1. Premessa
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, l’attenzione scientifica si rivolge all’infanzia. La medicina, in particolare, grazie ai progressi nelle terapie, nella definizione e prescrizione delle cure, viene investita della funzione sociale di stabilire i parametri dell’infanzia “normale”. Nasce la pediatria, per soddisfare la «riconosciuta necessità di tutelare medicalmente prima di tutto l’infanzia e soprattutto quella povera» [Rollet 2001]. Mettendo in luce «l’importanza delle condizioni di vita e del contesto sociale nella promozione della salute», come sottolineano Babini e Lama [Babini, Lama 2000, 53], l’igiene assume un ruolo sempre più decisivo. L’accresciuta importanza attribuita alla cura del corpo dei bambini grazie al diffondersi delle pratiche e del sapere pediatrico, nonché l’urgenza di far fronte a malattie infantili ampiamente diffuse tra i più disagiati, come il rachitismo, la tubercolosi ossea e la scrofolosi, danno avvio in quel periodo all’esperienza delle colonie. Istituite dappertutto in Europa nel corso dell’Ottocento, grazie al sostegno dei medici che ne sottolineavano l’efficacia terapeutica, fin dalla prima esperienza avviata a Viareggio nel 1856, esse si diffusero in poco tempo in molte realtà italiane. Inizialmente finanziate e gestite da privati e da istituzioni religiose, in Italia si sarebbe dovuto attendere il fascismo per una piena presa in carico di tali strutture da parte dello Stato, anche a fini ideologici di consenso a livello popolare [Mira 2019, 19; Comerio 2023]. La scelta di istituire colonie nelle località balneari – che, supportate da precise prescrizioni mediche, divennero presto dei veri e propri sanatori con finalità terapeutica – fu dovuta alla consapevolezza della salubrità dell’ambiente marittimo. Esse dunque, come ha messo in evidenza Valter Balducci, sono parte della storia della salute, dell’educazione e delle istituzioni che si sono occupate dell’infanzia [Balducci 2005, 8]. Come scrive Luca Comerio,
da un punto di vista storico-pedagogico, il fenomeno delle colonie si colloca però anche nel solco di quella secolare e autorevole corrente di teorici e di educatori che vedono la dimensione en plein air come il contesto privilegiato per uno sviluppo armonioso e globale del bambino, in sintonia con i suoi più autentici ritmi di crescita e nella prospettiva di un apprendimento basato sull’esperienza [Comerio 2023, 22].
A partire da queste brevi premesse, il presente articolo prende in esame la documentazione conservata presso l’Archivio storico della Città metropolitana di Bologna [1] per tracciare la storia delle colonie gestite dalla Provincia tra il 1950 e il 1970, con particolare riferimento a quelle preposte ad accogliere i bambini illegittimi e indigenti, assistiti dall’Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità (Ipim): in questo lasso temporale è possibile cogliere le trasformazioni che hanno investito tali strutture che, via via, superarono le iniziali finalità meramente assistenziali e sanitarie per assumere una funzione più ampia di servizio sociale e educativo, in un contesto in cui l’educazione extrascolastica acquista progressivamente una maggiore valorizzazione [Comerio 2023, 34], anche a livello storiografico, dove era stata per lungo tempo relegata in una posizione marginale e subordinata al sistema scolastico [Zago 2017, 4]. Del resto, con gli anni Sessanta del Novecento, l’utilizzo del termine “casa di vacanza”, nel senso di luogo di cura educativa, in sostituzione del nome “colonia”, rappresenta indubbiamente un segno di quel mutamento che viene a caratterizzare diverse realtà dell’area emiliano-romagnola: si pensi, per esempio, alle esperienze promosse da Margherita Zoebeli presso il Villaggio italo-svizzero di Rimini e alla Casa di vacanze avviata e diretta da Loris Malaguzzi a Reggio Emilia [Zanetti 2011; Barbieri 2017], entrambe espressione dell’azione svolta dai Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva (Cemea), onde favorire in ogni modo il benessere dei piccoli ospiti, all’insegna di uno spirito comunitario. Come ha evidenziato Nicola Barbieri, a proposito dell’iniziativa di Reggio Emilia, si trattava di un «vero e proprio laboratorio pedagogico, nel quale l’embrione di un nuovo approccio educativo era stato impiantato» [Barbieri 2017, 174]. Nelle giornate di studio dedicate al tema La casa di vacanza come servizio sociale, Loris Malaguzzi intervenne con una relazione che ci permette di porre in luce il carattere pedagogico di quell’esperienza:
La colonia (marina o montana) deve essere disancorata dai suoi vecchi e tradizionali concetti di beneficienza, di patronato, di luogo di cura eminentemente medico. [...] La Colonia nella sua nuova concezione deve ispirarsi alla moderna definizione di salute che non è soltanto assenza di malattie ma stato completo di benessere, di equilibrio psicologico nella piena fioritura della personalità individuale e sociale; deve promuovere ed enucleare la sua organizzazione educativa attorno ai bisogni “storicamente individuati” del fanciullo in una esperienza e in una verifica continua vissuta comunitariamente a tutti i livelli responsabili; deve soprattutto agire nella consapevolezza di rappresentare [...] un’occasione tra le più favorevoli per il dispiegarsi di un’originale esperienza formativa, tale da riassumere nei suoi momenti essenziali modelli esemplificanti per un rinnovamento della dottrina e della prassi pedagogica generale nel nostro Paese. [...] Con attento e misurato esame critico la Casa di Vacanza può realizzare oltre a soluzioni di pura integrazione e arricchimento [in continuità con la scuola e la famiglia], una preziosa azione di riequilibrio e aggiustamento psicologico [Malaguzzi 1964, 11-13].
2. L’avvio delle colonie estive dell’Amministrazione provinciale di Bologna
Le carte dell’Archivio storico della Città metropolitana di Bologna mostrano che negli anni Cinquanta del Novecento era emersa l’esigenza di poter disporre sul territorio di un maggiore numero di colonie [2]; era la stessa amministrazione provinciale a sottolinearlo in una serie di documenti del 1952, che denunciavano la sproporzione tra la disponibilità di posti nei «pochi preventori esistenti nella zona» e il numero dei bambini che ne avrebbero avuto necessità [3]. Lamentavano il medesimo problema altri organi come l’Eca (Ente comunale di assistenza), che riportava i risultati di un’indagine compiuta nel 1951, da cui era emerso che solo il 44% dei loro assistiti, tra i 6 e i 12 anni, «aveva potuto usufruire durante l’anno delle Colonie estive gestite dai vari Enti cittadini». La necessità che un maggiore numero di bambini potesse godere dell’assistenza estiva era evidenziata anche dall’Unione nazionale salvezza infanzia (Unsi), di cui era presidente Liliana Alvisi, che nella seduta di quello stesso anno poneva come ordine del giorno proprio “La Difesa e la tutela dei diritti delle Colonie democratiche”.
Immediati furono gli sforzi dell’Amministrazione provinciale per trovare una soluzione, che venne individuata nella costruzione ex novo di una colonia, tale da permettere di «soddisfare le più moderne esigenze estetiche, funzionali ed igieniche» senza investire ingenti somme nei lavori di ristrutturazione o adattamento/adeguamento allo scopo di fabbricati già esistenti. Le «condizioni deficitarie del bilancio» portarono però la Giunta provinciale amministrativa (Gpa) di Bologna, nel corso di una seduta dell’11 luglio 1952, a esprimere parere negativo [4]. Un nuovo tentativo fu fatto l’anno successivo, con la proposta di affittare, nel periodo estivo, uno stabile che avrebbe dovuto accogliere 650 bambini, dai 6 ai 12 anni, selezionando i più poveri «con particolare riferimento a quelli più bisognosi della montagna, gli illegittimi e i minorati psichici assistiti dalla Provincia». Anche in questo caso, per ragioni economiche [5], la proposta non venne realizzata e quell’anno i bambini dell’Ipim e dell’istituto medico psico-pedagogico di Imola poterono avvalersi delle colonie marine e montane gestite dall’Unione salvezza infanzia.
La prima colonia dell’Amministrazione provinciale di Bologna vide la luce nel 1954. La colonia già Busto Arsizio [6], sita a Igea Marina, in via Cristoforo 151, venne avviata con delibera consiliare del 10 aprile, una volta ottenute le autorizzazioni da parte della Giunta provinciale amministrativa e della Prefettura, e aperta il 30 giugno di quell’anno. Furono accolti, organizzati in tre turni, 469 bambini [7]. Un numero cospicuo era rappresentato da minori appartenenti all’Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità, istituito nel 1940, nel momento in cui la gestione dell’assistenza all’infanzia illegittima venne affidata alla Provincia che, con l’intento di soddisfare le esigenze non solo dei piccoli assistiti, ma anche delle loro madri, aveva introdotto diversi cambiamenti, ampliando non solo l’offerta medica, ma anche gli spazi, per consentire a un gran numero di bambini di rimanere all’interno dell’istituto ed evitare il ricorso alle balie esterne. È interessante poi notare che, a partire dal 1959, presso quegli stessi locali sarebbe stata avviata una sperimentazione, tra le prime in Italia, finalizzata alla formazione di piccoli nuclei familiari, ciascuno composto da un massimo di otto-dieci bambini e diretto da una “maestra giardiniera specializzata” che aveva il ruolo di “vice madre”. Si voleva in sostanza creare attorno ai cosiddetti “figli di ignoti” un clima, per quanto possibile, simile a quello familiare vissuto dai coetanei, che consentisse loro nel futuro di «inserirsi nella vita sociale, non solo senza complessi di inferiorità morale, ma con piena capacità psico-intellettiva». In quest’ottica, venivano poi previste uscite esterne e passeggiate in città volte a mettere i bimbi a contatto con il mondo esterno. Come si vedrà più avanti, la figura della maestra giardiniera assunse un ruolo educativo fondamentale all’interno delle colonie, entrando a pieno titolo a fare parte del personale.
Per poter fruire della colonia, l’Ipim poteva avvalersi della somma del bilancio speciale [8], considerato il fatto che molti di quei bambini e adolescenti, per la loro gracilità, avrebbero tratto notevole beneficio da un soggiorno marino e da una «cura climatica» [9]. Nel periodo estivo, per molti anni consecutivi, infatti, l’Istituto al completo (bambini, personale e pure il mobilio) veniva perciò trasferito presso la colonia di Igea Marina.
La relazione del 1954 sull’attività della colonia dell’Amministrazione provinciale di Bologna a Igea Marina, a firma di Luciano Raggi [10], fornisce alcuni elementi che permettono di mettere in luce il suo funzionamento e l’organizzazione interna. Qui si apprende che venivano accolti bambini anche sotto i sei anni, se messi in opera i dovuti accorgimenti. Tutti gli ospiti venivano sottoposti, prima della partenza, a un esame radioscopico (svolto presso lo stesso Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità), che consentisse al medico della colonia un miglior controllo sui soggetti in condizioni fisiche non perfette. La relazione riporta poi una testimonianza della vita quotidiana della colonia, organizzata da un preciso programma di attività, prestabilite secondo l’orario giornaliero, stilato con il personale sanitario dell’Ipim. Le cure marine, come l’aeroterapia, l’elioterapia, la talassoterapia e la balneoterapia, occupavano tutta la mattinata, durante la quale erano previsti anche esercizi di ginnastica da svolgersi prima della colazione e dopo il bagno, in spiaggia. Alle vigilatrici era raccomandato di controllare che tutte le attività fossero eseguite con la massima disciplina e ordine, che fossero rispettati la separazione e il distanziamento dei bambini nonché fossero osservate, con la massima scrupolosità, alcune norme di esposizione al sole. Il pomeriggio era invece dedicato al riposo, alla merenda, alle passeggiate e ai giochi in spiaggia. Nei momenti di ricreazione i bambini erano tenuti a svolgere diverse attività, come il ricamo, il lavoro col traforo, il disegno, oltre a tenere un diario sulla vita in colonia. Nel corso della giornata, che si concludeva con un momento di preghiera, erano stabilite due visite mediche. Alla fine della villeggiatura era poi previsto un saggio finale che coinvolgeva tutti gli ospiti. Qui il programma dettagliato:
Ore 7 – sveglia e preghiera; ore 7-7,30 pulizia personale; ore 7,30-8 educazione fisica; ore 8-8,30 colazione; 8,30-9,30 visita medica, ricreazione, gioco all’ombra; 9,30-10 sistemazione squadre sulla spiaggia, costume da bagno, 10-10,30 elioterapia, 10,30-10,45 talassoterapia, 10,45-11 prosciugamento al sole e cambio costume, 11-12 gioco all’ombra; 12-12,30 pulizia; 12,30-13,30 pranzo; 13,30-14 pulizia personale; 14-15,30 riposo; 15,30-16 visita medica, ricreazione; 16-19 merenda, passeggiata e gioco; 19-19,15 pulizia personale; 19,15-20 cena; 20-20,30 ricreazione, pulizia; 20,45 preghiera e riposo.
Il documento di Raggi contiene le relazioni sanitarie stilate alla fine di ogni turno dalle dottoresse preposte al servizio sanitario. Tutti i bambini, all’arrivo e prima della partenza, venivano visitati e minuziosamente pesati e misurati, sottoposti agli esami radiologici con eventuali indicazioni di seguire cure specifiche secondo le necessità; come anticipato, era stato predisposto un isolamento immediato in caso di malattie infettive. Per ogni bambino veniva compilata una scheda sanitaria, da cui emerge che tutti gli ospiti al termine del periodo in colonia erano aumentati di peso. Durante il soggiorno, i piccoli ospiti avevano la possibilità di ricevere visite da parte dei loro genitori ed erano inoltre previste ispezioni da parte delle autorità competenti.
Nonostante il mutamento del clima politico e culturale, il programma attuato nella struttura istituita dall’Amministrazione provinciale di Bologna lascia presupporre che, ancora nei primi anni Cinquanta del Novecento, pur con qualche rara eccezione [11], le colonie continuassero a rispondere alle finalità del passato: una «struttura asilare verticale e chiusa» [Frabboni 1971, 99], microcosmi separati dall’ambiente circostante in modo che tali spazi fossero «completamenti isolati» e che non fosse «possibile una promiscuità dei coloni con la popolazione civile» [Martelli 1965, 87], regolamentati in ogni dettaglio procedurale e organizzati secondo rigide gerarchie («il direttore, il medico e il cappellano, il vicedirettore, l’assistente sanitaria, l’economa e la segretaria, le vigilatrici e il personale inserviente […] col compito di predeterminare gli obiettivi, i contenuti e i metodi, e di gestirne la realizzazione» [Frabboni 1971, 99]). Statuti e regolamenti disciplinavano in modo meticoloso ogni momento della giornata; tempi, ritmi, attività si svolgevano secondo una routine che non ammetteva la minima variazione e si esprimeva in precisi rituali dal forte accento simbolico. Il suo carattere inglobante si manifestava nell’appropriazione del tempo e degli interessi dei piccoli assistiti, offrendo in cambio un particolare “tipo di mondo”. Organizzato un tempo seriale, venne strutturato anche uno spazio seriale: stare al proprio posto in senso fisico – in refettorio, in camerata, in spiaggia – aveva importanti ripercussioni in senso psicologico, in modo da favorire un comportamento obbediente e rispettoso verso la “macchina” istituzionale.
3. La svolta
Il 1956 fu un anno cruciale per la storia delle colonie gestite dalla Provincia di Bologna poiché rappresentò il momento in cui prese avvio il primo organico tentativo volto a un rinnovamento strutturale e operativo. In tale direzione si situa la nomina di una Commissione consiliare colonie, a seguito della quale tali istituzioni mutarono il loro assetto, nonché le finalità e conseguenti linee educative. La Commissione, a partire dal 1958, fu presieduta [12] da Clotilde Bolzani, che può essere ritenuta una figura-chiave di questa svolta innovatrice, finalizzata a trasformare le colonie in veri e propri servizi educativi extrascolastici, tramite la crescente qualificazione pedagogica del personale: attiva sin da giovanissima nel sindacato edile, poi nel Partito comunista, nell’Unione donne italiane e nell’Eca provinciale di Bologna, dal 1956, la Bolzani venne nominata consigliera provinciale, delegata della Provincia all’Ipim nel 1960, assessore provinciale nel 1965 (Assistenza sociale e infanzia) e infine, nel 1970, divenne sindaco di Anzola dell’Emilia. Il suo impegno si indirizzò in maniera specifica all’incremento e allo sviluppo dei servizi rivolti all’infanzia e alla maternità [Venturoli 2013, 141-146]. Come affermava nell’introduzione al breve resoconto delle attività svolte dalla Provincia, «la vacanza estiva di bambini pertanto non è più un problema puramente assistenziale ma, pur nella sua autonomia, va visto come momento educativo nella vita del bambino». E, ancora, sempre in quello stesso opuscolo, rimarcava la necessità «che il parlamento si decid[esse] ad annullare la struttura dell’ONMI la quale costituisce una inutile, costosa e dannosa bardatura, che proprio per la sua organizzazione verticale e burocratica non è in grado di provvedere ad una seria programmazione né di svolgere una valida gestione democratica» [Bolzani 1970, 5]. Il cambiamento, da lei auspicato, evidenziava in primo luogo la necessità di avvalersi di personale dotato di una formazione pedagogica e, in mancanza di nuove figure specializzate nell’educazione extrascolastica, si dovette ricorrere alle insegnanti di scuola materna ed elementare.
Di conseguenza, dal 1961, furono avviati corsi di formazione e di aggiornamento per assistenti e dirigenti di colonia, nell’ambito dei quali risulta essere basilare l’acquisizione delle nuove metodologie in campo educativo, curando in modo particolare le tecniche espressive, creative e ludiche. Del resto, non dobbiamo dimenticare che già qualche anno prima, anche in Italia, erano state avviate le esperienze dei Cemea, che avevano riguardato in primo luogo la formazione dei monitori delle colonie di vacanza, ambito che presentava, agli occhi dei delegati, problemi davvero urgenti per la scarsa offerta di attività, per l’assenza di preparazione del personale [Comerio 2023, 113]; come è noto, i corsi residenziali Cemea erano stati introdotti in Toscana, nel 1950, da Margherita Fasolo, allieva di Ernesto Codignola, onde poter offrire agli insegnanti la possibilità di acquisire tecniche e metodologie attive.
A partire dal 1963, le colonie gestite dalla Provincia di Bologna si dotarono così di precisi “programmi pedagogici”, accomunati da uno stile operativo, che possiamo ritrovare nelle parole della direttrice della colonia Ridente, Giovanna Berardi: «non si tratta più di prevedere un programma rigido, ma occorre far in modo che durante la giornata si possa dar spazio ad attività di diverso tipo» poiché, scrive ancora, «è assurdo […] parlare di dividere la giornata in tanti episodi come se ci fossero delle ore fisse per educare, per essere allegri, per conversare. In un gruppo ben affiatato tutto il giorno è un seguito di belle occasioni che sarebbe assurdo voler sistemare in uno schema o tanto meno voler rigidamente predisporre» [13].
La vita all’interno della struttura risultava caratterizzata da un clima accogliente e non rigido, come invece era in passato, volto a sostenere i bambini e i ragazzi nella crescita della loro personalità; si stimolava l’organizzazione di gruppi, concepiti come aggregazioni flessibili in funzione delle molteplici e differenziate attività da svolgere negli spazi interni e in quelli esterni, rispettando gli interessi e i bisogni del singolo, sviluppando l’autonomia personale e al tempo stesso la socializzazione. Rispetto alle precedenti limitanti norme igieniche, a partire da questo momento la vita in colonia non rappresenta più uno spazio separato dal mondo esterno, ma si apre al territorio, con la proposta di gite ed esperienze volta alla conoscenza diretta dei luoghi circostanti. A titolo esemplificativo, risulta interessante riportare il programma pedagogico della colonia di vacanza Bamby di Pinarella:
Il programma che ci proponiamo di svolgere e che qui sarà delineato, si articola in alcune forme di educazione, proprio perché l’educazione che vogliamo dare non sia unilaterale ma integrale e sia al tempo stesso educazione morale, sociale, civica, fisica, culturale, estetica, religiosa.
Educazione morale, civica, sociale, religiosa.
Nella vita di ogni comunità, e quindi nella vita della colonia, mille sono le occasioni e gli spunti che si possono trarre per far sì che i ragazzi apprendano buone abitudini, un comportamento equilibrato, un modo di vivere civile. […] Favoriremo lo spontaneo creare di gruppi di lavoro abbandonando quel concetto di squadra che è in contrasto con la pedagogia più avanzata, perché non tiene conto dei bisogni psicologici del fanciullo. Le squadre vengono fatte con criteri che non hanno niente a che fare con il bambino. Il gruppo invece si forma spontaneamente per libera scelta degli stessi membri in rapporto agli interessi, ai bisogni alle attitudini di ciascuno. […] Con l’attribuzione di piccoli incarichi […] cercheremo di educare i ragazzi al senso di responsabilità, alla gioia di rendersi utile ai compagni, di sentirsi membri attivi e responsabili di un gruppo sociale […].
Educazione culturale
Il mare, la spiaggia, la pineta, la strada, offrono sempre l’argomento di conversazione sulla fauna, sul commercio, sui costumi, sulla geografia dei paesi litoranei.
[…]
Educazione fisica
L’educazione fisica che vogliamo promuovere sarà piuttosto educazione sportiva. […] Saranno invece sollecitati i giochi collettivi e le gare sportive, la corsa, la staffetta, il salto il lungo, in alto.
Questa attività sarà oltre che educazione fisica anche educazione morale e sociale.
[…]
Educazione estetica
Il canto e l’audizione di buoni dischi saranno utili per abituare i ragazzi ad apprezzare la musica e le canzoni che educano il sentimento, il gusto estetico e hanno potere disciplinare.
[…]
Il disegno, la pittura, il modellaggio sono attività espressive di primaria importanza in modo particolare nelle giornate in cui per ragioni di mal tempo non si può stare all’aperto.
[…]
Attività ludica
È l’attività predominante per il bambino che gioca tutto il giorno o a gruppetti di due o tre e a gruppi più numerosi. […] È più opportuno che l’insegnante regoli il gioco dei vari gruppi senza intervenire inopportunamente ma al momento giusto, quando è necessario e con il dovuto modo senza mai imporre la sua volontà. Anche la scelta del gioco deve essere fatta dai bambini […] [14].
Purtroppo, nella maggior parte dei casi, le stesse direttrici riportano che, considerato il tempo limitato dell’esperienza in colonia e soprattutto a causa della mancanza di fondi, tali programmi non venivano realizzati nella loro interezza; si può tuttavia cogliere un cambiamento di prospettiva, sulla base dell’esigenza di dotare di una qualificazione pedagogica i servizi extrascolastici rivolti all’infanzia e all’adolescenza, alla luce dei mutamenti in atto in quegli anni[Ansani, Baroncelli 1973, 75-79; Comerio 2020, 362-367], che portò, via via, alla fase conclusiva dell’esperienza delle colonie. E che queste ultime fossero ormai istituzioni da superare e sostituire con nuovi e più qualificati interventi lo si evince anche da una lettera del 12 giugno 1973, stilata dagli educatori di un gruppo-appartamento del quartiere Bolognina [15], gestito sempre dall’Ipim: erano queste le prime sperimentazioni che intendevano porre fine ai “collegi-caserma” per i minori e promuovere la realizzazione di comunità educative a carattere familiare, dove costituire gruppi abitativi di dimensioni ridotte, onde favorire lo sviluppo armonico delle giovani personalità in formazione, in stretto rapporto con il territorio (la scuola, il quartiere, ecc.). In quella lettera indirizzata ai consiglieri di quartiere e all’assessore all’Infanzia della Provincia, gli educatori mettevano in discussione le pratiche fortemente spersonalizzanti delle colonie, suggerendo di sostituirle con esperienze di campeggio, in grado, a loro avviso, di sviluppare capacità di auto-organizzazione e stimolare un maggiore senso di appartenenza al gruppo:
la fruizione di una villeggiatura concepita come momento di svago in un posto diverso dalla città, quanto la ricerca di situazioni e condizioni più stimolanti ed aperte di quelle che offre l’appartamento per poter instaurare una corretta dinamica di rapporti al proprio interno. […] a nostro avviso il modo più corretto di andare incontro a queste esigenze è la responsabilizzazione individuale di tutti i componenti. […] Si è quindi a priori eliminata l’eventualità di una vacanza in colonia poiché si tornerebbe a un tipo di istituzionalizzazione contraddittorio alla funzione stessa del gruppo. […] Sarebbe molto utile quindi che parte delle vacanze venissero trascorse in un luogo aperto il più possibile che sgravi il gruppo dall’impegno, troppo limitante almeno in questa fase iniziale, della conduzione di un appartamento e nello stesso tempo coinvolga tutti in modo naturale e spontaneo sia nella preparazione dell’habitat […] sia nello svolgimento, meno gravoso delle pratiche giornaliere, sia nelle scelte che riguardano il tempo libero. Riteniamo che il ritmo di vita che si svolge nel campeggio sia lo strumento più adatto per tentare di risolvere i problemi su esposti.
In conclusione, le colonie nate tra Otto e Novecento, al fine di tutelare il benessere fisico dell’infanzia più disagiata, videro, durante il fascismo, la loro conversione in strumenti di propaganda e di indottrinamento, per essere poi oggetto di una profonda revisione che le ha trasformate, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, in servizi di tipo ricreativo, sulla base di una nuova visione pedagogica del tempo libero, che dall’inizio degli anni Ottanta ha portato alla completa dismissione delle cosiddette colonie. Proprio nell’ambito di tali significativi cambiamenti, si inserisce l’opera dell’Ipim, che dapprima, grazie al contributo di alcune figure-chiave, è riuscita ad imprimere un carattere educativo alle istituzioni extrascolastiche, ed in particolare ai soggiorni estivi, fino poi a prediligere nuove forme alternative, come il campeggio, in grado di rispondere maggiormente alle esigenze del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza.
Bibliografia
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Cinzia Venturoli, La Vita di Tilde Bolzani, in Le italiane a Bologna. Percorsi al femminile in 150 anni di storia unitaria, a cura di Francesca Tarozzi, Eloisa Betti, Bologna, Editrice Socialmente, 2013, pp. 141-146. - Zago 2017
Giuseppe Zago, Extrascuola e storiografia educativa. Linee di ricerca su un trentennio, in L’educazione extrascolastica nella seconda metà del Novecento. Tra espansione e rinnovamenti (1945-1975), a cura di Giuseppe Zago, Milano, FrancoAngeli, 2017, pp. 9-14. - Zanetti 2011
Patrizia Zanetti, I servizi educativi prescolastici a Reggio Emilia: le scuole dell’infanzia e le colonie estive, Padova, CLEUP, 2011.
Note
1. Ringrazio la dott.ssa Maria Letizia Bongiovanni e il dott. Francesco Rosa per avermi agevolata nel reperimento delle carte e per avermi sempre supportata con grande professionalità e umanità.
2. Sulle colonie esistenti a Bologna prima del periodo preso in considerazione dal presente articolo si veda D’Ascenzo 2019.
3. Archivio storico della Città metropolitana di Bologna (ASCMBO), Archivio generale, 1952.
4. ASCMBO, Archivio generale, Assistenza dei fanciulli illegittimi e poveri della Provincia presso colonie climatiche estive, Deduzioni, 1952.
5. Il 17 maggio del 1953 infatti la Gpa, esaminato il bilancio preventivo, aveva proposto la cancellazione del fondo.
6. La colonia in passato era stata occupata da una colonia Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) di Busto Arsizio.
7. In totale, 363 erano gli esterni, 169 provenivano dall’Ipim, nello specifico 243 i «poveri della montagna» a carico della Provincia, 77 i bambini «illegittimi riconosciuti», assistiti all’esterno e inviati dall’Ipim, 17 gli «esposti affidati a custodia» inviati dall’Ipim, 106 gli «illegittimi riconosciuti ed esposti», assistiti all’interno dell’Ipim e inviati dall’istituto stesso, 24 i figli di dipendenti dell’Amministrazione provinciale inviati dal Comitato intersindacale, dieci a carico proprio, ai quali era aggiunta una bambina «illegittima riconosciuta» inviata dal brefotrofio di Imola.
8. Cap. 14, art. 50 Bagni marittimi, termali, colonie montane, ecc.
9. ASCMBO, Archivio generale, 1954.
10. ASCMBO, Archivio generale, Relazione illustrativa sulla costruzione di una colonia marina della Provincia (nel piano del bilancio straordinario), 19 giugno 1952.
11. Dal 1951 al 1962, per esempio, Giovanna Caleffi Berneri promosse esperienze di comunità estive dove l’aspetto ludico-ricreativo assunse una dimensione centrale: «Rispetto alle colonie vigenti in Italia, fin dai tempi del fascismo, si trattava in questo caso di un originale esperimento di comunità “senza governo”, grazie all’ambiente accogliente, immerso nella bellezza del paesaggio: piccoli gruppi di bambini e adulti che vivevano insieme per un periodo temporaneo, in un clima di socialità e di reciproco rispetto per la libertà di ciascuno» [Pironi 2014, 141].
12. L’incarico era stato assunto dal 1956 al 1957 da Dante Palmieri e dal 1957 al 1985 da Diana Sabbi.
13. ASCMBO, Archivio generale, 1963.
14. ASCMBO, Archivio generale, Programma pedagogico della colonia di vacanza Bamby di Pinarella, 1963.
15. Questo gruppo-appartamento era sorto l’8 marzo del 1973, in alternativa alle forme di istituzionalizzazione, allora vigenti, con l’obiettivo, come si legge da una relazione stilata dagli educatori che lavoravano al suo interno, «di garantire un ambiente stabile e una tranquillità di rapporti personali ben individualizzati, basi indispensabili allo sviluppo della personalità e all’effettivo inserimento sociale dell’individuo». Si tratta di una «esperienza essenzialmente dinamica […] che cerca di rendere più rapido ed effettivo il reinserimento sociale». Qualche anno prima, tra gli anni 1969 e 1972, erano stati avviati due “focolari-famiglia” per i ragazzi dell’Istituto medico psico-pedagogico Sante Zennaro di Imola con lo scopo di «interrompere l’istituzionalizzazione di quei giovani assicurando loro una sistemazione più aderente all’ambiente umano e sociale e sperimentando in tal modo un’alternativa all’istituzione chiusa nel contesto di una evoluzione più globale della politica assistenziale». ASCMBO, Archivio generale, Costituzione di un gruppo-famiglia per minori assistiti dall’Ipi nel quartiere Bolognina, prot. n. 5209.