servizi gestiti e regolati dallo stato centrale e quelli sotto il controllo degli enti comunali. Per i primi, pur con ovvie differenze tra le regioni, si è comunque attenuato quel forte divario regionale che esisteva nell’immediato dopoguerra, ciò invece non è avvenuto per i servizi gestiti a livello locale. Negli anni Settanta a complicare il quadro è arrivata anche la presenza degli enti regione, ai quali sono stati affidati con il tempo i servizi sanitari. Sulle tematiche di cui si è sinora parlato il livello decisionale comunale è rimasto molto forte, tanto che alcuni studiosi sono arrivati a mettere in dubbio l’esistenza di un livello nazionale di decisione sostanziale su temi come l’assistenza agli anziani, ai disabili e ai bambini in età prescolare [Dente (ed.) 1990].
Il ruolo fondamentale dell’Emilia Romagna nelle politiche di welfare locale ci è confermato anche dalle rilevazioni statistiche più recenti (elaborate su dati del 2008), che mettono in evidenza come questa risulti essere, considerando l’aggregato dei singoli comuni, la regione a statuto ordinario che ha registrato la spesa più alta per interventi e servizi sociali. Sopra l’Emilia Romagna vi sono infatti soltanto le province autonome di Trento e Bolzano, la Valle d’Aosta, il Friuli Venezia Giulia e la Sardegna, tutte realtà a statuto speciale [Istat 2011].
Non è semplice fare un discorso regionale sulle tematiche del welfare, perché, come s’è detto in precedenza, queste vengono gestite in gran parte dai comuni. È però possibile porre l’attenzione su alcuni aspetti che hanno influito nella regione emiliano-romagnola nel comporre un quadro positivo nell’ambito nazionale. Si tratta di elementi utili anche per un confronto tra i vari sviluppi regionali del welfare e sono in particolare: lo sviluppo economico, la cultura politica, lo sviluppo demografico e il tessuto sociale. Tali elementi di comparazione sono stati introdotti negli ultimi decenni dai sociologi per compiere studi paralleli su vari modelli di welfare introdotti in differenti paesi [Alber 1982; Baldwin 1990].
Per quanto riguarda lo sviluppo economico l’Emilia Romagna ha vissuto per tutto il XX secolo un processo di forte industrializzazione che l’ha portata a raggiungere nel tempo regioni che avevano livelli di partenza migliori, come la Lombardia. Soprattutto nel secondo dopoguerra lo sviluppo economico nel territorio fu certamente particolare, questo infatti era caratterizzato dalla presenza di un vasto numero di piccole e medie imprese. Tale elemento ha limitato quella frattura sociale che risultò invece più presente in altre regioni e contribuì a creare più che altrove una classe media diffusa bisognosa di servizi di welfare efficienti e alla portata di tutti [Zamagni 1997]. L’industrializzazione e il conseguente sviluppo economico permisero quindi di creare, oltre alla domanda di servizi, anche le risorse necessarie al loro finanziamento. Questa è stata una condizione senza la quale il modello emiliano di welfare non si sarebbe potuto sviluppare. Rispetto ad altre regioni del nord allo sviluppo economico si unì una condizione sociale particolare nella quale le questioni del welfare divennero tra le principali a livello di dibattito politico.
Altro elemento fondamentale per lo sviluppo delle politiche di welfare è per l’appunto la cultura politica permeata nel territorio. Questa influisce da un lato nella conflittualità sociale, che spinge al cambiamento attraverso le rivendicazioni, e dall’altro nell’ideologia delle élite al potere, che effettivamente prendono le decisioni di governo. In tal senso il territorio emiliano sia prima che dopo il fascismo è stato caratterizzato da una stretta unione tra la dimensione rivendicativa e quella propositiva. Ciò si è espresso in conflitti sindacali diffusi e di un certo rilievo e dall’altra parte in decisioni politiche rilevanti prese da un ceto politico disponibile a dare risposta alle rivendicazioni [De Maria 2013]. Anche in questo caso la regione emiliana ha avuto uno sviluppo particolare in quanto la possibilità di dare risposta alle esigenze della popolazione in fatto di servizi locali ha consentito spesso di “alzare la posta” nelle rivendicazioni, arrivando a risultati di eccellenza non toccati in altri territori. Le amministrazioni lavorarono per la modernizzazione dello spazio urbano dotando le città di servizi importanti, e finirono per dare un peso effettivo ai problemi dei cittadini. La regione dominava ad esempio la ribalta nazionale delle municipalizzate con l’assunzione diretta dei servizi pubblici. Il sostegno alle piccole e medie imprese attraverso servizi efficienti, una lungimirante politica delle infrastrutture, il potenziamento di un sistema educativo funzionale al mondo del lavoro, servirono a porre il welfare in primo piano nelle politiche municipali. Un ruolo importante in tal senso lo giocarono anche i movimenti femministi ben radicati nella regione e che portarono il mondo politico locale a un’attenzione particolare per quei servizi, come gli asili nido, fondamentali per le pari opportunità [Addabbo et al. 2011].
L’urbanizzazione e la struttura demografica sono altre tematiche che hanno condizionato lo sviluppo dei welfare locali e che anche in Emilia Romagna hanno portato a risultati particolari. Nel territorio regionale l’urbanizzazione era già forte prima dell’Unità e delle due guerre mondiali, e si era sviluppata su centri di rilievo ma non su grandissime città. La popolazione era in crescita già a partire dal 1861 con pochissima emigrazione, caso raro nel panorama italiano, con il risultato di arrivare negli anni Sessanta e Settanta a livelli di natalità molto alti rispetto ad altre regioni. Di fronte ad una popolazione con molti figli gli amministratori locali dovettero rispondere fattivamente alla necessità di dare servizi all’infanzia e ai genitori. La transizione demografica, con la diminuzione della natalità, si è compiuta più tardi rispetto al livello nazionale ma è diventata più rapida rispetto al resto del paese. Oggi la popolazione regionale è più vecchia rispetto alla media nazionale e ciò ha contribuito a impostare, in un quadro virtuoso, le politiche sociali verso i servizi agli anziani [Del Panta 1997].
L’ultimo elemento di definizione dei welfare regionali è quello del tessuto sociale, inteso come l’insieme di soggetti estranei sia al settore pubblico che a quello più propriamente privato, in grado di proporre soluzioni importanti a problemi reali. Gli enti senza scopo di lucro affondano le radici nella cultura di questa regione già a partire dal Medioevo, fase storica che vede la costituzione di enti sia laici che religiosi con finalità di assistenza e carità. Nei secoli a seguire vedono la luce, in una prospettiva di difesa delle categorie economiche più deboli, i monti di pietà, e successivamente, per offrire una maggiore tutela delle fasce meno forti a fronte del brusco passaggio da un’economia essenzialmente agricola a una prevalentemente industriale, le società di mutuo soccorso, le banche popolari, le casse di risparmio e quelle rurali. Sia prima che dopo l’Unità i territori che oggi costituiscono la regione Emilia Romagna presentavano numeri alti nel cosiddetto “terzo settore”, segno di una realtà che, già prima dell’esistenza del welfare state, aveva un importante rapporto tra il sistema produttivo e la protezione sociale dei lavoratori e più in generale dei cittadini. Questa eredità è fondamentale ancor più oggi, in una fase, come quella attuale, nella quale è visibile il graduale ritiro dell’intervento pubblico a favore del “terzo settore” [Ridolfi 1997; Varni 1998; Carboni, Muzzarelli e Zamagni 2005; De Maria 2008; Carboni e Muzzarelli 2012].
4. Il welfare a Bologna tra gli anni Cinquanta e Sessanta
Dopo aver visto il percorso storico regionale andiamo a focalizzare l’attenzione su Bologna, una città nella quale in tutto il dopoguerra il dibattito politico e gli interventi dell’amministrazione comunale raggiunsero livelli di qualità assenti in altri grandi capoluoghi regionali. Tra il 1951 e il 1961 Bologna cresce al ritmo di oltre 10.000 persone all’anno, in proporzione seconda solo a Torino. La crescita è quasi interamente frutto del saldo migratorio. Sono nuclei famigliari provenienti per la maggior parte dalle campagne e dalle montagne della provincia e della regione. Si creano così nella città aree di nuova urbanizzazione realizzate proprio per accogliere i nuovi arrivati. Gli immigrati incrementarono soprattutto il tessuto operaio, ma anche il lavoro impiegatizio e il commercio, mostrando di omogeneizzarsi nei comportamenti demografici e sociali con l’ambiente in cui andarono a collocarsi. La localizzazione dei gruppi sociali si dispose in modo concentrico attorno al nucleo del centro urbano, lasciando le fasce con minore disponibilità economica nelle zone di nuova urbanizzazione [Bellettini 1984].
Il benessere della città si vedeva sul piano dei consumi privati: i bolognesi superavano le medie nazionali in tutte le voci, anche quelle riguardanti le telecomunicazioni, le automobili e le case di proprietà. Mentre nel 1951 solo il 14,8% delle abitazioni erano occupate in proprietà, nel 1961 un terzo delle famiglie bolognesi possedeva la casa dove abitava (con una percentuale del 24,1% nel centro storico, ma di quasi il 35% nella periferia popolare, come Borgo Panigale, e in quella più borghese delle zone Mazzini e Murri) [Parisini 2010, 165-77].
Bologna diventò negli anni Cinquanta e Sessanta un modello di sviluppo delle amministrazioni locali anche per il partito comunista nazionale. Lo si può leggere sull’organo nazionale del partito, “l’Unità”, sul quale vengono spesso tessute le lodi dell’amministrazione bolognese nella sua opera in favore delle classi sociali più povere [1].
Le tematiche del welfare locale, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, divennero particolarmente centrali nel dibattito politico. Tra queste acquistò importanza la questione degli asili nido, che sul modello di altri paesi europei, in particolare quelli del nord Europa, avrebbero dovuto rispondere alle esigenze di una società in forte cambiamento. In Italia il problema era lasciato ancora nelle mani dell’Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia), un’istituzione creata durante il regime fascista e con un’organizzazione che faceva molta fatica a rispondere a problematiche ben diverse negli anni del “boom”, come quella di venire incontro alle esigenze di una popolazione lavorativa femminile in aumento. Con una sede centrale e tante altre in ambito locale l’Onmi non poteva spingere verso politiche più radicali in favore del tema della maternità. Fu così che su queste tematiche le amministrazioni locali lavorarono in piena autonomia dando differenti risultati sul panorama nazionale. Bologna fu tra le prime grandi città a dare vita a progetti di asili nido con sperimentazioni poi applicate anche in altre realtà. Come hanno rilevato in un recente saggio Patrizia Battilani e Francesca Fauri è proprio a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta che le spese complessive comunali (calcolate su tutto il territorio italiano) per l’assistenza e per l’istruzione (inclusi asili nido e scuole materne) aumentarono in modo significativo. Molti dei servizi all’infanzia, in origine pensati per le famiglie povere o in difficoltà, assunsero la valenza di investimento in capitale umano con l’obiettivo di arrivare alla crescita economica e sociale del territorio. Fu in questi anni che un comune come Bologna rispose alla crescita demografica con la creazione di servizi. A questo si aggiunse ovviamente la maggiore possibilità di spesa resa possibile dalla crescita economica e dall’adozione di politiche di deficit spending [Battilani e Fauri 2013].
Bologna diventò anche un centro simbolico delle lotte in favore della creazione di servizi per l’infanzia finanziati dallo stato. Non è quindi un caso se nel 1964 l’assemblea dell’Unione donne italiane (Udi) sulla tematica degli asili nido si svolse proprio nel capoluogo emiliano. In questa occasione l’Udi chiedeva la nascita di una rete organica di asili nido in quanto il sistema era del tutto insufficiente per le esigenze di una popolazione in crescita. Si calcolava infatti che a quella data le strutture fossero soltanto una cinquantina contro un bisogno sempre maggiore. Le proposte apparivano chiare:
Un punto nodale della battaglia attualmente condotta dalle donne italiane per una moderna e capillare distribuzione di quegli importanti servizi sociali che sono gli asili nido è quello relativo alla loro programmazione che deve essere affidata agli enti locali: lo Stato deve presentarsi come il finanziatore e il coordinatore dell’intera iniziativa, lasciando però a province e comuni (e alle regioni quando saranno una realtà) l’elaborazione e la scelta degli insediamenti secondo una visione locale più precisa e approfondita [2].
Un tema questo che fu al centro, sempre nel 1964, anche del “Febbraio pedagogico bolognese” arrivato alla terza edizione, manifestazione nella quale venivano descritte le ricerche promosse dall’assessorato all’istruzione del capoluogo. Una delle proposte fatte era proprio quella di far partire la creazione di un asilo nido pilota in ogni città [3].
Fu grazie a questa fase di preparazione che la rete comunale di asili nido, per bambini da 0 a 3 anni, divenne dagli anni Settanta in poi molto strutturata. La classe politica bolognese, così come le amministrazioni di altre città emiliane, portò avanti un’idea particolare di asilo nido più vicina, almeno in teoria, al modello nord-europeo. Nati come servizi sociali per fare fronte alle nuove esigenze delle famiglie, e quindi rivolti alla custodia dei figli delle madri lavoratrici, gli asili nido si sono trasformati con il tempo in luoghi con natura pedagogica e ricreativa. A Bologna s’è quindi diffusa da tempo l’idea che l’asilo nido non costituisca soltanto una soluzione per la custodia dei bambini, ma un’occasione importante per le madri, anche se non lavoratrici, di avere maggiore autonomia. Come vedremo, con il passare degli anni si impose l’esigenza di differenziare l’offerta di servizi alla prima infanzia al fine di trasformare tali luoghi sempre più in centri educativi.
5. Gli anni Settanta e Ottanta
A partire dagli anni Settanta si aprì anche una nuova fase nazionale delle politiche di welfare. Un periodo non facile, in quanto basato sulla necessità di far convivere aspettative sempre maggiori della popolazione verso qualità e copertura di servizi con le difficoltà economiche dei bilanci locali. A partire dalla seconda metà del decennio si incominciò infatti a mettere in discussione nei principali paesi occidentali lo stato sociale e i suoi meccanismi di funzionamento. I motivi alla base di questa crisi erano molteplici: una fase di crescita economica più lenta rispetto a quella dei decenni precedenti e la conseguente difficoltà a finanziare l'intero sistema di welfare pubblico; i cambiamenti nel mondo del lavoro e l’inizio del passaggio da un società fordista a una post-industriale; i cambiamenti nella demografia e nelle strutture famigliari con l’emergere di nuove esigenze. Pur con molte differenze e contraddizioni fu da questo periodo in poi che iniziò a perdere terreno l’idea di un welfare a dominazione pubblica, sostituito gradualmente, soprattutto a livello locale, da servizi privati [Castronovo 2000; Revelli 2001].
Proprio in questi anni in Emilia Romagna emersero importanti tendenze che avrebbero portato a un cambiamento nell’impostazione delle politiche sociali. A partire dagli anni Settanta si esaurì quella spinta demografica che aveva portato la regione a tassi di natalità molto alti e anzi nel giro di poco si passò alla situazione opposta. L’Emilia Romagna diventò così una delle regioni con più bassa natalità d’Europa, ma anche con livelli di mortalità tra i più bassi in Italia. Nonostante queste tendenze dagli anni Settanta a oggi la regione non ha conosciuto un calo demografico in quanto l’immigrazione, nazionale e più di recente straniera, ha riequilibrato il saldo demografico. Il calo delle nascite e la maggiore longevità hanno portato a un invecchiamento della regione su livelli mai conosciuti prima e soprattutto con una velocità maggiore rispetto a gran parte d’Italia. Questo fenomeno ha avuto importanti conseguenze sull’organizzazione dei servizi sociali e sulle politiche relative. Le trasformazioni demografiche e dell’istituto famigliare hanno avuto conseguenze di non poco conto anche sulla condizione della fascia di popolazione anziana. L’invecchiamento della popolazione ha prodotto non solo un incremento assoluto del numero di persone della terza età ma anche delle famiglie composte di soli anziani; allo stesso tempo è aumentato il bisogno di assistenza ed è diminuita la possibilità per le famiglie di soddisfarle al loro interno [Da Roit e Castegnaro 2004].
Tornando però alle problematiche dei bilanci comunali è importante notare come nel 1970 la nuova amministrazione guidata da Renato Zangheri si presentò subito denunciando una situazione finanziaria difficile:
Presentando il bilancio di previsione per il 1971, occorre inquadrare la problematica che lo sottende in un esame della situazione di crisi in cui versa oggi, in Italia, la finanza locale. Una crisi cui non sfuggono neppure quei comuni che ancora mantengono il bilancio in pareggio: vi ricadono anzi, allorché costretti, a causa della situazione finanziaria generale, a non compiere spese socialmente produttive, a non adottare misure di espansione e di sviluppo economico e culturale [Comune di Bologna 1970, 6].
Da un lato il sindaco Zangheri voleva denunciare la mancanza dell’apporto finanziario statale verso quei servizi che erano lasciati in mano ai comuni, dall’altro si introduceva la possibilità di iniziare a limitare l’incremento delle spese in servizi che dalla fine della guerra erano andati in continuo aumento.
Dal punto di vista politico su temi come i nidi d’infanzia l’attenzione restava comunque alta. Tra le direzioni d’investimento nell’assistenza ai minori si diceva infatti:
Impegno massimo per la soluzione del problema dei nidi d’infanzia, avendo presente la necessità (e perciò con il proposito dichiarato) di coinvolgere in questa grande battaglia civile e sociale tutti i gruppi sociali interessati, in primissimo luogo le classi lavoratrici, i loro sindacati e le loro organizzazioni di base, stante la enorme dimensione sociale ed economica che la questione ha assunto ed il rapido maturare della coscienza dei lavoratori e dei cittadini in questa direzione [Comune di Bologna 1970, 30].
Nel 1974 “l’Unità” con fierezza citava un articolo del “New York Times” nel quale si tessevano le lodi di Bologna come città efficiente in un panorama italiano caratterizzato invece da una generale inefficienza. In questo caso l’articolo, più che sulle politiche dell’infanzia, poneva l’accento soprattutto sulle misure d’aiuto in favore della terza età. Si descrivevano così i centri di assistenza per anziani e gli sgravi cui avevano diritto, come la tessera di libera circolazione sugli autobus per i pensionati con basso reddito [4].
6. Dagli anni Novanta a oggi
Gli anni Novanta costituirono un momento di profonda trasformazione politica, destinato a portare mutamenti visibili sia in ambito nazionale che locale. Questa trasformazione ebbe due principali fattori: la crisi dei partiti politici tradizionali e l’azione della magistratura contro la corruzione politico-amministrativa. La crisi delle forze politiche che avevano dominato la scena nei decenni precedenti portò alla scomparsa nel giro di pochi anni della Democrazia cristiana e del Partito socialista. Il Partito comunista si era trasformato già nel gennaio 1991 nel Partito democratico della sinistra (Pds), ponendosi esplicitamente come partito riformista e di governo anche a livello nazionale. A Bologna il Pds arrivò a un’alleanza non certo scontata con i Popolari, eredi della parte progressista democristiana, e questa scaturì nell’intesa elettorale del 1995 quando, per la prima volta dal dopoguerra, si giunse all’elezione diretta del sindaco.
Nella relazione al bilancio consuntivo del 1993 il comune di Bologna con una certa enfasi mostrava in appendice alcuni dati di confronti territoriali sui nidi e le scuole d’infanzia con l’orgoglio di presentare ancora un primato su altri capoluoghi regionali. Va sottolineato come questo confronto veniva fatto solo su questo tema e non su altri nei quali ovviamente il capoluogo felsineo non poteva disporre di un simile primato [Comune di Bologna 1994].
[[figure caption="Fonte: Comune di Bologna 1994"]]figure/2013/troilo/troilo_2013_01.png[[/figure]]
[[figure caption="Fonte: Comune di Bologna 1994"]]figure/2013/troilo/troilo_2013_02.png[[/figure]]
Il 1993 è un anno che abbiamo scelto non per caso, perché è l’ultimo nel quale il coinvolgimento del comune di Bologna nella gestione degli asili è totale. Risale infatti all’anno successivo, il 1994, la convenzione fatta dal nuovo sindaco Walter Vitali, subentrato da un anno a Renzo Imbeni, con alcune strutture educative private cattoliche. Fu questo un cambio di impostazione politica molto importante perché di fatto faceva finire il monopolio pubblico sulle strutture comunali, destinando finanziamenti anche ai soggetti privati. Questo gesto rappresentava inoltre un cambiamento ideologico importante, era un sostanziale segno di avvicinamento verso quel mondo cattolico con il quale i nuovi amministratori di sinistra iniziavano a costruire un rapporto di collaborazione, laddove spesso vi era stata contrapposizione.
Già alcuni anni prima, nell’ambito istituzionale regionale era nata l’esigenza di differenziare l’offerta di servizi alla prima infanzia al fine di incontrare nuovi bisogni sociali non soddisfatti dalle strutture dei nidi tradizionali. La sperimentazione di servizi integrativi da affiancare ai nidi risale in Emilia Romagna alla Legge regionale n.27 del 14 agosto 1989, resa effettiva diversi anni più tardi, nel 1997, con la realizzazione di servizi per la prima infanzia come i “Centri bambini genitori” e gli “Spazi bambini”. Nel 2001 si registrarono i seguenti risultati: il 91% dei comuni della regione era dotato di asili nido, mentre il 66% poteva contare anche su servizi integrativi al nido. A dimostrazione di come queste istituzioni fossero lasciate in mano esclusiva alle amministrazioni comunali si deve segnalare come proprio i comuni più piccoli si dimostravano in tal senso meno virtuosi rispetto a quelli di medio-grandi dimensioni. A supporto parziale di questa debolezza è intervenuto l’ente regione con investimenti e sollecitazioni mirate a rendere più strutturata la rete dei servizi sul territorio. Dalla sua fondazione in poi la regione Emilia Romagna ha portato infatti un aiuto importante agli asili nido delle piccole realtà (i comuni con meno di 15.000 abitanti) intervenendo anche a sostegno delle spese di gestione. Se il confronto con altre regioni è decisamente a favore dell’Emilia Romagna, ci sono comunque dei limiti rappresentati dalla presenza di lunghe liste di attesa e da uno scostamento significativo fra posti disponibili nelle strutture e famiglie che richiedono il servizio. Queste strutture sono in grado di dare risposta a oltre il 20% della popolazione residente compresa tra 0 e 3 anni, ma lasciano comunque fuori tutto il resto [Ecchia et al. 2001].
I dati di metà anni Novanta sui nidi d’infanzia testimoniavano le differenze all’interno della regione tra le varie provincie. La percentuale della popolazione regionale tra 0 e 3 anni avente un posto al nido d’infanzia era del 19,6%. Questa media regionale derivava dal massimo della provincia di Bologna (25,5%) e dal minimo della provincia di Piacenza (10,6%). Andamenti differenti tra le provincie erano visibili anche nella valutazione dell’adeguatezza del servizio rispetto all’effettiva richiesta: i dati in questo caso andavano dal massimo di Ferrara con il 91,5%, al minimo di Rimini con il 66%. È questo un indicatore molto interessante perché in realtà condizionato dalla propensione alla richiesta delle varie provincie, un fattore quest’ultimo influenzato da elementi culturali. La provincia di Piacenza, ad esempio, pur avendo il minor numero di strutture riusciva a soddisfare più dell’84% delle richieste a fronte di una domanda di meno del 15% tra i genitori dei neonati residenti. La provincia di Bologna al contrario, oltre ad avere un importante numero di asili nido, aveva anche un’alta richiesta (al di sopra del 30% dei neonati residenti). La lunga tradizione in fatto di servizi per l’infanzia a Bologna ha così influenzato anche culturalmente i residenti che vedono nell’asilo nido pubblico un servizio importante da sfruttare quando possibile. Laddove in regione i servizi sono sempre stati più scarsi anche la richiesta è rimasta più bassa. Differenze simili si registrano anche a livello nazionale e in particolare tra le regioni del nord e quelle del sud, dove l’assistenza ai bambini al di sotto dei tre anni è lasciata principalmente alle famiglie [Ascoli e Pavolini 2001; Saraceno 2003; Del Boca e Rosina 2009].
Dagli anni Novanta in poi profondi mutamenti sono emersi nell’organizzazione dei governi locali; sono stati introdotti meccanismi di gestione, ispirati a modelli manageriali delle imprese private, orientati a migliorare il grado di efficienza e di efficacia dell’amministrazione. È negli anni Novanta soprattutto che si afferma l’idea delle pubbliche amministrazioni come luoghi di efficienza in quanto governati da principi valutati più efficaci nel ridurre gli sprechi. L’impiego di modelli manageriali è stato introdotto per venire incontro all’esigenza di creare spazi di autonomia della dirigenza rispetto alla politica, oltre che per favorire una mentalità e una cultura amministrativa differenti da quelli sino ad allora praticati [Battistelli 1998].
Durante gli anni Novanta però anche la società civile mostrava segni di cambiamento. Come s’è detto fu in questo periodo che si consolidò quel vasto mondo che va sotto il nome di “terzo settore” e che si è espresso in fenomeni come il volontariato organizzato, la cooperazione sociale e l’associazionismo. Queste realtà hanno mostrato una forte crescita quantitativa, una maggiore strutturazione e un crescente livello di professionalità, oltre che un riconoscimento formale da parte dello stato e dell’opinione pubblica. La crescita del “terzo settore” era iniziata nel corso degli anni Settanta, si era sviluppata nel decennio successivo e arrivò a una fase di ulteriore radicamento e maturazione tra gli anni Novanta e il Duemila. A seguito della crisi della spesa pubblica e della conseguente diminuzione dell’intervento statale nel settore del welfare, si è assistito a un graduale mutamento di ruolo degli enti non-profit, chiamati sempre più a porre rimedio alla crisi del welfare nella produzione dei servizi. Il “terzo settore” nelle sue varie componenti si presenta quindi attualmente come uno degli attori che a livello locale partecipa maggiormente alla creazione del sistema di welfare. La legislazione più recente non solo ha fornito alle organizzazioni non-profit un riconoscimento formale, ma le ha sottoposte a criteri più stringenti e selettivi nella concessione dei finanziamenti. Ciò ha fatto sì che buona parte delle organizzazioni di “terzo settore” abbiano iniziato in questi ultimi anni ad agire in ambiti sempre più tecnici. [D’Acunto e Musella 1995; Bova 2009].
7. Conclusioni
Bologna, nonostante i molti cambiamenti nell’impostazione delle politiche di welfare, resta una città fortemente legata a queste tematiche. Le coalizioni di sinistra che l’hanno governata hanno sempre posto, sia nelle parole che nei fatti, grande enfasi sui temi dell’assistenza alla persona. In una fase in cui i bilanci comunali lo permettevano il comune bolognese ha investito molto nella creazione di asili nido e nell’assistenza agli anziani. Quando questo ciclo espansivo ha iniziato a venire meno, la classe politica bolognese ha comunque dato vita a sperimentazioni interessanti che anche in questo caso sono state prese a modello da altre realtà territoriali. In forme ancora una volta proprie, Bologna ha risposto a una necessità di cambiamento che veniva dal panorama nazionale. La spesa sociale odierna del comune bolognese va quindi inquadrata nel processo di riforma del welfare state che negli ultimi decenni si sta articolando in Italia, un processo che ha preso spunto dal problema della compatibilità economica del sistema con i bilanci nazionali e locali. Anche a Bologna la tendenza è quindi quella di tagliare molti servizi di ambito sociale con conseguenze non sempre facili da gestire. Allo stesso tempo, però, la richiesta di servizi è aumentata proprio in conseguenza di un panorama politico e culturale ben disposto verso certe politiche di welfare. Si è così venuto a creare una sorta di paradosso: è lievitata la richiesta di quantità e qualità di servizi alle persone ma si è fatta strada la difficoltà di mantenerne gli elevati costi. La sfida del futuro per Bologna sarà quella di conservare gli alti standard elevati che hanno caratterizzato il welfare cittadino, ben inserito nel modello regionale, aumentando la collaborazione con le istituzioni non-profit e con gli enti privati.
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Risorse on-line
- Archivio storico on-line de “l’Unità”
- http://archivio.unita.it
- Intervista di Paola Furlan all’ex sindaco Valter Vitali
- http://www.comune.bologna.it/storiaamministrativa/media/files/vitali_intervista.pdf
Note
1. Perché il costo della vita è più basso a Bologna che a Milano, “l’Unità”, 8 gennaio 1955.
2. In tutta Italia soltanto 50 gli asili nido, “l’Unità”, 14 dicembre 1964.
3. Bologna: al lavoro con le famiglie 1964, “l’Unità”, 3 aprile 1964.
4. Marzullo K., Perché Bologna funziona. Inchiesta su una città diversa, “l’Unità”, 9 ottobre 1974.