1. Inquadramento: il rapporto tra università, territorio e comunità urbana

Ripercorrere le forme e i momenti specifici che hanno segnato lo sviluppo delle università emiliane, ponendo particolare attenzione alle modalità con le quali tale processo si è svolto parallelamente all’elaborazione degli strumenti di pianificazione urbanistica, permette di assumere questo tema quale osservatorio privilegiato per indagare alcuni problematici nodi di fondo che stanno alla base delle politiche di sviluppo della città nel loro complesso.

La disciplina urbanistica, difatti, è costantemente in oscillazione tra opposte posizioni e istanze: essa è tesa a garantire una generale coerenza di organizzazione e assetto per il territorio amministrato, ma al contempo si deve fare carico di promuovere e valorizzare temi specifici, espressione di politiche locali, logiche individuali o settoriali; deve inoltre impostare le proprie scelte seguendo alcuni inderogabili princìpi di salvaguardia dell’interesse collettivo ma, oltre a questo, deve poter accompagnare opportunamente la riuscita di un insieme di singole iniziative che si pongono come le espressioni più vitali di un determinato contesto socio-economico; deve, infine, farsi carico di previsioni che tengano assieme i tempi lunghi di sviluppo equilibrato del territorio e alcune prioritarie scelte immediate di intervento, che soddisfino in modo tempestivo domande e aspettative cruciali.

L’azione urbanistica è pertanto orientata a costruire una composizione e integrazione continua di scelte di intervento o decisioni di trasformazione che appartengono a soggetti diversi, su temi e contenuti eterogenei, che investono luoghi e impattano su estensioni spazio-temporali difformi, ma che, all’interno della strumentazione dei piani urbanistici, dovrebbero poi ritrovare una cornice di minimale coerenza complessiva.

Se questa insopprimibile pluralità di iniziative sul territorio è immediato che venga riconosciuta nel confronto tra istituzioni e privati, non meno diversificate (e spesso conflittuali) si presentano le dinamiche attraverso le quali le scelte che appartengono più specificamente alle istituzioni pubbliche stesse si confrontano all’interno del più esteso sistema di amministrazione della città.

Nell’ambito di questa pluralità di strategie settoriali, portatrici di istanze specifiche, ma che influiscono in modo determinante sui modi d’uso e le forme comunitarie di un insediamento nel suo insieme, le politiche di sviluppo dell’università assumono profili originali e di specifico interesse. Le università, difatti, si presentano da sempre come attori urbani dal profilo particolarmente anomalo e complesso: esse hanno natura né pienamente pubblica né privata [Capano 1998, 16]; si presentano come autonome rispetto al loro contesto (dal punto di vista fattuale e ordinamentale), ma sono capaci di dispiegare un variegato insieme di relazioni e connessioni (fisiche, istituzionali) con l’ambiente cittadino che le ospita [Savino, 1998a, 8-9]. Molte sono le forme con le quali avviene lo scambio reciproco tra università e città di appartenenza, si tratta di dinamiche nelle quali a volte i due soggetti predispongono un dialogo paritario, altre volte si pongono in modo conflittuale o, infine (come purtroppo avviene nella maggior parte dei casi), accade che i due soggetti promuovano decisioni e interventi frammentati, caratterizzati da reciproca incomunicabilità [De Carlo 1968a, 6-7]. In sintesi, nel rapporto università-città (e municipalità) ritroviamo la completa casistica con la quale si presentano e formano le scelte pubbliche all’interno di un contesto istituzionale e sociale pluralistico [Ham e Hill 1986, 110].

Quali che siano le dinamiche attraverso cui si definisce il rapporto tra le regole, i soggetti e le presenze fisiche riconducibili a questi due fondamentali attori della scena urbana, esse condizionano fortemente l’organizzazione insediativa, l’identità di alcune importanti porzioni del territorio e, infine, influiscono in modo determinante sulla base economica dei sistemi locali [Page 1974, 55 ss.]. Dal momento che l’università rappresenta (fatta eccezione per le sedi di istituzioni religiose o del pubblico potere) il soggetto di più lunga permanenza all’interno della compagine urbana, i suoi caratteri e le sue manifestazioni si prestano in particolar modo ad essere esaminati sotto la lente delle diversificate forme territoriali che nel tempo questa presenza ha generato. Ancora di più: in molti casi, soprattutto europei, l’indagine sullo sviluppo delle sedi universitarie rappresenta una lente privilegiata attraverso la quale leggere i momenti più significativi della storia civile, amministrativa e urbanistica di un determinato territorio.

Proviamo ad elencare alcuni dei fattori che rendono la presenza universitaria così influente sul contesto urbano che la ospita:

  1. per prima cosa, la fisionomia di soggetto comunitario e istituzionale assieme che caratterizza l’università porta ad influire su aspetti materiali e immateriali, politici, fisici e collettivi della vita urbana: in dipendenza dalle diverse forme assunte dall’insediamento universitario e dalla loro dislocazione rispetto alla restante compagine della città si hanno effetti di integrazione o di marginalizzazione, di inserimento “mimetico” o formazione di emergenze specialistiche e diffuse [De Carlo 1968b, 9-10]. Questi aspetti si sono espressi, nei periodi trascorsi, in una centralità del ruolo svolto dalle ubicazioni universitarie nei confronti delle strategie previste dagli strumenti di pianificazione territoriale [Savino 1998a, 8-9], nel modo con il quale queste localizzazioni vengono decise da moduli consensuali o, infine, come investono in gradi diversi il coinvolgimento della popolazione [Savino 1998b, 14-15];
  2. vi sono poi aspetti che attengono all’estensione spaziale dei legami che l’università intrattiene con il territorio. Sia che l’insediamento universitario costituisca l’esito di un lungo processo di stratificazione e crescita storica, sia che appartenga ad un atto di pianificazione pubblica unitario e concluso, in entrambi i casi esso sviluppa impatti che si dispiegano a livello del micro-ambiente urbano di prossimità, quanto a quello delle relazioni più ampie con il paesaggio e le linee di assetto del territorio extraurbano [De Carlo 1965, 3]. Questi aspetti si legano all’indiscutibile e doppio ruolo che l’università può svolgere nel rafforzare le forme di coesione comunitaria esistente o nel costituirsi come funzione pioniera per guidare la crescita insediativa e lo sviluppo economico [Savino 1998b, 38];
  3. vi è in modo più evidente un’influenza sulle alternative forme della decisione pubblica con le quali l’università partecipa alle strategie di sviluppo della città. In quanto attore che gode al contempo di forte extraterritorialità e radicamento locale [Savino 1998b, 16], l’università si trova ad agire volta per volta come «comunità totale» [De Carlo 1968a, 6] o come partner pienamente partecipe alle scelte di fondo dell’amministrazione comunale. In conseguenza di questo, essa viene ambiguamente e alternativamente vista come attrezzatura specialistica o come parte integrante del tessuto cittadino, come dotazione dello stato sociale o come soggetto guidato da criteri di utilità interna [Savino 1998b, 17], con la conseguenza di un sempre diverso ruolo e collocazione nelle previsioni urbanistiche e nei programmi di sviluppo territoriale [La Barbera 1990, 66-67]. In sintesi, costituisce una distinzione fondamentale il considerare l’università un’infrastruttura territoriale, quindi frutto di una programmazione parallela di settore, oppure interpretarne il ruolo come funzione insediativa che, pur caratterizzante, è comunque portatrice di necessità che attengono al suo inserimento in una armatura urbana ad essa servente [Dallerba 1987, 251];
  4. infine, se le alternative di configurazione, progetto e ubicazione delle sedi universitarie influiscono sulle scelte di politica pubblica per il territorio, sulla rete di relazioni con le altre programmazioni di settore e sui modi con i quali una struttura tendenzialmente autoreferenziale e con autonomia decisionale si inserisce all’interno degli equilibri territoriali complessivi, questo non può essere disgiunto da una valutazione che vede l’università, soprattutto nelle medie città europee, come il principale veicolo delle politiche di riuso e valorizzazione (anche di mercato) del patrimonio esistente [Cervellati 1975, 25-28] o, in alternativa, come grande attrezzatura che svolge un ruolo di presidio e garanzia qualitativa per la crescita futura del sistema urbano [De Carlo 1968b, 13].

In conclusione, dal momento che le dinamiche di sviluppo dell’istituzione universitaria investono in maniera congiunta ed estesa le dimensioni della politica, della società e della costruzione dello spazio fisico [Palermo 2004, 25], questo fa assumere alle scelte di sviluppo degli atenei la fisionomia di una una piena e compiuta “questione territoriale”. La prospettiva di dovere operare la trattazione di tale tema all’interno degli strumenti di governo urbanistico porta alla necessità di dover coordinare le politiche universitarie con le altre politiche territoriali e di settore [Capano 1998, 15-16] nei confronti delle quali questa istituzione si presenta come un anomalo attore urbano, che gode di speciali franchigie legislative e statutarie, ma che è al contempo portatore di scelte localizzative decisamente influenti. Questi profili critici, che attengono al ruolo territoriale dell’università e che investono un insieme esteso di conflittuali alternative di progetto, offrono nel caso delle vicende di pianificazione urbanistica messe a punto dalle città emiliane nel secondo dopoguerra un caso di studio particolarmente significativo. Difatti, è proprio all’interno dei processi di governo del territorio che hanno guidato lo sviluppo emiliano negli anni della sua massima crescita insediativa che un soggetto del tutto particolare come l’università si è potuto confrontare con un insieme di esperienze di amministrazione urbanistica che, pur nella loro diversificazione, sono state quelle che nel panorama nazionale hanno assunto la forma più matura e compiutamente applicata.

2. Coordinamento urbanistico e tensioni autonomiste nello sviluppo dell’Università di Bologna (1945-1968)

Per dimensioni, ma soprattutto per la varietà delle situazioni territoriali e per la diversificazione delle strategie di intervento pubblico che nel lungo periodo ne hanno caratterizzato l’evoluzione, è ovviamente il caso bolognese a costituire il riferimento più interessante e completo su come si sono intrecciate le previsioni di pianificazione urbanistica e quelle di sviluppo dell’insediamento universitario nel secondo dopoguerra.

Al termine del secondo conflitto mondiale, la città di Bologna sospende, come tutte le altre grandi città italiane, la redazione di qualsiasi strumento di pianificazione generale, per adottare invece un provvedimento di più immediata applicazione, qual era il Piano di ricostruzione (istituito con il d.lgs n. 154 del 1° marzo 1945) [Inu 1945, 3]. Senza entrare nello specifico dei meccanismi applicativi che caratterizzano il Piano di ricostruzione, ai fini di questa trattazione è rilevante solo notare come si tratti di uno strumento dalla logica puntuale, che interviene solo su alcune determinate zone della città per regolamentarne la riedificazione e il risarcimento edilizio (artt. 3 e 4 del d.lgs). Si tratta, pertanto di un documento pianificatorio che attiene alla sola dimensione architettonica, limitato a dare poche prescrizioni volumetriche e che rinuncia a formulare previsioni di sviluppo che riguardano l’intero territorio amministrato. Tale impostazione per zone circoscritte, sulle quali potere aprire direttamente e tempestivamente i cantieri di ricostruzione, è conforme a quelle che sono state anche le modalità con le quali l’università bolognese aveva fino ad allora definito le proprie strategie di sviluppo in rapporto agli strumenti urbanistici: le tre convenzioni tra comune e università, che avevano regolamentato le tappe di crescita dell’ateneo bolognese (1897, 1910, 1929) [Lama 1987a, 189-190] erano strumenti che, pur con l’obiettivo di costituire un ampio quartiere universitario [Zagnoni 1988, 68], investivano la sola dimensione della trasformazione edilizia e ribadivano la vicendevole autonomia e separazione di competenze che qualificava le decisioni localizzative dell’università rispetto alle complessive strategie di sviluppo urbanistico del comune. A conferma di questo, nel piano di ricostruzione e nei suoi elaborati tecnici, le aree universitarie (pur colpite in modo non lieve dai danni di guerra) vengono stralciate, lasciando pertanto all’ateneo la diretta responsabilità nello stabilire modi e forme di intervento sul proprio patrimonio immobiliare [Università di Bologna 1974, 75]. Si procede pertanto con una «ricostruzione per riedificazione» [Gallingani 1988, 143-144], che insiste sulle aree e le strutture del c.d. “Quartiere di levante” (il settore nord-est del centro storico nel quale si erano assestate tutte le nuove strutture universitarie realizzate nel periodo post-unitario), operando qualche miglioramento tipologico e funzionale ma confermando la centralità di questa area come esclusivo destinatario di tutte le successive scelte di incremento edilizio dell’ateneo [Zagnoni 1988, 119].

In realtà, negli stessi anni nei quali era in vigore il Piano di ricostruzione, era stato elaborato uno strumento urbanistico di più ampio respiro, anche se sotto la forma di proposta informale, redatta in parallelo alla bozza di piano regolatore del 1944-1945 [Massaretti 2001, 334]. Si tratta del c.d. “Piano clandestino”, elaborato sotto la guida di Luigi Vignali da un gruppo di giovani tecnici che animavano il coevo dibattito urbanistico sulla ricostruzione della città. Tra le molte proposte di questo interessante documento, spicca quella che individua l’area pre-collinare a Sud della città (l’area del c.d. ‘Pirotecnico’), come sede per un nuovo quartiere universitario [Vignali 1994, 13; Massaretti 2001, 341-342]. Se escludiamo questo episodio del tutto isolato all’interno del dibattito urbanistico cittadino, la stagione della ricostruzione e i primi quindici anni che seguono alla fine della guerra testimoniano una strategia di sviluppo dell’insediamento universitario del tutto conforme a quelle che erano le linee generali di assetto fissate fin dal piano Capellini – del 1888 – e attuate durante la lunga stagione delle convenzioni tra comune e università (le cui ultime integrazioni risalivano agli anni 1934-1936) [Lama 1987b, 143-147]. A conferma di questa continuità che le scelte di sviluppo dell’ateneo conservano in quegli anni rispetto alle decisioni prese nell’anteguerra, si ha che i primi interventi di nuova realizzazione che vengono avviati una volta esaurita la fase di ricostruzione sono rivolti a completare previsioni e progetti che erano già stati definiti negli anni 1934-1938. La realizzazione della nuova sede per la Facoltà di economia e commercio, progettata nel 1950 da Luigi Vignali (il promotore del “Piano clandestino”) e terminata nel 1958 [Forni 1958, 37], dal punto di vista strettamente urbanistico costituisce la conforme attuazione di quello che era il progetto di prima della guerra per il “Palazzo Universitario”, ovvero il grande complesso che doveva ospitare la sede centrale dell’ateneo sulle aree demolite a tale scopo davanti a Palazzo Poggi, in via Zamboni [Gallingani 1988, 141]. Quel progetto, redatto nel 1938 da Giuseppe Nicolosi (studioso romano, temporaneamente in forza all’Università di Bologna negli anni Trenta, che, oltre a rappresentare una delle figure di maggior spessore della cultura architettonica italiana del secondo dopoguerra, è stato anche il progettista, a Perugia, di quelli che restano i migliori esempi italiani di edilizia universitaria di quel periodo) [Nicolosi 2012, 519 ss.], viene nella nuova versione di Vignali ridotto nelle volumetrie, ma rispettato nell’impostazione planimetrica e di disegno urbano: una piazza porticata e un asse prospettico su Palazzo Poggi, in continuità con via Belle Arti [Zagnoni 1988, 121; Zagnoni 2001, 219].

Questo approccio di crescita incrementale, prevalentemente impostato su operazioni di sostituzione edilizia del tessuto urbano minore, danneggiato dalla guerra o deteriorato dalla obsolescenza fisica, è confermato anche dal primo formale strumento di intervento che l’ateneo e il comune predispongono nel dopoguerra per adeguare le strutture universitarie alle nuove domande e ai fabbisogni di crescita emersi una volta completata la ricostruzione. Si fa ricorso, ancora una volta, ad una convenzione, stipulata nel 1954-1955 tra Università, Comune, Provincia, Ministero e alcuni istituti di credito, attraverso la quale si intende dare attuazione e piena realizzazione a tutte le previste strutture che dovrebbero completare l’assetto edilizio del Quartiere universitario [Forni 1958, 37]. Si tratta, come in precedenza, di uno strumento mirato e contingente, che riguarda solo poche aree del c.d. “triangolo Belle Arti-Zamboni” e il cui scopo è principalmente quello di sbloccare e trasferire all’università la risorsa essenziale per ogni intervento urbanistico, ovvero la disponibilità delle aree [Gallingani 1988, 157]. A seguito dei mezzi (monetari e soprattutto fondiari) resi disponibili da questa convenzione e dai finanziamenti nazionali della legge 1085 del 1956, vengono avviate le realizzazioni della Facoltà di lettere e filosofia, di magistero, degli Istituti di geologia, di matematica e di statistica, nonché il completamento dei collegi universitari, quasi tutti collocati a saturazione del settore di levante del centro storico [400 milioni della Città per l’edilizia universitaria 1958, 42].

La realizzazione architettonica di queste nuove strutture specialistiche universitarie nel centro storico rappresenta l’apice di quel lungo ciclo che ha segnato la totale separatezza tra le logiche della crescita universitaria e gli strumenti di piano, che negli stessi anni cominciavano a regolamentare il forte sviluppo urbanistico che la città aveva avviato all’inizio degli anni Cinquanta. Il primo e compiuto Piano regolatore generale (Prg) di cui Bologna si dota nel secondo dopoguerra viene, difatti, elaborato negli stessi anni (1952-1955) nei quali si completa la menzionata convenzione tra università e comune, e si limita a recepire in modo passivo le decisioni già prese in quella sede (e che, come detto, ribadivano scelte degli anni Trenta). Sui temi dello sviluppo universitario, il piano non introduce alcuna nuova indicazione utile a collocare le previsioni di crescita dell’ateneo in un quadro di coerenza con le altre politiche di intervento sul territorio [Università di Bologna 1974, 82], prime tra tutte quelle infrastrutturali [Fantoni 1955, 179-182]. Nei documenti che accompagnano gli elaborati tecnici del Prg 1955-1958 (che tra i propri estensori annovera anche Luigi Vignali, già incontrato nel ruolo di progettista della facoltà di economia e commercio e del Piano clandestino) l’università è trattata ancora una volta come tema che esorbita dalle scelte del piano: nella “Relazione illustrativa”, alla sezione che riporta le analisi dello stato di fatto, viene operata una neutra lettura dell’esistente assetto universitario per come si è disposto nelle zone del centro storico e nell’adiacente area ospedaliera, limitandosi a segnalare quelle che sono le previsioni di metratura ancora da completare [Comune di Bologna 1955a, 14]; nella parte che invece riguarda le previsioni di intervento, dopo avere esposto le motivazioni che dovrebbero portare alla delocalizzazione delle funzioni congestionanti presenti nel centro storico [Comune di Bologna 1955a, 22], per l’università (equiparata agli altri servizi destinati alla cittadinanza) si prevede invece la completa conferma di tutte le opere e gli interventi contenuti nella convenzione, con il completamento dell’insediamento storico di levante e delle zone tutto intorno alla sede centrale, da saturare con i restanti 70.000 m3 di residuo inattuato [Comune di Bologna 1955a, 49].

Al di là delle valutazioni strettamente attinenti al modello insediativo adottato – che pertanto ribadisce la vocazione dell’università a rimanere a stretto contatto con il proprio ambiente urbano di riferimento – ai fini di queste note preme invece soffermarsi ancora una volta sui meccanismi che riguardano le modalità di condivisione delle decisioni di trasformazione insediativa: nel caso del Prg bolognese del 1955, difatti, non abbiamo più solo quella separazione di competenze che vede procedere su binari paralleli le scelte dell’ateneo e le previsioni urbanistiche, ma si verifica invece un caso di scuola di vero e proprio ribaltamento gerarchico tra strumento generale di piano e decisioni di settore [La Barbera 1990, 89-90], con i contenuti della coeva convenzione che, da dispositivo negoziale e strettamente specialistico, assumono il valore di stralcio tematico per il Prg, all’interno di quello che è il più ampio capitolo dei servizi e attrezzature per la cittadinanza [Comune di Bologna 1955a, 24]. Tale impermeabilità tra le scelte di assetto territoriale di queste due istituzioni cittadine è ancora più evidente se vengono prese in considerazione le previsioni contenute nelle Norme tecniche di attuazione del Prg 1955: pur essendo spiccatamente orientate a favorire una futura grande crescita urbana, nel caso dell’università (l’istituzione più importante della città) queste disposizioni non offrono alcuna indicazione specifica, se non una disciplina di completamenti e aggiunte all’esistente [Comune di Bologna 1955b, 34].

All’inizio degli anni Sessanta, si ha l’esaurimento di questa lunga stagione di densificazione edilizia, che si era risolta nella realizzazione di una cospicua quota di nuove strutture universitarie nell’area centrale: una strategia di crescita eminentemente quantitativa, volta a soddisfare fabbisogni immediati ed estranea, pertanto, a qualunque considerazione di prospettiva sul ruolo dell’università bolognese come parte integrante e come fattore strategico per lo sviluppo politico-culturale del territorio [De Carlo 1968a, 19-20]. Nonostante in quegli anni l’università cominciasse a mostrare al proprio interno segnali di maggiore attenzione ad un proprio ruolo di motore per lo sviluppo cittadino, molte di queste virtuose formulazioni, testimoniate dalla prolusione di Michelucci per l’anno accademico 1952-1953 [Michelucci 1954, 139], restano al livello di solo manifesto culturale, cui non fanno seguito conseguenti scelte qualificanti per il territorio. Infine, se l’assenza di una visione territoriale per i processi di sviluppo fino ad allora portati avanti dall’ateneo lascia in eredità un agglomerato di manufatti la cui ubicazione centrale ha posto una pesante ipoteca su qualsiasi scelta successiva di diversa articolazione spaziale delle strutture universitarie, anche dal punto di vista strettamente architettonico essa lascia un campionario di edifici (la Biblioteca di economia, l’Istituto di statistica e, soprattutto, gli istituti di matematica e geologia, progettati dallo stesso Michelucci) che si pongono all’interno del tessuto antico della città quali presenze disfunzionali, intrusive e dequalificate [Koenig 1984, 6].

Con questa controversa situazione ereditata dal passato, che vede l’ateneo bolognese svolgere un ruolo di presenza vitale all’interno del tessuto cittadino ma al contempo essere portatore di carichi d’uso insostenibili e sui quali non si è mai ragionato in termini di compatibilità con le altre funzioni presenti sul territorio, si apre una stagione della politica bolognese nella quale la pianificazione urbanistica diventa riferimento centrale per tutte le iniziative dell’amministrazione municipale. In conseguenza di questo, le questioni fondamentali che vengono assunte come spina dorsale delle previsioni pianificatorie formulate nel decennio successivo al 1960 investono anche l’università e comportano quindi un momento di concertazione e formulazione congiunta delle decisioni prese dall’ateneo e dalla municipalità: integrazione tra programmazione dello sviluppo economico e pianificazione territoriale, infrastrutturazione e accessibilità, un rilancio nella realizzazione di grandi attrezzature specialistiche e, soprattutto, una allargata visione sovracomunale della pianificazione urbanistica, che dovrebbe portare ad una riorganizzazione policentrica dell’area ‘metropolitana’ bolognese, appoggiandosi sul rafforzamento di funzioni che vengono decentrate nei comuni di frangia [Campos Venuti 1961, 18]; tutti questi sono i temi che direttamente o indirettamente andavano a coinvolgere le scelte di sviluppo di una università cittadina in forte crescita.

Lo strumento di pianificazione urbanistica che doveva assumersi il compito di coordinare e fare dialogare tutte queste scelte di settore, garantendo loro una ragionevole prospettiva di attuazione coerente e in tempi utili, è il Piano inter-comunale bolognese (Pic). Senza volere descrivere contenuti e scopi di un dispositivo di pianificazione specialistico come il Pic, è sufficiente dire che esso, per la natura di schema organizzativo di grande estensione, è più un documento politico e di indirizzi per la convergenza delle diverse iniziative sul territorio, che non un piano con indicazioni vincolanti. Nell’ambito di questi temi di settore da coordinare tramite uno schema di decentramento condiviso (politiche abitative, accessibilità infrastrutturale, servizi per la collettività e attrezzature di quartiere), anche il tema degli insediamenti universitari trovava una sua collocazione coerente. Il Pic prevedeva, infatti, una strategia di realizzazione di poli specialistici attrezzati, variamente dislocati lungo le direttrici di sviluppo metropolitano (aeroporto, fiera, centro annonario, le nuove sedi amministrative, un grande quartiere industriale e una piattaforma logistica e trasportistica) e, tra questi, anche l’università veniva ad essere collocata in una nuova sede decentrata, presso il comune di Ozzano dell’Emilia e lungo uno dei quattro assi di sviluppo metropolitano (la c.d. ‘Direttrice pedemontana’), per il quale l’università avrebbe dovuto assumere il ruolo di funzione guida e volano di sviluppo [Comune di Bologna 1967, 153-154]. Le decisioni di decentramento delle funzioni specialistiche nei comuni della prima cintura bolognese hanno costituito, in coerenza con le previsioni allora formulate, il momento centrale per le politiche territoriali bolognesi che vanno dal 1960 al 1980. Questo lungo periodo di attuazione amministrativa ha presentato spesso cambiamenti e rimaneggiamenti delle decisioni iniziali, ma a seguito della continuità e stabilità politica del contesto territoriale bolognese ha, nella quasi totalità dei casi, portato a compimento le trasformazioni previste (anche scontando miopie e inerzie che hanno impedito di rivedere le decisioni prese) [Gullì 2013, 178]. Proprio l’università, invece, ha rappresentato il capitolo più controverso e problematico tra tutte le previsioni urbanistiche avviate in quel periodo: dopo che il Piano-mosaico (uno strumento di coordinamento esecutivo del Pic) aveva provveduto alla definizione delle funzioni universitarie da decentrare e all’individuazione precisa delle corrispondenti aree all’interno del comune di Ozzano Emilia [Comune di Bologna 1968, 184-186], l’università avviava una serie di ricerche e studi approfonditi sulla effettiva soluzione progettuale. L’incarico di studio per il progetto del nuovo insediamento viene conferito ad un gruppo di ricercatori della Facoltà di ingegneria, guidato da Fernando Clemente – studioso che era venuto ad insegnare a Bologna, trasferendosi dalla originaria Sardegna, dove aveva svolto alcune originali indagini sulla disposizione territoriale dei poli di sviluppo specialistici in relazione alla vocazione dei contesti regionali [Clemente 1968, 34-38]. L’intricata vicenda che ha investito la proposta di decentramento del polo universitario bolognese a Ozzano è di grande interesse come caso di studio utile ad esemplificare quei processi di contesa e mutuo aggiustamento tra le parti, che attengono alla negoziazione tra pubblici poteri su alcuni temi strategici [Lindblom 1979, 33-34; Balducci 1991, 64], ma non è possibile riportarne i dettagli nel presente scritto: per offrirne una restituzione sintetica, basta dire che nel giro di pochi anni lo stesso Clemente passa dalle posizioni contenute nella ricerca svolta nel 1966-1969, che affermavano la stretta connessione tra la «pluripolarità del sistema delle attività urbane» in corrispondenza con la «pluripolarità del sistema universitario» (tradotto: la necessità di iniziare una politica di trasferimento esterno delle sedi dell’ateneo) [Università di Bologna 1969, 116], ad una indicazione di segno del tutto opposto, per la quale si bollano le precedenti decisioni di decentramento come frutto di una stagione viziata da una megalomane «enfasi programmatoria», avulsa da qualsiasi attenta considerazione sull’identità del territorio e sul ruolo dell’università come fattore di sostegno diffuso per la qualità dei luoghi [Università di Bologna 1974, 100; Clemente 1975, 39]. Il fallimento delle previsioni di decentramento completo dell’ateneo a Ozzano, fortemente volute dall’allora assessore Campos Venuti, non solo si risolve in un caso esemplare di «trappola delle decisioni congiunte», che alla fine genera il solo e inconsistente trasferimento della sede di veterinaria [Università di Bologna 1974, 110], ma soprattutto apre ad una nuova stagione nella quale le politiche di crescita territoriale delle sedi universitarie riprendono a percorrere una strategia localizzativa frammentaria ed estemporanea, in continua oscillazione tra una nuova e più decisa occupazione dei palazzi storici e un alternativo approccio, nel quale le decisioni di decentramento avvengono a livello addirittura regionale. Clemente, in chiusura dello studio che vuole suffragare questo nuovo orientamento, prova a giustificare una tale schizofrenia decisionale con motivazioni che ancora una volta si appoggiano alla necessità di riconnettersi ad un insieme più esteso di temi e valori territoriali (la salvaguardia e rivitalizzazione dei tessuti antichi, il rafforzamento di un efficiente sistema universitario di scala regionale quale motore di sviluppo, i servizi e l’uso sociale congiunto delle strutture per la cultura), ma la genericità degli schemi che accompagnano queste proposte tradisce apertamente la volontà dell’istituzione universitaria di tornare a difendere gelosamente la propria autonomia rispetto alle decisioni generali di sviluppo territoriale [Università di Bologna 1974, 116-127].

3. Assestamento urbanistico e crescita accelerata delle università di Parma e Ferrara (1945-1968)

Le vicende che restituiscono i momenti e le soglie fondamentali dello sviluppo delle università di Parma e Ferrara differiscono da quanto visto a Bologna per l’estensione dimensionale dei fenomeni trattati, ma nelle loro linee generali ripropongono meccanismi della stessa natura. Si ha quindi non solo la ricorrenza di quel fenomeno tipico delle questioni territoriali, che vede spesso riproporsi alcuni nodi e problemi di fondo in forme che sono in parte diverse per il mutare dei contesti, ma che presentano dinamiche e comportamenti comuni a tutte le pratiche di governo delle trasformazioni [Palermo 2004, 78]. A questa persistenza dei temi fondativi di amministrazione e gestione del territorio, di composizione e montaggio dell’insieme di scelte che fanno riferimento a soggetti e formazioni territoriali molteplici, si aggiunge anche il filo conduttore che vede alcune delle figure di urbanisti e progettisti presenti negli avvenimenti bolognesi – Michelucci, Melograni, Vignali, Clemente – tornare a svolgere un ruolo centrale anche nelle vicende che hanno accompagnato lo sviluppo delle università di Parma e Ferrara.

Come nel caso di Bologna, anche se con una distribuzione delle proprie strutture più frammentata e meno caratterizzata, l’Università di Parma alla vigilia del secondo dopoguerra presenta una configurazione che la vede occupare un insieme di sedi e manufatti storici all’interno del nucleo antico della città, prevalentemente localizzati sul versante ad est del Torrente Parma (se si fa eccezione per la sede dell’ospedale, dal 1925 situato nell’Oltretorrente) [Mambriani 1999, 10]. Conseguentemente a questa condizione localizzativa iniziale, le strategie di sviluppo che coprono i primi quindici anni che vanno dal 1945 al 1960 non si differenziano da quanto visto nel precedente caso bolognese (fatta eccezione per l’assenza di una eredità caratterizzante come quella che a Bologna ha visto la realizzazione del Quartiere universitario di levante): con gli istituti di fisica e chimica che si insediano nel convento di San Francesco di Paola, in via Mazzini [Comune di Parma 1957, 36], non senza conseguenze traumatiche per l’edificio storico [Giandebiaggi 1999, 108-109].

Nel corso degli anni Cinquanta, alcune altre sedi trovano una loro localizzazione stabile, ma si tratta anche in questo caso di una strategia di tipo strettamente quantitativo, orientata a sopperire ad un fabbisogno di crescita per le strutture già esistenti nell’area centrale o, per converso, reperire pragmaticamente altre strutture dove collocare nuovi istituti. Il Piano regolatore del 1957 – firmato da Luigi Dodi, docente del Politecnico di Milano, uno dei decani dell’urbanistica italiana – si limita, come già faceva il piano bolognese del 1955, a fotografare la situazione esistente che riguarda la localizzazione delle sedi universitarie; e a recepirne in modo generico le esigenze di ampliamento, saturazione e densificazione, con la previsione di nuovi padiglioni per le cinque strutture già esistenti (Comune di Parma 1957, 84-85). Anche in questo caso, strumenti di pianificazione comunale e previsioni di sviluppo universitario non solo procedono per binari paralleli e con un livello di scelte che è definito solo alla scala edilizia, ma si rispecchiano in un Prg che opera una ricezione passiva delle scelte pregresse dell’università [Comune di Parma 1957, 84-85].

Decisioni di piano e localizzazione delle nuove strutture universitarie trovano un primo momento di convergenza a posteriori della redazione del Prg del 1957, quando comune e università decidono di sfruttare un’area che il piano aveva destinato alla realizzazione della zona annonaria e del foro boario per localizzarvi la nuova sede della Facoltà di medicina veterinaria. L’area, lungo la strada di Conocchio, è isolata e anche in questo caso la decisione non si colloca all’interno di più ampie e coordinate scelte di articolazione territoriale dell’ateneo. Il progettista incaricato di redigere il progetto urbanistico della nuova sede di veterinaria, anche in questo caso si tratta di Fernando Clemente, individua però in modo attento almeno alcuni elementi di dialogo e coerente inserimento della nuova struttura universitaria rispetto alle altre attrezzature specialistiche che il piano regolatore generale localizzava nel medesimo settore urbano [Clemente 1962, 5].

Questa embrionale prima esperienza di decentramento coordinato di una struttura universitaria all’interno di localizzazioni compatibili con le previsioni di uso del suolo del piano, spinge Clemente a proporre alla municipalità un insieme più deciso di proposte orientate alla costituzione di un polo decentrato – «autonomo e organico», che lo studioso localizza in due nuclei separati: lungo la spina di via Kennedy (a ridosso del Parco Ducale), dove sarebbero andate le facoltà umanistiche, e lungo la via Emilia, a completamento della zona ospedaliera [Università di Parma 1973, 40; Mambriani 1990, 293]. Questo sistema a polarità multiple, alle quali si aggiunge nel 1969 la proposta di un nuovo e più impegnativo campus universitario lungo la direttrice sud-ovest, rimane allo stadio di sola proposta preliminare per tutto il decennio degli anni Sessanta. Al termine di questa lunga fase di dibattito, il progetto di decentramento viene recepito nel nuovo Prg 1969-1973, quale scelta strategica per uno sviluppo urbanistico capace di disporre le proprie previsioni seguendo princìpi di stretta integrazione tra paesaggio, territorio e comunità universitaria cittadina [Clemente 1973, 10-12].

Le vicende fin qui esaminate – il completamento di questo schema policentrico ha poi richiesto più di quindici anni, intercorsi tra il dibattito sulla revisione degli schemi elaborati inizialmente da Clemente e il termine dei primi cantieri – farebbero pensare a un processo più lineare tra decisione politica, pianificazione e realizzazione, rispetto a quanto è stato visto nel caso di Bologna. In realtà, anche nel caso di Parma ci troviamo all’interno di una catena di eventi che ha visto meno scarti e revisioni solo in virtù del fatto che le scelte di sviluppo delle sedi universitarie si sono appoggiate sulle linee di minima resistenza dell’assetto territoriale consolidato, limitandosi poi ad avvalersi della presenza di aree pubbliche già disponibili per le nuove realizzazioni. Un criterio pragmatico e di immediata, minima efficienza, che però ha rinunciato a stabilire alcune strategie condivise di basilare coerenza con le altre scelte di politica pubblica per il territorio [Capano 1998, 50], nonché di riequilibrio complessivo dei rapporti tra università e città [Savino 1998b, 39-40].

Il caso di Ferrara è sotto molti aspetti riconducibile a quello di Parma, con una simile scansione temporale, data dalle tappe di elaborazione dei primi piani urbanistici del secondo dopoguerra. Per converso, le fasi di sviluppo dell’università ferrarese sono spostate di circa dieci anni rispetto a quelle viste a Bologna e Parma. Inoltre, sotto l’aspetto dell’ubicazione e distribuzione delle strutture universitarie sul territorio, l’ateneo ferrarese presentava una più spiccata configurazione di tipo molecolare, con le sue poche e antiche scuole collocate in alcuni preziosi palazzi storici, ma senza che in questo assetto territoriale fosse riscontrabile alcuna logica di concentrazione aggregativa o di funzionamento congiunto: la centralità del Palazzo Paradiso era ormai puramente di rappresentanza e istituzionale, senza vera rilevanza organizzativa o funzionale [Livatino 1981, 227].

L’università ferrarese fino a tutti gli anni Cinquanta perpetua un lungo periodo di stasi e solo alla fine del decennio comincia ad esprimere esigenze di una migliore razionalizzazione delle proprie strutture, allo scopo di fronteggiare l’insufficienza delle sedi storiche esistenti. Le previsioni di crescita erano minime – l’università ferrarese contava allora poco più di 1500 studenti – ma nonostante questo l’ateneo intraprende una strategia di acquisizione e risistemazione di immobili nel centro storico, che cominciano a conferire alla localizzazione delle sedi universitarie un disegno più ordinato e funzionale. Su iniziativa dell’allora rettore Dell’Acqua, la sede centrale dell’università viene collocata nel 1963 all’interno del Palazzo di Renata di Francia [Livatino 1981, 240]; a questa operazione inaugurale fanno seguito poi altre iniziative di reperimento di palazzi storici, per potervi insediare le nuove facoltà (l’istituzione della facoltà di Magistero a Palazzo Tassoni) [Alfieri 1975, 55] o dare migliore sistemazione alle strutture esistenti – come, ad esempio, l’Istituto di matematica [Livatino 1981, 328-329]. Sebbene si tratti nel complesso di iniziative esclusivamente di incremento edilizio, esse qualificano in modo particolare la crescita dell’università di Ferrara nel centro storico: infatti, la localizzazione diffusa e la continuità con la quale tale strategia di crescita è stata perseguita hanno fatto maturare anticipatamente una cultura dei centri storici legata alla presenza di polarità pubbliche qualificanti [Livatino 1981, 310].

A parte questo positivo segnale di attenzione verso la valorizzazione e rivitalizzazione delle aree antiche della città, la singolarità di queste operazioni tiene lontane e separate le strategie di riorganizzazione dell’ateneo e le previsioni dei piani urbanistici coevi. Questa lunga fase di crescita incrementale all’interno del patrimonio storico esistente è, difatti, testimoniata dalle scarne indicazioni che anche gli strumenti urbanistici contengono riguardo al tema universitario. Il Prg del 1958, della cui redazione viene incaricato Giovanni Michelucci, contiene poche annotazioni, esclusivamente descrittive, sull’assetto delle sedi universitarie, senza alcun accenno ad eventuali esigenze di crescita, nemmeno in connessione con le previsioni di sviluppo delle sedi ospedaliere o delle sedi storiche in via di ricollocazione [Comune di Ferrara 1958, 42]. Non si sa se a causa della loro localizzazione circoscritta o della scarsa propensione di Michelucci ad operare indagini approfondite sul territorio e sulle dinamiche in atto, ma nella cartografia del piano le sedi dell’università non vengono nemmeno mappate nel corso delle indagini preliminari [Sansoni 1955, 93].

Tale lungo periodo di crescita esclusivamente edilizia copre tutti i primi due decenni del dopoguerra e porta l’università di Ferrara a saltare i momenti di rottura che hanno scandito i passaggi cruciali di sviluppo delle altre sedi prima esaminate: la sostituzione dell’esistente, il dibattito sull’infrastrutturazione, il decentramento. Questo ha portato ad alcune conseguenze che caratterizzano in modo peculiare il caso ferrarese: solo alla fine degli anni Sessanta l’ateneo decide di abbandonare la strategia di crescita incrementale fino ad allora praticata e formulare una ipotesi di piano per lo sviluppo territoriale dell’ateneo. Tale documento, elaborato da Melograni e Veronese tra il 1968 e il 1971, formula uno schema complessivo di assetto nel quale si combinano il rafforzamento dei nodi storici e alcune cruciali scelte per nuove strutture all’esterno della cerchia antica [Livatino 1981, 228-229 e 245]. La formulazione di questa più organica e compiuta proposta di sviluppo dell’ateneo si scontra però con le difficoltà di coordinamento e recepimento all’interno del nuovo piano regolatore, in faticoso corso di elaborazione negli stessi anni. Ai ritardi e agli intoppi di coordinamento amministrativo, si aggiungono poi anche difficoltà finanziarie e di reperimento delle risorse, che spingono l’ateneo a ripiegare su una rinnovata fase centrata sulla localizzazione in ulteriori sedi in ambito storico [Livatino 1981, 246-247]. Per tale ragione, le strategie che segnano la stagione nella quale l’università comincia a crescere maggiormente si concentrano sulla risistemazione di alcuni importanti complessi monumentali nel pieno del centro antico (i palazzi Trotti-Mosti, Giordani e Bagno), acquisiti alla fine degli anni sessanta [Ortalli 1975, 64], con la formazione di un nuovo polo centrale per il quale l’università affida a Clemente l’incarico di studiare uno schema di adeguamento e miglioramento funzionale, nonché di coerente inserimento complessivo all’interno delle altre funzioni storiche [Livatino 1981, 231; Clemente 1975, 37].

Sarà tale impostazione a condizionare anche le successive fasi di sviluppo che, a partire dall’inizio degli anni Settanta, segneranno un chiaro salto quantitativo e di scala nella crescita territoriale dell’ateneo, ma senza discostarsi in modo sostanziale dalle logiche che erano state perseguite dagli organi di governo accademici nelle precedenti stagioni.

4. Interpretazioni di prospettiva

Le vicende descritte in queste note restituiscono una storia che ha visto il rapporto tra le scelte insediative degli atenei emiliano-romagnoli e la disciplina dei piani urbanistici mostrare una continua oscillazione tra conflitti e convergenze. Questo aspetto testimonia non solo la natura costitutivamente diversificata dei soggetti coinvolti e dei processi di governo del territorio che li hanno interessati, ma soprattutto fa emergere come nella costruzione delle politiche territoriali l’istituzione universitaria svolga un ruolo centrale e che pertanto un suo coinvolgimento distorto in questi processi lascia al territorio e al sistema universitario stesso una pesante eredità di problemi irrisolti. Ormai da molto tempo la disciplina urbanistica ha tralasciato la trattazione e lo studio dei temi della pianificazione universitaria; il fatto che questo sia avvenuto anche nelle recenti esperienze di amministrazione delle città dell’Emilia-Romagna, che pure a tali aspetti avevano dedicato particolare attenzione, fa emergere la necessità che si possa avviare su questi temi una stagione di rinnovata attenzione, da parte di studiosi, tecnici, amministratori e istituzioni accademiche.


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