1. Premessa
Nel 2007 la biblioteca civica Gambalunga di Rimini (Bcg) ha acquistato dalla libreria antiquaria Valturio [1] il diario manoscritto di Alfredo Baistrocchi [2], all’epoca neo-ufficiale ventenne imbarcato sulla regia nave Etna, con la quale prese parte alla campagna del Mar Rosso del 1895-1896.
Si tratta di un quaderno (29,5x21 centimetri) di 74 fogli (recto e verso) non numerati cui si aggiungono otto tavole con 21 fotografie originali d’epoca; inoltre, tra le carte 20 e 21 c’è una tavola con uno «Schizzo dimostrativo della regione tra Sauria ed Adua» (recto) e uno «Schizzo generale del Campo Scioano visto da Amba Ualà» (verso).
La copertina rigida che rilega i fogli, a caratteri maiuscoli dorati, riporta il titolo, 1895-96. R.N. Etna. Campagna del Mar Rosso, e l’autore, A. Baistrocchi.
Nelle pagine che seguono saranno sintetizzate la biografia dell’Autore (paragrafo 2) e il contesto storico in cui il testo si colloca (paragrafo 3), del diario Baistrocchi viene fornita un’analisi testuale puntuale (paragrafo 4) e la trascrizione della seconda parte (ff. 56-74), che si è ritenuta di maggior rilevanza (paragrafo 5).
2. L’Autore
Alfredo Baistrocchi era nato a Rimini il 20 settembre 1875. Suo padre, Achille Baistrocchi (Parma 29 dicembre 1825 - Bologna 17 febbraio 1895) fu protagonista di una brillante carriera militare, culminata nel 1894 col grado di generale della riserva [3]. Nel mezzo di questa ascesa, prese parte a molte guerre e battaglie risorgimentali: dalla campagna del 1848-1849 (alla Sforzesca e a Novara), a quelle del 1854-1856 (in Crimea), del 1859 (a San Martino e Vinzaglio) e 1866 (a Custoza), fregiandosi il petto anche della medaglia del 1870 (a Roma). Oltre a quelle commemorative delle campagne fatte, ricevette una medaglia al valor militare per il combattimento di Vinzaglio nel 1859. Fu cavaliere e ufficiale della Corona d’Italia, e venne decorato con la croce di cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro per atti di valore compiuti durante la repressione del brigantaggio. Dal suo matrimonio con Elvira Santamaria Nicolini, discendente di una nota famiglia di giureconsulti napoletani, prima di Alfredo era già nato Federico (Napoli, 9 giugno 1871 – Roma, 31 maggio 1947), il quale percorse una altrettanto brillante carriera militare [4], fino a raggiungere il grado di generale. Ancor più notevole fu il cursus politico di Federico, che si svolse tutto nel ventennio della dittatura fascista [5]. Per inciso, ma per dare un’idea più articolata di questa famiglia di “servitori dello Stato”, si dirà qui che anche suo figlio, Umberto Baistrocchi (Castellammare di Stabia, 29 agosto 1900 – Roma, 23 agosto 1998), è stato un generale di divisione dell’Aeronautica, distintosi nel corso della guerra d’Etiopia e della Seconda guerra mondiale, dove fu vicecomandante dell’Aeronautica della Sardegna – Asar, decorato con la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia e tre medaglie d’argento al valor militare.
Alfredo Baistrocchi non dirazzò, ed entrò giovanissimo nella Marina militare percorrendone la carriera fino al 1928, quando si congedò con il grado di ammiraglio. Durante la guerra italo-turca (1911-1912) fu capo dell’Ufficio marina in Cirenaica, da dove fu inviato, quale comandante superiore navale, in Tripolitania. In tale funzione diresse personalmente le operazioni di sbarco a Misurata l’8 luglio 1912, coordinando nella delicata fase iniziale l’azione delle unità navali con quella delle forze d’attacco terrestri. Il comportamento di Baistrocchi fu particolarmente apprezzato, anche quando si dovettero tener presenti esigenze di carattere politico-diplomatico. Queste qualità gli valsero un ruolo di rappresentanza della Marina in numerosi incontri interalleati (Taranto, ottobre 1916; Londra, gennaio 1917), tra cui la Conferenza sul Regolamento per la protezione dei traffici marittimi che si svolse a Corfù nel maggio del 1917, durante la quale fu adottata la tattica dei convogli navali per contrastare la minaccia subacquea degli U-Boot tedeschi che avevano fino ad allora procurato alte perdite all’Intesa. Grazie all’esperienza di Baistrocchi, molto stimata dall’ammiraglio francese Froget, noto esperto in arte navale del tempo, l’Italia fu in grado di proteggere il naviglio mercantile, evitando così un maggiore razionamento delle materie prime e dei prodotti di prima necessità che avrebbe sicuramente cambiato le sorti della Grande guerra. Sulle vicende della difesa dei traffici durante la Prima guerra mondiale Baistrocchi stesso scrisse il volume Un periodo della grande insidia (Tripoli, 1920) [6].
Quando, successivamente, si prospettarono le operazioni nella Somalia settentrionale, in seguito al decreto del 10 luglio 1925, allo scopo di procedere all’occupazione dei sultanati di Obbia e di Migiurtini, nonché del territorio di Nogal, Baistrocchi prese parte con la nave Taranto alle operazioni del 1926 lungo la costa e contribuì efficacemente alla resa del sultano di Migiurtini. Ma qualcosa non funzionava nei suoi rapporti con il nuovo regime, tanto che, scrive il nipote [7], egli «nel 1928 “litigò” con Mussolini sulla questione del riarmo navale, volle uscire di scena e chiese di andare a fare il Console Generale ad Hong Kong» [8]. In effetti, fino al 1930, Alfredo Baistrocchi svolse una missione nella Cina meridionale per conto del Ministero degli Affari Esteri. Al suo ritorno, fu nominato consigliere di Stato e il 1° luglio 1935 subentrò all’ammiraglio e senatore Giovanni Sechi (Sassari 1871 - Roma 1948) nella presidenza del Registro italiano navale ed aeronautico, favorendo la collaborazione tra gli stati nel campo della sicurezza in mare. Nel maggio del 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, un congresso riunì a Roma i delegati degli otto registri navali operanti nel mondo, i quali raggiunsero importanti intese di collaborazione tecnica internazionale per accrescere la sicurezza della vita umana in mare che sarebbero state riprese dopo il conflitto.
Sempre sotto la sua presidenza, in attuazione del decreto-legge n. 1912 del 24 novembre 1938 che istituiva il Registro aeronautico italiano, si operò la delicata operazione di ridimensionamento del precedente registro, che, tornando ai suoi compiti originari, diventava Registro italiano navale: in pochi mesi la suddivisione dei due rami era operata, e quello relativo agli aeromobili era messo in grado di vivere autonomamente in relazione agli sviluppi dell’aviazione civile [Gabriele 1963].
Baistrocchi è conosciuto anche, e forse di più, per la sua intensa attività didattica avendo insegnato a più riprese presso l’Accademia navale di Livorno (chiamatovi dall’ammiraglio Giovanni Bettolo, di cui era stato allievo), e avendo scritto due trattati ad uso dei giovani ufficiali sull’attrezzatura e sull’arte navale [9], adottati anche nelle accademie e nelle scuole di marina della Spagna e dell’America meridionale.
Rimasto vedovo nel 1911, ebbe diversi figli, alcuni dei quali morti in tenerissima età. Sopravvissero però Achille (comandante in Marina, morto giovanissimo), Ugo (trasvolatore atlantico e comandante-pilota dell’idrovolante I-Bais nel raid in Sud America di Italo Balbo, anch’egli scomparso in giovane età), Ettore (1905-1996, seguì la carriera diplomatica) e Mario (pilota, medaglia d’argento nella Seconda guerra mondiale): insomma trasmettendo (quasi) a tutti il “codice famigliare” che lui stesso aveva raccolto anni prima.
3. Il contesto
Il ritorno al governo di Francesco Crispi il 15 dicembre 1893 significò il rilancio di quella politica coloniale alla quale lo statista siciliano tanto aveva legato il proprio nome in precedenza [Adorni 1997; Isnenghi 1997]. Durante i suoi primi due gabinetti, infatti (estate 1887 – 6 febbraio 1891), era stato firmato il Trattato di Uccialli (2 maggio 1889) con Menelik II, conquistata Asmara (agosto 1889) e fondata in Eritrea la prima colonia italiana (1890).
Tuttavia se c’erano evidenti motivi di continuità a spingere ancora una volta Crispi sulla via dell’Africa, negli anni del suo ritorno al governo se ne aggiungevano di nuovi: le difficoltà diplomatiche all’estero; la crisi economica e il tracollo del sistema bancario all’interno; il movimento dei Fasci siciliani che, all’apice dello scontro (autunno 1893), pareva minacciare l’ordine politico e sociale costituito, tanto che fu esso a provocare la caduta del governo Giolitti (maggio 1892-dicembre 1893). Dall’Africa, dunque, venivano non solo opportunità di distogliere l’opinione pubblica da quelle spinose questioni, ma soprattutto prospettive (anche solo nella forma di aspettative) di profitto allettanti per gli operatori economici grandi (compagnie ferroviarie, edili, di navigazione) e piccoli (percettori di rendita, commercianti, manodopera operaia e bracciantile).
In ambito colonialista si scontravano però due visioni attorno alle prospettive italiane nel Corno d’Africa: quella diplomatica o “linea scioana”, sostenuta dall’ambasciatore Pietro Antonelli, di raccoglimento sui confini tigrini e di fiducia nella sottomissione dell’Etiopia al protettorato italiano, e quella militare o “linea tigrina” [Labanca 2002, 72] di ulteriore espansionismo, sostenuta coi fatti dal generale Oreste Baratieri: questi, infatti, non solo represse la rivolta del degiac Bahta Hagos (dicembre 1894), ma, sostenendo di aver trovato le prove del suo accordo con ras Mangascià e Menelik, volle coronare la sua azione con una puntata su Adua, che fu occupata per alcuni giorni.
Tali fatti, che si sommavano all’espansionismo italiano degli anni precedenti negli altopiani interni del paese africano (oltre che in Etiopia anche in Sudan), avevano irritato Menelik (che in verità sin dall’ottobre 1890 aveva contestato il Trattato di Uccialli) il quale ritenne oramai maturi i tempi per affrontare in campo aperto l’invasore.
A rafforzarlo in questa sua decisione c’era un complesso di fattori legato alle vicende diplomatiche e di politica estera tra diversi stati europei: favoriva, infatti, la strategia di Menelik l’aiuto militare garantitogli dai rifornimenti di armi da parte dei francesi, che intendevano così contrastare, ancor prima di una rivale coloniale, un’alleata del suo principale nemico [Desplanches 1997], la Germania – la quale, sia detto non troppo per inciso, trovava in tale situazione l’occasione di distogliere «da sé la voglia francese di menar le mani» [Quirico 2004, 40]. Anche l’Inghilterra entrava in questo gioco, dal momento che pensò di poter sfruttare, appoggiandole, le ambizioni coloniali di un paese debole quale l’Italia in funzione anti-francese e anti-tedesca, rivali assai più minacciose, non solo nel continente africano [Seton-Watson 1997].
A tali ragioni si aggiunga poi la consapevolezza di Menelik che gli italiani continuavano a comportarsi come se si trovassero ancora di fronte «all’Etiopia divisa e in difficoltà di Giovanni IV e non a un paese povero ma riunificato sotto il pugno di ferro di un imperatore giovane, ambizioso e modernizzatore» [Labanca 2002, 75]. Fu in tale occasione che il 19 dicembre 1895 venne ricostruita, come nel 1885, la divisione navale del Mar Rosso [10], comprendente l’incrociatore Etna (sul quale prestava servizio Baistrocchi), che giunse a Massaua il 7 gennaio 1896 e vi restò fino ai primi di ottobre. Fu proprio da questa nave, comandata dal contrammiraglio Carlo Turi, che «vennero diretti i servizi di sbarco e rifornimento: il suo personale cooperò al trasporto delle truppe, dei materiali e dei quadrupedi ed integrò anche il servizio sanitario in Città, per l’eventualità che fosse reso carente dall’eventuale partenza della maggior parte del personale militare per l’altopiano; una parte del suo equipaggio sostituì le guarnigioni dei forti di Abd-el-Kader, del Gherar e di Taulud» [Gabriele, Friz 1982, 56].
4. Il Testo
Tra le tante campagne militari che lo videro impegnato, Alfredo Baistrocchi partecipò dunque giovanissimo, e appena presi i gradi di tenente, alla “prima guerra d’Africa” del 1895-1896 [11], e di tale esperienza ha lasciato questo diario che si compone di due parti: la prima, A bordo dell’Ariete Torpediniere Etna, occupa i fogli 1-55 e contiene prevalentemente descrizioni tecniche specifiche sulla imbarcazione e sulla sua navigazione, osservazioni varie (prevalentemente di carattere storico, geografico e paesaggistico, ma anche climatico, commerciale, demografico, ecc.), nonché la meticolosa disamina giuridico-diplomatica (ff. 30-55, datata «Massaua, 29 agosto 1896 […] 4 settembre 1896») dell’episodio di cattura (٨ agosto ١٨٩٦) del «piroscafo olandese Doelwyk carico di 45.000 fucili [, 6 mila sciabole] e 5 milioni di cartucce a destinazione Gibuti» [Gabriele, Friz 1982, 56].
La seconda parte (ff. 56-74), quella che in questo articolo si trascrive, è presentata come raccolta di Pagine sparse. Ricordi del mio giornale privato, indicizzate dall’autore stesso in 10+1 “paragrafi” (due paragrafi, infatti, recano il numero cinque). Il primo di essi (Amba Alagi), al f. 57r, reca la data dell’11 dicembre [1895]; l’ultimo recante una data, marzo [1896], è il f. 68r; da qui seguono pagine i cui titoli, rubricati come Ricordi di Asmara, sono “geografico-tematici” e non più “cronologici” (Gli Ascari, f. 71v; Nokra, f. 73r). Qui Baistrocchi riporta in forma sintetica quanto aveva scritto nella prima parte, nella quale si lasciava andare, come detto, a digressioni tecniche, storiche, geografiche e di costume.
Il testo riferisce, filtrato dal punto di vista di un giovanissimo ufficiale di carriera della Marina regia, nonché membro di una famiglia di lunga e profonda tradizione militare, alcune vicende dell’intervento delle truppe italiane in Eritrea tra l’11 dicembre 1895 e, sebbene non venga specificato, un periodo compreso tra marzo (dopo Adua) e ottobre (rientro in Italia) 1896. Questa seconda parte del diario si apre nel momento in cui in Italia giunge l’eco della disfatta di Amba Alagi del 7 dicembre 1895, in cui persero la vita circa 2.000 soldati italiani guidati dal maggiore Pietro Toselli [Del Boca 1976, 591-599]. L’episodio fu subito rappresentato dalla retorica coloniale come “nuove Termopili”, come traspare anche dalla prosa ottocentesca e risorgimentale del giovane Baistrocchi (11 dicembre), e continuerà a risuonare lungo le pagine del testo, anticipando in qualche modo quello che Nicola Labanca avrebbe chiamato il “complesso di Adua” [Labanca 1997], che in questa specifica circostanza si manifesta sia nella forma esplicita del ritorno assillante del ricordo di quella sconfitta, sia in quella implicita del timore di futuri analoghi disastri (che puntualmente si verificheranno).
Alla notizia della disfatta fa seguito l’invio immediato in quello scacchiere africano di navi da guerra italiane, tra le quali l’Etna su cui presta servizio Baistrocchi, il quale si reca dapprima a Venezia per l’imbarco, quindi attraverso la rotta Ancona (13 dicembre), Taranto (17-24 dicembre), Porto Said (28 dicembre), Suez (31 dicembre), giunge a Massaua il 5 gennaio 1896.
Colpisce il fatto che quando si trova a descrivere il transito nel Canale di Suez, Baistrocchi, che pure è su una nave inviata in missione di guerra, si lasci andare a osservazioni relative alle positive potenzialità, non solo economiche, offerte dalla recente inaugurazione di «vie nuove che si aprono allo sviluppo commerciale e quindi intellettuale e civilizzatore dei popoli» (f. 13v).
Il primo compito affidato alle navi italiane, una volta giunte a destinazione, è quello di sorvegliare i movimenti delle imbarcazioni francesi, dalle quali si teme che possano arrivare armi per Menelik II. Non era un mistero, infatti, che i francesi, entrati stabilmente nell’area del Corno d’Africa già dal 1859 quando occuparono il porto di Obock (Gibuti), ebbero interesse a ostacolare la penetrazione italiana per tutto il ventennio successivo alla stipula della Triplice alleanza.
Baistrocchi proviene, come si è detto, da una famiglia di militari di carriera, per i quali la fedeltà alla patria, alla corona e al governo sono valori pienamente introiettati; inoltre per lui, ufficiale di Marina appena ventunenne, molti dei protagonisti di quei fatti e di quell’impresa sono, oltre che colleghi del padre, dei personaggi quasi leggendari in quanto provengono dal passato epico-eroico delle guerre risorgimentali e dall’epopea garibaldina. Tuttavia, sebbene per queste ragioni egli sembri adottare supinamente il filtro interpretativo proposto dal governo per giustificare l’impresa coloniale, vale a dire la vendetta e il ristabilimento dell’onore italiano (5, 26-27 gennaio), il giovane autore del diario non tace problemi e inefficienze quali le rivalità tra le diverse forze armate italiane (quando non i personalismi dei vari comandanti, che travagliarono i processi decisionali) e la consapevolezza della responsabilità degli alti gradi nelle sconfitte sul campo – anche se la retorica patriottica e nazionalista, tipiche di un esercito nutrito dai miti risorgimentali, provava a stemperarne la portata (6, 10, 12 gennaio). Ma anche in questo il diario si rivela una efficace rappresentazione di quanto avveniva persino tra i massimi responsabili della politica e dell’iniziativa coloniale italiana, cioè la sostanziale incomprensione dei termini essenziali della situazione africana, dovuta sia alla sopravvalutazione delle proprie forze sia alla sottovalutazione di quelle avversarie.
Numerosi e vari altri aspetti emergono dalle pagine di Baistrocchi, rendendo le sue memorie significative e ricche di spunti: il ruolo antagonista giocato in quello scacchiere dalla Francia, spinta in tale scelta anche dalla stipula nel 1882 della Triplice alleanza (5 gennaio); quello della impreparazione militare che si manifesta nella difettosa logistica delle attività (10 e 12 gennaio) – tale da suscitargli cupi presagi (12 gennaio) – visibile perfino nella mancanza di abbigliamento specifico (12 gennaio) [Labanca 2002, 68]; quello degli attendismi e degli errori decisionali (15, 17 gennaio; 3 febbraio); quello della superficiale o imprecisa conoscenza del terreno (Ghinda Marzo 96); e altri ancora che si lasciano all’osservazione diretta del lettore.
Anche l’esiguità di un organico in progressiva diminuzione è un dato che non sfugge a Baistrocchi, il quale si fa così spontaneo osservatore del velleitarismo del governatore Baratieri, convinto di poter fare di più (spingendosi anche in Sudan) avendo a disposizione di meno dai governi (3 febbraio).
Spicca, inoltre, anche l’azione del clero cattolico missionario nella prima espansione coloniale italiana, ruolo ben incarnato in queste pagine dalla figura del padre cappuccino Michele da Carbonara [Chelati Dirar 2002]. Dopo l’espulsione dalla colonia dei missionari non italiani decretata da Crispi nel gennaio 1895, il cappuccino perseguì un progetto di stretto collegamento tra missione e autorità coloniale, con cui favorire la sua “aggressiva” politica di proselitismo. D’altro canto, tale suo comportamento s’inseriva bene nel mutato clima delle relazioni Stato-Chiesa, in cui il sostegno materiale e spirituale (26-27 gennaio) dato ai soldati italiani impegnati nell’espansione coloniale costituì un tassello importante e di consolidamento. A caratterizzare la prassi missionaria della sua Prefettura [12] ci fu inoltre la lotta allo schiavismo, che forse emerge in controluce anche dall’episodio raccontato in data 3 febbraio. A quest’ultimo aspetto si affianca, per converso, il sentimento di superiorità culturale prima ancora che militare, che impediva, nei bassi come negli alti gradi della filiera di comando, di riconoscere piena dignità al nemico (26-27 gennaio).
Nonostante i pregiudizi culturali, Baistrocchi risulta però attento e curioso nei confronti del paesaggio, della popolazione e delle usanze con cui si incontra (La piana di Ailet), attitudine che manifesta anche attraverso l’introduzione nelle pagine di descrizioni accurate, di 21 fotografie (ma una si ripete due volte) presumibilmente scattate da lui, e di due cartine vergate a mano.
Nelle sue descrizioni compare di sfuggita anche l’esistenza di campi di prigionia, situati nei posti meno ospitali, tanto che non tace l’alto tasso di mortalità per le malsane condizioni igienico-sanitarie [13].
Tale accenno, per quanto “laterale” nel diario di Baistrocchi, ci pone sotto gli occhi il fatto che i campi di prigionia costituiscono, già in questa fase storica “aurorale” del colonialismo nazionale, un elemento importante dell’occupazione italiana nel Corno d’Africa.
Eppure, anche di fronte a questi nemici, Baistrocchi, nello sguardo di un prigioniero con cui si chiude il Diario, riconosce la fierezza di un popolo cui è stata sottratta la libertà (Nokra), in qualche modo la stessa per cui combattevano meno di cinquant’anni prima gli stessi italiani e che, anzi, proprio in quegli anni, per clamoroso rivolgimento della storia, avevano come capo del Governo un protagonista dell’impresa garibaldina dei Mille.
Ma la parte forse più significativa del diario (ff. 68r-71v) è occupata dal racconto della disfatta di Adua (1° marzo 1896), che vi fa irruzione con l’effetto del colpo improvviso e inaspettato che tramortisce e lascia attoniti e sgomenti: queste pagine (2 Marzo), che erano state precedute da altre descrittive e “leggere” (La piana di Ailet) ai limiti del quadretto idillico, hanno un attacco tragico dagli echi “foscoliani” («Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia» [14]).
Non potendo essere testimone diretto della battaglia, Baistrocchi si affida alla ricostruzione che gliene fa il colonnello Ugo Brusati (anche se nell’indice da lui stesso compilato al f. 56r, è scritto «Stevani [15] [...] ad Heusch»), il quale vi comandava un reggimento della brigata Arimondi. Baistrocchi, dunque, “sposa” la versione che ne ascolta, la quale combacia abbastanza fedelmente con quella ufficiale dell’esercito, che preferì smontare quella battaglia in tre combattimenti isolati, così da farne derivare una tesi giustificatoria che addebitava la sconfitta al fallimento comunicativo e di mancata unificazione delle tre (quattro se si aggiunge quella di riserva di Ellena) brigate coinvolte: la spia di ciò è qui costituita dal fatto che Brusati parli di «battaglia di Semaiatte» (Semaiata).
È evidente che quel giorno di marzo, nella palazzina del governatore a Ghinda, Brusati stesse anticipando quanto poi avrebbe detto nella Conferenza tenuta ai sigg. ufficiali del presidio di Torino che tenne il 1° marzo 1897, a un anno esatto dalla battaglia, dal titolo Impressioni e ricordi d’Africa, in cui parlò delle cause della sconfitta con impietosa franchezza [Rochat 1973, 57-59]. Ad esempio, è significativo che nel suo racconto Brusati sottolinei che non fossero state indicate sulle carte, lacunose e imprecise, «le linee di ritirata» (Ghinda Marzo 96). Ma più di ogni altra cosa, dal racconto riferito da Baistrocchi emerge con cruda lucidità il tramonto delle illusioni di potenza di fronte agli indigeni, i quali mostrano un’intelligenza tattica e militare che sorprende i supponenti colonizzatori. Il suo racconto, inoltre, sebbene sia articolato criticamente, pure struttura già alcuni dei topoi che si sedimenteranno nella memoria di Adua: l’eroismo dell’esercito, in specie degli ufficiali, e le poche defezioni, che, quando ci furono, sono da addebitarsi esclusivamente alla truppa, cui dunque vanno attribuite le responsabilità della disfatta, occultando così le gravi manchevolezze delle classi dirigenti: militari, in loco [Del Boca 1997; Rochat 1997], politiche, a Roma [Del Boca 1976, 480-483].
Raggiunta qui la sua spannung, le poche facciate che seguono contengono due brevi paragrafi (Gli Ascari, f. 71v; Nokra, f. 73r) che vengono inclusi nel capitolo Ricordi di Asmara: si tratta di testi descrittivi di argomento tra il sociologico, l’antropologico, e il geografico. Sono testi senza date, dal momento che l’ultimo con indicazione di tempo era stato, forse proprio a sottolinearne il valore di spartiacque traumatico, quello del resoconto di Adua, ma sicuramente compresi tra marzo e giugno 1896: sappiamo infatti dalla prima parte del diario che l’Etna salpò da Massaua il 5 giugno 1896 per dirigersi ad Assab e operare per alcuni mesi nell’area del Mar Rosso. Alfredo Baistrocchi e la sua nave Etna fecero ritorno in patria alla fine di ottobre 1896, dove avrebbero trovato un Paese in grande fermento politico e sociale anche a causa di quelle vicende di cui lui era stato giovane osservatore e, per quanto “appartato”, protagonista.
5. Il Diario
11 Dicembre [1895] [16]
La notizia si sparse per la città [17] in un momento. Il battaglione Toselli [18] distrutto: il nemico era piombato addosso al quarto battaglione, il più bello, il più agguerrito fra le truppe coloniali, seminandovi la strage. Ecco la notizia che destava un’eco di dolore in tutta Italia! Ma era dolore dignitoso accompagnato dalla coscienza di un dovere elevato e nobile: la vendetta dei fratelli morti col nome della Patria sulle labbra.
La nave Etna avendo avuto ordine di passare pel Mar Rosso; la raggiungo immediatamente a Venezia.
24 Dicembre [1895]
Alle due si lascia il Mar Piccolo [Taranto]. Bianca l’Etna defila di poppa alle superbe corazzate che nel mattino fecero ritorno dall’Oriente. La Morosini [19] ed il Doria [20] salutano e la musica dell’Umberto [21] allieta la nostra uscita. Sulle due sponde del ponte è un accalcarsi di popolo. Il saluto della folla alla nave, dolce discende nel core.
1 Gennaio [1896]
Il sole ha salutato coi suoi raggi il mattino del 1° Gennaio ’96. Una brezza soave ci fa quasi credere di essere in primavera. Lontane scorgo le case di Suez. La città indigena ed i piroscafi che in breve lasceranno la rada per l’America, l’Asia, l’Africa!
Traversiamo il golfo, costa caratteristica incolta, arida, deserta… e pittoresca. Da una parte l’Africa dai monti oscuri, dall’altra la terra biblica dell’Asia dall’aride sabbie. Lo sguardo solo si riposa sulle palme della Fontana di Mosè, la fontana dalla quale scaturirono le acque pel popolo Ebreo. Tramonta il sole dietro i M[onti] Zaffaran e la notte rapida discende sulle alture che come brune macchie spiccano sul mare… L’altipiano Fibel Hammel è illuminato da una pallida luce: è la luna sorgente. Quanta pace! La musica di bordo suona e suona per i marinai, per la povera gente lontana dalle famiglie. Viene l’ora del silenzio… e silenzio regna per tutto… Lo sguardo si fissa sulla lontana penisola del Sinai, sul Sacro monte dal quale fu emanata la legge che da tanti secoli ci governa.
La luna tutta la notte ha illuminato l’ampia distesa del mare e mille stelle brillavano in cielo. Cammina la nave e si commuove l’anima al pensiero delle vittime umane che racchiude questo “Cimitero dei naviganti” anche i mari hanno le loro necropoli: sono luoghi popolati da punte aguzze a fior d’acqua, da scogli ignoti contro cui spinte dai venti e incerte correnti trovano rovina le navi. Il navigante guardingo vigila alla bussola e s’affida ai fanali – benedette luci che egli incontra sul suo cammino.
5 Gennaio [1896]
Siamo giunti a Massaua [Eritrea] al tramonto! In quest’ora triste io penso ai fratelli lontani che fra i disagi di terre inospitali rivolgono i loro sforzi a tutela del decoro italiano.
Scendo a terra e traverso la diga. Alla luce dei fanali che la fiancheggiano scorgo indigeni nei bianchi loro panni, e gruppi di ufficiali e di soldati. Parlano di battaglioni, di compagni di truppe e di marcie! La prima missione affidata dal Governatore [22] alla divisione navale riguarda il piroscafo francese Chandemagor partito da Marsiglia il 1° Gennaio – dal quale si teme che sbarchino armi pel Negus in Oboca [Obock [23]] o Gibuti. Alle navi Etruria [24] e Curtatone [25] è dato l’incarico di lasciare Perim [Yemen] per porsi in crociera allorché si giudica prossimo il passaggio della nave. Vista la nave: seguirla convincersi con tutta segretezza della operazione di scarico – e di accertarsi del materiale sbarcato. Quale scopo apparente della missione i comandanti avevano una lettera del governatore francese; in cui si fingeva che il loro arrivo fosse motivato dalle condizioni poco salubri di Massaua e dal desiderio di stringere relazioni di buon vicinato col residente francese.
6 Gennaio [1896]
Il generale Arimondi [26] alla vigilia della partenza da Massaua [Eritrea] ha avuto un pranzo dall’Ammiraglio [27]. Allo champagne si sono iniziati i brindisi; e Turi bevve all’esercito ed alle future vittorie che non potevano mancare affidate le sorti ai valorosi Baratieri [28] ed Arimondi.
Arimondi rispose ringraziando ed accennando che “se due o tre errori erano stati commessi, ora bisognava ripararvi colla fermezza, e che non sono le nazioni forti che si sgomentano innanzi all’avversità”. Forse alludeva alle mosse troppo avanzate dopo Agordat [Eritrea; 21 dicembre 1893], tanto più che, doloroso a dirsi, si rileva anche in Africa quel dualismo, quella discordia nei capi che tante volte fu dannosa alla patria nostra.
Arimondi è un bel [sic] uomo, dall’aspetto svelto e robusto. Dalla fisonomia si rileva che la calma è sua dote precipua. Come parlatore non ha facile la parola ma elevati i concetti.
7 Gennaio [1896]
Ho accompagnato l’Ammiraglio nella visita al Prefetto Apostolico, P[adre] Michele da Carbonara [29]. Per andare alla Missione si deve traversare la penisoletta di Ras Mundur. Siamo passati vicino alle Carceri e dai barricamenti [sic] dei battaglioni che tra breve lasceranno Massaua. Bianco è l’edificio della Missione, che apparteneva una volta ai Lazzaristi francesi espulsi recentemente per opera di Baratieri quali dannosi all’ordine interno [30].
Un moretto ci ha scorto ed è corso a chiamare P. Michele. La figura del Sacerdote incute rispetto. Bianca e fluente la barba, bianco l’abito monacale del Cappuccino – pallido il volto – dolce lo sguardo e la bocca aperta al sorriso. Ha ringraziato l’Ammiraglio della visita ed ha parlato moltissimo della Colonia. Ha detto che presentemente eravi solo un fratello, essendo gli altri partiti per Adigrat [Etiopia]. Da poco era rimesso da un grave affanno di cuore nel tempo stesso che il suo compagno era malato. Si figuri, diceva ridendo, che or l’uno or l’altro ci alzavamo per aiutarci. Poi ci disse che l’associazione dei missionari aveva invitati cento contadini per trasferirsi sull’altipiano di Keren [Eritrea]. Le condizioni erano ottime non richiedendo che l’abbandono della patria per alcuni anni. Keren è terreno già coltivato; i coloni per i primi cinque anni mantenuti dalla missione. Però – diceva P. Michele – ora sono in grande imbarazzo perché me li vogliono mandare egualmente mentre allo stato presente delle cose è impossibile farli venire all’interno. E parecchi ne son venuti ed ora il mio pensiero è di situare i bianchi e le donne sovratutto. Creda, Sig. Ammiraglio, concluse ridendo, che se Baratieri è negli imbarazzi, io pure vi sono”. Dalla veranda della Missione si scorgeva l’isola di Sheez, verdeggiante per la benevole influenza dei venti dominanti: luogo di lascito dei cadaveri dei pellegrini che vanno alla Mecca.
Siamo discesi, e P. Michele ci ha mostrato i soldati, dicendoci: poveri figlioli, fra poco verranno qui a scrivere a queste tavole una lettera… che non sia l’ultima!
Gennaio 10 [1896]
Ed i vapori della spedizione seguitano a giungere nel porto di Massaua, e dalle navi i marinai al grido di “Viva il Re” portano il saluto ai fratelli dell’esercito. Il Perseo, il Bormida, l’Archimede sbarcano truppe… i battaglioni prendono la via di Adigrat dopo pochi giorni di sosta e li accompagna il nostro pensiero, il pensiero della patria.
I sacchi di farina, le casse di viveri e di munizioni si ammassano sulle banchine e mancano i portatori, i cammelli i muletti!
Gennaio 12 [1896]
Ero andato ad Archico [Arkiko, Eritrea] col Capo di Stato Maggiore e mentre osservavamo la pianura che tra i monti Dahhat da una parte e M. Gheddam dall’altra si estende sino al mare; vedemmo da Archico avanzarsi una colonna di soldati. Era la 1° Batteria e quando il Capitano ci passò innanzi all’augurio del Comandante: Buonafortuna, capitano, rispose:
“Grazie colonnello, ma partiamo in tristi condizioni. Non ho viveri, non ho muletti di riserva, se ne muore uno lascio la soma per la via… Mi avevano promesso cinquanta camelli [sic], non sono giunti! Mi hanno detto di partire ed io parto per fare il mio dovere. Faremo del meglio possibile fino a quando non si avrà nulla! Arrivederla Colonnello!”… La colonna riprese la marcia e commosso guardai quella gente che s’inoltrava verso le alture…
E passavano i pezzi; passavano i cofani delle munizioni, passavano quei giovani figli d’Italia e gli ascari dalla bianca tenuta. La batteria si andava impicciolendo e perdevasi lontana. Ed io l’accompagnava col pensiero nelle lunghe giornate di marcia sulla via di Ma – Maio – Barachit – Adigrat. Che Iddio protegga quella gente…, ma confesso che in quella plumbea mattina, nella brulla pianura mi fece l’effetto di gente che si avviava al martirio!
La batteria era seguita da una sezione genio. Venivano a gruppi di cinquanta e di cento portatori di piccioni, di scale, di paletti telegrafici di tavole, di legnami. Ad ogni portatore sono corrisposti sino ad Adigrat 25 lire e mezzo chilo di dura [?] al giorno (Lire 0.40 al chilo) una scala di legno, tre paletti del peso totale di 20 chili, esigono una spesa di trasporto di 30 lire! Quale effetto bizzarro offrivano quegli indigeni dalle varie espressioni dei volti – dalle varie capigliature. Rasati gli uni, riccioluti e nerissimi i capelli di altri i riuniti in treccia o cadenti sulle spalle, nudi i corpi o rivestiti di sciamma [31]. Alcuni somarelli portavano i sacchi di dura [?] ed un ascaro solo governava su tutta quella gente. Passarono due muletti con sacchi suggellati condotti da ascari armati. Era la posta di Adigrat. Seguiva un riparto [sic] telegrafisti con muli e muletti carichi di tamburi per filo volante, di casse per utensili telegrafici, di apparecchi… un ascaro pure li dirigeva… perché è un solo sentimento che conduce questi uomini all’obbedienza nostra: l’odio all’abbissino.
Ho chiesto ad un moretto, dalla faccia intelligente dove andavano quei soldati. Ad Adigrat, mi ha risposto. E che vanno a fare? Il moretto ha fatto la mossa di puntare un fucile ed ha aggiunto: Menelih [32], Mangascia [33]. E tu che fai ora? Io piccolo ha risposto, più grande fare ascaro!
Adigrat! Ecco la parola che è su tutte le bocche oggi. Ivi sono riuniti diecimila uomini. Di là parta il grido della vittoria! Noi eravamo andati ad Archico per vedere per quali vie un nemico potesse tentare un colpo di mano su Massaua: e se tale fatto con navi potevasi impedire. Il nemico che per la via che costeggia lo Scillichi [Eritrea] ed il Catra [Eritrea] tentasse portarsi nella piana di Archico troverebbe ostacolo nei tiri di una nave murata nell’insenata Sud di Archico ed in posizione tale da battere sino ai monti ove certamente l’attaccante si addosserebbe. L’altra via protetta dai monti del Catra sbocca pure nei piani di Archico e quindi sotto il tiro di altre navi.
Il servizio di rifornimento non procede regolarmente. Alla mancanza di animali da trasporto di mezzi, si aggiungano quelli di elementi indispensabili. Ieri sono venuti a richiedere i 150 cappelli di paglia da marinaio per i soldati! È doloroso osservare il triste dualismo delle due armi, che non appare nei discorsi dalle grandi parole. Non vi è vera fratellanza tra esercito e marina e la colpa non è questa ad ascriversi, perché lo riconosco io figlio di ufficiale dell’esercito e fratello, cognato, ad ufficiali dell’esercito. Non si giudica mai con disinteresse il vero bene dei paesi; ma l’uno nell’altro vede un elemento che a sé toglie forza, né pensa che questo al bene della patria dovrebbe essere tutta votata. Non si profitta di una divisione navale per affidarle il servizio di sbarco del personale e materiale, ed intanto 150,000 lire è il prezzo del contratto per lo sbarco delle truppe a mezzo di un impresa [sic]. E mentre le nostre barche restano inoperose; resta inoperoso ed abbandonato quel piccolo ed un giorno furente arsenale che dalla Marina passò all’Esercito. Spesso l’acqua mancò a Massaua. L’arsenale aveva un distillatore ottimo, ora in cattivo stato perché privo di manutenzione.
15 Gennaio [1896]
La Curtatone va a Zula [Eritrea] ed Anfila [Eritrea] a sorvegliare la costa. “Il Comandante userà la massima prudenza con i sambuchi [34] di nazionalità estera”. Prudenza! Prudenza sempre! Ma quando si dichiarerà questo blocco: Ormai però il nemico ha avuto tutto il tempo di fornirsi.
Tramonta il sole sulle colline di Dogali [Eritrea] e Saati [35]: Volti alla Mecca i Mussulmani pregano.
“In nome di Dio clemente e misericordioso, lode a Dio padrone del mondo, pieno di misericordia e di clemenza, padrone nel giudizio finale. Sei tu che adoriamo, è a te che siamo sommessi nel retto cammino, nella via di coloro che godono della Tua grazia e non di quello contro i quali Tu sei corrucciato o che sono perduti Amen!”
17 Gennaio [1896]
Dal campo di Adigrat, Baratieri ha chiesto il concorso dei medici di marina per l’ospedale di Massaua, onde chiamare quei sanitari al corpo operante. Stamane finalmente è venuta una lettera in cui il Comando prega l’Ammiraglio di provvedere al servizio di sbarco. Finalmente! Dopo che 26,000 lire si sono spese, dopo che si davano tre soldi per ciascun individuo sbarcato con battelli; mentre con una zattera fatta dalla Marina le compagnie scendevano ordinate sulla banchina.
26-27 Gennaio [1896]
Dieci anni sono passati, e questo arido suolo è percorso nuovamente da colonne di soldati. Il movente della nuova spedizione è lo stesso: una strage da vendicare. Dogali [36]-Ambalagi [37] [rectius: Amba Alagi, in Etiopia]. Alle 6 del mattino 27 gennaio l’Ammiraglio, il Generale Lamberti [38], ufficiali e borghesi con treno speciale si recano a Dogali. Nella piazza di Massaua, in questa stagione, lo sguardo è rallegrato dai verdi campi di dura [?]. Nuove scene offre la natura in questi luoghi colla loro serie di grigiastre colline e coll’altipiano maestoso indorato dalla prima luce del giorno. Le borgate di Adeberai, di Atumlo, Monkullo [rectius: Moncullo [39], Eritrea]; i forti Umberto e Vittorio Emanuele! Lunghe carovane s’avanzano con some di foraggio; muli camelli [sic], lenti, aratri… Carovane andanti, carovane di ritorno da Adigrat. Di tanto in tanto si vede su di un’altura un’aquila od avvoltoio. Che immobili stanno al passare del treno. Il treno lascia sulla sinistra la collina donde gli Abissini fecero strage dei nostri. Fra il verde delle gaggie selvatiche e sul rossastro della roccia; si alza la colonna marmorea ai caduti del Gennaio 86 [rectius: 1887]. Mesti, taciturni abbiamo percorsa la salita, calpestando quegli sterpi che forse avevano avuto vitalità dal sangue nobilissimo dei prodi. I naih (sindaci dei vicini villaggi) erano alla funzione. A capo scoperto abbiamo ascoltato la messa detta da P. Michele da Carbonara su di un altare improvvisato. Lo sguardo errava tra le tombe, semplici a forma di rettangolo. Pietruzze bianche vi disegnano sopra una croce e l’erba vi cresce… invece dei fiori che in patria una pia mano v’avrebbe posti. Alfine della messa P. Michele con parola commossa ha commemorato i defunti che “ci hanno insegnato a compiere un dovere col loro sacrificio e che la religione, nobilitando ogni puro affetto, ogni aspirazione; c’insegna che quelli volgarmente chiamati morti non sono tali ma vivono sul nostro pensiero!”
De profundis clamavit… De profundis diceva il frate e la mente superando la barriera dei monti corre ad altre alture. Requiescant in pacem! Ed il pensiero corre al difensore di Macallè, a Galliano [40]! “Ora che il ministro della religione e della pace ci ha invitati alla preghiera e che tale preghiera abbiamo a Dio elevata nei nostri cuori io porgerò ai caduti di Dogali il saluto dei compagni”... Così ha iniziato le sue parole il Generale Lamberti il quale credevasi sicuro interprete dei sentimenti regali, inviando in nome del Re, il cui cuore batte per la patria, un saluto ai caduti. Oggi pure, aggiunge, come a Dogali ed Ambalagi, il numero prevale: possa però arridere la vittoria! “Orgoglioso di comandare la nave che dal fatto di Dogali trae il nome; il Comandante del Carretto depone una corona di bronzo sul monumento degli eroi augurandosi che il nome sia di esempio. La truppa presenta le armi. Quindi soldati, marinai, tutti strappiamo un fiore selvatico, un po’ d’erba quale ricordo. La colonna del monumento è piena d’iscrizioni e curiosi commenti di soldati. Ricordo questa: “Ahi! Dura terra perché non t’apristi. “E questi mori non inghiottisti”
E poi: “Io N…. N…. mi dichiaro fratello dei fratelli uccisi e volontario sono venuto in Africa a vendicarli” Ai piedi del colle vi sono i due cimiteri abissini; la loro grandezza dà maggior gloria ai nostri caduti. Oggi il telegrafo ci annunzia che il Tenente Colonnello Galliano si è congiunto colle nostre truppe ad Adagamus [Etiopia]. Onore al glorioso soldato; onore a chi ha saputo per tanti giorni difendere un posto [Macallè] dagli attacchi di un esercito. Galliano soldato nell’animo, fu posto da Arimondi [41] come sentinella avanzata di una posizione da servire di Ostacolo al nemico, onde dar agio alle nostre forze di ordinarsi e prepararsi. Però la notizia che il presidio è libero per opera di Maconnen [42] produce un’impressione dolorosa. Quali i patti [43]? Agli ignari del vero ciò potrebbe far credere a costumanze cavalleresche di un popolo… barbaro! È una liberazione… o si sacrifica l’onore? Ritornai da P. Michele e tra l’alto [sic] mi accennava alla Colonia Agricola di Keren. Mi diceva che oltre gli altri nemici, si ha più a combattere lo sconforto che un’invasione di cavallette può portare. Vengono a nuvole; e dopo il loro passaggio tutto è squallore. A tale danno ripara in parte l’Abissino col seminare in tre epoche differenti, nella speranza che una almeno sia risparmiata. Si raccolgono talvolta le tre seminagioni… ma se i coloni appena giunti hanno un’invasione di cavallette; quale sarà il loro morale? Poi P. Michele, col confronto di altre nazione, mi diceva che noi manchiamo di calma e propositi nel colonizzare: ed a poco a poco colle continue lotte vediamo da Massaua sparire il traffico che solo dalla pace che le carovane potrebbero trovare all’interno sulle loro vie; ci potrebbe essere assicurato.
3 Febbraio [1896]
Stamane il Generale Lamberti parlava con l’Ammiraglio Turi. Si tratta di 25000 uomini che si trovano dinanzi ad un esercito di 80000 armati. Qual’è [sic] il concetto che guida il nemico. A giudicare dalle sue mosse si scorge che le posizioni assunte sono intese ad obbligarci a mutare le linee d’operazione. In adigrat [sic] avevamo il quartiere generale a Makalle era un ostacolo ad una marcia diretta che il nemico non avrebbe compiuto per non trovarsi in condizioni vantaggiose di territorio. Ad Adagamus è trasferito il comando: la brigata indigena è in linea avanzata. Il nemico lascia queste posizioni dopo la cessione (?) di Macalle e si dirige verso l’Ansen… La brigata indigena ripiega naturalmente di nuovo su Adigrat e quindi su Alequa [o Alegna]. Quali le supposizioni? Sembra che il Negus intenda proseguire per Adua - Axum e ivi farsi incoronare.
E dopo? Ritornare in vista di una lotta forse vantaggiosa colle glorie intanto di una vittoria (Ambalagi) e di una capitolazione (Macalle). E non è la più brutta ipotesi quella della ritirata.
In caso contrario da Adua può dirigere su Godofelani ed a Gura e Digsa nell’[incomprensibile] il centro della colonia favorevole al Negus. A Godofelani abbiamo un battaglione, ad Adi Dokala [?] qualche centinaia. Ma si possono considerare questi come due punti di resistenza.
All’Asmara, ad Adiaaga [?], a Digsa, a Gura vi sono forti…, ma l’armamento è limitato. In ogni caso la presente linea di operazione N[ord] S[ud] si dovrebbe abbandonare o spostare impedendo l’accesso all’Amba Cusai [?]. Ed il tentativo ci è sfavorito dalle condizioni locali poiché alte catene corrono normalmente alla linea di marcia raggiungendo nel M. Alegna (3166 metri) in Ataka 3127, in Aya 2988. Linea tattica possibile sarebbe quella di Debradamo (2285). Saremo obbligati a lasciare ad Adigrat un battaglione e con queste nuove truppe in diminuzione del corpo operante avremo 20.000 uomini contro 80.000. È una guerra difficile della quale il paese non ne apprezza l’entità, in cui nuove forze sarebbero utili, forse indispensabili per un’azione energica:
1) Difendere la linea Asmara-Ocule Kusai [?] con forti presidi ed evitare che Kassala [Cassala [44], Sudan] sia tagliata fuori.
Presidio in Assato.
2) Procurare lo sbarco a Dongareta per marciare sull’Harrar e razziando impedire il rifornimento.
Ma perciò; oltre gl’intoppi politici e finanziari, difficile è lo sbarco in una rada aperta ai venti, che obbliga a traversare una zona deserta in cui il punto più vicino di appoggio è Zeila (80 miglia geog.). Insomma una spedizione nella quale oltre i viveri per buon tratto si sarebbe obbligati a portare l’acqua.
Lo Scilla è tornato da una missione sulla costa di Eid, missione nella quale il comandante si è convinto che lo sbarco di armi era stato effettuato e si effettuava. È strano in vero il pensare come sia stata trascurata dai Governatori la vigilanza delle coste e luoghi d’ancoraggio come Eid favorevoli ad ogni operazione anche per parte di una grossa nave. Sarebbe ben stato semplice stabilire dei posti di guardia litoranei, i quali impedendo il rifornimento, ci avrebbero fatto conoscere dai nostri sudditi, avremmo loro dato fiducia colla presenza nostra; avremmo impedito “che pel territorio nostro i nemici nostri si rifornissero”. Lo Scilla ha catturato un sambuco con 23 schiavi. Il sottotenente di vascello Casano inviato nelle acque di Eid a visitare un sambuco, con un a barca a vapore con 4 uomini si dirigeva verso l’imbarcazione nella quale gli uomini vi affrettavano a salpare l’ancora. La bandiera egiziana fu alzata da loro dopo un colpo di fucile in bianco; avvicinandosi la barca alcuni del sambuco fuggivano, obbligando il Casano che si trovava alle prese con 7 uomini armati di coltello a tirare sui fuggitivi uccidendone uno. Perquisito il sambuco sotto un falso ponte si trovarono 23 schiavi, bimbi dai 5 ai 12 anni, alcuni di età maggiore ed appartenenti alla popolazione dei Galla una delle più laboriose specialmente per le donne adibite ai lavori più gravi. Fra gli schiavisti vi era un asiatico che asseriva essere un passeggiero e una donna che diceva sua moglie. Io li ho visti tutti a bordo della Scilla e rammento l’impressione diversa dei due quadri. A prua sulla plancia vi erano i bimbi che mangiavano nelle scodelle dei marinai. Alcuni sorridevano altri erano seri, tutti avevano lo sguardo dolcissimo.
Alcune fanciulle erano graziose e vedendoci si coprivano il seno colla futa [45]. Due dei piccini erano evirati. Ed in generale si scorgeva una certa indifferenza frutto dello spirito di predestinazione che essi sentono: Sembrava loro di non essere stati tolti alla schiavitù, ma di essere passati ad un padrone più ricco. Uno dei ragazzi era gravemente malato di tifo ed all’avvicinarsi del Casano: sorrise come per ringraziarlo. Hanno raccontato che erano coperti da materiali nel fondo della stiva: che gli schiavisti passavano sui loro corpi, che alcuni malati gravemente erano stati gettati in mare. A poppa colle mani e piedi incatenati vigilati da un marinaio erano gli schiavisti [46].
Non dimenticherò quei volti neri e quegli sguardi biechi. Né dimenticherò un vecchio asiatico quasi cieco di aspetto bruttissimo. Aveva vicino a se [sic] la donna, che durante tre giorni nessuno aveva potuto vedere restando essa sempre nella stessa posizione, avvolta da una futa nera. E se aggiungo al quadro gli zaptiè [47], i padri missionari, le suore [48], la scena diventa caratteristica.
Si mossero tutti: i bimbi coi Padri Cappuccini, le ragazze colle suore e poi i prigionieri l’uno dietro l’altro incatenati. Veniva per l’ultima la donna che dava la mano al compagno cieco dal lurido aspetto.
La piana di Ailet
Vera sorpresa mi ha recata la gita nella splendida piana di Ailet [Eritrea]. Dopo un ora [sic] di ferrovia da Massaua si giunge a Saati e col proposito di visitare quei luoghi più che dar disturbo ai volatili, presi il fucile e mi recai nelle vicinanze. Il sole declinava ed in breve scomparve per dar luogo alla notte che rapida viene in queste latitudini. Mi accompagna un moretto dalla faccia intelligente e che con gran cura mi indicava dove vi posava la selvaggina; ma la mia attenzione volgevasi alla natura ai colli dalle tinte brune, alle macchie di lentischi mentre un grato odore di menta e gaggia profumava l’aria mite della sera. Ritornai pel pranzo e quindi alla cameretta con due letti dalle coperte di un colore molto indefinito ma… sudicio certamente. Badi, aveva detto l’albergatore, questa finestra da [sic] sulla montagna e gliela chiudo per l’aria poco sana; questa di fronte è bene tenerla chiusa per le bestie” Nell’andarsene ci consigliò tener chiusa la porta “perché non si sa mai”. Guardai la quarta parete… non aveva alcuna apertura!
Mi addormentai al suono di accordi di rane e grilli: due volte mi svegliai nella notte, l’una volta al passaggio di una compagnia, l’altra dal triste urlo della iena. Fu alle quattro del mattino che ci mettemmo in moto e gli ascari ci attendevano coi muleti [sic]. Prima che io inforcassi il mio destriero; vidi che gli diedero una solenne bastonata: era per correggergli il vizio di dar gruppate!
Ci mettemmo in moto l’uno dietro l’altro lasciando le briglie nel collo della bestia onde lasciarla più libera nel cercarsi il sentiero… Era scuro ancora; di tanto in tanto si scorgeva uno sciacallo che di fretta traversava la via. Spuntava il giorno e rimanevo meravigliato da tanta bellezza della natura! Amene colline, valli del fieno rigoglioso, alberi verdeggianti da cui rami pendevano numerosi nidi ed un armonioso suono di fringuelli, usignoli; e mille altri dai colori più smaglianti.
Traversammo la gola di Ailet, gola aspra rocciosa in cui le montagne elevate che la fiancheggiavano lasciano uno stretto passaggio ed una striscia di cielo solo si scorge in alto, mentre sotto vi è il solito verde, il solito cinguettio. Quando dalla stretta si viene nella vasta pianura di Ailet: l’ammirazione è grande! Figuratevi un campo vastissimo, circondata da colline e da monti, che la vegetazione la più rigogliosa, giardini, boschi di gaggia, campi di fieno in cui la persona è coperta. E dovunque un profumo di fiori selvatici. Di tratto in tratto si sollevano gruppi di galline faraone, branchi di francolini, voli di quaglie, stormi di tortore. In uno spazio più deserto tra [rectius: tre] sciacalli si fermarono ad un cento metri da me a guardarmi. Non avevo un fucile a palla! Cacciando mi ero diviso dagli altri due compagni; i numerosi giri pei boschetti e campi mi avevano fatto perdere il sentiero e quando si trattò di tornare non sapevo dove recarmi. Non scorgevo le capanne di Ailet, da ogni lato avevo colline; il sole era coperto da nubi e cominciava a piovere. Procedevo con un francolino sulle spalle; non sapendo dove andare e sperando trovare un sentiero… Ero soddisfatto di avere un fucile e della selvaggina sulle spalle.
Dopo un’ora di giri e dopo una serie di colpi di fucile in cui altri mi risposero ero a colazione con gli amici. Facemmo prima una visita al villaggio di Ailet, estesa riunione di capanne in paglia simile a quelle costruite dai nostri contadini. Un notabile del paese c’invitò a bere il cafè; mentre il figlio dello Sceik (Sindaco) un bel giovane che parlava bene italiano, c’invitava alla casa paterna a bere il latte. Accettammo intanto il primo invito: nel tucul ci offrirono da sedersi sull’angolo rem [?] mentre quei di famiglia stavano per terra su stuoie. Bisognava non usare scortesia e sopportare quel locale dall’odore ingrato di fumo. Il cafè fu pronto in breve, e quando scorsi che sul beccuccio della vecchia caffettiera ponevano come filtro un po’ di stoffa strappata all’angareb [49]; pensai che bisognava lasciare certe idee; e più me ne convinsi alla vista di una sudicia tazza nella quale per primo bevve il padrone onde assicurarci che non v’era veleno. Bevemmo poi tutti noi nella medesima… Il cafè aveva almeno il merito d’esser buono. Andammo quindi dallo Sceik; facemmo i saluti d’uso e bevemmo del latte squisito. Nel ritorno mi capitò una scenetta graziosa… Tenendo il muletto per la briglia, mentre ne ero disceso, questi se ne fuggì ed a me non restava che la prospettiva poco sorridente di dieci chilometri a piedi. Un signore che ci accompagnava, gridò in arabo ad un pastore di fermare il muletto, ma il pastore fingendo di non aver inteso si addossò alla montagna per schivarci. Rapidamente il signore corse sul moro e l’afferrò pel collo; nel mentre che questi cenava valersi di un scia[bola] della cui elsa il primo s’impossessò. Fin allora io non avevo capito nulla della discussione, ma vista la scena afferrai stretta io pure la sciabola e strappai dalle mani del pastore che minacciato col fucile (era scarico!) ebbe ordine di prendere il muletto. Quando lo scorsi colla bestia; gettai lontano l’arma: montai in sella sorvegliato dai compagni miei. Il nero fu posto in libertà e rammento quale sguardo d’odio mi rivolse nel mentre che dalla rabbia coi denti strappava un sacchetto che aveva al collo. Ed infine dirò di un’avventura comica. Il mio compagno di caccia era un vero cacciatore -, la sera innanzi aveva subito ammazzato due lepri che si era affrettato a mandare a Massaua. Ma ad Ailet ebbe poca fortuna, né poté prendere nulla. Nel mentre che sulla piana facevamo colazione, demmo quattro cartucce ad un ascaro che dopo mezz’ora ritornò con 3 francolini ed una cartuccia ancor buona. Quale non fu la mia meraviglia; quando il cacciatore che alla proposta da me fatta nel mattino di ordinare all’oste di procurarci della caccia, nel caso fummo nati sfortunati onde mantenere il nostro decoro di cacciatori; mi aveva risposto che selvaggina non ammazzata da lui non avrebbe mai portata; quale non fu la mia meraviglia, quando con la massima calma si prese due francolini, dando il terzo a me dicendo: “Così diremo a bordo, che ne abbiamo ammazzati due per ciascuno”. Palabras, palabras! dicono gli spagnuoli.
La coscienza mi ricorda e confesso che non serbai tutto il segreto dell’avventura: lo raccontai ad un mio amico, colla promessa che non [il periodo resta incompiuto, Ndr]. Ma il fatto dell’ascaro fu oggetto di parecchie satire e frizzi… che con molto spirito l’amico cacciatore durante tutta la campagna finse di non comprendere.
2 Marzo [1896]
Tutto è perduto! Il telegramma di Bodriero ci getta nella costernazione più profonda: Le parole mancano… È la debacle. Il giorno 2, Salsa [50] telegrafa da Mai Maini sulla linea Adi Ugri – Adi Kaje [51] che ritornò con una colonna di truppe. Perdura l’incertezza sulla sorte di Baratieri, nonostante il telegramma di Salsa che accenna alle voci che il Governatore sia ad Adi Ugri.
Il 3 Marzo si ha notizia che Baratieri è ad Adi Kaje. Più tardi il maggior Ameglio telegrafa che una colonna di 1500 bianchi ed indigeni torna per Adi Ugri ed egli ne protegge la ritirata.
Dai comandi di tappa sono segnalati i fuggenti i gruppi disordinati che passano. È la fuga!...
In Italia ormai debbono conoscere la sciagura che li ha colpiti. Da ogni parte giungono telegrammi: Adigrat è in nostro potere. Pare che le truppe si concentrino su Asmara.
Ad impedire un colpo di mano su Massaua, facile al vincitore; le navi dalla mattina del 3 Marzo hanno preso il posto di combattimento lungo la costa di Archico Massaua. L’Ammiraglio Turi assume temporaneamente il governo, il Generale Lamberti parte per l’altipiano.
Ghinda Marzo 96
Sono sull’altipiano nella palizzina [sic] del Governatore a Ghinda [52]. Mentre eravamo a tavola ieri venne il Colonnello Brusati [53] di ritorno da Massaua, e per invito del generale Heush [54] e del Gen. Gazzurelli [55]; il colonello narrò la battaglia di Semaiatte [rectius: Semaiata] che mi provò a riferire [“]dolente che la memoria possa farmi male ricordare dei fatti o dimenticarne altri[”]. Egli comandava uno dei reggimenti della brigata Arimondi.
[“]Fu il giorno 28 [febbraio], disse, che col pretesto di eseguire una fotografia si riunirono i generali a consiglio [56]. Al ritorno di Arimondi, dalla sua faccia capii che vi erano novità, ma alle mie richieste rispose che niente v’era di nuovo. Il giorno seguente [29 febbraio: il 1896 fu bisestile, Ndr] ai generali era inviata una copia delle disposizioni di marcia con un annesso schizzo delle località: istruzioni trasmesse poi ai comandanti di truppa.
Le disposizioni erano di marciare su tre colonne: Brigata Albertone [57] a destra, Arimondi al centro, Da Bormida [rectius: Dabormida [58]] a sinistra. La brigata Ellena [59] in appoggio e dietro al centro. Obbiettivo l’occupazione dei colli di Indamies [?] e Kidane [rectius: Chidane Meret] disegnate sulla cartina. La brigata Arimondi doveva appoggiare il fianco minacciato. Non erano indicate le linee di ritirata. La brigata Arimondi messasi in marcia alle 7, dovette nel suo percorso attendere circa un’ora e mezzo per far defilare la colonna Albertone. Non rispondendo lo schizzo alle posizioni assegnate due ore prima del previsto. Il terreno che percorrevamo era poco favorevole alla marcia: pietre e cespugli. Secondo l’ordine di appoggiare il fianco attaccato noi facemmo sosta e la truppa fece un po [sic] di rancio. Alle 9 udendo delle fucilate e non vedendo nulla per le colline vicine invio col permesso di Arimondi una compagnia in osservazione; mentre Aspaghi mirava un battaglione. La nostra posizione era poco conveniente; su di un’altura che dava un vasto angolo morto alla Artiglieria e con un monticello che impediva dominare la posizione dal lato più conveniente. Mi recai io stesso per osservare ciò che avveniva; ma tranne il rumore delle fucilate che per altro non ci pareva indicassero un’azione a fondo; non ci accorgemmo d’altro.
Richiamate le truppe in osservazione noi potevamo avere circa 2200 uomini. Prima delle 10 del mattino vedemmo il rovesciarsi della brigata Albertone e dalle nostre località non potevamo neppure iniziare un fuoco efficace contro il nemico, il quale unito ai nostri l’incalzava, l’inseguiva corpo a corpo. Entrammo in combattimento contro una forza non inferiore a 30.000 uomini.
Gli Scioiani si avanzavano a piccoli gruppi, valendosi delle risorse naturali del terreno, strisciando, confondendo il color loro con quello della terra. Comparivano di tanto in tanto dietro al monticello e la batteria vi dirigeva i suoi colpi. Lungo il primo… aggiustato il secondo…; ma limitati gli effetti appunto pel modo disgregati di procedere del nemico. Poco era da sparare dai pezzi: in quanto a quelli a tiro rapido se ne scorgevano i limitati effetti ad una piccola nuvola di polvere. Divisi in due parti, quali anche ai [spazio vuoto] che si allargano per restringersi poi moveva il nemico e noi non potevamo più fare assegnamento sulle difese naturali, poiché dalle creste di ogni altura, là dove pareva vano dubitare che uomo potesse giungere; era una scarica continua di colpi. Eroica la truppa! Superbo il contegno dei nostri ufficiali. Pareva un esercito di piazza d’armi… senza il vociare solito. Cadevano ai loro posti i soldati.
Era dato intanto ordine al battaglione Galliano della brigata Ellena di venire in nostro appoggio… Ma la marcia fu lentissima: era la marcia di gente stanca che dalla precedente sua muoveva per aspri terreni. Il battaglione giunse, ed occupate l’alture: ai primi colpi questo battaglione provato da vari combattimenti: questi mille uomini da cui tanto speravasi furono i soli ad onore dell’esercito a rovesciarsi dandosi, dopo alcuni minuti alla fuga, lasciando i loro ufficiali, il loro tenente colonnello innanzi al nemico. Riferisco la voce che correva nel campo a scusa di questa gente – che secondo la resa cioè il battaglione non doveva più ritornare al fuoco. Decimati, circondati non ritrovando più il Generale Arimondi, diedi ordine per la ritirata – mancando però istruzioni per le linee di ritirata, scorgendo le insegne del comando mi diressi a quella volta.
Riportavo 1500 uomini sotto il fuoco continuo. Di tanto in tanto i nostri, quasi inconsci della situazione, sostarono per guardare intorno con infantile curiosità… ed io l’incalzavo!
Il nemico si afferrava persino alle spalle dei nostri il mio aiutante dovette difendersi da cinque scioiani. Così si operava la ritirata. Il generale Baratieri non procurava di sostare e volgere la fronte, ma agli ufficiali diceva di aprirsi il passaggio colle rivoltelle in pugno. Di tanto in tanto gridava: Viva l’Italia ed i soldati levavansi il cappello al grido di Viva Baratieri. Fu alla sera che ci unimo [sic] ed il governatore ordinò che si sfoderasse la bandiera sin’allora ben chiusa nell’astuccio. La bandiera fu piantata al suolo e cadde, ripiantata ricadde… così per la terza volta!! Alfine stette. Il Generale suonò il gran rapporto: Signori, disse, oggi la sorte ci è stata avversa. Il contegno degli ufficiali fu eroico come il solito. Per la truppa oggi è stato il giorno della vigliaccheria! Ed avevo visto - (proseguì Brusati) questo esercito calmo, fermo al suo posto… avevo potuto conoscere centinaia di atti eroici. Così rammento di un soldato colpito ad un occhio, che all’invito di andare all’ambulanza, mi risponde che ci vedeva con l’altro per far fuoco. Così un ferito alla gamba mi risponde, “che tanto, debbo morire; è meglio restare a continuare a far fuoco …”. Così un gruppo di soldati lasciano la protezione che accordava loro un monticello di sassi e vi salgono sopra in vista del nemico; perché così vedevano meglio. Questa è la più grande colpa di Baratieri quello di aver tentato di mettere il disonore sull’esercito”. Ricordo lo scatto improvviso del Generale Heusch, che con voce piena di sdegno si domandava se era possibile che mentre centinaia di fatti provavano il contrario, se era possibile che un uomo cercasse protezione dietro lo scudo del disonore lanciato sul suo esercito innanzi al mondo. Iniziatesi le discussioni, Brusati veniva ad altre particolari. Diceva che si era infiltrata negli ufficiali, nella truppa in lui stesso l’idea che la notizia dell’azione fosse falsa, quattro volte essendo restati delusi nella speranza. Così nella famosa ricognizione – citata dai Bollettini – era stato pur dato ordine che non un colpo fosse sparato. Così si videro i due battaglioni avanzarsi il terzo in appoggio… giungere anche a meno di mille metri dal nemico e quando questo pareva muoversi ritirarsi subito in bell’ordine. Cosi fui io pure inviato in ricognizione col mio reggimento, mentre si sapeva che la collina da esplorare era solo occupata da una trentina di uomini che distinguevo perfettamente col mio cannocchiale. Giunto loro vicino, accolto da poche fucilate, dovetti ritornare secondo gli ordini avuti. Altra credenza nostra errata è il supporre che il tiro utile degli indigeni sia alle brevi distanze, mentre accerto che a distanza di 1200 metri avevano un tiro aggiustato. Fra gli errori politici deve notarsi quello del servizio d’informazioni, che invero potrebbe dare risultati buoni se affidato a volenterosi plotoni di ufficiali. Noi abbiamo informatori del paese che ci danno le notizie; ma è gente a doppia faccia: che ad un campo narra ciò che si progetta all’altro e naturalmente per simpatia di colore da [sic] la preferenza ai nostri avversari. Quali le ragioni che condussero Baratieri all’attacco, mentre 7 giorni prima aveva ordinato la marcia su Adi Kaie, quando il 1° Marzo si possedevano solo 5 giorni di viveri[?]. Forse le notizie date da cattivi informatori che parte delle truppe nemiche si allontanava alla ricerca di viveri e che parte ripiegava su Adi Kaie? Ma anche vittoriosi come potevano mantenere le posizioni occupate?
Si discusse il modo col quale – stabilito l’invio di Baldissera [60] – bisognava far cedere il Comando al Governatore [Baratieri]. Brusati diceva che bisognava telegrafare: “Da questo momento cessate di esser comandante delle truppe”; ed avendo soggiunto Heusch che doveva ammettere che un generale aveva sentimenti più alti dei personali; Brusati rispondeva: Vede io parlo cosi perché anch’io subisco l’influenza di quest’aria africana in cui le molecole debbono avere un malefico effetto sugli animi umani. Il Generale Gazzurelli sosteneva che bisognava telegrafare. Lasciate il comando al Generale Lamberti ed a questi nell’attesa di Baldissera dare istruzioni di non impegnarsi se non in circostanze gravissime. Alfine Brusati esponeva il suo giudizio riguardo il modo col quale altra volta si sarebbe comportato innanzi al nemico. Egli dice che pur avendo un limitato fronte innanzi a sé, bisognava disurnirsi [sic] per usare subito la tattica dell’accerchiamento. A questo contrappone perciò un’azione basata sull’inviare al centro un reparto fidato, esiguo ma su vasta fronte, riunendo le truppe, riunendo le truppe in grossi nuclei ai fianchi. È una guerra speciale, nella quale se i principi elementari tattici restano; ma le condizioni sono diverse mancando il principio dell’utilizzazione del terreno. Il nemico è favorito invece dallo spirito comune a tutti i montanari, di sapervi valere delle località giovandosi dell’agilità; e di quello spirito di guerra che è scopo unico e solo della loro vita.
Ricordi di Asmara
Gli Ascari. Gli ascari! Splendida truppa. Ecco l’impressione che ne ho provata, ecco l’elogio più conciso che posso farne. Divisi per buluc [61], io li ho visti eseguire le varie esercitazioni, ed ho ammirato in essi l’uniformità dei movimenti, il portamento altero e dignitoso, l’agilità straordinaria. I bulucbasci (sottoposto [?] indigeni) davano i comandi a voce alta secondo la teoria italiana e pronta e perfetta ne era l’esecuzione. Di tanto in tanto udivo un rimprovero collettivo: “State attenti, da capo, male…” ed a queste seguivano parole arabe, abissine o tigrine in particolare rivolte a Maohmud, ad Ali a Mangascia… per richiamarli al dovere. Coi loro vestiti bianchi, di un bianco candidissimo, colla fascia celeste alla cintura sulla quale vi è la cartucciera di cuoio rosso, col fez rosso ed il fiocco celeste, colle gambe nude che da lungi parevano coperte da gambali neri…, il buluc aveva una grande eleganza. Quando si pensa che la unità minore o boluh [?] è l’aggregato di uomini di lingua, di religione diversa un giorno nemici e che domani potrebbero diventarlo nuovamente; ben si comprendono le difficoltà gravi che si presentano all’ufficiale proposto agli indigeni per tenere a freno, educare un elemento eterrogeneo [sic].
Eppure è dall’unione dei vari abitanti delle provincie, che sorge il vantaggio di aver gente pratica delle località, gente che dotata di naturale percezione fra gli sterpi e fra i sassi segue un sentiero che altri non vede. Un semplice fatto accorso alla mia presenza, dimostra l’elemento che l’ufficiale ha sotto i suoi ordini. Allorché devesi fare distribuzione di carne; si è in grave imbarazzo poiché se il numero dei bestiami non può essere diviso fra Cristiani o Maomettani, si può essere certi che in quel giorno gli uni o gli altri non mangeranno, non essendo stata uccisa la bestia da un correligionario. Ero a pranzo da un tenente indigeno il quale aveva due ordinanze, l’una abissina l’altra araba; Essendo avanzato un bel pezzo di carne l’offrì all’arabo e questi ringraziò, poscia all’altro che ringraziò egualmente. Così la carne fu buttata via; e domandando loro perché non la mangiavano, mi risposero: Io non avere cinfato (visto) chi avere ammazzato.
Eppure combattono al fianco l’uno dell’altro e tutti sono eroi, finché si va avanti… finché si fa l’ultimo passo avanti. Ma guai se le spalle si volgano al nemico! Quella gente che non avrebbe lasciato superstiti avanzando… fuggirà subito. L’organizzazione degli ascari è del tutto speciale. La loro ferma è di un anno…, sono volontari. Compiuto il servizio possono rinnovare l’arruolamento, mentre i licenziati sono ascritti alla milizia mobile. In caso di guerra naturalmente sono chiuse le operazioni di congedamento. L’ascaro appena entra in servizio riceve 25 lire di prima vestizione; in seguito deve pensare al suo corredo; semplice ma elegante. Nelle sedi stabili come a Ghinda, come ad Asmara, Adi Ugri... vi è il campo degl’indigeni loro riservato, costituito da tucul ne’ quali vivono gli ascari colle loro famiglie. Del resto in qualsiasi luogo costruiscono subito capanne e l’accampamento degli ascari è sempre pittoresco.
Quando il battaglione è in marcia, gli ascari viaggiano colle loro famiglie. Ho potuto conoscere il rispetto, l’affezione che essi nutrono verso gli ufficiali. Dotati della furberia che tanto distingue la loro razza, comprendono subito se il superiore loro preposto ha coraggio, fermezza; se li potrà dominare. Ed è dopo la prova del fuoco che essi formano il loro giudizio: e nel caso il rispetto si trasforma in venerazione e dai capi sono dati soprannomi di “Figlio del fuoco” – “Leone di guerra”. Questa la truppa da noi formata, valorosa, obbediente, affezionata.
Nokra
Sono andato a Nokra per ritirare dei prigionieri – capi di tribù da inviarsi in cambio dei nostri ceduti ad Adigrat. Il grande gruppo della Daalac [Dahlac] (che fronteggia Massaua) colle sue numerose isole forma la parte centrale del canale est di Massaua. Tra le sue isole principali vi è Daal Gebren [?] con un villaggio situato nella parte Sud; mentre altre isolette tutta la circondano.
Tra i numerosi canali il più importante è quello che ha l’isola di Nokra e Ras Bulul immette nel Gubbet Mus Nefit un vero lago per la sua ampiezza (circa 8 miglia), ottimo per gli ancoraggi; ma non agevole alle navi maggiori per il canale pericoloso per i suoi bassifondi. Bassissima è la costa e l’isola di Euletera [?] verso l’entrata mal si distingue pel colore biancastro della sua sabbia. I bassofondi di Ras Ilet e Ras Bulul si estendono in modo diseguale sui due lati della terra visibile.
Rilevante la corrente con cangiamenti di marea, e le navi a questa debbono fare attenzione sovratutto. Di poco aiuto per la loro posizione sono alcuni segnali, e mentre un altro con pallone individuerebbe l’entrata del canale, questa poco si scorge proiettandosi l’imboccatura a gomito sulla costa. Ho visto Nokra nella stagione calda e quel po [sic] di luhene e i pochi arbusti che colla mite temperatura rendono meno triste la distesa dell’isola; erano ingialliti, bruciati dal sole. Il villaggio è formato da poche capanne costruite in paglia; sul tucul più elevato ventolava la bandiera italiana in segno di saluto. La popolazione vive di pesca e la pesca delle perle delle Daalac è grandissima. I sambuchi approdano al gruppo, fanno raccolta delle madreperla e ritornano a Massaua ove gl’incettatori le acquistano a vile prezzo.
Numerose e varie le conchiglie; tra queste bellissime le tridacne; gli scogli sono coperti da ostriche piccole ma gustose. A Nokra vi sono fornaci di gesso; l’acqua è scarsa e malsana. Per la sua posizione Nokra è stata scelta quale luogo di deportazione dei condannati. In Nokra le uniche costruzioni sono due fabbriche in muratura per condannati. Nei pressi la caserma dei carabinieri ed il [spazio vuoto] di zaptie. Un brigadiere, un sottobrigadiere, due carabinieri e 30 zaptie servono alla sorveglianza. L’acqua ed i viveri ogni 15 o 20 giorni sono portati da Massaua, ed è raro che approdino sambuchi non dediti alla pesca. Ho visitato i detenuti. Arabi, Tigrini, Dankali prigionieri di guerra, colpevoli di tradimento, di spionaggio e di reato comune; gente di credenza diversa e diversa lingua. Sui loro tavoloni, in piedi, appoggiati all’inferiate [sic] del carcere guardavano il mare… il mare che li divideva dai loro monti ove conducevano la vita libera e battagliera. Sino a pochi anni or sono molti morivano per la cattiva qualità d’acqua. Come vitto e vita non possono lamentarsi; talvolta sono adibiti a lavori stradali… ma chi rende loro la libertà dei monti? Mi colpì la vista di un Dervish, un giovane alto, robusto, dal colore dell’ebano, dallo sguardo pieno d’odio. Era un prigioniero di Adigrat.
Bibliografia
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Uoldelul Chelati Dirar, Collaborazione e conflitti: Michele da Carbonara e l’organizzazione della Prefettura Apostolica dell’Eritrea (1894-1910), in «Quaderni storici», 109 (2002), pp. 149-188. - Coccia 2005
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Christopher Seton-Watson, La politica inglese nei confronti della colonizzazione italiana in Africa Oriental (1880-1896), in Del Boca 1997, pp. 143-158.
Note
1. Il proprietario, Giovanni Luisè, aveva a sua volta acquistato il testo presso la libreria antiquaria napoletana di Bruno Pucci.
2. Collocazione: Biblioteca civica Gambalunga, SC-MS 1357.
3. Allievo della scuola militare di Parma, Achille Baistrocchi nel 1846 venne promosso cadetto nell’esercito parmense. Nel 1848 passò all’armata sarda col grado di sottotenente; venne promosso tenente dei bersaglieri nel 1859, capitano nel 1860, maggiore nel 9° bersaglieri nel 1871, tenente colonnello al 6° bersaglieri nel 1877. Trasferito al comando di battaglione d’istruzione di Maddaloni nel 1878, fu promosso colonnello nel 23° fanteria nel 1882 e comandante del Distretto militare di Bologna nel 1884. Collocato in posizione ausiliaria dietro sua domanda nel 1889, fu promosso generale della riserva nel 1894.
4. Dopo gli studi al Collegio militare della Nunziatella di Napoli, Federico Baistrocchi passò alla Regia accademia militare di artiglieria e genio di Torino, da dove nel 1889 uscì con il grado di sottotenente di artiglieria; nel 1896 combatté nell’ultima fase della guerra italo-abissina, mentre nel 1912 partecipò alla guerra italo-turca dove fu promosso maggiore ed ottenne per meriti di guerra la croce di cavaliere dell’ordine militare di Savoia.
5. Fu, infatti, deputato del Regno d’Italia nelle legislature XXVII, XXVIII, XXIX (24 maggio 1924 – 2 marzo 1939); sottosegretario al Ministero della guerra (22 luglio 1933 – 7 ottobre 1936); senatore del Regno d’Italia nella XXX legislatura (23 marzo 1939 – 5 agosto 1943); capo di Stato maggiore dell’Esercito. Considerato il “fascistizzatore” dell’Esercito, alla fine della guerra fu per questo processato ma venne prosciolto da ogni addebito.
6. https://www.narraremare.it/testi-di-arte-navale/.
7. Massimo Baistrocchi è nato a Karuizawa (Tokyo, Giappone) il 17 agosto 1942 ed è morto a Windhoek, Namibia, il 22 gennaio 2012. Figlio di Ettore Baistrocchi, dunque nipote di Alfredo, percorse, come suo padre, la carriera diplomatica.
8. Sia detto qui per inciso che anche suo fratello Federico, all’epoca sottosegretario al Ministero della Guerra, il 7 ottobre 1936 fu esonerato da Mussolini stesso, in quanto egli «si era dichiarato contrario all’intervento nella guerra civile spagnola» [Coccia 2005, 15].
9. Elementi di attrezzatura e manovra navale, Livorno 1907; Elementi di arte navale, 1921 (che dall’edizione del 1934 si avvalse anche di una prefazione del grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel).
10. Posta agli ordini del contrammiraglio Carlo Turi, comprendeva, oltre all’Etna, gli arieti torpedinieri Dogali, Etruria, l’incrociatore torpediniere Caprera, le cannoniere Curtatone e Scilla, tutte schierate intorno a Massaua.
11. Ad essa partecipò anche il fratello Federico, all’epoca tenente di artiglieria, che per questo suo impegno fu insignito della medaglia a ricordo delle campagne d’Africa.
12. La prefettura apostolica dell’Eritrea era stata eretta il 13 settembre 1894 con il decreto Ut saluti animarum di Propaganda Fide, ed ebbe sede nella città di Keren.
13. Proprio sull’isola di Nocra era stato istituito nel 1895 il primo campo di concentramento dell’Italia liberale, che fu utilizzato in seguito anche dal regime fascista (https://campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=48).
14. Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera iniziale Da’ colli Euganei, 11 ottobre 1797 (corsivo mio).
15. Molto probabilmente si tratta del colonnello Francesco Stevani, che era a capo del 1º reggimento bersaglieri d’Africa, schierato, nella battaglia di Adua, nella colonna centrale comandata dal Generale Arimondi.
16. In questo paragrafo è trascritta la seconda parte del diario Baistrocchi (ff. 56-74).
17. Alfredo Baistrocchi si trovava a trascorrere un periodo di licenza presso la famiglia a Bologna, avendo concluso da poco il suo percorso di studio ed esperienza sulla nave scuola Umberto, dalla quale era sbarcato col grado di ufficiale.
18. Pietro Toselli (1856-1895), maggiore, morì insieme a circa 2.000 soldati italiani nello scontro di Amba Alagi del 7 dicembre 1895 contro le truppe del negus Menelik II guidate dal ras Mekonnen.
19. http://www.agenziabozzo.it/navi_da_guerra/c-navi%20da%20guerra/C-0430_RN_FRANCESCO_MOROSINI_1885_corazzata_navigazione_equipaggio_sul_ponte_1890.htm.
20. https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/mezzi/mezzi-storici/Pagine/ABCD/andrea_doria_corazzata.aspx.
21. http://www.agenziabozzo.it/navi_da_guerra/c-navi%20da%20guerra/C-0357_RN_RE_UMBERTO_1888_nave_corazzata_a_Brindisi_nel_1917.htm.
22. Si tratta del governatore militare, all’epoca Oreste Baratieri, in quanto Ferdinando Martini (1841 – 1928), primo governatore civile dell’Eritrea, venne nominato nel 1897, rimanendo in carica fino al 1907.
23. Nello stato di Gibuti, era possedimento francese dal 1859, ampliato nel settembre 1884.
24. http://www.agenziabozzo.it/navi_da_guerra/c-navi%20da%20guerra/C- 2948_RN_Etruria_1891_incrociatore_protettto_all’ormeggio.htm.
25. https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/mezzi/mezzi-storici/Pagine/cannoniere/curtatone.aspx.
26. Giuseppe Edoardo Arimondi (Savigliano, 26 aprile 1846 – Adua, 1º marzo 1896).
27. Il contrammiraglio Carlo Turi (Napoli, 4.10.1838 – La Spezia, 23.08.1900) all’epoca era al comando dell’incrociatore Etna.
28. Oreste Baratieri (Condino, 13 novembre 1841 – Vipiteno, 8 aprile 1901), vecchio amico di Crispi, il 28 febbraio 1892 era stato designato dal re Umberto I di Savoia governatore della colonia Eritrea e comandante in capo del Regio Corpo Truppe Coloniali d’Africa.
29. Giuseppe Carbone (Carbonara Scrivia, 10 ottobre 1836 - 24 giugno 1910), prese il nome di Michele da Carbonara quando nel 1888 entrò nell’ordine dei frati minori cappuccini; nel 1894, quando la Sacra congregazione di propaganda fide decretò la separazione della colonia eritrea dal Vicariato apostolico dell’Abissinia e la sua costituzione in Prefettura apostolica, divenne il primo prefetto apostolico dell’Eritrea.
30. E sì che era stato padre lazzarista a Massaua nel 1838 Giuseppe Sapeto (1811-1895), il quale, per conto di Rubattino, aveva stipulato il contratto di acquisto di quel lembo di baia di Assab che fu nel 1882 rivenduto allo Stato, dando così il via all’avventura coloniale italiana [Labanca 2002].Tuttavia, nel nuovo clima diplomatico determinatosi con l’adesione dell’Italia alla Triplice alleanza, il sospetto (o l’accusa pretestuosa) che i lazzaristi francesi fomentassero le rivolte contro l’esercito italiano fu funzionale alla volontà governativa di nazionalizzazione delle missioni cattoliche in Eritrea.
31. Tela bianca di cotone molto soffice; il termine è passato poi a indicare la toga, fatta di tale stoffa, indossata ugualmente da uomini e donne.
32. Menelik II (nato Sahle Mariàm; 1844 – 1913), re dello Scioa, dopo la morte di Giovanni IV d’Etiopia (11 marzo 1889) con l’aiuto degli italiani, in cambio della promessa di favorirne gli interessi (Trattato di Uccialli, 2 maggio 1889), venne incoronato imperatore, Negus Neghesti (3 novembre 1889).
33. Mangascià Giovanni (1868 – 1907), militare etiope, ras del Tigrai, era figlio adulterino del negus Giovanni IV (il quale, secondo la tradizione, lo nominò suo successore in punto di morte).
34. Tradizionale imbarcazione araba con una o più vele triangolari o latine.
35. Il 25 gennaio 1887 vi si svolse il primo combattimento sostenuto dalle truppe italiane in Africa, all’inizio della colonizzazione dell’Eritrea.
36. 26 gennaio 1887.
37. 7 dicembre 1895.
38. Mario Lamberti (1840 – 1924) sarebbe stato vicegovernatore dell’Eritrea tra il 16 aprile e il 28 agosto 1896.
39. Da qui era partita la mattina del 26 gennaio 1887 la colonna di truppe italiane comandata dal tenente colonnello Tommaso De Cristoforis per portare i rifornimenti a Saati, ma cadde in un’imboscata degli uomini di Alula Engida nei pressi di Dogali, venendo completamente distrutta con la perdita di 430 uomini.
40. Giuseppe Galliano (1846 – 1896), tenente colonnello, è stato il primo ed uno dei soli sette decorati più di una volta di medaglia d’oro al valor militare, tra cui quella ricevuta per la battaglia di Adua, dove trovò la morte.
41. Giuseppe Edoardo Arimondi (Savigliano, 26 aprile 1846 – Adua, 1º marzo 1896), generale, caduto nella battaglia e decorato con la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
42. Ras abissino (1854 – 1906), cugino del negus Menelik, comandava le forze che sconfissero Toselli sull’Amba Alagi; ricevette la resa di Galliano a Macallè (22.01.1896), e partecipò alla battaglia di Adua (1 marzo 1896). Suo figlio ras Tafari Maconnen il 2 novembre 1930 fu incoronato imperatore d’Etiopia con il nome di Hailé Selassié.
43. Per salvare gli uomini di Galliano, Baratieri stipulò un accordo per cui, in cambio della cessione del forte, il negus concedeva un salvacondotto alla guarnigione per rientrare incolume nelle linee italiane. L’accordo venne accettato dopo un consiglio di guerra, e il 22 gennaio il forte venne sgombrato e consegnato agli etiopi.
44. Era stata conquistata da Oreste Baratieri nel luglio 1894, come conseguenza della sconfitta dei Dervisci ad Agordat il 21 dicembre 1893 da parte del generale Giuseppe Arimondi.
45. La futa (o fouta) è un pezzo di sottile tessuto (cotone o lino) originario della Tunisia ma utilizzato in molti paesi del Mediterraneo e del mondo arabo. Il suo utilizzo originale era quello di telo asciugamano nei bagni turchi (hammam).
46. Si ricordi che il primo provvedimento ufficiale dell’amministrazione coloniale contro la tratta degli schiavi dall’Etiopia e dal Sudan risaliva al maggio 1886 (Chelati Dirar 2002, 166).
47. È il nome, derivato dal turco zaptiye (polizia), con cui venivano indicati i membri dell’Arma dei carabinieri reclutati tra le popolazioni indigene africane tra il 1888 e il 1942.
48. Si tratta quasi certamente di suore dell’Ordine di Sant’Anna, che si curavano dell’istruzione elementare, soprattutto femminile, in molte città e villaggi eritrei (Cheren; Asmara; Saganeiti; Ghinda; Adi Caieh; Adi Ugri).
49. Letto tipico del Sudan e dell’Africa nord-orientale.
50. Tommaso Salsa (1857 – 1913) generale del corpo truppe coloniali dell’esercito.
51. Probabilmente Adi Caieh (Eritrea), che dall’ottobre 1935 fino alla metà del 1936 fu sede di un campo di prigionia fascista.
52. Cittadina eritrea situata tra Asmara e Massaua.
53. Ugo Brusati (1847 – 1936), colonnello dal 1891, divenne in seguito generale di corpo d’armata.
54. Nicola Heusch (1837 – 1902), all’epoca tenente generale, fu mandato al comando di una divisione in Eritrea, arrivandovi però dopo la tragica sconfitta della battaglia di Adua.
55. Filippo Gazzurelli (1836 – 1928) nel 1896 era in Eritrea al comando della 3ª brigata della 2ª divisione allora al comando di Heusch.
56. È la prima «delle note due riunioni nelle quali fu deciso l’attacco alle forze etiopiche. In essa Baratieri interrogò i generali intorno all’alternativa fra la ritirata (a causa delle difficoltà logistiche che avrebbero assicurato un vitto alle truppe solo per altri tre giorni) e la permanenza al campo. Nessuno […] ritenne opportuno arretrare» [Labanca 1993, 352].
57. Matteo Albertone (1840 – 1919), generale di divisione, prese parte alla battaglia di Adua al comando di una brigata di ascari eritrei, che, dopo una valida resistenza, fu distrutta ed egli stesso venne fatto prigioniero.
58. Vittorio Emanuele Dabormida (1842 – 1896), caduto nella battaglia di Adua, è decorato con la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
59. Giuseppe Ellena (1839 – 1918).
60. Antonio Baldissera (1838 –1917), generale, già a capo delle truppe italiane in Eritrea nel 1888, fu incaricato il 20 febbraio 1896 di sostituire Oreste Baratieri nella carica di governatore.
61. Derivato dal turco, dove però significa compagnia, il buluc era l’equivalente di un plotone delle truppe coloniali italiane; era comandato da un bulucbasci, equivalente al grado di sergente o sergente maggiore.