Difficilmente è possibile trovare il territorio carpigiano annoverato tra le esperienze di zona libera durante il biennio resistenziale. A confronto delle più note repubbliche di Montefiorino, della Val d’Ossola o della Carnia, infatti, parecchie e sostanziali differenze spiegano tale assenza, anche se questa zona dell’alta pianura modenese visse un periodo di relativa libertà; o, quantomeno, di forte mobilitazione partigiana sia dal punto di vista militare, sia nella tutela della popolazione. Proprio per questo è preferibile e più corretto intendere il Carpigiano e le campagne ad esso limitrofe come «zona franca», piuttosto che come zona libera. Esso non fu nella pratica liberato dai nazi-fascisti ad opera dei partigiani, né vi furono istituite giunte popolari di governo che si occupassero dell’amministrazione secondo le direttive previste dal Clnai, però, il territorio agricolo nella periferia della cittadina fu reso praticamente inaccessibile alle truppe nazi-fasciste − che mantenevano le sedi del potere nei centri cittadini e riuscivano a penetrarvi soltanto grazie a rastrellamenti massicci e organizzati; e posto sotto il controllo delle formazioni gappiste e sappiste della pianura, libere di muoversi e organizzarsi tra le campagne grazie al sostegno concreto e reciproco della popolazione.

Nella divisione della pianura modenese – comprendente 7 zone partigiane −, appartenevano alla I zona i comuni di Carpi, Soliera, Novi, Campogalliano e alcune frazioni di Modena: Ganaceto, Lesignana, Villanova. Tale articolazione organizzativa fu assunta dalla struttura definita dal Pci nella provincia alla fine del 1943 e permise un’efficace gestione delle formazioni combattenti. La I zona era percorsa dalla strada statale Romana, utilizzata per i collegamenti tra Modena e il ponte sul Po, e dalla ferrovia Modena-Mantova, importante linea di collegamento con la Germania. Nel corso dell’estate 1944, si formarono qui 7 squadre, raggruppanti 19 Gap, con poco più di un centinaio di gappisti. Il movimento si sviluppò soprattutto in alcune frazioni agricole del comune di Carpi, a Soliera e nella sua frazione di Limidi − che diventò presto il centro partigiano della zona − e a Rovereto sulla Secchia. Il 23 agosto 1944 i Gap della zona furono riconosciuti come distaccamento autonomo della 65a Brigata Walter Tabacchi di Modena, che assunse il nome di battaglia di un partigiano caduto: “Aristide” [1]. Le formazioni partigiane che agirono in questi territori furono le più attive nella pianura modenese, soprattutto perché l’azione dei gappisti e dei sappisti – provenienti in gran parte dalle stesse zone in cui operavano − guadagnò progressivamente il consenso da parte dei contadini, la classe sociale predominante nel territorio, ma anche quella inizialmente più trascurata dalle forze comuniste impegnate nella Resistenza. Si trattava in realtà di una categoria sociale estremamente eterogenea al suo interno, composta da mezzadri, affittuari, piccoli proprietari e «camarant», cioè braccianti poveri che abitavano in case sparse e agglomerati rurali simili ai «ghetti» [L. Bedogni 1994, 25-26].

Qui come nel resto dell’Emilia, per sopravvivere, la lotta partigiana non poté prescindere dal farsi carico di questioni sociali di primaria importanza che coinvolgevano direttamente i lavoratori. Nel contesto della società modenese era presente un forte antagonismo sociale fra ricchi e poveri, fra proprietari terrieri e contadini nel caso specifico dell’ambiente rurale. Agli occhi di questi ultimi, la figura del fascista coincideva con quella del padrone, il nemico della patria che calpestava l’interesse generale, anche se spesso comunque le due si identificavano veramente, inasprendo ancora di più lo scontro [2].  

Dalla primavera del 1944, l’attenzione verso le lotte contadine da parte degli organi dirigenti dei partiti antifascisti divenne più acuta. In un contesto di grave indigenza a causa dell’andamento della guerra e dello sfruttamento di manodopera e materie prime da parte degli occupanti nazisti, la strategia adottata dai gappisti emiliani fu quella di abbandonare la clandestinità totale a favore della difesa dei diritti e delle necessità alimentari, lavorative e sociali della popolazione locale. Spesso si sostituivano addirittura ai sindacati fascisti, ottenendo risultati concreti nell’avanzamento di rivendicazioni di salari più elevati e nel mantenimento di prezzi calmierati. Nel corso dell’estate, in particolare, grazie alla lotta per ritardare la trebbiatura del grano, destinato agli ammassi ad uso e consumo dell’esercito tedesco, la lotta politica si fuse con la lotta di classe promuovendo le rivendicazioni sociali delle categorie contadine. Allo scopo di rafforzare il controllo politico tra i lavoratori della terra, il Pci promosse veri e propri Comitati contadini o di agitazione che premevano sui proprietari per ottenere nuove e più favorevoli condizioni soprattutto nei patti di mezzadria. L’efficacia dello slogan «La terra a chi la lavora» puntava appunto sull’odio dei contadini verso i padroni e chi ledeva i loro diritti. Facendo leva su questo, i Gap, grazie all’azione pratica, ottennero il sostegno della popolazione, evolvendosi verso un movimento largamente partecipato. Allo stesso modo, l’offensiva partigiana della fase autunnale e invernale si concretizzò in una netta opposizione contro le razzie di bestiame messe in atto dalle truppe tedesche in ritirata: una lotta effettuata convincendo i contadini a disertare i raduni, disperdendo quelli che venivano convocati dalle autorità e attaccando le scorte ai convogli di bestiame. La circolare che il Comitato federale del Pci di Modena inviò ai Comandi periferici spiega:

Questo problema riveste un’importanza grandissima; il bestiame è del popolo italiano, e noi dobbiamo difenderlo come abbiamo difeso il grano. Se noi non riusciamo ad impedire che più della metà del bestiame sia asportata, domani i sacrifici per il popolo italiano saranno ben più duri, perché mancheranno carne, latte, burro, ecc. […].

Politicamente riveste un’importanza ancora maggiore, perché questo problema interessa profondamente tutti i contadini ed anche i piccoli, medi e grandi proprietari. Ora i contadini da soli difficilmente possono avere l’iniziativa ed il coraggio di non portare il bestiame al raduno. Bisogna quindi che noi interveniamo con decisione e con la forza delle nostre armi, per dimostrare al contadino che vi è chi lo difende, e che è quindi possibile sottrarsi all’imposizione dei tedeschi.

Solo così potremo suscitare fiducia nei contadini e portarli alla lotta. In questo modo potremo legarci sempre più ai contadini i quali vedranno che come sempre il nostro P. è all’avanguardia nella difesa dei loro interessi. Il nostro disinteressamento e la nostra debolezza non possono generare che sfiducia nei contadini [3].

Volantino del Cln di Carpi, 12 febbraio 1945 [Archivio Emilio Cabassi]
Volantino del Cln di Carpi, 12 febbraio 1945 [Archivio Emilio Cabassi]

In dicembre la lotta si estese al patrimonio suinicolo sottraendo i maiali alle requisizioni, macellandoli, distribuendoli alla popolazione e mettendo la carne sul mercato a prezzo di calmiere. Nello stesso periodo furono invitati i caseifici a decentrare il formaggio esistente nei magazzini presso i produttori di latte, per evitare inutili concentrazioni, che sarebbero state facile preda dei nazisti [L. Arbizzani 1976, 343]. Sulla stessa linea delle requisizioni del grano estive e dello sfruttamento della manodopera italiana, le lotte contro i raduni di bestiame potenziarono la diffusione progressiva del movimento partigiano in tutti i suoi livelli e nel senso della lotta armata piuttosto che su quella sociale.

Tale appoggio si rifletté sulla stessa popolazione, che ricevette parte del prodotto sottratto alle requisizioni, e sulle autorità fasciste, incapaci di impedire le distribuzioni e le azioni partigiane. Anzi, in alcuni casi i fascisti vennero obbligati, loro malgrado, ad aiutare i resistenti. In effetti, i commissari prefettizi locali e le autorità preposte alla gestione annonaria, quando non erano in accordo più o meno celato con i partigiani, erano troppo deboli per opporsi alle loro richieste e dovevano adeguarsi. Il 16 novembre a Budrione, dopo aver impedito che un agrario regalasse un toro ai militi tedeschi, e «dopo averlo pagato al mezzadro [a cui, da sette anni, non aveva presentato i conti sulla tenuta del fondo] in ragione di lire 3.000 quale quota parte», i partigiani

provvedevano a trasportare l’animale in una casa bruciata dai nazisti dove veniva macellato e poi pulito. Venivano poi obbligati quattro vecchi fascisti del luogo a provvedere alla distribuzione della carne alla popolazione, distribuzione che veniva effettuata il giorno dopo in ragione di gr. 150 per persona [4].

Con il progredire della loro forza politica e militare, gli organismi resistenziali divennero interlocutori praticamente obbligati di molte autorità comunali, ponendosi come «terzo governo» di fatto, accanto a quello nazista e fascista [G. Fantozzi 2013, 396-401].

Con le iniziative per la difesa del patrimonio zootecnico, il movimento partigiano era riuscito a costruire un rapporto positivo con i mezzadri e con i piccoli proprietari e a dimostrare la sua capacità di iniziativa e mobilitazione in pianura. I grandi proprietari, espressione del fascismo agrario più arretrato, erano rimasti isolati e si erano ritirati nelle città, lasciando in sede uomini di fiducia, generalmente piccoli gerarchi, per la difesa dei loro interessi. Nelle campagne si giunse ad attaccare direttamente i presidi fascisti, le case del fascio – che qui rappresentavano anche la sede del potere agrario fascista, di vecchio e di nuovo impianto – e in alcune zone a manifestazioni di massa, a carattere insurrezionale, che videro la partecipazione congiunta della popolazione e dei partigiani armati. La vasta mobilitazione popolare sul terreno sociale, politico e rivendicativo alimentò infatti la crescita delle stesse formazioni militari e viceversa [L. Bergonzini 1975, 246].

Le campagne, ampio bacino di reclutamento e di intreccio dell’organizzazione partigiana con il mondo contadino, divennero luogo di sistemazione dei Gap: sia come basi di ripiegamento e di rifugio per i militanti costretti ad evacuare temporaneamente quelle cittadine e che venivano ospitati in frazioni e cascinali (presso cui si apprestavano nascondigli, depositi di armi e centri di collegamento); sia come zone di operatività bellica dei nuclei. Inoltre, la partecipazione contadina svolse la funzione di appoggio e copertura. Alla capacità di azione e di organizzazione si aggiunse dall’autunno la solidarietà e la stretta collaborazione tra combattenti, lavoratori e popolazione in occasione della promozione della «settimana del partigiano», che venne avanzata nelle province del Nord Emilia. Tale iniziativa era tesa a mobilitare la maggior parte della popolazione nella raccolta di indumenti, cibo e altro materiale da donare ai partigiani in vista del periodo invernale, in cui le esigenze fisiche sarebbero state maggiori. Le operazioni partigiane erano inoltre accompagnate da un crescente fermento sociale, condotto principalmente dalle donne, coloro che più sentivano la mancanza dei generi alimentari e che si occupavano della gestione delle risorse familiari, e dai Gruppi di difesa della donna.

Anche per quanto riguarda il rapporto con l’ambiente cattolico, il Carpigiano si dimostrò essere quasi una mosca bianca. In generale i sacerdoti, oltre ad offrire riparo e aiuto alle famiglie ebree e ai disertori dalle file saloine, abbracciarono l’astensionismo; ma dall’estate del 1944 alcuni di essi si impegnarono direttamente nella lotta partigiana, mentre altri svolsero la loro opera tra i partigiani senza combattere. Il vescovo di Carpi, Vigilio Federico Dalla Zuanna, riuscì ad allacciare e mantenere rapporti con tutte le forze in conflitto, intervenne in più occasioni per impedire rappresaglie e non ostacolò i parroci della sua diocesi impegnati nella Resistenza. Riuscì così a saldare un’intensa e coraggiosa attività di «pacificazione degli animi» ad un effettivo governo della diocesi a stretto contatto col proprio clero. Addirittura a Rovereto sulla Secchia, paesino a nord-est di Carpi, il parroco don Ottavio Michelini fu dapprima cappellano della milizia fascista, poi membro del Cln, facendo valere la sua precedente qualifica nel trattare con le Schutz-Staffeln (SS) durante un massiccio arresto nella primavera del 1944 [5].

Altra figura di riferimento importante per la costruzione di un solido legame con la comunità in cui agivano i partigiani era quella del commissario politico, responsabile della preparazione politica e della disciplina in ogni formazione. Egli operava all’interno e contemporaneamente all’esterno, allargava la sua opera di convinzione alle popolazioni civili, si poneva costantemente il problema del rapporto fra i partigiani e l’ambiente in cui agivano, rispondeva anche in questo settore alla necessità di non isolare la lotta dei gruppi armati dalla resistenza della popolazione civile.

Infine, organismo fondamentale nel processo di coesione e collaborazione tra società e partigiani fu il Cln di Carpi, che – a differenza di quello modenese – riuscì ad essere un vero e proprio organo di governo del territorio, indirizzando le discrepanze tra i partiti verso i problemi reali della popolazione e il sostegno dei combattenti. Riguardo all’approvvigionamento e alla difesa delle risorse agricole del territorio, si preoccupò di garantire il rifornimento di carne e latte per gli abitanti del centro cittadino, concedendo l’autorizzazione per la consegna di un numero limitato di capi di bestiame ai raduni e invitando il commissario prefettizio a occuparsi di questo problema. Autorizzò l’acquisto di zucchero e di vestiti per le famiglie più bisognose; appoggiò la costituzione di imprese agricole e gruppi di professionisti per la tutela dei prodotti; si occupò delle necessità delle famiglie sinistrate; deliberò nuovi salari per i lavoratori agricoli; e fissò il prezzo del grano da ritirare agli ammassi a 400 lire al quintale. Fece, insomma, le veci di una vera e propria amministrazione. All’interno delle formazioni gappiste e sappiste si adoperò per la distribuzione e il rifornimento di vestiario, armi, generi di prima necessità e biciclette, e incitò i combattenti a non tenere atteggiamenti settari verso i partigiani di altri orientamenti politici.

Questi fattori contribuirono a creare una progressiva incontrollabilità delle campagne da parte delle truppe nazi-fasciste, che le abbandonarono per continuare ad imporsi nei centri cittadini. Tra l’estate e l’autunno del 1944 le campagne del Carpigiano – intorno a Limidi e per vasti tratti dei comuni di Soliera, Novi e Campogalliano – divennero «zone franche» occupate stabilmente dai partigiani e abbandonate dalle truppe nazi-fasciste; ma prive di un vero e proprio centro, perché Carpi continuava ad essere sotto il controllo militare nazi-fascista. Larghi strati di territorio furono sottoposti ad una sorta di giurisdizione partigiana, che si poneva allo stesso livello di quella fascista e che si fece promotrice di norme e regolamenti. Inoltre, in ottobre, i presidi della Gnr vennero ritirati in quasi tutti i comuni della provincia di Modena, lasciando così maggiore libertà di movimento ai partigiani che intensificarono la loro attività.

Questa interpretazione trova dimostrazione in fonti e fatti concreti, che rendono evidente l’ambivalenza e la delicatezza della situazione. Da una parte, le formazioni partigiane acquisirono una certa autonomia e libertà di movimento. L’attacco alle case del fascio, al di là del significato militare a volte anche esiguo, produsse notevoli e apprezzabili esiti politici. Accentuò il distacco e il disprezzo della popolazione per i «repubblichini» e finì per inasprire divisioni e contraddizioni fra le varie fazioni del fascismo, provocando diserzioni, suscitando dubbi e determinando l’indebolimento di molti gerarchi locali: soprattutto dei podestà e dei segretari del fascio, che si videro costretti sotto la pressione delle masse ad effettuare qualche concessione, palesando quindi la debolezza di un apparato repressivo che, senza il sostegno tedesco, non avrebbe potuto restare in piedi che per breve periodo [6].

In riferimento a questa zona, nell’inverno 1944 l’ufficiale di collegamento “Brunetti” scrisse al Cumer:

Continua intensa l’attività nella bassa pianura, 1a e 2a zona, sia dei gappisti che dei sappisti. Un ennesimo tentativo di rastrellamento è stato energicamente sventato con perdite elevate in caduti e feriti e prigionieri. I reparti di questa zona sembrano dare la risoluzione al problema da noi più volte posto di decongestionamento di dette zone serrando sempre più i ranghi e passando decisamente all’attacco quando si verifichino tentativi di rastrellamenti. Tuttavia precedentemente all’ultimo tentativo, un altro è stato tollerato, in alcune zone, dietro esplicito ordine e non ha portato neanche alla cattura di un solo combattente, il che dimostra a sufficienza le grandi possibilità di questo reparto, e la completa solidarietà della popolazione, oltre che l’efficienza dei servizi [7].

Le formazioni partigiane si impegnarono anche a reprimere severamente la delinquenza comune, sia fra la popolazione, sia fra chi prendeva iniziative autonome a nome del movimento resistenziale. Effettivamente, nonostante il tentativo di uniformazione, inquadramento ed educazione dei partigiani, furono spesso riscontrati casi di azioni individuali, spinte da motivazioni di pura sopravvivenza, comunque lontane dai principi patriottici promossi dal Cln e dai partiti antifascisti in generale, di cui il Comando della Brigata era all’oscuro. Per evitare questi atti di criminalità arbitrari e punire i colpevoli furono istituiti dei tribunali militari, garanti della giustizia e detentori dell’autorità fra i partigiani, all’interno delle maggiori formazioni, che giudicassero e processassero i presunti responsabili di atti di banditismo, spionaggio, oltraggio alle popolazioni e alle loro organizzazioni politiche. Essi avevano giurisdizione per l’intera zona controllata dalla rispettiva formazione e per la zona in cui si svolgevano le operazioni militari. Erano solitamente presieduti dai comandanti delle unità, a cui si affiancavano i commissari, che avrebbero sostenuto l’accusa, e da altri 4 partigiani. L’imputato, a sua volta, aveva il diritto di scegliere un difensore d’ufficio, che lo doveva aiutare a provare la sua innocenza o a mettere in luce eventuali circostanze attenuanti. Si dimostrava in questo modo la volontà di perseguire un ideale di giustizia anche in un contesto straordinario di guerra civile, che generalmente non avrebbe permesso l’accertamento e la ponderazione della colpevolezza della parte in causa. L’esecuzione sommaria era ammessa unicamente in caso di flagranza di reato o di tradimento. In ogni caso, la sentenza del tribunale partigiano era inappellabile e veniva eseguita immediatamente. Di ogni processo e di ogni esecuzione penale era redatto un verbale destinato al Comando regionale [8].

Particolarmente dura era la punizione per chi compiva furti fingendosi partigiano, rischiando così di compromettere il consenso raccolto tra la popolazione. Si trattava, in effetti, dell’infrazione commessa più di frequente. Nonostante fossero state istituite squadre specializzate per le requisizioni autorizzate alla popolazione, il banditismo dilagava. Una numerosa banda operante alla Madonnina – frazione di Modena – che effettuava rapine ed estorsioni a nome del Cln vendendo poi il ricavato al mercato nero, venne individuata e arrestata il 1° dicembre 1944 dalla polizia partigiana della Brigata Walter Tabacchi. Processati la notte del 2 dicembre, i malviventi furono condannati alla fucilazione [9]. Il 14 dicembre vennero fermati a Castelnuovo Rangone altri componenti della banda, accusati dello stesso crimine, individuati grazie alle confessioni degli arrestati, e a loro volta fucilati. Spiega una relazione della Brigata Walter Tabacchi:

Immediatamente sottoposti a stringente interrogatorio, essi dichiaravano a voce e poi per iscritto di aver compiuto gravi rapine a mano armata ai danni di agiati agricoltori della provincia, tra i quali: Violi Pietro, Paganelli Riccardo, Torricelli, Battilani Remo, Montanari Umberto, asportando loro con la violenza e a nome del Cln e del Movimento Partigiano, oggetti vari per un valore di lire 2.000.000. Dalle dichiarazioni scritte dai due banditi al processo, appare chiaro che essi agivano in stretto contatto con i sopracitati fucilati della Madonnina e con altri 5 elementi ai quali la polizia della 65a Brigata dà attivamente la caccia e di altri elementi fascisti repubblichini, pure essi già individuati. Stando così le cose, ed essendo in possesso di elementi probanti per procedere contro di essi, il Tribunale della Brigata si riuniva nella notte, nelle persone del Comandante di Brigata, con funzione di Presidente, del Commissario Politico della Brigata con funzione di PM e di 4 gappisti, di cui uno scelto dagli accusati come loro difensore, nelle funzioni di giudici.

Dopo un breve interrogatorio, essendo emerse prove schiaccianti a carico degli accusati e per la loro confessione verbale e scritta, il Tribunale emetteva sentenza capitale che veniva eseguita nella stessa notte [10].

Nella II zona, invece, le squadre di polizia sappiste uccisero un uomo che si spacciava per partigiano per derubare a mano armata le famiglie più povere. I soldi ritrovati nel suo portafogli vennero poi distribuiti alle famiglie rapinate [11].

Non sempre però l’arresto di ladri si concludeva con la fucilazione. Uno di questi venne rilasciato «dopo una lezione esemplare», senza procedere alla sua eliminazione «perché padre di numerosi figli, cui [doveva] provvedere al mantenimento» [12]. In un’altra occasione, alcuni partigiani del distaccamento Bruni fermarono due rapinatori nella II zona, li obbligarono a restituire al legittimo proprietario le 80.000 lire rubate e, dopo «una solenne bastonatura», li rimisero in libertà [13]. Un caso interessante in questo senso avvenne nel settembre 1944, quando il Gap n. 27 del distaccamento Aristide scoprì che un signore di Rolo – nel Reggiano – ospitava ufficiali tedeschi e commerciava con loro bestiame rubato ai lavoratori italiani. Mentre i militari vennero uccisi, al civile venne risparmiata la vita in cambio di denaro e altro materiale, ma la discriminazione provocò le severe critiche del Comando del distaccamento: il proprietario aveva infatti pagato con un assegno, impossibile da incassare perché avrebbe richiesto un’esposizione troppo pericolosa da parte dei partigiani [14].

Vi furono, inoltre, interventi di polizia nei confronti di esponenti del fascismo repubblicano. Il più noto è quello effettuato in seguito all’uccisione delle sorelle Menossi a Campogalliano il 5 novembre 1944. Essendosi sparsa la voce che ad uccidere le due donne fossero stati i partigiani, il Cln svolse indagini che portarono all’individuazione del vero responsabile: un sergente maggiore della Brigata nera che era entrato in casa loro per rapinarle e, riconosciuto, le aveva uccise. Il colpevole venne arrestato, confessò le sue responsabilità davanti ad alcuni familiari delle vittime, quindi venne fucilato [15].

Per non compromettere il consenso raccolto tra la popolazione era necessario che i partigiani si distinguessero dai rapinatori e dai grassatori che agivano sull’onda della dissoluzione dell’esercito e dei saccheggi dei magazzini militari che ne erano seguiti. Poco alla volta, infatti, le organizzazioni dei Cln, del Cvl e dei partiti si erano fatti carico della regolarità dei finanziamenti alle formazioni dei combattenti, fino a istituire squadre specializzate per le requisizioni autorizzate alla popolazione. Nonostante questo, il banditismo dilagava. L’organizzazione di un sistema punitivo e di autodisciplina derivava certamente da una crescente legittimazione, politica e istituzionale, degli organismi al vertice del movimento insurrezionale, ma anche dalla necessità di mantenere una serie di garanzie contro un uso cieco e indiscriminato della violenza, soprattutto in seguito all’ottenimento dello status di combattenti da parte dei resistenti. L’essere «fuorilegge» dei partigiani non implicava una mera trasgressione, ma un’alternativa: infrangere la legge significava ricostruire un nuovo sistema di valori e di regole, da applicare in modo inflessibile [E. Traverso 2007, 75].

La giustizia partigiana era esercitata non solo all’interno delle formazioni, ma anche in cause civili e militari. Un esempio importante di intransigenza e integrità in questo senso fu lo scambio dei prigionieri di Limidi a metà novembre 1944 [16].

Case di Limidi distrutte nel corso dell'azione di rappresaglia tedesca dopo la liberazione dimostrativa di Soliera del 3 novembre 1944
Case di Limidi distrutte nel corso dell'azione di rappresaglia tedesca dopo la liberazione dimostrativa di Soliera del 3 novembre 1944

Il desiderio di vendicare i fascisti uccisi durante l’occupazione di Soliera del 3 dello stesso mese indusse il Comando provinciale della Gnr a organizzare, il 14 novembre, un rastrellamento che si concluse con il fermo di 104 persone [17]. Durante la giornata, le formazioni partigiane riuscirono a fare prigionieri un milite della Brigata nera e due soldati tedeschi. Il giorno seguente esse inviarono una lettera al Comando tedesco di Carpi per proporre uno scambio di prigionieri [18]. La lettera rimase senza risposta, ma nel frattempo i partigiani riuscirono a intercettare una colonna tedesca e a catturare un ufficiale, tre sottufficiali e un’interprete italiana. I soldati rimasti feriti durante lo scontro furono invece fatti accompagnare dagli illesi presso l’ospedale di Carpi. Il Comando partigiano esigette quindi il rilascio di tutti gli ostaggi catturati a Limidi e a Soliera entro le ore 16 del giorno successivo in cambio della liberazione dei militi. Le nuove disposizioni furono precise, categoriche e irrevocabili, anche per l’impossibilità di prendere accordi personalmente e di avere minime garanzie dalla controparte [19]. Nonostante ciò, cresceva tra la popolazione locale e tra i combattenti il timore di altre rappresaglie e delle pesanti conseguenze sociali e politiche in caso di fallimento, tanto che per evitare nuovi lutti in molti fecero pressioni per la liberazione degli ostaggi [20]. La paura aumentò dopo la diffusione di un manifestino tedesco che chiedeva la liberazione dei soldati entro le ore 12 del 18 novembre. In caso contrario, si minacciò di radere al suolo le case di Limidi e di Soliera e di fucilare tutti gli uomini rastrellati. Per contrasti interni ai Comandi tedeschi – fra il Comando delle SS, che non intendeva cedere allo scambio, e il generale della Wehrmacht intenzionato a salvare i propri uomini − e per non mettere a repentaglio la vita degli ostaggi in mano ai partigiani, il termine della consegna fu spostato alle ore 20 del 19 novembre. S’intrecciarono contatti e trattative a vari livelli, ma il Comando partigiano decise di resistere. La ritirata sarebbe stata sinonimo di debolezza e avrebbe legittimato il potere nazifascista [21].

La mattina del 20 il Comando della Walter Tabacchi ripropose lo scambio al Comando tedesco, con la perentoria richiesta di attenersi scrupolosamente dall’attaccare autoambulanze e ospedali e di rispettare i prigionieri. Una lettera simile venne inviata anche al Comando della Gnr e delle Brigate nere:

Il Comando della 65a Brigata d’assalto WT anche a nome degli altri combattenti della provincia di Modena […] impone: 1- La cessazione immediata di ogni sevizie, torture o maltrattamenti [sic] agli arrestati. 2- La cessazione immediata delle rappresaglie indiscriminate sulla popolazione civile e sui familiari degli arrestati. Questo Comando propone: di addivenire allo scambio reciproco dei prigionieri. La mancata ottemperanza dei punti 1 e 2 darà diritto alle Forze Patriottiche di adottare verso militi e fascisti ed i loro familiari gli stessi metodi in uso fino ad ora presso codesti comandi [22].

Nel frattempo, settanta militi della Gnr, 50 dell’esercito repubblicano e 200 soldati tedeschi avevano iniziato la rappresaglia su Limidi, bruciando molte case del paese a scopo dimostrativo. Per le 11 del mattino era prevista la fucilazione di 30 dei 104 fermati, ma, grazie all’intervento del vescovo Dalla Zuanna, la fucilazione fu dapprima rimandata alle ore 13, poi sospesa, poiché era prevalsa nel Comando tedesco la posizione di chi voleva accettare la soluzione compromissoria. Pertanto, la rappresaglia fu rinviata alle ore 8 del giorno successivo. Se i partigiani avessero riconsegnato i loro prigionieri, sarebbero stati rilasciati previo interrogatorio tutti i catturati dalla Gnr. Ottenuta dal vescovo una dichiarazione scritta di autenticità della proposta tedesca, il Comando partigiano decise di accettare, ritenendo non possibile irrigidirsi ulteriormente, e liberò gli ostaggi. Vennero in ogni caso mobilitate tutte le forze partigiane, per fare fronte ad ogni eventualità, ma l’accordo fu rispettato e gli abitanti di Limidi furono rilasciati. Il Cln di Carpi costituì immediatamente una commissione per l’assistenza alle 80 famiglie che avevano avuto la casa distrutta [23].

Documenti riguardanti le trattative intercorse fra il Comando della 65a Brigata d’assalto Garibaldi W. Tabacchi, allegato 8 [Aismo, Bp, b. 3, f. 3]
Documenti riguardanti le trattative intercorse fra il Comando della 65a Brigata d’assalto Garibaldi W. Tabacchi, allegato 8 [Aismo, Bp, b. 3, f. 3]

I partigiani videro nell’aver imposto una trattativa ai comandi tedeschi un esplicito riconoscimento della forza raggiunta dal movimento, del suo proporsi come “esercito regolare”. Il raggiungimento di una soluzione di compromesso fra i Comandi partigiani e quelli delle forze armate tedesche presuppone la volontà e il tentativo di combattere una guerra che non fosse gratuitamente violenta e di ribadire con forza la propria possibilità di scegliere e misurare gli atti violenti. Lo scambio dei prigionieri di Limidi rappresentò inoltre una vera prova di forza in cui il potere era distribuito bipolarmente, in cui i due avversari riconobbero nell’altro un soggetto in grado di cambiare completamente l’andamento delle cose.

La capacità d’iniziativa del movimento partigiano in pianura si era manifestata in modo evidente già poco tempo prima, durante la liberazione dimostrativa di Soliera attuata il 3 novembre 1944. Questo evento può essere considerato una sorta di «prova generale», un primo atto verso la fase finale operativa politico-militare, e fu decisa per rispondere agli incitamenti dei comandi superiori a compiere qualche energica azione dimostrativa a seguito dei successi nelle azioni dei giorni precedenti. Nel pomeriggio, 10 elementi della 1a squadra Gap e la 4a e la 5a squadre al completo bloccarono tutte le strade d’accesso al paese, mentre in piazza si stava svolgendo una manifestazione con una larga partecipazione di donne scortate da partigiani armati. I combattenti invasero le sedi del municipio e del fascio, concentrarono tutti gli impiegati del Comune nel Palazzo Campori e bruciarono tutti gli incartamenti dell’anagrafe e dei vari uffici, un busto del duce e una bandiera fascista. Prelevarono poi tutto il denaro esistente nelle casse comunali, materassi e biancheria già appartenenti al Comando dei carabinieri, una quantitativo di rame sequestrato agli ebrei locali e materiale d’ufficio, lasciando solamente i beni di proprietà personale degli impiegati [24]. Furono catturati il capo dell’Ufficio di stato civile, una guardia comunale, l’ex fiduciario dei sindacati (che riuscì a salvarsi) e tre sottufficiali della Gnr mentre transitavano con la loro auto, condotti presso il macello comunale e qui fucilati. Nella stessa giornata furono uccise alcune spie – o presunte tali – catturate nei dintorni della cittadina. Verso sera, le manifestazioni terminarono e i cittadini tornarono alle proprie case, mentre i partigiani continuavano a presidiare le vie di accesso al paese. L’azione di Soliera, se sollevò qualche discussione all’interno dei Cln di Carpi e di Modena, produsse un’eco d’entusiasmo tra i combattenti della provincia, come una delle azioni culminati della campagna autunnale. Nonostante fosse durata un sologiorno, da una parte, produsse l’inasprimento dell’offensiva nazifascista sul movimento resistenziale; e dall’altra, favorì il legame dei gappisti e dei sappisti con la popolazione. A Soliera, dopo l’uccisione del commissario prefettizio attuata nel dicembre 1944, le autorità fasciste dovettero infatti prendere atto di una situazione alquanto pesante e complicata nei loro confronti e costituirono un Comitato comunale, allargato ai tre parroci del comune, che di fatto «legalizzava» il Cln locale. Questa scelta fu mantenuta fino alla Liberazione e testimoniava il fatto che quel Comune poteva essere amministrato solo da organismi espressi dal movimento resistenziale.

Gli stessi partigiani erano ben consapevoli della relativa libertà e autonomia di cui godevano nelle campagne carpigiane, tanto da organizzare feste e intrattenimenti, invitando anche donne esterne al movimento e, d’altra parte, suscitando le remore e i moniti del Comando della divisione Sap di Carpi e del Cln, che invitavano i combattenti ad una maggiore segretezza [25].

Dal punto di vista militare, tale rafforzamento si tradusse nella capacità di ingaggiare e sostenere vere e proprie battaglie in campo aperto nei territori controllati dai partigiani. La prima di queste si svolse a Cortile, frazione ad est di Carpi, il 1° dicembre 1944.

Volantino della Federazione modenese del Pci, 14 dicembre1944
Volantino della Federazione modenese del Pci, 14 dicembre1944

Nel tentativo di bloccare un massiccio rastrellamento nella zona, gappisti e sappisti diretti da Vasco Lugli “Marcòn”, comandante della 3a squadra Gap, scompaginarono le truppe nazi-fasciste che avevano accerchiato il paese sull’argine del canale Gherardo, al confine tra Limidi e Cortile. Il combattimento durò circa 3 ore e finì dopo che i partigiani, penetrati troppo in profondità, vennero sorpresi dal contrattacco nemico, ma gli obiettivi dei gappisti furono comunque raggiunti. Esso mise in evidenza le notevoli capacità di mobilitazione dei reparti partigiani della zona e delle loro staffette di collegamento, capaci d’orientarsi autonomamente nonostante l’assenza dei comandi superiori [M. Pacor e L. Casali 1972, 207-210; C. Silingardi 1998, 561-562] [26].

 

Quasi 20 giorni dopo, un consistente gruppo di partigiani della zona partecipò ad un’azione coordinata contro le caserme fasciste e tedesche di Gonzaga, nel Mantovano. L’iniziativa fu di Archimede Benevelli “Nansen”, già comandante delle squadre sappiste nel Carpigiano, da poco tempo trasferitosi nella Bassa reggiana per disaccordi con gli altri comandanti partigiani. Nonostante il poco tempo per ponderare la situazione e le scarse informazioni avute da Nansen, il distaccamento Aristide decise di partecipare all’attacco. La sera del 19 dicembre fu formata una colonna di ben 250 gappisti e sappisti reggiani e modenesi che, in bicicletta, si avviarono verso Gonzaga. Qui giunti, si unirono ad altri partigiani mantovani e formarono tre gruppi, che avrebbero dovuto attaccare rispettivamente la caserma della Gnr, una scuola adibita a campo di transito per prigionieri di guerra e la caserma del distaccamento locale della Brigata nera mantovana. Per gli imprevisti incontrati nel corso dell’azione non fu possibile penetrare nella caserma della Brigata nera, come stabilito. Il timore che potessero giungere rinforzi e di incorrere in un pericoloso accerchiamento convinse infatti i comandi partigiani a far ritorno velocemente alle basi di partenza [27].

Anche agli occhi delle autorità fasciste le campagne carpigiane erano «particolarmente infestate dai cosiddetti partigiani», che, «a migliaia, operano indisturbati e si vanno preparando ad azioni in grande stile che fanno presagire giorni neri per la zona» [28]. Dopo la battaglia di Concordia e quella di Fabbrico del 26 febbraio 1945, a cui parteciparono i partigiani della I zona, agli inizi di marzo risultavano attivi nella pianura modenese circa 500 gappisti − cifra che aveva ben pochi paragoni nell’Italia del Nord [29] − e 2.800 sappisti, 1.200 dei quali nella sola zona del Carpigiano [30]. Fu in questo contesto di tensione che si scatenò la battaglia campale di Rovereto sulla Secchia, il 17 marzo 1945. Nel corso dell’inseguimento di alcuni partigiani che si spostarono dalla II alla I zona attraversando il fiume Secchia, diverse truppe tedesche penetrarono nella I zona. I partigiani del distaccamento Aristide, messi in allarme, attaccarono le truppe prima dell’entrata nel centro abitato e attuarono una manovra di ripiegamento per attirare i nemici ed esporli al fuoco delle altre formazioni. Nel pomeriggio, dopo il riuscito contenimento delle colonne nazi-fasciste e l’arrivo dei gappisti e dei sappisti di Soliera, Migliarina, Fossoli e Budrione, i comandi partigiani – che ormai disponevano di circa 600 uomini − poterono spingersi in un’azione offensiva. Nemmeno il ricorso a due autoblindo tedesche, colpite da un panzerfaust guidato dai partigiani, capovolse la situazione: i nazi-fascisti rinunciarono a proseguire il combattimento lasciando sul campo diversi morti, tra cui il comandante della Brigata nera mobile Attilio Pappalardo, Armando Wender. I partigiani persero 5 elementi [31].

A fianco di questi aspetti che rappresentano la peculiarità della I zona e dimostrano la libertà e l’autonomia nella mobilitazione dei partigiani locali, convivevano elementi ad essi contrastanti. Innanzitutto, permanevano nel centro storico cittadino i luoghi del potere fascista e nazista. La casa del fascio di Carpi, in pieno centro, ospitò anche gli uffici della Repubblica sociale; la casa del fascio di Campogalliano – anch’essa ad uso del Partito fascista repubblichino locale – fu oggetto di scritte antifasciste sui muri nella notte del 6 giugno 1944, provocando agitazioni e commenti tra gli abitanti del paese. La sede della Gnr di Carpi fu trasferita nel novembre 1944 nel centrale Palazzo Barbieri, proprio per allontanarsi dalla pressione partigiana; non diverso fu il comportamento dei Comandi tedeschi, che requisirono molti edifici pubblici vicini al centro cittadino. Oltre all’ospedale Ramazzini, istituirono la «Caserma Vittoria» nell’ex Fabbrica Loria – dove concentrarono partigiani e civili rastrellati tra il 25 e il 30 marzo 1945 – una parte del Seminario, una parte del Nuovo mercato e alcune ville signorili. Anche nei paesi più piccoli permasero sedi militari nazi-fasciste: a Novi nella Villa delle Rose, che ospitava la Brigata nera di Modena; a San Marino di Carpi nella Villa Federici Zuccolini, utilizzata dai nazisti come luogo di detenzione e di tortura di partigiani catturati.

L’altra pesante presenza sul territorio che macchiava la quasi incontrastata attività dei partigiani delle campagne era il campo di concentramento di Fossoli. Esso era diviso in un’area gestita dalla prefettura modenese e in un’area sotto il controllo dei comandi tedeschi. Nel campo italiano era permesso avere visite ogni settimana e acquistare generi alimentari dall’esterno. Sembra che nel luglio 1944 fosse stato preparato un colpo di mano partigiano per liberare i prigionieri. In alcuni documenti riscontriamo infatti progetti volti ad organizzarne la fuga, mai realizzati. Pare principalmente perché si prese atto che, nonostante la scarsa guarnigione presente all’interno, era impossibile compiere un attacco ad un campo situato in un’area priva di ripari, circondato da un doppio reticolato con filo spinato e da un fossato, protetto da quattro altane dotate di fari e da torrette armate di mitragliatrici. Se anche poi l’azione fosse riuscita, si presentava il problema di dove e come nascondere centinaia di persone o trasferirle in montagna. Ciò non toglie comunque che fosse stato espresso un interesse delle organizzazioni resistenziali nei confronti del campo. Rispetto all’organizzazione di una fuga, ritenuta difficilmente praticabile, i partigiani privilegiarono soprattutto l’attività di assistenza ai prigionieri, entrando in contatto con i gruppi clandestini comunista, azionista e socialista presenti all’interno. I collegamenti erano tenuti fingendosi parenti dei prigionieri o contadini, oppure attraverso i parroci, che entravano per dare assistenza religiosa, o gli operai del luogo, che lavoravano nel campo. Ci furono anche episodi di solidarietà spontanea da parte della popolazione carpigiana: in occasione delle partenze dei convogli dalla stazione di Carpi molte persone sfidavano la reazione dei militari tedeschi di guardia per cercare di consegnare pane e altri generi di conforto.

La dicotomia dei poteri ebbe termine soltanto con la Liberazione, quando proprio quegli edifici che erano stati sede e baluardo dei comandi nazi-fascisti furono occupati dalle forze resistenziali e convertite a luoghi di detenzione di militari tedeschi o centri di assistenza per la popolazione.


Bibliografia

  • L. Arbizzani 1976
    Azione operaia, contadina, di massa, in L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione 1975-76, vol. III
  • L. Bedogni 1994
    “… Noi stavamo con i partigiani. Le famiglie e le case della resistenza nei Comuni di Carpi, Novi, Soliera e Campogalliano”, Carpi: Edizioni Nuovagrafica
  • L. Bergonzini 1975
    La lotta armata, in L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione 1975-76, vol. I
  • L. Borgomaneri 2015
    Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945), Milano: Unicopli
  • F. Canova, O. Gelmini, A. Mattioli 1974
    Lotta di liberazione nella bassa modenese, Modena: Anpi
  • L. Casali 1997
    Cumer. Il “Bollettino militare” del Comando unico militare Emilia-Romagna (giugno 1944-aprile 1945), Bologna: Patron
  • L. Cavazzoli 1984,
    La battaglia partigiana di Gonzaga, Venezia: Marsilio
  • G. Fantozzi 2013
    Il volto del nemico. Fascisti e partigiani alla guerra civile. Modena 1943-1945, Modena: Edizioni Artestampa
  • L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione 1975-76
    Atti del convegno tenuto a Bologna il 2-5 aprile 1975 col patrocinio del Comitato regionale per il XXX anniversario della Resistenza, Bari: De Donato Editore
  • C. Lusuardi 2016
    Gappisti di Pianura. La 65a brigata GAP Walter Tabacchi a Modena 1944-1945, Milano: Mimesis
  • M. Pacor e L. Casali 1972
    Lotte sociali e guerriglia in pianura. La Resistenza a Carpi, Soliera, Novi e Campogalliano, Roma: Editori Riuniti
  • C. Pavone 1991
    Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino: Bollati Boringhieri
  • S. Peli 2014
    Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Torino: Einaudi
  • G. Rochat (ed) 1972
    Atti del Comando generale del Corpo volontari della libertà (giugno 1944-aprile 1945), Milano: Franco Angeli
  • E. Traverso 2007
    A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna: Il Mulino

Note

1. O.d.g. della Brigata Walter Tabacchi, 23/08/1944, Archivio dell’Istituto storico di Modena (d’ora in poi Aismo), Btg. Achille, serie Brigata Tabacchi, b. 19, f. 1. Aristide era il nome di battaglia di Geminiano Bisi, ucciso per rappresaglia insieme al padre e ad altri 18 civili il 30 luglio 1944 in Piazza Grande a Modena.

2. Considerando la supremazia incontrastata dell’agricoltura nel sistema sociale della pianura e lo scarso sviluppo dell’industria, per ottenere consenso, il fascismo nel modenese dovette per forza di cose far presa sul ceto agrario, allineandosi, almeno in un primo tempo, con le sue tesi più riformistiche e radicali. Sull’intreccio tra Resistenza, lotta al fascismo e conflitto sociale si veda: C. Pavone 1991.

3. Il Comitato federale del Pci di Modena al Comando della 65a brigata Gap, al Comando delle Sap, a tutti i Comitati di zona e di settore, alla sezione Agit. Prop, 28/09/1944, Aismo, fondo Cesarini-Sforza, serie Brigate partigiane (d’ora in poi Bp), b. 160, f. 3 Pci.

4. Rapporto n. 29 della Brigata Walter Tabacchi, Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate I, b. 3, f. 3 Comandi Divisione Modena pianura Brigata Walter Tabacchi e in Archivio Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri - ER, Cumer, b. 3.

5. Sull’episodio si veda: M. Pacor e L. Casali 1972, 91.

6. Fra le molte azioni svolte nella campagna modenese nella prima fase di attacco ai presidi fascisti ricordiamo il disarmo dei fascisti e l’occupazione temporanea di Soliera il 1° maggio 1944, e l’attacco e il disarmo dei fascisti nella tenuta Delfina di Rovereto sulla Secchia il 12 giugno [L. Bergonzini 1975, 245-247; F. Canova, O. Gelmini, A. Mattioli 1974, 158-171].

7. L’ufficiale di collegamento al Cumer, 22/02/1945, Aismo, Bp, serie 1 Cumer 1944-1945, b. 2, f. 10.

8. Le Direttive sulla costituzione e sul funzionamento dei tribunali marziali presso le unità partigiane furono emanate dal Comando generale del Cvl il 16 luglio 1944 [G. Rochat (ed) 1972, 82-83]. Le informazioni qui riportate sono tratte dalla circolare del Comando generale per l’Italia occupata ai Comandi regionali e a tutte le formazioni, s.d. [agosto 1944], in Archivio storico comunale di Carpi (d’ora in poi Ascc), Ex distaccamento Aristide, 65a Brigata Walter Tabacchi, b. 1, cart. 2. Un esempio di verbale particolarmente accurato è quello del processo ad una spia di Limidi di Soliera, accusata di tradimento e spionaggio. L’imputato, reo confesso di diverse denunce ai danni del movimento partigiano della I zona, fu condannato alla pena di morte dal tribunale istituito dal distaccamento Aristide. Cfr. Verbale, 3/01/1945 in Aismo, Brigate partigiane, serie 1 Cumer, b. 2, f. 1. La medesima pena venne comminata il 31 gennaio 1945 a carico di un’altra spia attiva nella I zona. Cfr. Estratto di sentenza, “Bollettino militare del Cumer”, febbraio 1945, Aismo, Brigate partigiane, serie 1 Cumer, b. 2, f. 6.

9. Circolari del Comando della Brigata Walter Tabacchi al Cumer, al Comando piazza e al CLN provinciale, 4 e 7/12/1944, Aismo, Btg. Achille, serie Brigata Tabacchi, f. 1.

10. Relazione operativa della Brigata Walter Tabacchi, s.d., Aismo, Carte Cesarini-Sforza, serie Bp, b. 160, f. 1 Brg Walter Tabacchi, Bollettini, maggio-dicembre 1944.

11. Il responsabile del V settore della II zona al Comando piazza di Mirandola, s.d., Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate, b. 4, f. 9 Comitato volontari della libertà. Comando militare Mirandola. Sottocartella C.7. Zona 1. Carteggio I zona (Carpi, Soliera).

12. Il Comando Sap della VI zona al Comando piazza di Modena, 18/12/1944, Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate, b. 4, f. 7.

13. Diario storico della 65a Brigata Walter Tabacchi, Aismo, Bp, serie 1 Cumer, b. 2, f. 1 Riservate.

14. Il Comando della 65a brigata Walter Tabacchi al Cumer, 12/10/1944 e documenti allegati, Aismo Bp, serie 2 Comandi e brigate I, b. 3, f. 3 Comandi Divisione Modena pianura Brigata Walter Tabacchi.

15. Rapporto n. 26 del distaccamento Aristide, 21/11/1944, Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate, b. 3, f. 3 Comandi Divisione Modena pianura Brigata Walter Tabacchi.

16. Sul caso di Limidi, si veda almeno: M. Pacor, L. Casali 1972, 199-206; L. Casali 1997, 189-202.

17. Notiziario Gnr, 14/11/1944, Aismo, fondo Notiziari Gnr, b. 105.

18.  Quello stesso giorno, il Comando del distaccamento Aristide chiese al vescovo di Carpi Dalla Zuanna di interessarsi alle operazioni e di partecipare come mediatore nelle trattative mantenendo però la segretezza del recapito del Comando stesso. Cfr. Il Comando del distaccamento Aristide della 65a brigata Walter Tabacchi a S. E. Mons. Il Vescovo di Carpi, 15/11/1944, in “Documenti riguardanti le trattative intercorse fra il Comando della 65a Brigata d’assalto Garibaldi Walter Tabacchi”, allegato n. 1, Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate I, b. 3, f. 3.

19. Il Comando del distaccamento Aristide della 65a Brigata Walter Tabacchi al Comando piazza tedesco di Carpi, 15/11/1944, in “Documenti riguardanti le trattative intercorse fra il Comando della 65a Brigata d’assalto Garibaldi Walter Tabacchi”, allegato n. 2, ivi.

20. Rapporto n. 27 del distaccamento Aristide, 17/11/1944, Ascc, Ex distaccamento Aristide della 65a Brigata Walter Tabacchi, b. 2, cart. 3

21. Ibidem

22. Il Comando della 65a Brigata Walter Tabacchi al Comando della Gnr e delle Brigate nere, 20/11/1944, Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate I, b. 3, f. 3.

23. Cfr. “Documenti riguardanti le trattative intercorse fra il Comando della 65a Brigata d’assalto Garibaldi Walter Tabacchi”, allegati 6, 7 e 8, Aismo, Bp, serie 2 Comandi e brigate I, b. 3, f. 3.

24. C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano, Franco Angeli, 1998 pp. 426-427.

25. Il Comando Sap divisione Carpi al Comando distaccamento Gap Aristide, 3/02/1945, Ascc, Ex distaccamento Aristide della 65a Brigata Walter Tabacchi, b. 3, cart. 2.

26. Cfr. Gapisti e Sap sbaragliano imponenti forze nazifasciste nel carpigiano, “Il Combattente”, 24/12/1944, n. 12, Aismo, fondo Claudio Silingardi, b. 1, f. Cap. II. Guerriglia e contadini. Materiale da aggiungere.

27. Rapporto n. 32 del comandante del distaccamento Aristide della 65a Brigata Walter Tabacchi, 29/12/ 1944, Ascc, Ex distaccamento Aristide della 65a Brigata Walter Tabacchi, b. 2, cart. 4; Rapporto sull’azione, s.d., ivi. Cfr. L. Cavazzoli 1984. In seguito all’azione i comandi tedeschi decisero di fucilare per rappresaglia 7 partigiani. Il 22 dicembre sei dei condannati vennero fucilati, mentre il settimo, non ancora maggiorenne, venne incarcerato, e fucilato il 4 marzo 1945.

28. Il comandante della Gnr di Carpi al comandante della Gnr provinciale, 25/02/1945, Aismo, fondo Messerotti, b. 14, f. 6.

29.  Com’è noto l’organizzazione dei Gap attivi nelle grandi città consisteva nella formazione di nuclei molto piccoli che seguivano le regole di una rigida clandestinità [L. Borgomaneri 2015]. Decisamente diversa la situazione nella bassa modenese, dove la 65ª Gap assunse i connotati di una brigata partigiana vera e propria e si collegò strettamente con la popolazione della zona [S. Peli 2014, 183-195].

30. C. Silingardi e M. Montanari, Storia e memoria della Resistenza modenese, 1940-1999, Collana dell’Istituto storico di Modena, Roma, Ediesse, 2006, p. 127.

31. Cfr. F. Canova, O. Gelmini A. Mattioli, op. cit., pp. 304-305; M. Pacor e L. Casali, op. cit., pp. 245-247; C. Silingardi, op. cit., pp. 615-616.