Non è domenica, eppure, davanti allo Stadio sportivo che sorge alla periferia sud-ovest di Bologna, c’è una folla impaziente, che grida e scuote i cancelli. È una folla strana, diversa da quella che popola i campi di gioco nei giorni di festa. Ci sono dei ragazzi, molto giovani, operai e uomini maturi; ci sono anche delle donne; tutta gente decisa a entrare. Le grida infatti si fanno più alte e i cancelli oscillano più forte, poi, di colpo, si spalancano.

Allora la folla irrompe nel campo quasi di corsa. Non ha esitazioni, si muove con uno scopo preciso: sale di slancio le scalinate dalla parte della Torre di Maratona, poi si ferma.

Sotto la torre c’è un grande monumento equestre: è Mussolini a cavallo, fierissimo, eretto in arcioni, che domina il campo guardando fisso davanti a sé la verde collina della Madonna di San Luca. Ora qualcuno s’è arrampicato sulla schiena del cavallo e un altro gli passa una grossa fune. “Forza, legala al collo!”, si sente gridare da più parti. La fune, con un cappio sicuro, è ormai stretta intorno al collo del “duce” e centinaia di mani ne afferrano l’altra estremità. “Tiriamo tutti insieme”, raccomanda un operaio. La corda si tende: Mussolini ha un brivido. Al secondo strattone si avverte un crac: è la saldatura alla base del busto che cede. Al terzo, il torso imperiale di Mussolini s’inclina e piomba giù dal cavallo, rimbalzando per la scalinata, rintronando come un gigantesco gong. Un urlo di entusiasmo si leva dalla folla: la statua del dittatore abbattuta è il segno tangibile della libertà conquistata. Il tiranno non ritornerà più su quel piedistallo, non salirà più a tanta altezza. Lassù sono rimaste soltanto due misere gambe d’ignoto attaccate alla pancia di un cavallo che ha ormai un’aria inutile e spaesata [De Micheli 1954, 13-14].

Così Mario De Micheli – storico dell’arte e antifascista attivo nella Resistenza – descrive l’abbattimento della statua equestre di Mussolini avvenuto, a furore di popolo, il 26 luglio 1943 a Bologna. Questa ricostruzione degli eventi di quei giorni seguiti alla caduta del fascismo costituisce l’incipit del volume dedicato nel 1954 dall’autore alla storia della 7ª Gap bolognese. Stranamente, nella conclusione De Micheli non ricorda quale cosa accadde al cavallo di bronzo: un destino intrecciato con la stessa brigata partigiana e con l’episodio più rilevante della sua attività, ovvero la battaglia di porta Lame del 7 novembre 1944.

Mussolini a cavallo, quello in carne e ossa, era entrato nel nuovo stadio Littoriale il 31 ottobre 1926, in occasione dell’inaugurazione della nuova struttura sportiva. Fortemente voluto da Leandro Arpinati, segretario del Fascio bolognese, lo stadio – progettato dall’ingegnere Umberto Costanzini e dall’architetto Giulio Ulisse Arata – era allora il più grande e moderno di tutto il paese. L’inaugurazione avvenne in una data scelta nei giorni tra l’anniversario della marcia su Roma e la conclusione della Grande guerra, da pochi anni celebrata anche come festa delle forze armate. Sulla via del ritorno verso la stazione, questa volta a bordo di un’automobile, Mussolini fu oggetto di un attentato: il duce rimase illeso, il quindicenne Anteo Zamboni venne linciato dagli squadristi.

Tre anni dopo, il 27 ottobre 1929, il Littoriale fu completato con l’inaugurazione della torre di Maratona, eretta nel punto dove, il 9 agosto 1849, erano stati gettati i corpi di Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, fucilati dalle truppe austriache nei giorni dell’occupazione della città. Tra gli archi 66 e 67 del portico di San Luca si apriva allora una cavedagna che attraversava un fondo agricolo, diventato luogo di pellegrinaggio nei giorni successivi all’esecuzione dei due patrioti risorgimentali. Ottant’anni dopo in quell’area fu costruito il Littoriale e nella grande nicchia alla base della torre fu collocata la statua equestre di Mussolini, forgiata su modello dello scultore Giuseppe Graziosi fondendo il bronzo di tre cannoni sottratti agli austriaci negli scontri dell’8 agosto 1848, che avevano portato alla cacciata degli invasori, tuttavia effimera. Non si trattava, quindi, di un semplice riuso di un materiale disponibile, ma di una scelta fortemente simbolica, che evocava legami tra il fascismo e il Risorgimento [Pavone 1959; Baioni 2006].

Nell’ottobre 1929 la statua era arrivata in due parti, il cavallo e poi il cavaliere – ma l’attraversamento dell’Appennino era stato comunque reso difficile dalla loro mole – e rimontata sul basamento sotto alla torre da dove troneggiava sugli spalti con i propri 6 metri di altezza. Tuttavia, la sua permanenza in loco durò pochi anni: la caduta del fascismo travolse anche le sue effigi, così a Bologna la saldatura non resse al tiro delle corde, il busto di Mussolini venne disarcionato, la testa staccata e fatta rotolare per le strade della città fino a scomparire, mentre il torso, ammaccato, fu stoccato nella palestra del Littoriale.

Ma i festeggiamenti per la caduta del regime durarono poco: la guerra continuava in un quadro di relazioni con alleati e avversari destinato a essere sovvertito dall’armistizio dell’8 settembre. Lo stadio Littoriale fu utilizzato allora dalle truppe tedesche che occuparono Bologna prima per imprigionare temporaneamente i soldati italiani (in seguito avviati nei campi per Imi, Italienische Militärinternierte – Internati militari italiani), poi successivamente come deposito. Il 15 gennaio 1945 il direttore del Littoriale, Romeo Pini, annotò come i rottami di bronzo del busto del duce fossero stati caricati dai soldati tedeschi su un autocarro: molto probabilmente per essere utilizzati a fini bellici, tornando alla funzione originaria di quel materiale.

Il cavallo e gli stivali del cavaliere, attaccati ai lati della sella, rimasero invece al loro posto nella grande nicchia sotto alla torre di Maratona fino alla fine del conflitto e anche oltre. Nel 1946 il destino della statua venne discusso in Consiglio comunale, presieduto dal sindaco Giuseppe Dozza, chiedendo i pareri prima della Commissione per l’esame dei monumenti e poi del Sindacato di belle arti: entrambi proponevano di rimuovere il cavallo di bronzo, ma mentre la Commissione per l’esame dei monumenti suggeriva di collocarlo in uno spazio museale, il Sindacato si esprimeva negando il valore artistico della parte rimasta [Caldarola 2017, 36-37]. Questo secondo parere era stato probabilmente caldeggiato dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani), che nel frattempo aveva iniziato a elaborare un luogo di celebrazione e ricordo della Resistenza: la Casa del partigiano riutilizzava e risemantizzava il Padiglione della direttissima, costruito nel parco della Montagnola nel 1934 in occasione dell’inaugurazione della nuova linea ferroviaria [Pirazzoli 2008]. Al posto dei fasci, accanto ai due ingressi erano stati collocati due bassorilievi di Rito Valla e Giuseppe Mazzoli raffiguranti scene della Resistenza, all’interno Ilario Rossi aveva realizzato un grande affresco sul Massacro di Marzabotto (in cui l’artista aveva perso tre familiari), a Farpi Vignoli era stata commissionata un’opera dedicata alla battaglia di porta Lame (mai realizzata), mentre Luciano Minguzzi aveva elaborato i modelli per due statue: Il partigiano e la partigiana. Il bronzo del cavallo di Mussolini poteva servire proprio a dare forma a queste due figure, per cui era intanto stata aperta una sottoscrizione attraverso «Rinascita», il giornale del Comitato di liberazione nazionale, quindi l’Anpi sollecitava al Comune la donazione del materiale [Bergonzini 1986].

L’inaugurazione de Il partigiano e la partigiana di Luciano Minguzzi avvenne solo nel 1953, nell’ottavo anniversario della Liberazione: collocate nel giardino attorno alla Casa del partigiano già da qualche anno, le statue erano state accolte con freddezza. Scrive Luciano Bergonzini:

[…] vi furono, ricordo bene, molti dissensi tra i partigiani. Mancava l’esaltazione, l’eroismo, il senso del patriottismo. Così dimessi, poveri, sottratti al mito, apparivano come due personaggi di borgata, gente comune rivestita da combattenti. Niente armi impugnate in alto, niente bandiere lacerate. Niente rulli di tamburo sullo sfondo.
Minguzzi aveva fatto molto di più. Aveva liberato la Resistenza dalle falserighe ammucchiate, dal fastidio della retorica, l’aveva sottratta alla “decorazione”, recuperandola al suo scheletro [...] [Bergonzini 1986].

Luciano Minguzzi aveva scelto di rappresentare i partigiani come «una ragazza, un ragazzo presi dal mucchio, gente comune, soggetti qualsiasi, carichi d’armi ma senza spavalderia» [Bergonzini 2003, 11]. Lo scultore, infatti, aveva conosciuto da vicino la Resistenza, avendo operato nel Gruppo intellettuali Antonio Labriola. Nato dall’iniziativa di Paolo Fortunati ed Ersilio Colombini – il primo docente di statistica all’Ateneo bolognese, passato dal fascismo critico al marxismo, il secondo laureato in pedagogia e promotore delle attività del Partito comunista in area culturale [Bergonzini 1998, 127 e sgg.] – il gruppo raccoglieva docenti e studenti dell’Università, scrittori e artisti, che si riunivano clandestinamente proprio presso lo studio di Minguzzi a Palazzo Bentivoglio in via Belle Arti: oltre a Fortunati, Colombini e Minguzzi, anche Paolo Betti, Galvano Della Volpe, Giorgio Vecchietti, Giorgio Fanti, Aldo Cucchi e, tra i più giovani, Luciano Bergonzini [Minguzzi 1996, 333-336].

[…] assai spesso, noi fummo utilizzati per lavori tutt’altro che «intellettuali» e più volte io e anche il dott. Bondi, lo scultore Valla e altri, venivamo inviati verso le linee del fronte con compiti di vero e proprio spionaggio. Spesso io andavo a Pianoro, verso la Futa, col compito di registrare i movimenti delle truppe motorizzate o autotrasportate da e verso le linee. Questa e ogni altra strada di grande traffico era sottoposta a costante controllo. Ogni camion tedesco aveva stampigliato un distintivo che a volte era un toro, a volte un topolino, o un’aquila e io classificavo gli automezzi secondo il distintivo, che corrispondeva a date unità militari [...]. Facevo gli appunti in margine a un libro di poesie del Leopardi, pronto a dire, se fossi stato fermato, che mi preparavo per un esame. E del resto io ero stato dotato di un certificato «Arbeit» che mi tranquillizzava un poco. Gli orari di «lavoro» erano fissi: dopo quattro ore veniva un altro a dare il cambio e io ritornavo in città, in bicicletta, e portavo i dati rilevati in un negozio in via Orefici e poi non sapevo altro. Quei dati, però, venivano trasmessi, attraverso le Missioni radio, agli alleati.

A dire la verità ben presto mi stancai di questo lavoro e chiesi a Colombini di essere mandato nelle brigate di montagna, ma ebbi un secco no e così continuai. Mi sarebbe piaciuto molto andare in montagna, dove almeno si poteva combattere a viso aperto, contro un nemico che si vedeva e che non era sempre dietro alle spalle [Minguzzi in Bergonzini 1967, 309-310].

Negli anni dell’occupazione tedesca e della Repubblica sociale, Luciano Minguzzi realizzò solo un’incisione – tirata in un unico esemplare – che tematizzava la violenza usata contro chi si opponeva: Le impiccate, in maniera peculiare, declinava al femminile sia la scelta della Resistenza che l’esposizione alle torture da parte fascista e nazista:

La feci nel 1944 e rappresentava una scena di violenza fascista contro le donne partigiane, scena che, purtroppo, ogni giorno si verificava nelle carceri dei Comandi fascisti e tedeschi della città, specie nel duro inverno del 1944. Era una scena violenta di odio per i tedeschi e di esaltazione del sacrificio delle donne nella lotta di liberazione [Minguzzi in Bergonzini 1967, 310].

Non deve quindi stupire la decisione di rappresentare la figura femminile non “solo” come una staffetta, ma come una partigiana in armi.

Quanto alla dimensione “popolare” dei due modelli, bisogna ricordare che Il partigiano e la partigiana erano stati pensati dallo scultore per il parco della Montagnola, all’ingresso del quale già da inizio Novecento si stagliava la grande statua bronzea de Il popolano di Pasquale Rizzoli: il monumento voluto per ricordare la cacciata degli austriaci dell’8 agosto 1848, testimone di un’altra rivolta della città contro gli occupanti.

L’eredità del Risorgimento in quegli anni dell’immediato dopoguerra veniva largamente richiamata nei discorsi e negli articoli celebrativi: la Resistenza come “Secondo Risorgimento”. Tuttavia, con il tempo questi riferimenti si fecero più cauti, sia per la natura del fenomeno resistenziale, che per la ripresa che il fascismo stesso aveva fatto del Risorgimento [Pavone 1959]. Nel caso di Bologna, il corpo del patriota, e padre barnabita, Ugo Bassi venne traslato nel 1940 nella Sala delle catacombe al Monumento-Ossario dei caduti della Prima guerra mondiale, in connessione ideale anche con il limitrofo Sacrario dei martiri fascisti: «al fine di saldare propagandisticamente in un unico ambiente i caduti del Risorgimento, della Prima Guerra Mondiale e della “Rivoluzione fascista”» [Spicciarelli s.d.]. L’arca marmorea con le spoglie dell’eroe risorgimentale si trova ancora oggi in questo luogo: una collocazione difficile da comprendere se inconsapevoli del peso simbolico attribuitogli dal fascismo bolognese.

Le due statue di Luciano Minguzzi rimasero a presidiare la Casa del partigiano per poco più di trent’anni. Nel corso degli anni Ottanta il parco della Montagnola si trovava in uno stato di degrado, urbano e sociale – le cronache locali riportano il periodico ritorno di questa situazione, dagli anni Venti a oggi –, l’Anpi già da tempo aveva spostato la sua sede altrove, l’ex Padiglione della direttissima necessitava di interventi di restauro volti al cambiamento di destinazione in scuola d’infanzia (dedicata, non a caso, alla partigiana e antifascista Lea Giaccaglia Betti).

Di conseguenza, nel 1986 le due statue di Luciano Minguzzi hanno trovato nuova collocazione proprio a porta Lame, per ricordare i partigiani e le partigiane di Bologna e in particolare quelli della 7ª Gap. Nel 2000 è ancora Luciano Bergonzini a promuovere, pochi mesi prima di morire, un omaggio all’amico Minguzzi e a quelle sue due opere dimenticate dai cataloghi di storia dell’arte dedicati allo scultore: ancora in quell’occasione, Bergonzini sottolinea come il valore de Il partigiano e la partigiana risieda in un’assenza, quella di «non una sola goccia di quel veleno infernale che è la retorica» [Bergonzini 2003, 11].

Se il bronzo del «torso imperiale» di Mussolini, per riprendere le parole di apertura di Mario De Micheli, è presumibilmente tornato a dare forma a materiale bellico, e se il cavallo – e gli stivali – sono stati forgiati per dare forma a Il partigiano e la partigiana di Luciano Minguzzi, all’appello manca, a tutt’oggi, una parte: e la testa? Anzi, viste le dimensioni, il testone?

Nel 2013 alcuni allievi della scuola di giornalismo Ilaria Alpi di Bologna si sono messi sulle sue tracce, risalendo passaggi di mano in mano, attraverso i decenni, che lo vogliono salvato e protetto da alcuni fascisti all’indomani della caduta del regime, poi da esponenti del Movimento sociale (Msi) nel dopoguerra [Sancini 2013; Storchi 2013]. Fantomatici avvistamenti lo descrivono omaggiato prima in sedi dell’Msi e poi in musei privati dedicati alla Repubblica sociale italiana, per poi tornare a scomparire anche dalla vista offerta a pochi estimatori.

Come già citato nell’introduzione a questo dossier [Pirazzoli 2021], all’inizio del Novecento Robert Musil reagiva alla monumentomania del secolo precedente notando come i monumenti lasciati per le piazze e le strade erano diventati «invisibili», «impermeabili» allo sguardo: «l’attenzione vi scorre sopra come le gocce d’acqua su un indumento impregnato d’olio, senza arrestarvisi un istante» [Musil 2004, 62]. Tuttavia, l’olio è una sostanza infiammabile, che può rendere il bronzo, ma anche il marmo, “incandescenti”: le statue possono diventare catalizzatori di tensioni politiche e sociali mai sopite, rimaste solo come braci sotto la cenere, pronte a riaccendersi fino a quando ciò di cui sono metafora e metonimia non sarà sciolto e risolto.

Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare, pervennero a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione totale dei segni della vita. Ogni fatto o atto della vita e della conoscenza è reato per chi fonda il suo imperio sul proibire tutto a tutti, coltello alla cintola.
Si direbbe che la coscienza collettiva, e la singula, oltraggiate dal coltello, dal bastone, dall’olio, dall’incendio, e di poi messe in bavaglio da disperati tramutatisi per scaltrita suasione in soci nel grido e nell’armi, dalle carceri, dalle estorsioni, dal veto imposto per legge, se legge fu quella, a ogni forma del libero conferire e prima che tutto alle stampe, dalla sempiterna frode ond’era spesa la parola e l’intendimento e poi l’atto, dalla concussione sistematica esaltata al valore e direi al decoro formale di un’etica nicomachèa, dalla tonitruante logorrea d’uno o d’altro poffarbacco, dalla folle corsa verso l’abisso e, ad ultimo, dalla strage, dalla rovina del paese […].
Lui era il genio tutelare della Italia, – (qual viceversa ruinò, e la redusse a ceneri ed inusitato schifìo) – lui ne aveva insegnato essere vuomini; […] lui cavalcatore di cavalli e di femine in gloria: lui sì sì, lui sederone a cavallo, lui bellone, lui mascellone, lui fezzone, lui buccone, stivalone, provolone, maschio maschione cervellone generalone di greca tripla. Questo sognavano, questo talora ti dicevano le fraudate ammiratrici [Gadda 1990, 21, 66-67].

Bibliografia

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    Elena Pirazzoli, Sul piedistallo della storia. Statue innalzate, contestate, difese e demolite dalla Rivoluzione francese a oggi, in «E-Review», 8-9 (2021-22), https://e-review.it/sul-piedistallo-della-storia-statue-innalzate-contestate.
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    Andrea Spicciarelli, Sepoltura e traslazione di Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, in «Storia e memoria di Bologna», https://www.storiaememoriadibologna.it/sepoltura-e-traslazione-di-ugo-bassi-e-giovanni-li-1109-evento.
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