Il Comitato provinciale della Resistenza e della lotta di liberazione di Bologna – composto da  Comune e Provincia di Bologna, Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi), Federazione italiana associazioni partigiane (Fiap), Università di Bologna, Ufficio scolastico provinciale, forze armate e sindacati confederali – ha promosso lo scorso 10 settembre un convegno dedicato all’armistizio siglato da Casa Savoia e dal governo italiano con le forze angloamericane nel settembre 1943.

La data dell’8 settembre 1943 è stata posta al centro dell’iniziativa come cesura nella storia d’Italia. Proprio sul carattere di avvio di una nuova esperienza, positiva e propositiva per il futuro, degli avvenimenti legati all’armistizio si sono incentrate diverse relazioni presentate al convegno, in particolare quelle di Anna Bravo e Luciano Casali. Entrambi, in contrapposizione alla tesi che vuole l’8 settembre come “morte della patria”, hanno insistito su quegli elementi che colgono nell’armistizio e nel periodo seguente un momento di rottura con l’esperienza precedente del fascismo e della guerra, momento nel quale vennero riscoperti e trovarono nuovo vigore tradizioni e legami culturali e ideali con il patriottismo prefascista e il passato risorgimentale. Accanto a questi furono elaborate, in modo più o meno cosciente, forme di opposizione alla guerra e al fascismo, derivate dal rifiuto dell’esperienza della dittatura e del conflitto e dall’individuazione di nuove traiettorie possibili per disegnare un’Italia diversa da quella del regime. Se una patria era morta, era quella fascista, mentre prendeva vita una patria alternativa che poteva cercare le proprie radici nel passato prefascista e nell’antifascismo del Ventennio, e proiettarsi verso l’uscita dalla guerra e il futuro.

Il convegno, affidato per il coordinamento scientifico a Luciano Casali, ­ha articolato un discorso sull’evento “armistizio” secondo un approccio centro-periferia, muovendosi dal piano nazionale a quello specifico della realtà locale bolognese. Nella prima sessione, presieduta dal presidente dell’Anpi di Bologna, William Michelini, le relazioni hanno tracciato il quadro nazionale seguito agli avvenimenti dell’8 settembre 1943. In particolare Anna Bravo ha focalizzato l’attenzione sulle reazioni della popolazione civile e sul sorgere di un’opposizione e di una resistenza alla guerra, prima spontanee e poi via via più consapevoli, sottolineando la presenza di nuove declinazioni dell’idea di patria e dei concetti di onore e fedeltà, non più riferiti al fascismo e al nazionalismo del regime bensì a nuovi soggetti (che nel caso dei combattenti partigiani furono i compagni di lotta, la banda, la comunità locale, la famiglia). Passando poi a considerare l’atteggiamento della “gente”, Anna Bravo ha parlato di nuovi codici di onore di natura non militare, che furono alla base dell’azione di salvataggio e protezione dei militari italiani sbandati, dei partigiani, dei soldati alleati fuggiti dai campi di prigionia fascisti, infiltrati oltre le linee o tagliati fuori dal loro campo dal fronte di guerra. Un onore civile che secondo la studiosa andrebbe ricordato e celebrato, ma che – proprio per non risultare sminuito nel suo valore – non deve far dimenticare che solo una minoranza degli italiani fece scelte coraggiose per opporsi alla guerra e risparmiare vite umane.
Il mio intervento ha preso, invece, in esame la reazione della Germania e le strutture messe in piedi dagli alleati-occupanti tedeschi in Italia. La Germania non fu colta di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, al contrario i nazisti avevano pianificato da tempo le contromisure necessarie a prendere il controllo della situazione in caso di defezione dell’Italia. L’occupazione tedesca della penisola fu, infatti, molto rapida e permise alla Germania di sfruttare le risorse economiche e umane dell’Italia a vantaggio della guerra nazista, mediante una sorveglianza stretta sul governo fascista della Repubblica sociale e una rete di organismi facenti capo all’amministrazione militare tedesca, all’ambasciatore tedesco presso Salò e ai principali ministeri del Reich. Oltre che attraverso tali strutture i nazisti operarono in Italia con le proprie forze di polizia – impegnate nella repressione della Resistenza e dell’opposizione e nelle deportazioni – e con le truppe dell’esercito, provocando devastazione e terrore e scatenando quella che la storiografia ha definito una guerra contro la popolazione civile.

La risposta dei fascisti alla caduta del regime, al mutamento di fronte dell’Italia e alla ricostituzione di un governo fascista è stata oggetto del contributo di Dianella Gagliani, la quale si è soffermata sulla crisi di consenso interna ed esterna al partito fascista del 1943 e sul periodo poco indagato dei “45 giorni” del governo Badoglio, evidenziando l’aprirsi di una fase di defascistizzazione del paese a cui non corrispose una democratizzazione, ma che rappresentò in ogni caso una via d’uscita rispetto al periodo precedente. Gagliani ha messo in luce l’atteggiamento dei fascisti all’indomani del 25 luglio 1943 confrontandolo con quanto accadde dopo l’8 settembre: da una reazione quasi ovunque mancante di fronte al crollo del regime, si passa – dopo l’armistizio e, specialmente, dopo la liberazione di Mussolini – a una ripresa del fascismo grazie al sostegno tedesco. Tale ripresa, problematica dopo la defascistizzazione avviata da Badoglio, tra due linee possibili – quella moderata e quella fascista totalitaria – si orienta sulla seconda, facendo emergere la volontà dei fascisti (in primis di Mussolini) di vendicarsi prima di tutto dei traditori interni al fascismo.

Luciano Casali è intervenuto sulla crisi dell’esercito italiano e sui primi passi del movimento partigiano dopo l’8 settembre 1943, due fenomeni che affondano le proprie radici negli anni precedenti e nell’incapacità dimostrata dal fascismo durante la Seconda guerra mondiale di alimentare e diffondere –  affinché divenisse patrimonio comune e identitario degli italiani –  l’idea di patria elaborata negli anni Trenta. Una patria guerriera, integralmente fascista la cui essenza si individuava nei militari e nella guerra. L’armistizio rese evidenti la mancata identificazione della popolazione e dei militari nella patria fascista e nel conflitto e, con essa, il crollo del consenso. La rottura dell’unità nazionale e l’inadeguatezza della monarchia e di Badoglio – davanti alla necessità di fornire motivi e contenuti a un’idea di patria alternativa a quella fascista – crearono un vuoto di potere e di valori, all’interno del quale solo i partiti antifascisti e i Comitati di liberazione nazionale seppero incanalare (attraverso un complesso e non lineare percorso) il moto di rifiuto verso guerra, occupazione nazista e fascismo nella partecipazione attiva di gruppi di militari, giovani e popolazione alla Resistenza per la costruzione di una nuova Italia democratica e antifascista.

La seconda sessione, svoltasi sotto la presidenza di Francesco Berti Arnoaldi Veli, presidente della Fiap, è stata invece dedicata all’approfondimento di alcuni aspetti del biennio 1943-1945 considerati da una prospettiva locale. Nel primo intervento, affidato a Brunella Dalla Casa, la relatrice ha affrontato le vicende del fascismo bolognese dalla fine degli anni Trenta alla fase di avvio della Repubblica sociale, evidenziando da un lato i mutamenti di leadership e di linea all’interno del partito fascista, dall’altro l’emersione di posizioni radicali che nei primi anni di guerra chiedevano il ritorno allo squadrismo o comunque al movimento delle origini. Parallelamente Dalla Casa ha sottolineato il progressivo calo di consenso verso il regime negli anni del conflitto, una situazione che incentivò la risposta venata di violenza e radicalismo dei fascisti bolognesi. La scelta della violenza fu confermata dal Partito fascista repubblicano di Bologna all’indomani dell’armistizio, dopo che nei “45 giorni” i fascisti erano praticamente scomparsi dalla scena; e anche nel bolognese la Repubblica sociale si impegnò innanzitutto nella lotta contro i traditori interni, per concentrarsi solo in seguito sulla repressione degli oppositori antifascisti.

Anche Alberto Preti, nel suo contributo sulla società civile bolognese durante la Seconda guerra mondiale, ha affrontato il nodo del consenso al fascismo attraverso l’analisi di lettere censurate e di relazioni sullo spirito pubblico stilate dal questore di Bologna dell’epoca e dall’ispettore dell’Ovra competente per l’Emilia Romagna. Affiancando queste fonti con un sia pur rapido esame della situazione economica bolognese, Preti ha messo in luce come la situazione d’impoverimento e privazione determinata dalla guerra e da fenomeni quali il mercato nero, lo sfollamento e i bombardamenti abbiano portato a una rottura del legame fascismo-popolazione, che a Bologna si determina già prima della destituzione di Mussolini e dell’armistizio esprimendosi nell’elaborazione di strategie di sopravvivenza, sabotaggi, astensioni dal lavoro di carattere pre-politico, prima ancora che antifascista.

Rossella Ropa ha ripercorso l’esperienza degli oltre 9.000 militari bolognesi – tra soldati (di gran lunga in maggioranza) e ufficiali – fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio e rinchiusi nei campi per internati militari della Germania nazista. La studiosa ha preso in considerazione la situazione caotica dell’8 settembre derivata dalla mancanza di notizie e ordini, i tentativi di reazione al disarmo, le condizioni di vita nei campi e il lavoro coatto. Ha poi evidenziato come sia opportuno vedere nel rifiuto – condiviso dalla maggioranza degli internati militari – di rientrare in Italia per combattere nelle file della Repubblica sociale un atto di Resistenza che andrebbe maggiormente valorizzato, per quanto non sia possibile considerarlo una scelta maturata sulla base di una politicizzazione antifascista di tipo partitico dei militari italiani, quanto piuttosto di una volontà di opporsi a guerra, nazismo e fascismo derivata dalla situazione contingente di prigionia e dal cattivo trattamento subito, che la avvicina a quello che è stato definito antifascismo esistenziale.

Infine Mauria Bergonzini ha delineato un affresco sulla Resistenza femminile a Bologna e sulle sue molteplici declinazioni attraverso le testimonianze di donne antifasciste e partigiane, dalle quali emerge la presenza forte della componente femminile all’interno del movimento resistenziale bolognese, una presenza non sempre adeguatamente sottolineata e riconosciuta. Bergonzini ha preso le mosse dalla scelta delle donne di aderire alla Resistenza – che esse fecero in modo del tutto volontario non essendo soggette a obblighi militari – e dalle motivazioni che le spinsero, per poi approfondire i diversi saperi e le diverse strategie di sopravvivenza che le donne dovettero recuperare dalle loro esperienze pregresse, elaborare ex novo e mettere in pratica nel biennio 1943-1945. La relatrice ha fornito così una lettura della Resistenza, e specialmente della Resistenza civile, quale campo dell’apprendimento e dell’accrescimento personale, sociale e politico delle donne.

L’iniziativa si inserisce all’interno di una serie di incontri che in occasione del Settantesimo anniversario della Resistenza stanno aprendo momenti e spazi di riflessione in regione sui nodi centrali del periodo 1943-1945, fra cui l’armistizio, considerato da più parti l’avvio del percorso che ha condotto alla liberazione e alla nascita del nuovo ordinamento repubblicano e democratico dello Stato italiano. Guardare all’armistizio da questa angolazione e collocarlo in una dimensione che abbracci vicende nazionali e locali, prendendo in considerazione anche il periodo precedente e gli sviluppi successivi, consente infatti di interrogarsi sul significato profondo non solo dell’8 settembre 1943, ma anche del regime fascista e della guerra, nonché dell’impatto avuto da essi sull’Italia, sugli italiani e sulla loro storia.


Programma del Convegno (pdf)