«Il cinema italiano dal 1930 in poi […] è oggi per noi un racconto chiaro, una parabola trasparente e significativa. È il racconto di come il ceto medio, base di massa del fascismo, ‘imprestò’ al regime dominante la sua ideologia, le sue illusioni, i suoi sogni e i suoi miti!» [Lizzani 1992, 45]. A partire da questo spunto, preso in prestito dalle riflessioni di Carlo Lizzani, si può inquadrare il discorso tenuto nella cornice della giornata di studi Schermi neri – il cinema fascista tra eredità e rimozione svoltasi il 27 maggio presso il Palazzo del Governatore di Parma.
La giornata, a cura del Centro studi movimenti con il patrocinio del Comune di Parma e il contributo della Regione Emilia-Romagna, ha visto la partecipazione di studiosi e ricercatori [1] provenienti da diverse realtà per indagare quanto e come le modalità di creazione e produzione cinematografica del ventennio fascista abbiano generato reazioni di continuità o rimozione rispetto al cinema successivo. Tra narrazione e auto-narrazione, infatti, il cinema cosiddetto di regime può essere indagato secondo una pluralità di aspetti che va al di là della propria definizione. Proprio grazie alla varietà delle metodologie adottate negli interventi la giornata di studi ha focalizzato la propria attenzione su diversi atteggiamenti nei confronti del tema, che potrebbero essere suddivisi seguendo le tracce di alcune macro-aree rispondenti ai nomi di: strutture, corpi, oggetti, riscrittura e memoria.
Gli “schermi neri” hanno per l’appunto grande necessità di strutture. A partire dalla creazione di Cinecittà e del suo ruolo di incubatore per l’attività cinematografica (Caggiari) sino alla ricezione e fruizione nelle terre conquistate, come l’Africa orientale italiana, che permette una riflessione a proposito del cinema non “sull”’impero ma più specificatamente “nell”’impero. L’attività osmotica tra l’ossatura centrale del regime e quelle porzioni geografiche violentemente conquistate porta alla creazione di cinema “gemelli” (come il caso del cinema Impero a Roma e ad Asmara) e alla diffusione coatta dell’immaginario filmico imposto – si veda l’attività del Reparto africa orientale dell’Istituto Luce (Mancosu). Strutture che contengono a loro volta corpi, i quali sono costantemente processati in opposizione all’alterità che li circonda e li spaventa, come nel caso specifico della rivista divulgativa «La difesa della razza» e la conseguente produzione cinematografica tra il 1935 e il 1941 (Carpita). E fra i corpi si muovono oggetti, spesso troppo chiassosi per il compito cui sono chiamati a svolgere che nel cinema si traducono, per usare le parole di Francesco Savio, nella «adozione di parametri sociali radicalmente improbabili e incongrui». I telefoni bianchi cominciano a squillare nello stesso momento in cui il genere comico si rende fluido e teso verso la modernità a metà fra condanna e fascinazione (Ugolotti). Sino a questo punto ci si è posti dal punto di vista del contenitore, cioè di chi crea e produce la materia cinematografica, in questo caso “di regime”. Il dialogo con la fruizione – con la visione e l’accettazione di quel modus operandi – giunge quindi con la riscrittura.
La direzione da seguire è duplice: in primo luogo si ha una discrepanza valutativa tra avvenimento storico fondativo (la marcia su Roma del 28 ottobre 1922) e sua rappresentazione sullo schermo – emblematico il caso di Marcia su Roma (Risi, 1962) e di un annus mirabilis quale è stato il 1962 con le sue rinnovate prerogative censorie (Tore). Dal lato opposto, invece, si trova una figura emblematica come quella di Cesare Zavattini con la sua “esuberanza fantastica” e quell’atteggiamento auto-liquidatorio verso la sua “connivenza” nei confronti del trascorso regime. In questo caso, la coscienza dell’artista è portata a criticare pesantemente «la mancata assunzione di responsabilità morali» nel precedente ventennio fascista, sentimento che va a sfociare poi nella scrittura a più mani del lungometraggio Miracolo a Milano diretto da Vittorio De Sica (Gimmelli). Infine, non va dimenticato l’altro grande interlocutore del contesto: il mondo cattolico. Analizzandone la produzione sia in territorio italiano che in territorio francese si notano due direzioni contrapposte: la prima, ancorata a una modernizzazione inconclusa, la seconda legata invece a ispirazioni molto più profondamente progressiste (Lepratto). A chiusura di questo discorso si pone ovviamente la costante intrinseca dell’intera giornata di studi: la memoria. Quanto è possibile ricordare e quanto demolire? In che modalità le immagini del vivere quotidiano si iscrivono in un discorso sulla modernità e sul recupero di una memoria storica che parli attivamente all’oggi? (Pirazzoli).
La questione quindi è aperta a molteplici approcci. Ciò che appare chiaro e necessario è quanto questa porzione di storia sia da affrontare come modello di difficult heritage, come cioè questa possa essere affrontata e raccontata da un presente e da un futuro che non si riconoscono più in essa.
Bibliografia
- Lizzani 1992
Carlo Lizzani, Il cinema italiano. Dalle origini agli anni ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1992.
Note
1. Durante la giornata di studi sono intervenuti Laura Caggiari, Caterina Carpita, Gabriele Gimmello, Livio Lepratto, Gianmarco Mancosu, Elena Pirazzoli, Lorenzo Tore e Carlo Ugolotti. Hanno moderato Andrea Palazzino e Lorenzo Tore.