1. Distanti per tre mesi e mezzo.
Per capire le esperienze didattiche realizzate tra marzo e giugno di quest’anno è indispensabile storicizzare quei tre mesi e mezzo. Quando siamo rimasti a casa il 22 febbraio – io insegnavo in una quinta di scuola primaria – non ci siamo curati di riempire lo zaino: era venerdì, pensavamo di tornare in classe dopo il fine settimana. Poi abbiamo appreso che non si sarebbe tornati e abbiamo pensato che si sarebbe trattato di una interruzione di un paio di settimane. Quando, durante la seconda settimana, ha iniziato a circolare la voce che avrebbero prolungato la sospensione che si estendeva a livello nazionale eravamo increduli, ma ancora il termine fissato era solo il 16 marzo. Poi la sospensione è stata prolungata fino a Pasqua e solo allora ricordo di avere contato con sgomento insieme alla collega le settimane che ci mancavano al termine della scuola, prospettiva divenuta a quel punto possibile e di lì a poco probabile.
Questi dati di cronaca sono indispensabili per inquadrare la didattica prodotta in quel periodo: improvvisata, sia per l’impreparazione di tutte le componenti dell’istituzione scuola, noi maestri compresi, sia perché la prospettiva di lungo periodo è emersa solo progressivamente e contro ogni iniziale aspettativa.
2. Didattica della storia prima del Coronavirus
La storia come disciplina nella scuola primaria ha subito diversi cambiamenti negli ultimi due decenni che ne hanno mutato forma e appeal. La verticalizzazione del curricolo con la scuola secondaria di primo grado ha demandato alla primaria lo studio della storia antica fino alla caduta dell’Impero romano, lasciando ai docenti l’onere di intraprendere eventuali aperture sulla storia contemporanea. Nello stesso periodo l’affermarsi delle pratiche annuali di somministrazione di test gestite dall’Istituto Invalsi dedicate a matematica, comprensione e inglese ha prodotto una nuova gerarchia tra le materie relegando la storia tra quelle meno importanti agli occhi di docenti e genitori. Non è questa la sede per approfondire tali brevi cenni, ma credo sia necessario tenere presente la difficoltà che patisce la materia. In questo contesto le strategie di motivazione divengono, se possibile, più importanti che in passato, per evitare da una parte la burocratizzazione del suo insegnamento («insegno quello che trovo sul sussidiario») e dall’altra la perdita di interesse («la storia è quella noiosa da studiare sul sussidiario») [Gabrielli, 2020].
3. A distanza
Tornando al lockdown, inizialmente abbiamo navigato a vista: preparazione settimanale di compiti inviati al rappresentante di classe, disponibilità al contatto telefonico se c’erano delle difficoltà, trasmissione delle soluzioni corrette dei compiti. Dalla seconda settimana abbiamo attivato un giornalino quotidiano per mantenere uno spazio di contatto diretto con i bambini in cui potessero comunicare le loro emozioni e riflessioni. Dalla terza settimana è emersa la necessità di vedersi e quindi l’esplorazione delle tecnologie che lo consentivano: noi Jitsi e poi Meet. Poi l’esigenza di vedersi e parlarsi si è trasformata nella necessità di riprendere in carico parte della didattica che era rimasta affidata ai bambini e ai genitori: così abbiamo reso dapprima più regolari e poi quotidiani gli incontri sulle piattaforme. Abbiamo cercato di passare da un’ottica di ripasso di attività e insegnamenti già affrontati a scuola al timido tentativo di insegnare nuovi argomenti: dapprima ci siamo lanciati in improvvisate registrazioni di spiegazioni e abbiamo segnalato filmati pescati in rete, poi si è attenuata questa “febbre tecnologica”, contemperata sempre più con riunioni video in cui favorire la partecipazione di ragazzi e ragazze attraverso domande, interventi, stimolando il più possibile la ripresa della parola.
Questa è stata la proposta da docenti. La risposta è stata estremamente diversificata dipendendo da diversi fattori. Prima di tutto la condizione organizzativa dei genitori, del loro lavoro, degli spazi e dei dispositivi disponibili in casa. Il principio dell’uguaglianza di condizioni che la scuola in presenza storicamente garantisce («in classe si è tutti uguali») in questo contesto di emergenza era minato in partenza poiché dipendeva dal ceto sociale, dalla struttura famigliare, dalla disponibilità di tecnologie. Rispetto a chi partiva da situazioni più difficili, la solerzia dei docenti ha potuto limitare il gap (nelle prime settimane potevamo consegnare fotocopie con la scusa di portare a passeggio il cane, abbiamo previsto collegamenti individuali WhatsApp e favorito la distribuzione di tecnologie scolastiche da parte della scuola) ma l’effetto di queste azioni è rimasto limitato, ha solo attenuato l’impatto. La stessa didattica che siamo riusciti a proporre è rimasta forzatamente molto frontale, ma soprattutto non era possibile intervenire in tempo reale sull’azione dei ragazzi e delle ragazze per controllare, correggere, aiutare, rispiegare... A scuola l’attività che si avviava dopo il primo breve momento della spiegazione iniziale avveniva garantendo il supporto a chi non aveva capito bene (un supplemento di aiuto, un cambiamento di spiegazione, una correzione in itinere). A distanza questa possibilità di rettificare in tempo reale saltava quasi completamente. Venivano poi a mancare l’articolazione cooperativa, l’aiuto reciproco, la ricerca fatta insieme. Ogni azione si irrigidiva nella forma individuale, l’atomizzazione delle pratiche di apprendimento si è rivelata quasi insuperabile.
In questo contesto i genitori sono diventati giocoforza indispensabili, erano i garanti del funzionamento tecnologico e dell’uso corretto dei dispositivi; li vedevamo fare capolino nell’angolo dello schermo: attori di seconda fila ma indispensabili delle videolezioni. Insomma, diventavano un’appendice dell’alunno e dell’alunna. In questo modo però è saltata completamente una delle caratteristiche della scuola “normale”: lo spazio di socialità indipendente dei bambini. La scuola infatti garantisce esperienze e di attività autonome dalla famiglia che sono la condizione principale per la socializzazione tra i pari e per la costruzione di autonomia. Nella scuola a distanza questa opportunità scompare e i genitori si sono trovati nella scomoda situazione di essere continuamente impegnati in un corpo a corpo con i figli che invece solitamente rimane ridotto ai compiti del fine settimana.
4. Il posto della storia
Inizialmente non abbiamo insegnato storia. Speravamo di uscire presto dal lockdown e di riprendere un percorso che ci doveva far affrontare la storia “istituzionale” dell’epoca romana e parallelamente ci avrebbe portato a lavorare in museo e in città per ricostruire e ripercorrere la mappa dell’antica Bononia nascosta sotto le vie e i palazzi della Bologna attuale. Quando ci siamo resi conto che ciò era impossibile abbiamo ripreso il percorso istituzionale arricchendolo con il consiglio di brevi documentari da vedere individualmente e poi discutere insieme. La frontalità implicita nel testo del sussidiario e nella nostra spiegazione veniva variata ma ribadita nella proposta dei documentari, e attenuata unicamente dalla discussione successiva che comunque rendeva attivi solo alcuni dei ragazzi e delle ragazze, e solo nella conferma o nel commento di quanto appreso.
Cogliendo l’occasione del calendario civile abbiamo anche introdotto un breve percorso sul 25 aprile e sulla Resistenza, prima simulando su Meet una visita nei luoghi della Resistenza in città attraverso il sito Resistenzamappe e vedendo insieme il promo del recente documentario The forgetten front, poi invitando ad un incontro sempre su Meet la storica Toni Rovatti a rispondere alle domande dei ragazzi e delle ragazze.
5. Ma in quarantena c’è spazio per la didattica attiva?
Questi percorsi di emergenza quindi non comprendevano un’articolazione attiva della storia. In realtà anche con la presenza in classe è difficile organizzare la didattica della storia rendendo realmente operativi i ragazzi secondo le modalità della ricerca storica. Spesso vengono allestiti laboratori dove tutto è predeterminato: gli obiettivi della ricerca, la selezione dei documenti, il percorso della loro interpretazione. Invece la ricerca storica reale si muove in maniera diversa: spesso si sfogliano fonti senza avere le idee chiare di cosa si va a cercare, si decide progressivamente quali documenti usare e quali scartare, molte volte non si trova ciò che si cerca, ma magari emerge ciò che non si era immaginato [Ginzburg e Prosperi, 1975]. Così per avvicinarsi alla pratica dello storico anche in classe si devono imboccare sentieri fuori dal curricolo e dai parametri temporali e metodologici suggeriti dalle “Indicazioni nazionali”, in modo da lasciare i ragazzi e le ragazze più liberi di cercare, di curiosare, di sbagliare. Ma a distanza?
6. Inizio Challenge
Ci abbiamo provato. Abbiamo scelto dei documenti singoli, estratti dal loro contesto, avendo in mente soprattutto l’intento di far conoscere diverse tipologie di fonti avvalendosi anche dei supporti digitali più semplici che il web mette a disposizione. La prova è iniziata da una pagina di giornale del 1936 che raccoglieva la cronaca locale di Bologna, città in cui vivono i ragazzi. La forma che abbiamo dato al gioco è stata quella della sfida, la Challenge come l’abbiamo chiamata in stile social. Si trattava di capire quando e dove era stata pubblicata quella pagina, di trovare la programmazione dei film, di cercarne uno in internet vedendone almeno una scena e infine di comunicarne le impressioni.
7. Al cinema negli anni Trenta
La sfida ha funzionato. Tutti i ragazzi e le ragazze che hanno risposto hanno trovato la lista dei cinema e dei film, hanno cercato in rete tramite Google e hanno copiato o riassunto qualche informazione. Matteo e Marta hanno cercato Casta Diva di Carmine Gallone che era in programmazione al cinema Roma. Marta se lo è visto tutto e ne ha fatto un riassunto particolareggiato, Matteo ne ha seguiti trenta minuti e «ho notato che dagli anni 30’ [sic] a oggi ci sono molte differenze: come si vestono, le case in cui vivono, le canzoni che suonano, il modo in cui parlano e quello che mangiano».
Vari ragazzi hanno scelto Aldebaran, che è piaciuto a Rebecca ma non a Mattia: «Solo verso la fine del film mi è piaciuto vedere i primi sommozzatori immergersi con lo scafandro». Per Umberto è «un film vecchio, in bianco e nero, vestiti antichi con discorsi che oggi non si sentono più». Cosimo racconta: «La sensazione più profonda che mi ha comunicato la prima scena è la differenza tra un film di un’altra epoca (in bianco e nero, con immagini e voci per me molto lontane nel tempo), e i film di adesso (con effetti speciali colori sgargianti e scene a me note)».
Eva cerca Lohengrin, e aggiunge che «L’undici gennaio 1936, lo proiettavano al Manzoni, un cinema che esiste ancora oggi ma che si è trasformato in un teatro». Sul film in sé si esprime Bernardo che prova a darne una lettura attenta ai diversi costumi cinematografici del tempo: «Il mio parere è che ancora il cinema è molto simile al teatro, gli attori sono finti e ci sono ancora pochi cambi di scena. La storia è carina».
Giacomo sceglie di andare al cinema Fulgor e manda anche la locandina originale, svelando l’azione della censura fascista: «Ho trovato il cinema Fulgor e ho visto un pezzo del film Follia messicana. Il titolo originale era Caliente, ma era vietato per legge usare parole straniere, quindi è stato tradotto».
Margherita trova solo Il cardinale Richelieu ma non ne rimane ben impressionata, anche se poi si rifà seguendo altre piste e trovando tracce inequivocabili della propaganda coloniale fascista: «Poi ho cercato un documentario intitolato All’ombra del Negus, non l’ho trovato ma ne ho visto uno molto simile. Già dal titolo si capiva che era fascista e secondo me l’avevano fatto mettere sul Carlino per convincere la gente a cambiare idea (compreso i bambini)».
Nina ha visto «La notte è per amare che è stato proiettato al cinema Carducci. Ho scelto questo perché abito vicino a piazza Carducci. Però mi sono pentita perché è un film romantico e triste e su internet l’ho trovato solo in inglese. Ho visto solo la fine e ho capito che è un musical». Anche Marcello non mostra entusiasmo: «Non sono riuscito a trovare un trailer in italiano ma solo in lingua originale (non ci ho capito niente)».
Riflessioni su come sono mutati i film e i gusti, sui luoghi di proiezione e su come sono cambiati nel tempo, riassunti appassionati e ricerche a margine sulla propaganda fascista: l’esperimento funziona. I ragazzi e le ragazze si impegnano, presumibilmente coinvolgono i famigliari, cercano sul web e si siedono sulle poltroncine virtuali dei cinema degli anni Trenta per questo viaggio nel tempo. Così decidiamo di andare avanti e alla fine della pandemia gli step diventano dieci [1].
8. Ogni cosa è documento
Per le sfide abbiamo deciso di usare documenti ritrovati in cantina, carte e oggetti poveri procurati dai rigattieri o ritrovati nei bauli dei nonni. Ogni documento (ogni step) è stato scelto pensando ad un diverso lavoro di lettura della fonte e per l’uso di internet a cui poteva portare. Così un menù degli anni Trenta di un’osteria popolare di Bolzano è diventato l’occasione per ordinarsi una cena virtuale e per scoprire esplorando con Maps e Street view se a quell’indirizzo esiste ancora un’osteria, facendo uno screen shoot come prova. Un contratto di affitto degli stessi anni con la cifra pattuita modificata in “euro” si è trasformato nell’occasione per smascherare un fake. Un vecchio portatimbri arrugginito degli anni Sessanta ha sfidato i ragazzi a sperimentare i motori di ricerca per immagini.
Una cartolina spedita nel 1958 che citava l’influenza asiatica li ha invitati alla difficile decodificazione della scrittura corsiva e a conoscere le caratteristiche di questo mezzo di comunicazione ormai desueto. La richiesta di intervistare un nonno o una nonna sulle sue esperienze infantili è diventata l’occasione per praticare la storia orale sfruttando le tecnologie di registrazione a distanza e per ridare centralità alle persone anziane, così fragili nel contesto della pandemia. Due foto risalenti alla prima metà del Novecento senza altre indicazioni hanno richiesto uno sforzo di immaginazione e interpretazione per collocarle in un contesto verosimile. Un vecchio libro senza data di edizione è stata l’occasione per sperimentare la ricerca dell’anno di pubblicazione attraverso l’Opac del Sistema bibliotecario nazionale. Infine, alcuni problemi di aritmetica degli ultimi anni dell’Ottocento sono stati presentati come fonti inconsuete, cariche di informazioni su un differente contesto storico-sociale di vita [2].
Uno o due step a settimana, il gioco della Challenge era diventato davvero appassionante, sia per chi doveva risolvere gli enigmi, sia per chi doveva formularne sempre di nuovi, ma presto è arrivato giugno e anche la stagione di quella strana scuola a distanza si è chiusa.
9. Il portatimbri arrugginito
Il corpus delle risposte mandate dalle ragazze e dai ragazzi è estremamente interessante per diversi motivi. Prima di tutto era stato chiarito che per superare lo step non era necessaria la risposta giusta, ma il racconto del percorso per rispondere. Anche se esisteva una richiesta più o meno precisa da assolvere, avevamo spiegato che ogni allargamento, divagazione, iniziativa personale sarebbe stata valorizzata: anche gli errori facevano parte degli «andirivieni della ricerca» e quindi erano benvenuti. Questo approccio ha permesso a noi insegnanti di valorizzare i percorsi intellettuali e pratici compiuti per rispondere, e quindi di entrare nel laboratorio di questi piccoli storici e storiche al lavoro.
Erano laboratori che integravano tre intelligenze in azione. Al centro il bambino con i limiti della sua ridotta esperienza. Ad uguale distanza due archivi di supporto altrettanto importanti: quello familiare composto dal genitore disponibile o dalla nonna o fratello incuriosito, e quello informatico che – anche per la rapida crescita di esperienze digitali indotta dal lockdown – era particolarmente frequentato dai ragazzi e veniva esplorato per prove ed errori.
Ad esempio, per il riconoscimento del vecchio portatimbri, Giacomo inizialmente pensa, seguendo un’analogia formale, che possa essere un portacandele, con le candele da collocare negli spazi vuoti; poi viene in aiuto la mamma che ne ha conosciuto uno in plastica al lavoro. Anche Cosimo si muove sulle somiglianze e ipotizza che potrebbe essere «il cerchione [mozzo] di una ruota», poi trova la soluzione giusta chiedendo al nonno, che da giovane lo usava. Rebecca riesce a trovare su Google un’immagine dell’oggetto e ci invia lo screen shoot. Anche Tina sposta la foto su Google-immagini ma la cosa non sembra funzionare: «Me ne sono usciti vari ma non erano molto simili: erano solo pezzi di ferro arrugginiti; poi però ho trovato un oggetto molto simile, ci ho cliccato sopra e mi è uscito che era un porta-timbri».
Margherita racconta così la sua ricerca: «Ieri sera ci ho pensato per ore e alle 16:45 di oggi ho chiesto a papà che cosa poteva essere e lui ha sparato subito “è un portatimbri!!!” spero che sia vero perché ho chiesto a Google come fossero fatti i portatimbri e in effetti erano uguali». Emilia lavora sul tablet e trova la risposta giusta con una app che si chiama Google lens. Molti non riescono a mettere a frutto la ricerca sul web perché il motore gli dà come risultato la ruggine che è spuntata sull’oggetto, e in questo modo fanno i conti con la dura realtà che anche i motori di ricerca informatici vanno aiutati e che bisogna imparare a formulare le domande.
In sostanza potremmo dire che prima di tutto le ragazze e i ragazzi guardano questi oggetti facendo riferimento alle proprie esperienze, cioè all’archivio personale che hanno in mente. Poi possono aiutarsi con gli archivi di internet confrontando le immagini con tutte quelle che girano sul web, infine (o all’inizio) possono chiedere agli adulti, a persone che avendo vissuto più tempo hanno accumulato archivi più grandi dei loro. Tutte strade sacrosante, nessuna rende inutili le altre.
10. Il fake
Un altro esempio: il fake [Battifora 2020]. Il documento era un contratto d’affitto della fine degli anni Trenta. L’Anacronismo era la scritta “euro” contraffatta e quasi tutti lo hanno scoperto. Alcuni invece hanno trovato altri elementi che potevano essere ritenuti errori comunque interessanti da analizzare (e che abbiamo valorizzato quando ci siamo ritrovati su Meet a fare il bilancio delle sfide).
Martina ad esempio ha trovato un “XVII” scritto in numeri romani ed ha pensato che fosse riferito al secolo, e se così fosse stato in effetti si sarebbe trattato di un errore. In realtà quel “XVII” indicava l’anno dell’era fascista, quindi si trattava effettivamente di una indicazione temporale ed era apparentemente contraddittoria, ma non era quello l’inganno.
Un altro dubbio è venuto a Bernardo, Marcello e anche un po’ a Margherita, perché nel documento compare a stampa una indicazione del 1921 mentre la data del contratto siglata a mano è del 1939; anche questo però non era un falso: il modulo per registrare gli affitti riportava il riferimento ad una legge del 1921 che era ancora la norma di riferimento al momento della firma del contratto.
Questi falsi “sbagliati” sono rivelatori. Appena si esce dalle “levigate” schede di verifica predisposte nei sussidiari e si entra nella concretezza (pur virtuale) dei documenti storici, la realtà con la sua dimensione complessa si prende le sue rivincite. Affrontare i documenti reali quindi non è facile, sfuggono ad una semplice utilizzazione didattica, non si fanno incasellare facilmente, eludono la dicotomia secca tra giusto e sbagliato; però dopo il primo smarrimento possono aiutare ad affrontare la complessità, insegnano che il lavoro dello storico non è mai meccanico, che la comprensione di un documento è sempre una piccola avventura.
11. Conclusioni
Difficile separare i contrastanti sentimenti che in questi tre mesi e mezzo di lockdown si sono affollati. Senso di sconfitta per i bambini tecnologicamente o socialmente fragili, frustrazione per la perdita della relazione didattica e della concretezza, ma anche determinazione nel tentativo di salvare il salvabile, di inventarsi “qualcosa” in “quel” contesto. La Challenge sta dentro quella esperienza.
Però qualche cosa di questo esperimento improvvisato credo si possa conservare, estrarlo da quel contesto e rideclinarlo in presenza, senza rinunciare per forza ai nostri corpi e alla socialità delle nostre aule. Terrei l’idea sui generis di laboratorio didattico, il piacere di “fare storia” fuori dal curricolo, il coinvolgimento informale delle famiglie nella ricerca, l’esplorazione abbastanza libera delle potenzialità informatiche, il divertimento e infine il recupero dell’errore come passaggio ineliminabile nel cammino di costruzione della conoscenza storica.
La farei seguire però da un percorso più strutturato di riflessione e studio, isolando di volta in volta un aspetto – metodologico o contenutistico non importa – emerso dalle risposte e costruendoci sopra una sequenza più classica di esercitazioni che permetta di trasformare gli stimoli emersi in un patrimonio di apprendimenti condivisi.
Il “mestiere di insegnante di storia” credo abbia solo da guadagnare da queste declinazioni della didattica poco convenzionali ma certamente avventurose, capaci forse di suscitare nuove motivazioni e curiosità nei nostri giovani.
Bibliografia
- Battifora P. 2020
A caccia di fake news, “Novecento.org”, 14, agosto [http://www.novecento.org/pensare-la-didattica/a-caccia-di-fake-news-6483/] - Bloch M. 1981
Apologia della storia o mestiere di storico, Torino: Einaudi - Gabrielli G. 2020
La scuola primaria a confronto con la contemporaneità, “Novecento.org”, 14, agosto. [http://www.novecento.org/insegnare-la-contemporaneita-oggi/la-scuola-primaria-a-confronto-con-la-contemporaneita-6445/] - Ginzburg C. e Prosperi A. 1975
Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino: Einaudi
Risorse
Note
1. I documenti, il testo della richiesta e una breve spiegazione a posteriori del senso della scelta dei loro insegnanti sono stati impaginati a giugno, il file in pdf è scaricabile dalla sezione Risorse in coda al testo.
2. Sulle fonti documentarie e sulla lettura «a contropelo» che se ne può fare è sempre bello rileggersi Apologia della storia o mestiere di storico [Bloch 1981, 128].