1. Il controllo dell’economia
Tra il 5 e il 22 dicembre 1943 il comandante Enzo Grossi compì un viaggio in Italia e stese una relazione valutando l’occupazione tedesca anche in riferimento al controllo delle attività produttive. Si tratta di una testimonianza significativa, poiché l’ufficiale della Regia Marina aveva aderito alla Rsi, era in ottimi rapporti con i tedeschi e quindi non incline a una visione ostile alla riorganizzazione in corso. Nelle diverse città visitate egli si trovò di fronte a un’analoga situazione, che poteva far presagire quelle che sarebbero state le possibilità di manovra della neonata repubblica:
L’Arsenale di Spezia attualmente è divenuto al completo un arsenale occupato dalla Kriegsmarine sotto bandiera tedesca. L’organizzazione italiana è praticamente inesistente, ma il rendimento del lavoro è certamente scarsissimo. Si ritiene che sia conveniente affidare alla Marina Repubblicana l’organizzazione dell’Arsenale di Spezia che si incaricherà di tutti i lavori necessari alle navi tedesche o italiane. La direzione italiana dell’arsenale consentirà di ristabilire la fiducia e creare una corrente di entusiasmo fra le masse operaie aumentando notevolmente le possibilità di lavoro. Ho notato che nel popolo di Spezia ha prodotto un senso di profondo sconforto il fatto che sull’Arsenale sventoli la sola bandiera germanica, nonostante che sia da tempo costituita la nuova Repubblica Sociale Italiana.
[…]
Belluno
[…]
Tutti gli altri problemi riguardanti la riorganizzazione dei corpi, delle navi, dei mezzi, incontra serie difficoltà perché la vita della Nazione, ed in particolare la produzione dei lavorati, è completamente sotto il controllo delle varie Autorità tedesche di occupazione, le quali non danno alcun credito alle richieste che vengono avanzate dalla Marina Italiana Repubblicana. Appare indispensabile che gli organi germanici che controllano la produzione ed il lavoro in Italia ricevano ordine di dare ausilio alle richieste dei ricostituendi corpi militari italiani. In caso contrario, detti corpi armati, continuando a sussistere soltanto sulla carta e senza alcuna consistenza reale, contribuiranno ad aumentare la sfiducia del popolo nelle proprie possibilità e faranno crescere il disordine interno, anziché creare le basi della nuova vita.
[…]
Venezia
[…] L’Arsenale della Marina di Venezia, analogamente a quanto è stato fatto a La Spezia, è divenuto Arsenale della Marina Germanica.
Questa situazione ostacolava gravemente la costituzione della Rsi:
Una situazione incresciosa e non sicura si era venuta a creare giacché tutti gli Ufficiali, circa 70, della disciolta Regia Marina erano rimasti ai loro posti in qualità di impiegati civili, al soldo del Comando Germanico. I principali esponenti di questi Ufficiali svolgevano tra gli altri propaganda contrario [sic] alla ricostituzione della Marina Repubblicana, perché trovavano comoda la loro posizione scevra di specifici impegni verso le Autorità od il nuovo Governo Italiano. Indubbiamente tale stato di cose consentiva, in questo importante stabilimento di lavoro, l’esistenza di elementi di malsicura fede, che prestavano la loro opera soltanto per ragioni di opportunismo, pronti probabilmente a passare al campo avversario, qualora le sorti della guerra subissero mutamenti.
Per quanto concerne poi la marina,
I magazzini sono stati svuotati e confiscati dagli organi tedeschi e attualmente anche le Ditte produttrici sono bloccate. Occorrerebbe che al più presto la Marina Repubblicana, in un centro che potrà essere stabilito, e magari sotto controllo germanico, ricevesse le necessarie dotazioni di vestiario per 40-50 mila uomini […] I diversi Enti in ricostituzione non hanno possibilità di comunicazione, oppure comunicano lentamente attraverso i Comandi germanici.
Grossi ribadiva infine il controllo del territorio esercitato dai tedeschi e l’evanescente esistenza, particolarmente nel settore dell’economia bellica, della Rsi:
La visita in Italia ha permesso di formulare le seguenti considerazioni personali che espongo con la massima lealtà e senza alcun sottinteso allo scopo di rendere l’esame il più semplice e più lineare possibile.
a) La maggioranza del popolo italiano è convinto che il nuovo Governo Repubblicano non gode di alcun prestigio presso il Governo Germanico. Tale convinzione si basa sulla constatazione che tutti i gangli della produzione e della vita civile e militare trovano pressoché insormontabili difficoltà nella loro riorganizzazione per l’apparente disinteresse delle Autorità germaniche di occupazione.
L’idea che l’Italia sia un paese di conquista e non alleato viene così rafforzata e produce un deleterio senso di sconforto anche su molti di coloro che onestamente intendono dare tutta la loro opera per contribuire al conseguimento della vittoria [1].
Sulla storia dell’occupazione tedesca tra il 1943 e il 1945 è stata messa in luce, in particolare da Andrea Curami, la “zona grigia” costituita dal ruolo della collaborazione dell’industria italiana allo sforzo produttivo del Terzo Reich [Curami 1993], mentre diversi studi hanno sottolineato come l’organizzazione dell’occupante fosse frammentata e spesso caratterizzata dalla concorrenza tra enti e uffici [Klinkhammer 1993; Ferrari e Massignani 2011]. Max Waibel, il maggiore dei servizi segreti svizzeri che mediò la resa tedesca in Italia, descrisse in maniera esemplare la situazione, segnata da una ragionata confusione:
“Divide et impera!”. Questo principio di base, fatto proprio dal governo nazionalsocialista, trovava piena e coerente espressione nell’ordinamento militare e nella suddivisione del potere all’interno dell’esercito tedesco. In questo senso la situazione che ora descriveremo per l’Italia non era affatto esclusiva del teatro bellico italiano ma corrispondeva perfettamente al sistema organizzativo generale degli alti comandi tedeschi [Waibel 1982, 23-4].
La struttura di controllo economico era stata sottoposta dal 13 settembre, per volere di Hitler, al Ministero degli Armamenti e dell’economia bellica retto da Albert Speer dall’anno precedente, che aveva a sua volta nominato il maggior generale dott. Ing. Hans Leyers plenipotenziario per l’Italia, ma l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 cambiò la situazione:
Quando, a seguito dell’attentato del 20 luglio 1944, si verificò un nuovo ampliamento dei poteri delle SS, fu sottoposta all’Höchsten SS— und Polizeiführer anche l’amministrazione economica bellica in Italia, cosicché il RUK-Kommando Italien [Rüstung und Kriegsproduktion = armamenti e produzione bellica] del generale Hans Leyers venne a trovarsi anch’esso sotto il generale SS Wolff. Questo nuovo rapporto di dipendenza divenne particolarmente importante, perché permetteva al generale Wolff di mantenere un’influenza diretta sui preparativi per la distruzione di impianti industriali (fabbriche, impianti di produzione energia, vie di comunicazione) e più tardi poté contribuire in modo decisivo a far sì che queste distruzioni non avessero luogo [Waibel 1982, 24-5].
Ma neppure quello del generale delle SS Karl Wolff era un potere incontrastato, perché il sistema di controllo incrociato faceva sì che il generale SS Wilhelm Harster, capo del servizio di sicurezza (Sicherheitsdienst) e delle truppe di sicurezza (Sicherungstruppen), dipendesse direttamente dall’SS-Obergruppenführer Ernst Kaltenbrunner, il più stretto collaboratore di Himmler.
Il generale Hans Röttiger, che fu capo di Stato Maggiore dell’Oberbefehlshaber Süd (comando superiore sud Europa) dal 5 giugno 1944 alla fine della guerra e uno dei principali attori della resa tedesca in Italia, descrisse durante la prigionia in maniera chiara le motivazioni economiche dell’interesse tedesco per l’Italia settentrionale:
Il significato economico dell’Italia per la condotta complessiva della guerra da parte della Germania stava in diversi campi, dei quali citerò di seguito soltanto i più importanti:
L’industria pesante italiana e anche certi rami dell’industria leggera specialmente nell’Italia settentrionale possedevano una capacità il cui sfruttamento indisturbato costituiva una significativa quota percentuale della capacità complessiva in determinati settori. Se la carenza di alcune materie prime, specialmente carbone e ferro, assegnava all’industria italiana un ruolo di trasformazione o di finitura, allora questo svantaggio non aveva così tanta importanza con le condizioni del traffico sulle Alpi non sfavorevoli almeno fino al tardo autunno ’44. Il vantaggio di sfruttare in Italia le forze lavoro non utilizzate e i suoi impianti industriali predomina sullo svantaggio. Si aggiunga che in alcune aree l’Italia dispone in proporzione di grosse fonti di materie prime, per esempio nel settore tessile. Questa industria ha come punto di forza principale la necessità di poco spazio per il trasporto e può produrre lana sintetica ecc. per fornire quindi maggiori quantità di merci tessili.
Fino alla fine della guerra importanza costantemente in aumento avevano avuto gli impianti di produzione di energia con impianti idroelettrici principalmente in Italia settentrionale (Alpi). Queste fonti di energia a buon mercato, quasi immuni da danneggiamenti, e che facevano risparmiare carbone, fornivano verso la fine della guerra già considerevoli quantità di kilowattora verso la Germania.
Lo sfruttamento della manodopera non completamente occupata sia in Italia sia in Germania è già stato sottolineato.
La produzione, parzialmente diversa dal punto di vista della tipologia dal resto della Mitteleuropa, di beni agricoli permette a tutti i paesi interessati il vantaggio di uno scambio di beni (per esempio riso contro carbone o altri prodotti che mancano in Italia) [2].
Che in Italia esistesse un apparato industriale moderno, anche se non al livello degli altri grandi stati europei, era apparso chiaro anche alle autorità tedesche prima della guerra e nei primi anni del conflitto: si trattava di un apparato essenzialmente di trasformazione, come del resto resta anche oggi, sostanzialmente privo di materie prive e con scarse fonti di energia, ma fortemente accresciuto nella sua struttura in seguito alla prima guerra mondiale.
Un documento segreto dal titolo “Panorama sulla situazione dell’economia bellica dell’Italia”, che offre una sintesi generale sull’economia della difesa italiana, fu redatto nel maggio 1937 dagli addetti militari per valutare come si potesse interagire economicamente con l’Italia in un’epoca in cui le sanzioni – peraltro assai blande e determinate più dalle difficoltà nei pagamenti delle importazioni, necessariamente in valuta pregiata [Gualtieri 2005, 634], che dalle sanzioni della Società delle Nazioni – spingevano l’Italia a intensificare i rapporti con la Germania soprattutto a causa dell’atavica dipendenza della sua economia dall’estero. L’atteggiamento tedesco era dettato da alcuni motivi di opportunità, come evitare nuovi riavvicinamenti con Francia e Regno Unito, che condizionavano la penisola per la sua dipendenza dal carbone, che, com’è noto, neppure lo sfruttamento delle risorse idroelettriche riusciva a diminuire. Per dirla con Rolf Petri, «la riduzione effettiva dell’importazione di carbon fossile resta[va] un obiettivo irraggiungibile. Per le varie ragioni ricordate, le formule quali ‘idroelettrica nazionale contro carbone estero’, ‘alluminio metallo nazionale’, ‘zinco nazionale sostituente o il rame estero’ o erano destinate a fallire completamente o dovevano rimanere delle mezze verità» [Petri 1987, 89].
Per contro, le opportunità di utilizzare le strutture economiche italiane erano limitate ma esistevano. Ne rappresenta un esempio il caso dei siluri, che costituivano un problema importante per l’industria tedesca anche sotto il profilo del funzionamento – come dimostrò l’invasione della Norvegia –, tanto che nel 1938 furono commissionati 300 siluri alla Whitehead da parte della marina tedesca [Rössler 2005, 76 ss].
Le commesse tedesche all’industria italiana proseguirono nel periodo della non belligeranza, che, pur deludendo le aspettative tedesche, offriva dei vantaggi perché lasciava aperta una porta verso l’esterno al sistema continentale, ma anche e soprattutto con l’entrata in guerra dell’Italia, evento che appariva agli occhi degli ufficiali di collegamento tedeschi più un problema che un vantaggio, dato che l’alleato italiano aveva bisogno di materie prime ed energia che non poteva trovare sul mercato internazionale: «3/4 delle importazioni avvenivano via mare», ma ormai tale via era chiusa per il dominio anglosassone degli oceani [3].
La lunga relazione concludeva, senza farsi influenzare dall’atteggiamento pubblico delle autorità di governo e in primis da Mussolini, con l’affermazione secondo la quale l’Italia
in caso di guerra può rappresentare un serio peso per i suoi alleati dal punto di vista dell’economia bellica […] può essere valida come neutrale perché c’è la possibilità che si possano avere merci che transitano per l’Italia. In nessun caso si dovrebbero dimenticare nel giudizio economico-bellico dell’Italia le limitate possibilità della sua forza economica a causa dell’impressione che si può avere di volontà di lotta da parte fascista [4].
Rapporti militari e industriali che si snodarono tra sospetti e difficoltà procedurali, talvolta arenandosi per problemi burocratici, gelosie tra le varie forze armate, ma anche la tendenza a evitare di passare attraverso gli uffici preposti – in questo caso dal maggio 1940 il referente dell’ufficio di economia di guerra dell’OKW (Wirtschaft- und Rüstungsamt, abbreviato Wi Rü Amt) e il Fabbriguerra – per concludere direttamente tra aziende contratti convenienti; successivamente dal 1941 i tedeschi crearono la figura del Wehrwirtschaftsoffizier Italien (WO Italien), che doveva prendere atto preventivamente delle commesse affidate alle ditte italiane [Rieder 1998, 447-67].
Commesse di non poco conto, che nel corso degli anni misero in crisi più volte il meccanismo di compensazione del clearing e che, secondo il Ministero del Commercio estero, ammontavano al 10 giugno 1943 a ben 4 miliardi e 224 milioni di lire, il che fa capire come l’industria italiana già prima dell’armistizio lavorasse a pieno ritmo per lo sforzo bellico del Terzo Reich, consentendo agli ufficiali addetti di acquisire un’approfondita conoscenza delle aziende italiane, sempre alle prese con problemi di finanziamento delle proprie commesse e rinnovamento degli impianti e delle tecniche di lavorazione, come dimostrò lo scandaloso stato degli armamenti consegnati alle truppe al fronte [5].
Non è facile rapportare questa cifra con quelle delle commesse affidate dai ministeri delle forze armate e dal Fabbriguerra alle ditte italiane nello stesso periodo, in quanto manca la documentazione che rimase distrutta a causa delle note vicende, comprese, come ha scritto Andrea Curami, le «capillari quanto ‘provvidenziali’ distruzioni tedesche».
In termini generali la politica del ministero di Speer per i territori occupati era volta a farvi produrre beni di consumo, concentrando la produzione di armi nel Reich, ma lo status di alleato dell’Italia fascista e la sua struttura industriale avevano fatto sì che le imprese dell’Italia settentrionale fossero impiegate per produrre armi per la Germania, sfruttando le aree non impegnate per rifornire le forze armate italiane. Del resto vari ufficiali che lavoravano per le industrie e le forze armate tedesche si erano accorti che esistevano impianti italiani non utilizzati, ma non per i motivi che ripeteva il generale Carlo Favagrossa, ovvero la mancanza di materie prime, bensì per quella di commesse, e in una situazione di mancata mobilitazione per la guerra [Favagrossa 1947].
Il generale Favagrossa ha notoriamente difeso il proprio operato fornendo dati relativi alla produzione di armamenti che non avrebbero sfigurato rispetto alla guerra di vent’anni prima, quando alla guida del Ministero Armi e munizioni vi era il generale Alfredo Dallolio. In realtà il confronto porta ad apprezzare lo sforzo compiuto nel 1915-1918, tenendo presente il punto di partenza, la crescita della produzione durante la guerra e lo sforzo compiuto dopo Caporetto. Al contrario, nel 1940-1943 gli armamenti non migliorarono, a causa tra l’altro della «staticità progettuale dell’industria bellica italiana durante il secondo conflitto», ma anche per la mancata reale mobilitazione civile che venne introdotta dal novembre 1942 come «esperimento», soprattutto a causa della ritrosia politica ad attuare provvedimenti che non avrebbero portato «consenso popolare» né «appoggio industriale» [Curami 2010b, 673, 678] [6].
Come ha efficacemente riassunto Giorgio Rochat, si trattava della «incapacità del governo fascista di mobilitare l’industria per la guerra da cui dipendeva la sua sopravvivenza», e l’organizzazione della prima guerra mondiale, che era stata efficace, non fu riproposta «per la debolezza della dittatura nei confronti di ambienti industriali interessati a guadagni senza controlli sulle forniture belliche». E si badi bene che «buona parte dell’industria bellica era di proprietà statale dai primi anni Trenta» [Rochat 2005, 307]. Fu così che, nonostante le industrie ausiliarie fossero diventate quasi 1.800 e gli addetti pressoché raddoppiati rispetto all’inizio del conflitto, «L’indice generale della produzione industriale che, fatto il 1938 uguale a 100, era cresciuto di 10 punti nel 1940, s’abbassò a 89 nel 1942 e precipitò quindi a poco meno di 70 nel 1943» [Castronovo 1985, 55].
Naturalmente gli ufficiali tedeschi in Italia avevano individuato questi problemi e avrebbero operato per utilizzare senza riserve le possibilità dell’industria bellica italiana una volta assuntone il controllo.
2. L’armistizio italiano e le sue conseguenze
Il poco sorprendente annuncio dell’armistizio da parte di Badoglio innescò la reazione tedesca da tempo preparata, portando allo sfascio dell’esercito che in buona parte si trovava nei Balcani, la resa della flotta a Malta e lo sbando di quanto restava dell’aeronautica [7].
Se il paese appariva allo sbando, molte strutture civili e militari, come le fabbriche e i servizi, restavano operative. In questa situazione vi fu una prima fase di incertezza dovuta al fatto che non era ancora chiaro se sarebbe stata abbandonata buona parte dell’Italia – come voleva il comando del gruppo d’armate B – oppure se sarebbero state più convincenti le argomentazioni di Kesselring, che riteneva di poter difendere la penisola e allontanare le basi dei bombardieri strategici alleati dal cuore della Germania, tanto più che la perdita di territori sul fronte orientale rendeva progressivamente più rilevante il ruolo dell’Italia come fornitore del Terzo Reich [8].
Né erano ancora chiari i rapporti con la parte preponderante della penisola sotto controllo tedesco, che i militari avrebbero preferito trattare come territorio occupato; ma la liberazione di Mussolini aprì una situazione più complessa, a partire dalla nomina, di cui si è detto, di Albert Speer a plenipotenziario per la produzione bellica in Italia (13 settembre).
A quel punto non vi furono soltanto asportazioni e distruzioni di quanto doveva essere abbandonato agli angloamericani, ma emersero direttive volte alla continuazione a pieno ritmo della produzione bellica.
La decisione di incaricare il generale Hans Leyers come inviato del ministero Speer per il teatro di guerra italiano fu presa su indicazione di Walter Schieber, capo dell’ufficio forniture del Ministero degli Armamenti e della produzione bellica, che fu anche il riferimento di Leyers nel ministero [Ferrari e Massignani 2011, 103].
Questi, pur essendo militare era un tecnico di formazione e aveva le doti necessarie per lavorare con gli industriali, tanto che alcuni ufficiali tedeschi dei servizi di informazione lo ritennero adatto a rappresentare un comitato che prendesse contatto con gli alleati, anche se avrebbero preferito un ufficiale delle SS come Wolff, che successivamente avrebbe di fatto condotto le trattative. Ma in una fase precedente si pensò a
Leyers, che presumibilmente presenta tutti i requisiti desiderati. Inoltre il gen. LEYERS, nella stima di tutti gli interessi tedeschi, si comporta molto lealmente in collegamento con i locali [...] (?) e pertanto gode di grande fiducia tra i circoli capitalistici.
Inoltre, ha fama di essere un organizzatore energico e abile. L’unico svantaggio è che non può contare sull’appoggio dell’ambasciatore (presso il governo fascista italiano a Fasano) Dr. Rahn. A tal fine sarebbe opportuno mettere a capo del comitato una SS [9].
Come ha rilevato Maximiliane Rieder, analogamente a quanto era avvenuto in Germania nelle commissioni tecniche, il generale Leyers aveva finito per rappresentare gli interessi dell’industria anche nei confronti dei militari. I funzionari che seguivano Leyers avevano spesso la stessa esperienza alle spalle, come nel caso dell’industriale della IG Farben Fritz ter Meer, che nel dopoguerra avrebbe lavorato nel comitato italo-tedesco per la cooperazione economica [Rieder 1998, 451].
I comandi locali per l’economia bellica furono all’inizio, già il giorno successivo all’armistizio, diretti dall’Ufficio di economica bellica del comando di gruppo d’armate, con l’obiettivo di assicurare il controllo dell’industria, anche se i dettagli sul modo di procedere non potevano essere precisati fino a che non fossero stati chiariti i «problemi della direzione politica». Ma nel frattempo era essenziale, come primo passo, assicurarsi il possesso degli impianti idroelettrici di produzione dell’energia. Il Wirtschaftskommando 3, uno dei primi a essere pronto a operare, fu istruito di far intervenire «l’amministrazione italiana», di «allontanare gli elementi malintenzionati» e di «prendere contatto e collaborare con le nascenti organizzazioni fasciste» [10].
Il 13 settembre, a seguito della conferenza di Speer con Hitler dell’11-12 settembre, gli uffici vennero posti alla dipendenza del Ministero degli Armamenti e della produzione bellica e nel corso della conferenza fu indicata la necessità di stabilire che «le più importanti ditte di fabbricazione italiane per la difesa» divenissero «industrie protette», ai cui addetti si sarebbe dovuta assicurare «un’alimentazione circa al livello dell’alimentazione tedesca», cosa di cui naturalmente si sarebbe dovuto informare Sauckel [11].
In questo contesto va ricordato come Speer avesse dal 1942 riorganizzato il suo ministero sulla base della Selbstverantwortung der Industrie, ovvero autoresponsabilità industriale, con la quale era affidata alle stesse industrie belliche, in organismi al cui vertice vi erano le maggiori imprese, l’organizzazione di ciascun settore in funzione dell’economia di guerra. Un sistema ispirato non al controllo coercitivo dall’alto da parte di organismi statali, ma alla cooperazione del mondo dell’industria, che «lasciava una completa libertà agli stessi imprenditori all’interno della fabbrica» [Milward 1978, 73].
Tale riorganizzazione si scontrò con diverse difficoltà, non ultime quelle relative ai tentativi del Partito nazista di allargare il proprio controllo verso la produzione bellica. Particolarmente utile in questa prospettiva risulta la sintesi dell’interrogatorio, svoltosi dopo la guerra, del diretto collaboratore di Speer, Walther Schieber, che aveva contribuito alla scelta di Leyers:
Schieber discusse le ragioni che costrinsero Speer, quando ricevette l’incarico nel 1942, a organizzare le Commissioni (Ausschüsse) e le Associazioni (Ringe) piuttosto che affidarsi agli esistenti Gruppi per la gestione dell’economia (Wirtschaftsgruppen). Egli disse che questi ultimi erano originariamente stati organizzati dagli uomini d’affari migliori nei loro rispettivi rami industriali, ma che prima della guerra il loro orientamento principale era stato in direzione dello sviluppo di sistemi di quote e di difesa dei prezzi. Inoltre il Partito nazista aveva fin dall’inizio tentato di ottenere il controllo dei Gruppi per la gestione dell’economia e nei casi in cui i leader di tali Gruppi non volevano diventare membri del Partito, i nazisti sceglievano qualcuno molto più in basso nella linea gerarchica che fosse desideroso di diventare membro del Partito allo scopo di ottenere prestigio e potere e assegnavano la carica a quelle persone.
Questi uomini erano solitamente persone di calibro inferiore ed erano più interessate alla politica che alla produzione. Speer trovò politicamente impossibile eliminare i Gruppi per la gestione dell’economia ma cancellò in larga misura la loro influenza creando le Commissioni e le Associazioni alle quali conferì piena autorità [12].
Il nuovo sistema, che venne adottato anche in Italia, trovò la piena adesione degli industriali, fino a quando non mutarono gli equilibri politici all’interno del regime:
I membri di queste Commissioni e Associazioni erano reclutati fra i migliori addetti alla produzione di ciascuna industria.
Schieber disse che alle Commissioni e alle Associazioni era assegnata la massima libertà e responsabilità possibile nel mettere a punto propri metodi per espandere la produzione.
Schieber disse che tutti gli industriali lavoravano col massimo entusiasmo in questo sistema che era basato sulla loro diretta responsabilità fino alla metà del 1944. A quel punto Speer non fu più in grado di proteggere completamente l’industria dall’interferenza del Partito nazista. Schieber disse che secondo il partito nazista Speer stava dando all’industria un’eccessiva libertà e non realizzava un sufficiente grado di controllo da parte del Partito nazista.
Significativa – mentre paradossale appare il riferimento all’Urss quale modello – una delle motivazioni usate per attaccare le scelte di Speer:
I membri del vertice del Partito nazista addussero l’esempio della Russia come argomento a favore di uno stretto controllo sulla produzione industriale da parte del partito. Sostennero che i russi avevano conseguito un enorme successo con il loro programma industriale e che in Russia il partito comunista controllava tutta la produzione. Schieber disse di essere stato in Russia nella primavera del 1941, e infatti egli fu l’ultimo tecnico tedesco a lasciare la Russia prima dell’attacco tedesco del giugno di quell’anno. Egli disse che a suo parere l’analisi dei nazisti era del tutto sbagliata. Ai russi incaricati della produzione nei vari impianti che egli visitò era assicurata la massima autonomia e libertà da ogni interferenza nel risolvere i loro problemi di produzione.
Schieber disse che, nonostante tutto quello che Speer poté fare, Sauckel e altri Gauleiter interferirono in misura crescente nelle questioni produttive e resero impossibile ogni razionale mobilitazione delle restanti risorse della Germania.
Tralasciando l’esito finale dello scontro tra poteri diversi all’interno del regime, preme sottolineare come il sistema di “autogoverno” dell’industria fosse applicato in Italia, ove alla del tutto inadeguata mobilitazione dell’industria nel corso del conflitto mondiale si sommava una situazione di crescente scollamento rispetto a una guerra il cui esito non poteva che apparire – a chi disponeva di sufficienti informazioni, e cioè agli appartenenti al mondo dell’industria e della finanza – ormai segnato.
Il 19 novembre 1943 il generale Leyers scrisse al Reichsstelle Steine und Erde che «il mio compito qui in Italia è in primo luogo quello di mantenere in funzione le industrie qui in Italia settentrionale e metterle al servizio della industria bellica e degli armamenti tedesca» [Eichholz 2003, 158].
Successivamente Leyers avrebbe spiegato più diffusamente i suoi compiti in una riunione:
Il gen. Leyers dichiara che gli uffici per gli Armamenti e Produzione bellica hanno tre grandi compiti nell’area italiana: primo, la produzione per il fabbisogno del Reich, in secondo luogo l’approvvigionamento del Reich con materie prime e il superamento dei colli di bottiglia produttivi, sulla base delle produzioni non assolutamente necessarie in Italia, secondo valutazioni tra uffici tedeschi e italiani in conformità agli accordi conclusi, ed infine la produzione per il fabbisogno in Italia, e cioè sia per la popolazione civile, in maniera che resti assicurata la tranquillità dietro il fronte, come pure e soprattutto per le esigenze immediate delle truppe combattenti. Questo cosiddetto programma Kesselring sta con ciò assolutamente sullo sfondo, specialmente con riguardo alla possibilità che con il bel tempo esiste sempre, fino a prova contraria, la possibilità dello sbarramento delle vie che portano al Reich. Tutti e tre i compiti possono essere espletati soltanto se i trasporti e il traffico (perlomeno in misura certa) rimangono come sono allo stato attuale. Le difficoltà fin qui emerse in questo campo saranno di gran lunga superate da quelle in arrivo. Gli uffici tedeschi devono quindi già oggi cercare nuove soluzioni in maniera da essere in grado a tempo debito di superare le difficoltà che aumenteranno in maniera esponenziale. In proposito fin dall’inizio va eliminato il pensiero che i trasporti su strada con benzina o diesel per autocarri possano giocare un ruolo importante [13].
Forte delle disposizioni di Hitler e del suo appoggio, Speer poté dedicarsi tramite i suoi uomini ad assorbire i compiti e in larga parte anche il personale degli uffici economici militari come il WO Italien e i Wikdos, che continuarono a operare ma soltanto in attesa che il RuK Stab (Rüstung und Kriegsproduktion = Armamenti e produzione bellica) iniziasse a funzionare.
Per avere dalla sua le industrie italiane, che a quel punto non dovevano più essere trasferite in Germania e neppure private della manodopera specializzata – con l’ulteriore vantaggio di evitare che contribuisse a ingrossare le fila della Resistenza – venne organizzata la rapida effettuazione dei pagamenti, grazie ad accordi tra Leyers e la Banca d’Italia di Milano già a fine ottobre 1943, assimilando le commesse del RuK a quelle del governo della Rsi [Rieder 1997, 328].
Questo sbloccò la situazione, consentendo alle ditte di rimettersi al lavoro, di pagare le maestranze e i fornitori e di ricevere commesse dal RuK, con atteggiamenti che avrebbero assunto varie sfumature.
3. L’arrivo al potere di Speer e dei tecnici
Gli apprezzabili successi conseguiti da queste strutture nello sfruttamento dell’economia italiana vanno ricondotti non soltanto al fatto che si trattava del braccio amministrativo di chi deteneva il cogente potere reale delle armi in qualità di occupante, ma anche al considerevole pragmatismo con cui si muovevano gli ufficiali e un personale che aveva alle spalle un’esperienza e una competenza tecnica specifica.
Questo ci porta a rammentare che, il giorno dopo la morte di Todt, Hitler aveva chiamato Speer alla direzione della produzione bellica, che a suo avviso non funzionava come doveva, aspettandosi grandi cose dal suo fidato architetto, che aveva celebrato la Germania nazista con i suoi progetti.
Si può ragionevolmente supporre che Speer avesse introdotto alcune varianti organizzative di tipo manageriale con il suo arrivo e che questa impronta fosse limitata nei suoi successi dal fatto che le strutture dirigenziali del Terzo Reich offrivano resistenza ai cambiamenti che portavano a diminuzioni di competenze. Nel caso specifico ci riferiamo alla lotta di Göring contro Speer, mentre i militari, sia a causa del sostegno di Hitler a Speer, sia per i buoni rapporti con quest’ultimo, lasciarono trasferire l’ufficio armamenti al suo ministero. Molto significativi furono i cambiamenti nei confronti dell’apparato amministrativo: al posto dei burocrati furono tra l’altro messi tecnici con meno di 50 anni. Speer spiegò il suo punto di vista nel corso degli interrogatori ai quali venne sottoposto dopo la guerra dagli statunitensi:
Il generale Thomas […] era un uomo abile ed intelligente senza particolari competenze per la sua posizione e troppo amante di pianificazioni astratte e complete. Faceva troppo conto sulle cifre che gli venivano fornite da collaboratori senza verificarne la congruità, dato che erano spesso preparate da non esperti, la sua pianificazione era spesso basata su assunti non realistici [14].
È rimasta famosa la valutazione delle necessità di rame fatta dall’ufficio di Thomas, che stimò irrealisticamente che servisse una quantità superiore alla produzione mondiale del metallo.
In questa riorganizzazione vennero assorbiti gli uffici periferici del Rüstungsamt, benché fossero affollati da ufficiali di carriera con una conoscenza limitata delle dinamiche industriali. Furono poi allontanati gli elementi inidonei, come per esempio il generale Hermann von Hanneken al Ministero dell’Economia, sostituito da Hans Kehrl, che diventò capo dell’ufficio pianificazione del Ministero degli Armamenti. Egli si occupò anche della riorganizzazione del settore civile dell’economia, dove ebbe mano libera, mettendo in luce le sue qualità e la sua visione improntata alla «caratteristica fusione di tecnologia e ideologia» propria di un imprenditore tessile prestato al nazionalsocialismo [Tooze 2001, 259].
Questa organizzazione, che ebbe il suo centro nella Zentrale Planung e nelle sue commissioni, si riverberò in Italia, paese alleato che già era sotto osservazione per comprenderne le potenzialità come alleato, ma anche in quanto fonte di richieste di aiuto che datavano fin dal famoso “memoriale Cavallero”.
Mentre nel periodo prebellico e nel periodo della cobelligeranza l’Italia aveva messo in mostra una considerevole incapacità (o scarsa volontà) di mobilitare le risorse per lo sforzo bellico, secondo recenti ricerche il suo contributo nel periodo dell’occupazione tedesca fu più importante:
Il ministero degli Armamenti e della Produzione bellica, rapidamente ed energicamente riorganizzò la manifattura italiana. I suoi sforzi, assieme a quelli dei suoi amministratori dell’economia italiana, fecero sì che il contributo di questa fosse del 15% della produzione bellica totale tedesca nel corso del 1944 [Saxon 2004].
Del resto, come spiegò il generale Hans Henrici [15], capo dell’Ufficio per gli armamenti industriali (Chef der Amtsgruppe für Industrielle Rüstung -Wa J Rü), l’Italia era importante in quanto disponeva al Nord di un numero sufficiente di macchine utensili di provenienza svizzera, americana e tedesca e di lavoratori specializzati, mentre dipendeva dall’estero per ogni fornitura di materie prime, dai componenti degli esplosivi ai metalli per fabbricarli.
In proposito vale la pena di ricordare che le continue richieste italiane alla Germania di materie prime e armi avevano irritato i vertici tedeschi, che negli stock di materie prime inutilizzate rinvenute dopo l’8 settembre trovarono la conferma dei propri convincimenti in merito al loro cattivo uso. A differenza dell’ambasciatore Rahn, che voleva sfruttare tale circostanza a fini di propaganda, Hitler spiegò che «per il momento non è opportuno» sfruttare propagandisticamente il contrasto che era emerso «tra l’argomentazione largamente diffusa in Italia, che la Germania avrebbe abbandonato l’Italia con le sue forniture» e le massicce quantità di materie prime che invece erano state trovate in Italia, ma era semmai opportuno impadronirsi delle «grosse quantità di materiale e nel caso di eventuali proteste italiane poter replicare che gli italiani con le loro stesse dichiarazioni» scagionavano i tedeschi da ogni accusa [16].
Secondo i tedeschi queste materie prime chieste alla Germania erano la prova che, invece di fabbricare armamenti, gli italiani si stavano preparando per riprendere l’attività in piena efficienza non appena finita la guerra, per cui i tedeschi spedirono in Germania 68.200 tonnellate di materie prime tra settembre e ottobre 1943.
Nella situazione venutasi a creare con la resa italiana divenne tuttavia opportuna la fabbricazione delle munizioni vicino alle linee del fronte, anche se le materie prime dovevano essere fornite dalla Germania, con l’ulteriore vantaggio di evitare dei “colli di bottiglia” nella fabbricazione in Germania di alcuni particolari dei proiettili [17].
In effetti è stato notato che sul fronte italiano le truppe tedesche non ebbero a soffrire di carenza di rifornimenti, eccetto che per i carburanti. Fino al 1944 le munizioni per esempio non mancarono: in maggio i tedeschi al fronte avevano un surplus di 18.000 tonnellate [Salavrakos 2016, 113-45]. Del resto la produzione bellica tedesca non smise di crescere fino agli ultimi mesi del 1944, anche grazie allo sfruttamento delle risorse dei paesi occupati [Davies 2007].
Il controllo sull’Italia quindi era realizzato dalle varie organizzazioni militari e politiche in competizione tra di loro a volte in maniera piuttosto brutale, ricorrendo ad arresti e accuse, in linea con quanto avveniva in Germania, dove l’ufficio economico delle SS aveva cominciato ad acquisire aziende per la produzione bellica, come quelle confiscate a proprietari ebrei, potendo inoltre sfruttare la manodopera dei campi di concentramento che era sotto il controllo delle SS.
Il Verwaltungs- und Wirtschaftshauptamt (VuWHA) SS non riuscì fortunatamente ad avere in Italia il peso che aveva nel resto dell’Europa, dove cercava di scalzare Speer dalla sua posizione; una sete di potere che può apparire oggi scarsamente comprensibile in un mondo che stava franando sotto il peso delle sconfitte. Speer in uno degli interrogatori cui fu sottoposto parlò persino di manovre di Himmler e del suo entourage SS, che nell’inverno 1943/44 avevano iniziato a fare piani «for taking over the government» [18]. Se si devono necessariamente scontare le dichiarazioni difensive di Speer, il clima non è però diverso da quello che molti resoconti ci consegnano sulle relazioni che intercorrevano tra i vari enti del Terzo Reich.
In Italia, non va poi dimenticato il ruolo di un significativo numero di piccole e medie aziende, che misero le forze armate tedesche in grado di rendersi relativamente autonome rispetto all’importazione di armamenti ed equipaggiamenti dalla Germania [Curami 1993]. Del resto uno studio locale sul funzionamento della Organizzazione Todt mostra come le vicende personali degli imprenditori – in questo caso edili – fossero strette tra minacce partigiane, coercizioni tedesche e necessità di dare lavoro a operai senza possibilmente rinunciare a lauti guadagni [Savegnago 2012].
L’operato di Leyers e del RuK si inseriva dunque in una situazione complessa, dove gli attori erano molteplici: gli alleati e i tedeschi al fronte, con unità italiane di supporto; la Repubblica sociale e la Resistenza; infine la popolazione civile, che cercava di sopravvivere in un’Italia impoverita da tre anni di guerra e che alla fine del conflitto si sarebbe trovata con il livello di vita dei tempi dell’Unità d’Italia.
Aggiungere la quota produttiva italiana – stimata nel 2,7% di quella mondiale nel 1939 – a quella tedesca che ne rappresentava il 10,7 % era un significativo contributo allo sforzo del Terzo Reich, che assimilava quindi anche quelle italiane al complesso delle industrie (ed economie industrializzate in generale) dei paesi occupati, come la Francia e la Cecoslovacchia. Il problema cruciale per i tedeschi era il rifornimento di un esercito al fronte cercando di far funzionare l’industria bellica con maestranze che non fossero riottose o che finissero per ingrossare le fila della Resistenza. A questo si aggiungeva il vantaggio della disponibilità locale dei prodotti, con l’impiego di macchinari i cui pezzi di ricambio erano disponibili sul posto.
Si può dire quindi che le distruzioni e il saccheggio del settembre 1943 sfumarono successivamente nella messa in servizio dell’industria, pur con tutte le problematiche che comunque restarono, come le incursioni del plenipotenziario per l’impiego della forza lavoro Fritz Sauckel a caccia di braccia da deportare in Germania, i bombardamenti alleati e gli scontri tra le diverse organizzazioni che si contendevano fette di potere, nonché il controllo di alcune aeree da parte dei partigiani.
Le inevitabili frizioni tra enti e uffici della Rsi e l’organizzazione di Leyers nei rapporti con l’industria, con cui l’incaricato di Speer era direttamente in relazione, anche per una questione di rapporti di forza, non erano che le sole e le più evidenti; all’interno dell’amministrazione tedesca non mancarono tentativi da parte delle SS di attaccare Leyers (così come in Germania attaccavano Speer), i cui comportamenti a volte prestavano il fianco ad accuse da parte della polizia e dell’SD, per esempio quando si trattava di far liberare amici di un industriale [Giannantoni 2007, 39], oppure di non intervenire contro «massoni e nemici della Germania», soprattutto se questo serviva a garantire la tranquillità e la produzione [Möllhausen 1948, 376] [19].
4. Prima il pane [20]. Sulla via dell’epurazione mancata.
Considerando che nella parte centro-meridionale del paese dopo l’8 settembre vi furono danneggiamenti e asportazioni da parte tedesca e che i bombardamenti alleati avevano potuto infierire dal giugno 1940 sugli obiettivi strategici, come appunto le fabbriche di armamenti, ci si aspetterebbe una situazione peggiore di quella che in effetti statisticamente emerse dai conteggi dei danni di guerra.
Nel periodo successivo all’ottobre 1944, quando il fronte si spostò sulla linea gotica e addirittura si paventò una penetrazione nella pianura padana (operazione “Olive”, che nel settembre 1944 aveva portato l’8ª armata britannica a sboccare al di là degli Appennini sull’Adriatico, ma senza più la forza di proseguire in maniera decisiva), le direttive di Speer si orientarono allo smantellamento delle industrie al fine di trasferirle in Italia settentrionale o nel Reich, dove finì il 55% dei beni e degli impianti sottratti.
Questo comportò per l’apparato industriale italiano danni importanti ma tali non solo da non metterlo fuori gioco alla fine della guerra, ma da rendere possibile una rapida ripresa [Ferrari 2004]. A ben vedere le esperienze dell’industria tedesca e di quella italiana, come emergono da queste riflessioni, sarebbero da indagare per chiarire quali rapporti le unissero in una strategia che, se aveva il profitto come motivazione di base, in questo periodo storico era funzionale in maniera molto pragmatica alla sopravvivenza personale e delle aziende. Vi era inoltre la consapevolezza che neppure ai vincitori avanzanti sarebbe convenuta una terra bruciata, in cui, mancando i mezzi di sussistenza, si sarebbe verificata una situazione di forte instabilità (e la temuta avanzata delle sinistre) e la necessità, per i liberatori, di sostenere costi aggiuntivi; successivamente, con lo sgomento degli agenti OSS che avevano attivamente collaborato con la Resistenza, furono attuati compromessi per utilizzare pezzi di fascismo in funzione anticomunista, come affermò l’ex OSS Peter Tompkins in un convegno a Venezia nel 1994 [Tompkins 1995, 148 ss].
Punto di contatto in tutta l’Europa occidentale poi appare l’atteggiamento nei confronti dell’ordine di fare “terra bruciata” nelle ritirate. Come è noto, nel settembre 1944 in Oriente l’ordine fu di distruggere gli impianti industriali che l’esercito non era in grado di difendere, mentre in Occidente l’azione degli organismi tedeschi era orientata al trasferimento e alla “paralizzazione” di macchinari e impianti piuttosto che di distruzione [Ferrari e Massignani 1997-1998, 186].
Intese tra industrie avvennero anche in Francia:
Albert Speer, l’amministratore del Nuovo Ordine di Hitler, era molto ammirato all’estero per il suo programma di direzione e regolazione economica. Nel settembre 1943, Speer e Jean Bichelonne, ministro della Produzione Industriale di Vichy, elaborarono un sistema di riduzione di dazi basato su concetti elaborati tra le guerre che avrebbero anticipato da vicino le relazioni commerciali europee e il coordinamento economico franco-tedesco degli anni a venire [Judt 2005, 68].
Ciò indica che vi fu una collaborazione tecnica con l’occupante e a volte con il governo della Rsi (laddove conveniva) in termini di opportunità per assicurarsi la sopravvivenza, oltre che fisica anche economica, ben sapendo che la guerra sarebbe stata vinta dagli anglosassoni; in altre parole, piuttosto che rischiare la distruzione delle fabbriche era meglio offrire la propria collaborazione, soprattutto dopo le distruzioni e asportazioni massicce di fine 1943.
Una prospettiva interpretativa su questi eventi è offerta dallo studio di Agostino von Hassel (nipote del congiurato fatto giustiziare da Hitler) e Sigrid MacRae, che illustrano una specie di policrazia anche all’interno degli Stati Uniti, ovvero un dipartimento del Tesoro che, con il presidente Roosevelt, intendeva applicare un piano di sviluppo agropastorale nei confronti della Germania, e altre istanze che operavano tramite l’OSS – che pure faceva capo al generale William Donovan, che era stato designato dal presidente – ma che vedeva nella Germania lo scoglio che avrebbe dovuto in futuro difendere l’Europa dalla potenza sovietica. Non senza tener conto degli ampi spezzoni di industrie collegate alle società tedesche che quindi non sarebbero state da smantellare [von Hassell e MacRae 2006].
Naturalmente al Sud l’industria italiana si mise al servizio degli Alleati, per esempio nella riparazione di navi a Taranto, mentre al Nord cercava un compromesso realistico, sapendo che anche alle autorità economiche tedesche non conveniva fare tabula rasa e che giocando su più tavoli sarebbero state evitate misure sgradite come la “socializzazione” delle imprese promossa da Mussolini ma osteggiata dal mondo industriale e di fatto rimasta sulla carta.
Ora, i danni di guerra subiti dall’industria, prendendo la valutazione basata sulle richieste di indennizzo, furono di poco «meno del 10%»; colpiti in particolare i cantieri navali e l’industria aeronautica, ma per esempio la produzione elettrica a fine guerra era superiore a quella precedente il conflitto. In altre parole l’industria si accingeva a riprendere l’attività con rosee prospettive di recupero [Zamagni 1997, 37].
In effetti, in mancanza di altri dati, in perfetta continuità con la situazione del periodo bellico, possiamo considerare che la società Roges GmbH (Rohstoffhandelsgesellschaft), nata per il commercio delle materie prime ma che gestiva i contratti, ebbe un bilancio 1943-45 di 3,6 miliardi di RM, ovvero 36 miliardi di lire [Rieder 1998, 454]. La repubblica di Salò pagava i contratti sotto forma di contributi all’occupazione, nella misura di 189 miliardi di lire dal settembre 1943 all’aprile 1945, su un totale di 370 miliardi di pagamenti [Rieder 1998, 456, nota 35].
In questo quadro si inseriscono a pieno titolo le vicende di singoli industriali, con varie fortune. Un caso indubbiamente interessante è rappresentato dalle maggiori industrie dell’alto Vicentino, che dovevano la loro collocazione geografica alla presenza di energia di origine idroelettrica prodotta nelle Prealpi, e cioè soprattutto i lanifici Marzotto e Lanerossi, ma anche in generale il tessuto imprenditoriale medio e piccolo, come le imprese di costruzioni coinvolte dai tedeschi per costruire le linee difensive più arretrate rispetto a quelle variamente colorate del fronte, in particolare la Blaue Linie.
L’esempio più importante del successo nell’acquisire commesse si ricava dai fatturati all’estero (non soltanto militari ma anche civili) della tessitura di Valdagno, che ammontarono a 368 milioni di lire nel solo 1944; così nei «primi mesi del nuovo esercizio 1943-44 […] il monte tessuti militari venne ceduto alla Wehrmacht per una somma complessiva di 133.600.000 lire», con una plusvalenza di oltre 92 milioni «se confrontata con i prezzi della primitiva aggiudicazione italiana» [Roverato 1986, 367].
Questo perché la Marzotto, divenuta azienda protetta, aveva saputo sfruttare le buone relazioni con ufficiali di primo piano come il comandante della Luftwaffe in Italia, il feldmaresciallo Wolfram von Richtofen, assicurandosi così che «tra la fine del 1943 e gli inizi del 1945 le commesse degli organi di guerra economica del Reich» rappresentassero «mediamente il 70 per cento dell’intera produzione». Rapporti tutto sommato «obbligati», dati i «vincoli già esistenti sull’uso delle materie prime» e l’esistenza dell’alto comando tedesco in Italia a dieci chilometri dagli stabilimenti.
Protetta anche contro gli organi della Rsi che, come nel caso di altri nomi importanti come Cini e Volpi, deferirono al Tribunale speciale Marzotto per avere salutato con favore il governo Badoglio, ma che non riuscirono nei loro intenti contro l’industriale, dato che il vero potere stava nelle mani dell’occupante tedesco [Bairati 1986, 262].
Tuttavia l’industriale non aveva mancato di aiutare le maestranze e la popolazione, in un gioco sul filo del rasoio che lo portò a diventare un “profugo di lusso” non appena gli vennero a mancare appoggi da parte tedesca. Gli scioperi del marzo 1944 decisi dal Cln avevano toccato un po’ tutte le attività del Veneto e il fatto che molti operai fossero in realtà presenti nello stabilimento soltanto per evitare l’invio in Germania non fu apprezzato dai tedeschi, che volevano deportare in Germania 1.400 operai degli stabilimenti Marzotto. Alla fine furono soltanto una settantina, anche perché il feldmaresciallo von Richthofen – frequente ospite del conte e suo protettore – si era ammalato gravemente. Circa nello stesso periodo Marzotto, avvisato da un ufficiale tedesco dell’intenzione di arrestarlo, fuggì infine al confine con la Svizzera [Dal Lago 1997, 107-24].
Questa vicenda è emblematica di una situazione che vide dopo la fine della guerra le ditte che avevano lavorato per l’occupante a vario titolo inquisite dalle Commissioni provinciali di epurazione del Cln per accertare le collusioni con il fascismo e l’occupante tedesco. Nella provincia di Vicenza le 65 imprese segnalate dall’Inps si trovarono a dibattersi tra difficoltà economiche come la mancanza di materie prime e quindi di lavoro, l’incertezza del controllo sui siti produttivi (per esempio la Marzotto ebbe un triumvirato scelto dal Cln) che, pur senza intaccare il principio di proprietà, divennero terreno di scontro politico. Con il prolungarsi dei tempi la necessità del vivere fece per esempio rientrare «in un’atmosfera trionfalistica da sagra paesana» il conte Marzotto, «grazie alla determinante pressione della maggioranza dei suoi operai» [Setta 1993, 92].
Questo non avvenne soltanto per questa importante azienda, ma anche per altre più piccole che ritrovarono insospettati alleati nei sindacati, preoccupati del futuro degli operai rimasti senza lavoro [Savegnago 2012, 275]. Memori tra l’altro dell’oculata assistenza fornita agli stessi e alle popolazioni colpite dalle rappresaglie nazifasciste, nonché dei contributi alla Resistenza. A parte il caso di Agostino Rocca, amministratore dell’Ansaldo, noto anche per la sua memoria difensiva e per il fatto che il suo archivio è fruibile al contrario di altre fonti, i casi di epurazione per collaborazionismo economico sono marginali [Canosa 1999, 283 ss]. Come si ricava da un ampio spettro di vicende, la temperie in cui si trovarono a operare gli industriali dal 25 luglio 1943 in poi furono talmente complesse che anche le amministrazioni del Cln, presto poste sotto controllo dall’amministrazione militare alleata, ebbero spazi limitati e oggettivamente difficili per poter effettuare una reale epurazione del settore, come invece avvenne per l’ambiente politico e militare.
Così si riconosceva la ventennale “attività tecnica” e non politica, corroborata dalle persecuzioni della Rsi, che colpirono temporaneamente più di un nome importante del panorama industriale ed economico italiano dell’Italia settentrionale che era sopravvissuto alle vicende della guerra e dell’occupazione grazie anche al fatto che le esigenze tedesche «portavano Speer a richiedere, nei mesi di novembre e dicembre 1943, un investimento di 10-15 miliardi di lire nell’economia bellica italiana per porla nuovamente in funzione, convertendola agli standard germanici» [Curami 1993, 683], ovvero ad una maggiore integrazione con il sistema industriale centroeuropeo.
Il ruolo dell’industria bellica italiana dopo l’armistizio è rimasto dunque a lungo in ombra, fino alla pubblicazione di alcune ricerche a partire dal 1993, sviluppandosi poi con l’acquisizione di una documentazione che ci permette oggi di avere un quadro della complessità dei rapporti tra Repubblica sociale italiana, organi tedeschi di occupazione civili e militari, resistenza partigiana e angloamericani. Il coinvolgimento dell’industria dell’Italia settentrionale nel contribuire allo sforzo del Terzo Reich e la resa tedesca mostrano importanti analogie con quanto avvenne negli altri paesi occupati dell’Europa occidentale, dal punto di vista della collaborazione con l’occupante, ma anche delle diverse intenzioni di funzionari e militari tedeschi in merito alla preservazione delle strutture industriali e logistiche e alla successiva ripresa dell’attività industriale, al netto delle imputazioni di collaborazionismo e di una reale analisi dell’operato del “partito dell’industria”.
Il saggio è stato concepito unitariamente dai due autori, che si sono poi divisi la stesura, dovuta a Paolo Ferrari per i primi due paragrafi e ad Alessandro Massignani per gli altri due.
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Note
1. La relazione si chiude con l’ottimistica fiducia sulla riorganizzazione delle forze armate, ma non senza segnalare anche le gravi difficoltà che vi si frappongono (Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 42, f. 387). Sui rapporti di Grossi con i tedeschi, sulla sua precedente attività e sulle inchieste sui suoi affondamenti, si veda per es. Mattesini 1993.
2. Bundesarchiv (d’ora in poi BArch), N422 Nachlaß Röttiger, Geschichte OB West. Wie ich sah OB Südwest Herbst 1943 die Lage in Italien? Redatto nello Steinlager Allendorf il 3 gennaio 1947.
3. Übersicht über die wehrwirtschaftliche Lage von Italien - Mai 1937, in National Archives and Record Services (d’ora in poi NARS), T77 Roll 587 fotogr. 1768236-8252, p. 7, citato in Massignani 1993, 192.
4. Ivi, pp. 16-7.
5. Ci limitiamo a citare il principale lavoro sul tema, che si riferisce al fallimento in un settore centrale quale la produzione di carri armati: Ceva e Curami 1989; si vedano anche Curami 2010a, 585-608 e Ferrari P. (ed.) 2010, 575-84.
6. Per un confronto con la grande guerra: Curami 1994, 575-84.
7. Utilizza fonti italiane, tedesche e alleate sulle vicende dell’armistizio e sulle reazioni tedesche e offre una sintesi anche sulle questioni del riassetto economico dopo l’8 settembre Schreiber 1992.
8. Irrinunciabile studio pionieristico dell’occupazione tedesca resta Collotti 1963; aggiornato agli studi fino ai primi anni Novanta è Klinkhammer 1993.
9. NARS, Zimmer, Guido, 0059. Traduzione delle agende dello SS Obersturmführer Guido Zimmer da parte dell’OSS: https://www.cia.gov/library/readingroom/document/519bded8993294098d515445. La scelta di un ufficiale delle SS era evidentemente per avere un ufficiale politico.
10. BArch, RW32/7, Befehl über den vorläufigen Einsatz des WiKdos3 del 9 settembre 1943.
11. BArch, R3/1508, Führer-Besprechung von 11./12. September 1943 del 14 settembre 1943, p. 49. Nota a margine: «Leyers: nominare industrie protette degli armamenti».
12. Questa e le successive citazioni sono state tratte dall’Interrogatorio di Walter Schieber svoltosi al M.I.F.U. 5 Augsberg il 2 giugno e condotto dal sig. Nitze e dal Lieut. Skalz, conservato in Bodleian Library, Oxford, Fondo Irving, Reel 30, pubblicato in traduzione italiana in Ferrari e Massignani 2011, 97-102.
13. ACS, Raccolte varie, Uffici di polizia e comandi tedeschi in Italia, 1943-1945, b. 2, f. 33: Rüstungskommission für Italien, Como, 22.11.1944, Terza seduta della commissione armamenti in Como, casa bianca, il 22 novembre 1944, dalle 10.30. Si veda anche Curami 1993, 684.
14. Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force - Office of Assistant Chief of Staff, G-2, Intelligence Report N. E7-HQ 9. Subject: Interrogation of Albert SPEER, former Reich Minister of Armaments and War Production. 1st Session - May 28, 1945 - 10:00 to 12:30 hrs., p. 3 (http://lawcollections.library.cornell.edu/nuremberg/catalog/).
15. Maggior generale Hans Henrici, The use of Italian Industry in the Service of the German munitions production, Historical Study D0015, Garmisch 26 marzo 1947 (NARS, Foreign Military Studies, D-015).
16. Materie prime trovate in Italia, 10 ottobre 1943: ADAP 1979, 65, doc. 34.
17. Maggior generale Hans Henrici, The use of Italian Industry in the Service of the German munitions production, cit.
18. OSS - Interrogation of ALBERT SPEER, Former Reich Minister of Armaments and War Production - 7th Session - 10:15 - 12:30 hrs. - 1st June 1945 (http://lawcollections.library.cornell.edu/nuremberg/catalog/).
19. Vedere anche Setta 1993. Anche con l’ambasciatore Rahn Leyers utilizzò il termine «tranquillità». Si veda anche il Memorandum confidenziale del 2 novembre 1944 di un agente italiano dell’OSS pubblicato in Tranfaglia 2004, 269.
20. Prendiamo a prestito il titolo di un paragrafo dello studio di Paolo Savegnago, che bene sintetizza una motivazione addotta dalle imprese per giustificare la collaborazione con l’occupante.