Presso la sede dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Forlì-Cesena, a Forlì, si è svolta il 26 novembre 2025 la seconda giornata del convegno Una riforma dimenticata? Società, rappresentazioni e storie del diritto di famiglia in Italia da 1975 a oggi, organizzato da Giovanni Focardi dell’Università di Padova e Domenico Guzzo dell’Università di Bologna e direttore dell’Istituto storico di Forlì-Cesena.

L’appuntamento rappresentava il secondo momento del convegno, seguito a quello svoltosi a Padova il 5 novembre precedente, e curato in quella sede dal Casrec, il Centro di ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea dell’Università patavina, co-organizzatore dell’intero progetto. L’incontro di Padova aveva avuto come titolo specifico Mezzo secolo dopo la legge n. 151. Dal diritto di famiglia a quali diritti per quali famiglie? e, pur accogliendo contributi di diversa provenienza disciplinare, aveva rivolto uno sguardo più spiccatamente “giuridico” alla riforma di cui si ricordano i 50 anni dall’approvazione: temi specifici delle due sessioni dei lavori erano stati infatti i Modelli di famiglia tra il diritto e la società e Le tante famiglie dentro e fuori il diritto.

Più nel dettaglio, Chiara Maria Valsecchi, dell’Università di Padova, aveva affrontato il tema dell’evoluzione del diritto di famiglia dal 1942 al 1975 tra “società naturale” e “formazione sociale” (come recitava il titolo della sua relazione); la ricercatrice indipendente Francesca Endrighetti si era concentrata sulle voci delle donne nelle riviste femminili prima della riforma; Eloisa Betti, dell’Università di Padova, aveva parlato del passaggio dalla riforma all’applicazione del diritto di famiglia, inquadrando il tema dalla prospettiva dell’Unione donne italiane tra manifestazioni, dibattiti e la creazione dei Gruppi giustizia; Giorgio Umberto Bozzo, ricercatore indipendente, si era invece confrontato con il tema della “famiglia negata”, ricostruendo il percorso del movimento Lgbt dalla diffidenza alla rivendicazione; Laura Schettini, dell’Ateneo patavino, si era diffusa sul nodo storiografico del rapporto tra il diritto di famiglia e la legittimazione della violenza di genere; Massimiliano Boni, consigliere della Corte costituzionale di Roma, aveva ricostruito l’istituto della famiglia nella Repubblica seguendo l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale dal 1956 al 1975; Lucia Busatta, dell’Università di Trento, si era concentrata sull’articolo 29 della Costituzione e sul concetto di famiglia che lì si proponeva evidenziandone limiti e aperture; infine Umberto Roma, dell’Università di Padova, aveva analizzato le tre forme di relazioni affettive di coppia (matrimonio, unione civile e convivenza di fatto) dalla legge n. 151 del 19 maggio 1975, alla legge n. 76 del 20 maggio 2016 (altrimenti nota come legge Cirinnà).

Il secondo tempo del convegno, svoltosi a Forlì, ha avuto per titolo Famiglie italiane attraverso la legge del 1975: una storia sociale, una svolta giuridica?, che fa già intuire come qui, rispetto a Padova, si sia invertita la proporzione e il taglio sia stato più, lato sensu, sociologico e culturale.

Dopo i saluti di Giulia Civelli, che ha ricordato come il Centro donna del Comune di Forlì, di cui è stata a lungo responsabile, sia stato il primo centro pubblico a costituirsi in Italia contro la violenza in famiglia (all’interno della quale si verifica la quasi totalità delle violenze), hanno preso la parola i due organizzatori, Giovanni Focardi e Domenico Guzzo per sottolineare come la giornata si caratterizzasse positivamente sia per la trasversalità delle competenze disciplinari coinvolte sia per la loro provenienza, collocata anche al di fuori dei recinti stretti dell’accademia.

La sessione mattutina, che aveva per tema le Famiglie tra rappresentazioni e realtà, è stata aperta dalla relazione della sociologa Ilaria Pitti (Università di Bologna), dal titolo Dal diritto alla vita quotidiana trasformazioni, continuità e questioni di genere nelle famiglie italiane, con cui la relatrice ha proposto una riflessione sulle trasformazioni e le persistenze che caratterizzano i rapporti di genere e generazione nelle famiglie e nella società italiana, a 50 anni dalla riforma del diritto di famiglia, interrogando il divario tra diritti sanciti dalla legge e la vita quotidiana. La sua riflessione ha illuminato tre nodi irrisolti dell’ordine di genere contemporaneo: 1) la persistenza di disuguaglianze nella divisione del lavoro di cura e del carico mentale nonostante i progressi normativi; 2) l’inadeguatezza dell’impianto giuridico del 1975 rispetto alla pluralizzazione attuale delle forme famigliari, sempre più distanti dal modello eterosessuale-nucleare; 3) i rischi di backlash che caratterizzano l’attuale panorama politico sui diritti di genere e di famiglia. Attraverso uno sguardo di genere e generazionale, l’intervento ha mostrato come la distanza tra rivoluzione normativa e vita quotidiana continui a rimodellare il significato stesso della cittadinanza familiare, sollecitando una riflessione sulle sfide ancora aperte per l’uguaglianza di genere in Italia.

Marco Bernardi dell’Università di Torino è intervenuto con una relazione dal titolo Bianco e nero o in tutti i colori dell’arcobaleno? Rappresentazioni della famiglia nelle trasmissioni RAI nei lunghi anni Settanta, con cui si è interrogato sul ruolo che ha svolto la televisione pubblica nel costruire l’immagine della famiglia, in un decennio di grandi trasformazioni sociali come i “lunghi” anni Settanta (1968-1980). Nel suo contributo la famiglia è stata osservata come oggetto di rappresentazione mediale, sia come specchio della realtà sia come modello da proporre. Basandosi su una ricerca fondata sulle fonti Rai, Bernardi ha presentato alcuni casi di studio, da cui emerge una coesistenza (e lotta) tra diversi modelli sociali. L’Italia degli anni Settanta è un vero e proprio laboratorio in cui si confrontano e scontrano diverse proposte sociali e valoriali. Si tratta di trasformazioni profonde che investono ogni aspetto della società, e il Sessantotto più che la causa è il reagente e insieme il contenitore che fa esplodere in maniera clamorosa i cambiamenti. Così la televisione si pone come specchio di tre Italie che coesistono e si confrontano: quella nostalgica e conservatrice, che rimpiange la tradizione e la figura paterna autoritaria e trasmette l’immagine di una famiglia tradizionale e rassicurante, un modello protettivo contro le incertezze sociali, ma al contempo anche una struttura rigida e patriarcale, che si oppone a ogni forma di emancipazione, in particolare quella femminile; quella progressista, che combatte invece per l’emancipazione femminile, il lavoro e la modernizzazione della famiglia, riflettendo un cambiamento sociale profondo e prestando attenzione ai diritti delle donne e al valore del loro lavoro al di fuori del contesto domestico, ma anche alla critica alle strutture familiari oppressive; e, infine, quella più leggera e disimpegnata, che prefigura le dinamiche degli anni Ottanta, caratterizzate da una visione più edonista e frivola dei rapporti familiari. Il ruolo della televisione in questo contesto va oltre la semplice riflessione delle trasformazioni sociali e contribuisce a costruirle, rivelandosi non solo un mezzo di comunicazione, ma anche un potente agente culturale, capace di alimentare il dibattito pubblico e, di conseguenza, di influenzare le percezioni collettive e le politiche sociali.

Monica Di Barbora (responsabile della sezione formazione e didattica dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri), con il suo Scene da un matrimonio. Stereotipi di genere nella fotografia di famiglia, ha riflettuto sull’uso politico, tanto in senso ampio che in uno più specifico, della fotografia di famiglia. Anche la sua proposta al convegno si basava su una sua più ampia ricerca ancora in corso sugli abiti da sposa come modo per raccontare la famiglia “tradizionale” in prospettiva intersezionale.

In particolare, attraverso la proposta di immagini fotografiche pubblicate in diversi contesti, Di Barbora ha articolato uno stimolante ragionamento sulle strategie retoriche e sulla costruzione dei generi che questa iconografia veicola, concentrandosi, nello specifico, sullo snodo della metà degli anni Settanta, in corrispondenza della nuova normativa sul diritto di famiglia.

Massimo Natale (Università di Verona) ha spostato il fuoco della riflessione sulla figura del padre nel Novecento e lo ha fatto attraverso gli sguardi della letteratura, in particolare quella che si esprime in versi. Dalla sua esposizione è emersa con grande chiarezza la crisi (quando non vera e propria rottura) che tra il 1968 e il 1975 si produce tra la generazione dei padri e quella dei figli, con ricadute sociologiche e (sul terreno scelto da Natale) letterarie. Dopo rapidissimi cenni alle occorrenze in poeti come Pascoli, Saba o Giudici, Natale si è concentrato sull’opera di Fabio Pusterla, in cui si combatte la tendenza tanto al compiacimento quanto al rimpianto per la scomparsa della figura paterna, spingendo ad accettare i tratti del “padre” che non stanno dentro la sua immagine stereotipata.

Domenico Guzzo, direttore dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Forlì-Cesena, ha raccolto il testimone dalla relazione che lo ha preceduto e ha osservato la figura del “padre di famiglia” ma inquadrandola dall’osservatorio del cinema italiano d’autore, attraverso cui ne ha profilato i tormenti e le trasformazioni nella modernizzazione post-miracolo economico fino al sopraggiungere del “riflusso”. Attraverso il riferimento ad alcune pellicole esemplari, Guzzo ha esaminato come la figura del padre perda progressivamente legittimità sociale, passando da una crisi drammatica negli anni del miracolo economico a una normalizzazione della sua de-funzionalizzazione tra il Sessantotto e l’austerity. Tale crisi si manifesta attraverso parricidi simbolici, perdita del rispetto di sé (Una storia moderna - L’ape regina, 1963, in cui il padre è ridotto a una figura debole e sacrificabile), impossibilità di garantire l’onore famigliare (Una vita difficile, 1961 e Divorzio all’italiana, 1961, che esplorano la decadenza morale e sociale del padre), e incapacità di subentro patriarcale (Rocco e i suoi fratelli, 1960 e I pugni in tasca, 1965, che mostrano famiglie disgregate e padri incapaci di mantenere il ruolo tradizionale). Lungo gli anni Settanta, il padre diventa una figura inutile e tragica, come in Un borghese piccolo piccolo (1977) e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), segnando il capolinea della sua autorità. Il passaggio della figura del padre di famiglia nel cinema italiano da figura centrale e autoritaria a presenza marginale e problematica sembrerebbe riflettere le profonde trasformazioni sociali e culturali del Paese, divenendo simbolo di una famiglia e di una società in crisi mentre la famiglia italiana, privata dell’aspettativa d’autorità tradizionale incarnata dal pater familias, diviene architrave di una nuova ed irrisolta questione storica del Paese, che si trascina sin dentro il XXI secolo.

La sessione pomeridiana ha messo al centro Politica e società a 50 anni dalla riforma ed è stata aperta dall’intervento di Carmelo Danisi dell’Università di Bologna su I biodiritti che ha offerto un’analisi degli attuali obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di diritti umani, in particolare nel quadro del Consiglio d’Europa con la Convenzione europea dei diritti umani e nell’ambito dell’Unione europea, al fine di verificare se tali obblighi impongano o possano essere il motore di nuove riforme in materia di famiglia. Da un lato, ha discusso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani riguardante l’Italia, con riferimento a ricorsi relativi a questioni inerenti alla famiglia come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, i diritti riproduttivi e la parità di genere; dall’altro, ha esaminato il contributo dell’Unione europea che, pur in assenza di competenze in materia di famiglia, promuove la circolazione di diversi modelli famigliari attraverso la tutela della libertà di circolazione dei cittadini europei. Nel trarre alcune conclusioni, il relatore si è interrogato sul reale impatto che i diritti umani e l’Unione europea esercitano sull’Italia e sui giudici italiani anche nell’attuazione del diritto interno già ritenuto conforme agli standard internazionali.

Giuliana Laschi dell’Università di Bologna ha proposto una relazione dal titolo Fuori le donne dalle carriere di alto profilo! La subordinazione familiare in Europa, con cui ha analizzato la stretta connessione tra i modelli famigliari patriarcali e l’accesso femminile alla diplomazia in Europa dall’inizio del Novecento al 1975. Se la Prima guerra mondiale aveva aperto i primi spiragli di partecipazione delle donne nelle organizzazioni internazionali, la diplomazia era rimasta un ambito rigidamente maschile e gerarchico: per decenni, infatti, le donne furono escluse dalle carriere diplomatiche, mentre il loro contributo informale come mogli di ambasciatori veniva ampiamente sfruttato ma non riconosciuto, nonostante il ruolo cruciale svolto nella gestione delle relazioni sociali e culturali. In molti paesi furono imposti vincoli, come il “divieto di matrimonio”, che obbligavano a scegliere tra carriera e vita famigliare. In Italia l’accesso fu particolarmente tardivo: solo nel 1964 furono ammesse per la prima volta le donne al concorso per la carriera diplomatica, e solo nel 1967 entrarono le prime (due) donne diplomatiche, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1960 che mise in discussione le norme discriminatorie. Questo ritardo riflette un più ampio paternalismo centrato sulla famiglia come limite all’autonomia lavorativa femminile. Le riforme degli anni Sessanta e Settanta, culminate nella legge del 1963 e in quella del 1977 sulla parità, posero infine le basi per l’ingresso formale delle donne nella diplomazia, pur in presenza di persistenti barriere culturali e strutturali, che erano legate a un’idea della diplomazia come high policy, “dunque” riservata “naturalmente” al maschile.

Maria Acierno, magistrata della Corte suprema di Cassazione di Roma, ha osservato Le famiglie che cambiano nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità. La sua relazione, partendo dalla constatazione che il pluralismo dei modelli famigliari non riguarda più soltanto la famiglia che nasce da una relazione stabile di carattere sentimentale, tendenzialmente esclusiva, ma si estende anche alla genitorialità solidale affettiva, ha passato in rassegna i modelli famigliari che nascono da una relazione sentimentale stabile, suddividendoli in: 1) modelli famigliari puntualmente disciplinati come il matrimonio che continuiamo a definire “tradizionale” anche quando non c’è neanche la cosiddetta criptoindissolubilità, e non è neanche più il modello dominante; 2) e l’unione civile, che mutua la disciplina normativa dall’unione coniugale, ma per il quale oggi siamo comunque davanti a un abbassamento ulteriore della soglia di regolazione giuridica, come è il caso della convivenza di fatto, della convivenza registrata, e del patto di convivenza. Entro questa cornice espositiva il ricorso a casi di specie assurti spesso anche alla ribalta delle cronache recenti ha reso particolarmente concreta e per questo attuale e stimolante l’esposizione. Da essi è emerso come la giurisprudenza nazionale e internazionale, pur dovendo muoversi nel perimetro disegnato dalle legislazioni, si faccia carico spesso del ritardo con cui la politica fatica a tener dietro alle profonde e vorticose trasformazioni sociali e di costume.

Infine, Liviana Gazzetta, ricercatrice indipendente dell’Istituto per la storia del Risorgimento, con una relazione intitolata Oltre la “cellula primaria”, ha affrontato la riforma del diritto di famiglia nel dibattito cattolico tra gli anni Sessanta e Settanta. Dopo un sintetico riferimento delle posizioni cattoliche sulla materia in una prospettiva di lungo periodo (per inquadrarne i nodi fondamentali), Gazzetta si è concentrata sul dibattito intorno alla riforma della famiglia sviluppatosi negli ambienti cattolici del dissenso (un censimento nazionale del 1963 registrava oltre 2.000 gruppi spontanei), raffrontandoli in alcuni punti con le posizioni del mondo cattolico ufficiale, registrando così la convivenza di due sensibilità, che riflettevano la situazione più generale della società e dei costumi italiani in quella lunga transizione.

Nel sottolineare come siano previsti, in un futuro si spera non troppo lontano, gli atti che raccoglieranno tutti gli interventi, permettendo lo sviluppo di quanto è stato sacrificato alle relazioni in presenza, varrà la pena sottolineare come, in occasione del convegno, l’Istituto storico di Forlì-Cesena abbia presentato in anteprima la mostra Emancipazione femminile a Forlì negli anni ’70, che sarà inaugurata ufficialmente il 13 dicembre in occasione dell’open day degli archivi e sarà visibile fino al 31 gennaio 2026 con ingresso libero negli orari di apertura dell’Istituto. Nei 19 pannelli che la compongono sono esposti manifesti provenienti da alcuni degli archivi (Pci, Cgil, Udi, Lotta Continua, Gruppo Ricerca Femminismi) che sono conservati presso l’Istituto.

Si tratta con tutta evidenza di iniziative molto dense e significative, che contribuiscono da un lato a sfrondare gli anni Settanta dal cliché degli “anni di piombo” in cui sono troppo spesso ancora rinchiusi, dall’altro a mettere in evidenza come il riformismo possa essere considerato tutt’altro che sinonimo di moderatismo, anzi come esso debba essere restituito alla sua carica di profondo radicalismo con cui investì la società italiana nel corso di quel lungo decennio.