1. Genesi necessaria di una storia associativa

Utilizzare la parola “epopea” per definire i viaggi della memoria dell’Associazione nazionale ex deportati (Aned) porta in sé un carattere apparentemente mitico che sembra abbia più a che fare con l’eroismo di un’impresa leggendaria che con un approccio storico-narrativo.

Eppure per certi versi questa parola è forse la più adeguata, perché in modo evocativo richiama la nascita di questa associazione oltre che la natura stessa della sua essenza e della sua evoluzione.

Aned è un’associazione democratica e apartitica, che afferma e persegue i valori di libertà, giustizia e pace che hanno contraddistinto l’antifascismo e la lotta di Liberazione. L’associazione si richiama alla Costituzione e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ed è coerente anche con i recentissimi obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Organizzazione delle nazioni unite [1].

Aned si costituì attraverso un atto notarile nel settembre del 1945 per espresso volere di alcuni deportati. L’atto di nascita fu firmato a Torino da 20 sopravvissuti tra cui Italo Tibaldi [2] allora non ancora maggiorenne. In quello stesso periodo sorsero organizzazioni analoghe in diverse città. Alcuni anni più tardi, nel 1956, a Verona si tenne il primo congresso nazionale nel quale si decise la riunione delle diverse organizzazioni locali per dare vita a un’unica associazione a livello nazionale: il congresso elesse Piero Caleffi [3] come primo presidente. Alla sua morte, nel 1978, fu eletto Gianfranco Maris [4], che rimase in carica fino al 2015. L’attuale presidente è Dario Venegoni, figlio di Carlo e di Ada Buffulini, entrambi deportati a Bolzano.

La motivazione che spinse tanti uomini e donne, provati dalla durissima esperienza dei Lager, a ricongiungersi in un’associazione fu duplice.

In primo luogo l’associazione rispondeva alla esigenza di riconoscersi, in una società che sostanzialmente non credeva o che respingeva la loro testimonianza. I deportati e le deportate tornati dai Lager faticavano infatti a condividere il racconto della loro esperienza con le persone che non l’avevano vissuta. Al contrario, nell’associazione potevano riconoscere il proprio dolore in quello di un altro superstite senza alcun bisogno di mediarlo o di doverlo raccontare. Il rientro alla quotidianità dopo un’esperienza così traumatica fu difficile per molti motivi. Alcuni sono immediatamente rintracciabili nell’unicità tragica dell’orrore che caratterizza i Lager nazisti con i forni crematori e le camere a gas, altri hanno molto a che fare con il fatto che il peso e il carico di quel dolore si raddoppiò quando molti deportati si dovettero trasformare in testimoni oculari della morte dei loro compagni e affrontare le loro madri e mogli. Di qui la necessità per i sopravvissuti di avere un luogo di confronto assolutamente protetto.

Il secondo scopo dell’Aned era di carattere mutualistico nei confronti non solo dei sopravvissuti ma anche (e forse soprattutto) dei familiari che avevano perso i loro cari all’interno del sistema concentrazionario nazista.

Superstiti e familiari avevano bisogno di essere aiutati e Aned si assunse l’onere organizzativo di dare risposte a quel bisogno: pacchi viveri, vestiario e medicinali da distribuire agli associati più bisognosi nei primi anni dalla fine della guerra, a causa del perdurare delle sofferenze fisiche e economiche di chi non poteva più lavorare per problemi di salute o di chi, rimasta vedova [5], con estrema dignità cercava di far fronte alle esigenze quotidiane di dover crescere da sola dei figli.

Per l’associazione dei superstiti, prendersi cura delle vittime era doveroso e necessario. Molti deportati chiesero esplicitamente ai loro compagni, prima di morire nel campo, di “adottare” i loro figli e stare vicino alle loro mogli.

Insieme a questo obiettivo così profondamente umano e che racconta di una grande dignità dei sopravvissuti, maturò successivamente un altro obiettivo che si rivelò urgente e strettamente necessario: la ricostruzione di tutti i nomi e di tutti i trasporti dei deportati italiani. Realizzare archivi, cercare numeri di matricola e restituire le storie alle famiglie private così violentemente dei loro cari, si coniugò anche con uno slancio e un bisogno di giustizia sociale e spinse l’Aned a cercare di dare un nome e un cognome, un luogo e una motivazione alla storia dei circa 41.000 deportati italiani.

La ricerca partì da Italo Tibaldi, che fu deportato giovanissimo a Mauthausen ed Ebensee, il quale incominciò con il censire i compagni partiti con lui: 50 persone stipate in un vagone merci partito da Torino nel gennaio del 1944. Organizzando la ricerca in schedari caratterizzati da numero del trasporto, data di partenza, data di arrivo, nome e cognome del deportato con numero di matricola, Italo riuscì a rintracciare 123 trasporti dal settembre 1943 al marzo 1945. Il suo era un metodo di ricerca originale che puntava a identificare le storie collettive prima ancora di quelle individuali, tanto che la sua opera più famosa la intitolò Compagni di viaggio. Dall’Italia ai lager nazisti. I trasporti dei deportati 1943-45 [Tibaldi 1995].

Tibaldi non era uno storico, era un testimone che sentì prima di tutto la necessità di identificare i nomi e cognomi di chi era dentro il “suo carro bestiame” per conoscere le loro storie, sapere quali erano le ragioni che spinsero ciascuno di loro ad essere lì. Ma a partire da loro, Italo intraprese una ricerca sempre a più largo raggio, che giunse infine a includere tutta la deportazione italiana.

La sua ricerca rappresenta molto bene la matrice che connota la specificità di questa associazione di cui si vuole dar conto in questo breve saggio sui viaggi della memoria e che è fatta di un sapere e di un sentire esperienziale che continuamente si intrecciano e si modificano in relazione al contesto ma che da sempre hanno l’ambizione di essere un’azione di memoria collettiva. Ancora oggi quel libro, seppur superato da nuove ricerche, costituisce un punto di riferimento imprescindibile per qualsiasi indagine sulle deportazioni dall’Italia. Il suo impegno enorme da autodidatta è sorprendente nei risultati ma sa essere anche straziante se proviamo a immaginare l’impatto che ogni numero di matricola, ogni storia, ogni trasporto può aver avuto per un superstite. Eppure Tibaldi non ha mai smesso di cercare, ordinare, raccogliere e ascoltare storie. In questa azione, che mostra la grande dignità di questo uomo, vi è anche un tentativo di riscatto orgoglioso di fronte alla programmata e cruda spersonalizzazione della matricola nazista. Italo Tibaldi restituisce nome e senso alla storia a chi era stato classificato come Stück, “pezzo” e bruciato nei forni crematori, caratterizzando il contenuto etico di quello che, ancora oggi, è il lavoro di Aned.

Passare dalle matricole ai nomi, dalla storia alle storie è ciò che fa di Aned un unicum in tutto il panorama nazionale. Vi è inoltre un altro aspetto che ha reso particolare il testimoniare dei deportati sopravvissuti (uomini e donne). Ed è che, fin da subito e in un modo che solo apparentemente è irrazionale, essi scelgono di essere testimoni delle scelte di chi dal Lager non è tornato, accogliendo e facendosi carico del dolore e della perdita dei loro familiari. Questo essere da parte del testimone sia «custode della memoria» che «generazione senza congedo» [Tibaldi 1995] rende molto efficacemente lo spessore umanamente complesso di un’associazione che ha a che fare con l’etica e il senso delle scelte, ma anche con la cura amorevole del dolore altrui.

Viaggi di formazione, corsi, seminari sulla deportazione sono davvero numerosi oggi in Italia e questo non può che essere un bene e un arricchimento per tutti, compresa l’Aned stessa. Si tratta di esperienze che sono nate e maturate in contesti anche molto differenti e che muovono, come i “treni della memoria”, anche da storici e intellettuali appassionati, da professionisti della relazione educativa che si caratterizzano come soggetti di partecipazione attiva e di educazione civile consapevoli di quanto i luoghi dell’orrore (Auschwitz ne è il simbolo) possano essere lo spazio di riappropriazione della propria e altrui umanità.

Eppure questo coinvolgimento così diretto che mette l’interlocutore nella condizione di essere protagonista di un’azione di memoria attraverso una componente affettiva che interroga immediatamente l’etica e da cui è praticamente impossibile sottrarsi, è la cifra che caratterizza ogni esperienza con questa associazione.

Nella deportazione si intrecciano le storie di vittime, carnefici, spettatori inermi ed eroi. Restituire la pluralità delle scelte e dei comportamenti è lavoro complesso. Ciò che emerge sempre è la natura soggettiva delle scelte di ciascun essere umano che resta, di fatto, sempre libera e mai costretta. Quando il testimone racconta la sua storia, spostandola dall’astrattezza delle metafore stereotipate “della belva nazista” “del buco nero della cattiveria umana” alla concretezza della scelta di “persone normali” che si sono trovate a essere eroine loro malgrado, chi ascolta sente il bisogno di interrogarsi sul qui e ora, sulla propria capacità di scegliere ma anche sulla necessità di agire in modo coerente con quella scelta. Lo status di “testimone” (diverso dal semplice deportato [6]) deriva dal fatto che chi racconta le sue scelte prima ancora che la sua sofferenza si svincola dal ruolo di sola vittima: fa della sua storia dolorosa una domanda che interroga e non ammette assenza di risposta. Anche i carnefici e le vittime, gli inermi della “zona grigia” acquistano di fatto spessore umano con la loro storia, le loro scelte e le loro azioni. Tutto si condensa in un magma complesso da cui è possibile districarsi solo interpellando il proprio quotidiano con se stessi come soggetti protagonisti. Quella tenacia del testimoniare amplifica echi lontani (voci silenziose, occasioni perse, dolori inenarrabili) e diventa voce spessa e suadente anche perché sceglie di personificare il dolore di chi non può più parlare.

2. I pellegrinaggi Aned: storia di un nome e delle sue trasformazioni

Come scritto in precedenza, viaggiare è stata una necessità pressoché immediata per l’Aned. Superstiti e vedove, figli e genitori degli uccisi incominciarono a ritornare nei luoghi dello sterminio fin da subito dopo la fine della guerra. Uno dei primi viaggi di cui abbiamo documentazione è del 1947 attraverso una lettera privata che racconta la volontà di superstiti e familiari di «cercare le tombe dei nostri cari» [7]. I loro viaggi si svolgevano in treno e erano pieni di fatiche, ostacoli e problemi di diversa natura per poter attraversare le frontiere di un’Europa completamente diversa da quella che abitiamo oggi.

Mario Taccioli [8], nel suo scritto Perché un viaggio nei lager [9], spiega in maniera mirabile l’unicità di questo viaggiare fatto di compagni, vedove, ricordi dolorosi ma anche di certezze profonde:

Chiunque, nel corso della propria esistenza, abbia vissuto un’esperienza eccezionalmente tragica, traumatizzante, difficilmente riesce a cancellarne il ricordo, e rifugge da qualunque tentativo di rievocazione, terrorizzato dall’orrore e dalla sofferenza che il solo ripensarvi può suscitare. Noi abbiamo vissuto i dolori e l’infamia dei lager: noi ne siamo usciti ancor vivi, mentre i nostri compagni migliori sono morti e con loro è morta la parte migliore della nostra giovinezza. Il ricordo amaro di questa esperienza dolorosa non ci dà tregua e ci percuote ancora nei sogni. Molto è stato detto e scritto su questo dolore, su quelle morti e molte altre cose non sono state né dette né scritte: giacciono sepolte nella memoria degli aguzzini e negli abissi misteriosi della storia.

Eppure, ogni anno a primavera, sentiamo, inspiegabile vivo ed imperioso il bisogno di tornare lassù dove i nostri morti giacciono dimenticati, anche se ogni volta ci sentiamo sconvolti e sommersi da un’onda di ricordi angosciosi.

Perché torniamo? Non certo per ostentazione d’orgoglio, per essere riusciti a scamparla, per aver domato la bestia, per aver fermato la macchina della morte; non per rinnovare un dolore che non si è mai spento, ma perché sentiamo dentro di noi che questo ritorno al dolore di quei giorni ha su tutti un effetto stimolante e vivificante. Dal lager si sprigiona un richiamo a cui nessuno riesce a sottrarsi. In questi momenti di commozione profonda, accanto all’antico dolore, sentiamo però anche rinascere quelle grandi certezze che hanno fatto bella la nostra giovinezza e alimentato la nostra lotta, la certezza che da questo immenso patire sarebbe nata una vita migliore per tutti.

I nostri compagni migliori sono morti là dentro, ma anche essi sentivano che dalla loro morte sarebbe lievitata una società nuova di uomini liberi e giusti.

Questi viaggi, caratterizzati dalla presenza massiccia di sopravvissuti testimoni e da vedove e figli di deportati uccisi, sono andati avanti a partire dai primi anni Quaranta fino alla metà degli anni Novanta. Nel tempo persero la caratteristica di essere “solamente” viaggi a dimensione familiare e ampliarono la loro platea coinvolgendo studenti, istituzioni, docenti e migliaia di cittadini da tutta Italia. Dei primi viaggi più intimi sono rimasti pochissimi filmati e fotografie ma tanti racconti e testimonianze che Aned ha gelosamente conservato.

Molte sezioni hanno archivi pieni delle trascrizioni di interventi fatti e registrati con audiocassette durante i viaggi, soprattutto dal momento in cui i treni sono stati sostituiti dai bus. Dentro quel materiale accuratamente trascritto dai soci volontari, emerge con forza la fatica del deportato di ritornare nel “suo” campo e un forte malessere fisico nell’attraversare quel luogo. Si sente ancora la disperazione e il dolore di tante donne che rimasero vedove giovanissime e che nel pieno della loro storia d’amore si videro portare via il loro sposo senza poterlo più incontrare se non nei racconti dei sopravvissuti. Moltissime donne si organizzarono nei primi anni di viaggio con foto dei loro cari: piccoli ritratti dei figli o mariti che furono appesi sui muri degli edifici che circondano i forni crematori o nell’imponente monumento italiano del campo di concentramento di Mauthausen dove ancora oggi sono appese tante fotografie e targhe dei deceduti.

Fig. 1. Locandina viaggio Aned a Mauthausen 1955
Fig. 1. Locandina viaggio Aned a Mauthausen 1955

Avvicinandosi il momento della morte, molte di queste donne hanno donato alle sezioni territoriali dell’Aned i biglietti gettati dal treno dai loro mariti mentre andavano in Germania e che furono miracolosamente salvati e consegnati oppure altri cimeli o testimonianze spesso inedite ma ricche di una straordinaria intensità: sono oggetti a cui queste donne hanno dato una nuova vita dopo la loro morte attraverso l’associazione che tanto le aveva accolte e aiutate.

Una fra tante la voglio trascrivere per dare la dimensione di quanta intimità privata si è trovata a maneggiare Aned nella scelta di raccontare la storia attraverso le singole biografie senza «rifuggire dal dolore» come scriveva Mario Taccioli. È la lettera che l’ingegner Giuseppe Pagano Pogatschnig [10] indirizzò alla moglie, dettandola nell’infermeria del Lager al compagno Giuseppe Calore [11] poche ore prima di morire e che fu da lui trascritta fedelmente:

Paola, ti mando un mio ultimo saluto. È probabile che la nostra vita così intensamente felice sia definitivamente interrotta. Abbi forza. Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona.

Particolari della mia esistenza e dei miei ultimi giorni te li daranno i compagni superstiti. Voglio essere forte vicino a te sempre, presente in tutti i tuoi sogni. Pensa a riprenderti, non abbandonarti alla malinconia. La vita ti farà ancora sorridere e ne sarò tanto felice. Bacia la bimba; essa possa vedere il nuovo mondo. Pensi al suo papalino dei tempi più belli! A te tutto il mio amore, tutta la mia grande fede nella tua grande bontà. Quando mi ricorderai voglio da te ricordi allegri – quelli dei nostri tanti intervalli felici. Vivi in compagnia, evita la solitudine. Sei giovane ancora ed hai diritto ancora alla tua parte di felicità (grande! grande!) che io mi ero ripromesso di darti. Addio.

Oggi quel messaggio è ancora letto nei viaggi della memoria di Aned come testimonianza concreta, esperienziale e personale (tipica della dimensione autobiografica usata dai testimoni dell’associazione) utile a dimostrare a tutti i partecipanti la differenza tra giustizia e vendetta e per riflettere su quanto l’esperienza del Lager avesse convinto tanti dei superstiti che l’odio è il nemico primo della giustizia.

Non a caso il Giuramento di Mauthausen [12] scritto da tutti i sopravvissuti recita le seguenti parole:

La permanenza di lunghi anni nei Lager ci ha convinto del valore della fraternità. Così come grazie allo sforzo comune di tutti i popoli, il mondo è stato liberato dalla minaccia nazista, così dobbiamo considerare la conquistata libertà come un bene comune a tutti i popoli.

La pace e la libertà sono la garanzia della felicità dei popoli, così come l’edificazione del mondo su nuove basi di giustizia sociale e nazionale è la sola strada per la collaborazione pacifica degli Stati e dei Popoli.

Noi vogliamo custodire il ricordo della solidarietà internazionale esistente nel Lager e trarne la seguente lezione: seguire un comune cammino, quello della comprensione reciproca della collaborazione alla grande opera dell’edificazione di un mondo nuovo, libero e giusto per tutti […].

È chiaro che la divisione tra viaggi quasi esclusivamente familiari (anni Cinquanta-Settanta) e viaggi che mantengono quella caratteristica predominante pur ampliando la loro partecipazione alle scuole, ai cittadini e alle istituzioni (anni Ottanta-Novanta) è abbastanza sommaria ma ci serve per dar conto dell’utilizzo, dal punto di vista della narrazione da parte dell’Aned, della parola “pellegrinaggio” al posto di viaggio della memoria [13].

Il pellegrinaggio nel linguaggio tradizionale è un viaggio che viene compiuto per devozione, ricerca spirituale o pentimento verso un luogo considerato sacro. È un andare che ha un fine scelto dal partecipante, con un atteggiamento di devozione e pronta accettazione di sacrifici per raggiungere la meta scelta. Sono famosi diversi pellegrinaggi religiosi primi fra tutti a Gerusalemme, a Roma, a Santiago di Compostela, alla Mecca. L’utilizzo dello stesso termine, per molti anni, anche per i viaggi della memoria Aned, ha a che fare con i luoghi che portano con sé una sacralità data proprio dall’unicità di ciò che è accaduto. Ha inoltre sicuramente anche a che fare con la cifra del dolore dei “primi viaggi familiari” che erano talmente vicini anche temporalmente da trasformarsi in un tentativo collettivo di rielaborazione del lutto sia da parte dei deportati che da parte dei familiari delle vittime. I deportati in campo di concentramento erano costretti a pensare a sé e a dover sopravvivere al punto che a volte persino la presenza dei propri familiari costituiva un ostacolo/impaccio.

Angelo Signorelli, deportato a Gusen [14] e Mauthausen, racconta nel suo libro [Signorelli 1996] come si angosciasse per la fame e le botte di suo fratello Giuseppe, detenuto con lui nello stesso campo, e che quando Giuseppe fu trasferito dalle SS in un altro campo vicino a Vienna, per lui il doversi preoccupare solo di se stesso fu più semplice. Avere a che fare con le botte o barattare cibo per sé era molto più fattibile se non si vedevano le sofferenze di quelle stesse botte in qualcuno a cui volevi bene e che avevi paura morisse di fatica o di fame. Eppure nel campo, dove ciascuno pensava soprattutto a sé, lontano dalla propria famiglia, c’erano i compagni di sventura, la solidarietà tra piccoli gruppi o della stessa nazione o semplicemente della stessa baracca.

Sempre Mario Taccioli scrive

Ricordo che nei rari momenti di sosta, tra un turno e l’altro di lavoro, nel buio angoscioso della notte, parlavamo tra noi, sognando il ritorno alle nostre case, pensando a quello che avremmo ritrovato e a quello che avremmo dovuto fare, una volta tornati e temprati da quella prova durissima. Poi, ogni giorno, qualcuno di noi moriva e dovevamo consegnarlo ai carnefici e poi al crematorio: l’indomani vedevamo alzarsi il fumo del camino e, in silenzio, guardavamo quel fumo tra le lacrime.

Quando uno di questi compagni moriva non solo non c’era il tempo di piangerlo ma forte era la sconfitta per “averlo dovuto consegnare ai carnefici” perché molti erano finiti lì per aver compiuto le stesse scelte di quelli che rimanevano, e per aver condiviso speranze e impegno per il proprio futuro e per il futuro del proprio paese e del mondo. È stato proprio questo, la comunanza di valori e sentimenti che ha reso i compagni anche dei “familiari” al punto da prendersi cura delle loro famiglie, dei loro figli e dar conto della fine di chi non ce l’ha fatta. Fare memoria era dar conto delle scelte e del valore etico che le connotavano. A questo proposito ci sono lasciti simbolicamente straordinari che spiegano di che cosa parliamo quando affermiamo che vi era un “legame intimo” tra i sopravvissuti e gli sterminati.

Ecco perché l’utilizzo del termine “pellegrinaggio” ha sempre appassionato i soci dell’Aned ed è sempre stato coerente con la visione e il legame profondamente familiare che connotava l’associazione. Come in un pellegrinaggio religioso o laico, ci si muove per andare da qualche parte e si torna cambiati. Ci si muove insieme e il viaggio non è solo la meta ma, anzi, è soprattutto il percorso che insieme tutti percorriamo, vivi e morti.

Questo modo di “peregrinare”, come dicevo, esiste dagli anni Quaranta e ha dunque due caratteristiche peculiari:

1) è la prima forma realizzata di viaggi nei campi di concentramento e sterminio. Molti di questi territori però non avevano ancora conquistato lo status di “luoghi della memoria” ed erano invece spazi di brucianti perdite e di sconfitte. Inoltre l’ostilità degli abitanti del luogo rendeva la visita un’esperienza molto diversa da quella dei viaggi della memoria organizzati in tempi più recenti, soprattutto dopo la giornata mondiale istituita dall’Onu [15];

2) non nasce come viaggio che deve costruire una memoria collettiva che faccia da collante tra gli individui e una coscienza pubblica, ma come “ricerca delle tombe” e dunque rito collettivo, utile per dare un ordine e un contenimento all’angoscia della perdita.

Inoltre fino agli anni Novanta i deportati, pur essendo nei viaggi quasi gli unici a raccontare del Lager e della deportazione attraverso la narrazione della loro storia personale, poco avevano maturato il racconto oltre quella dimensione. In sostanza, se durante i viaggi i deportati erano sicuri che le persone attorno a loro erano interessate a ciò che avevano da dire, sicuramente non avevano questa certezza una volta scesi dai pullman e ritornati nei propri ambienti di vita e di lavoro. Gli anni del rientro furono gli anni del silenzio, quelli in cui nessuno voleva ascoltare perché c’era un paese in fermento, pronto a guardare oltre le macerie della guerra e poco disposto ad accogliere l’unicità del dolore e dell’ingiustizia vissuta nei Lager. Dei campi di concentramento e sterminio non si sapeva quasi nulla, e quella vicenda venne annoverata come uno dei tanti “episodi della guerra” da rimuovere per poter andare avanti. Molti dei superstiti non parlarono se non in un ambito ristrettissimo. Naturalmente oggi si può ragionare attorno al fatto che fu un errore culturale, sociale e politico credere che il silenzio sul dramma dei Lager potesse contribuire a una maggiore tranquillità sociale, ma è un fatto che per i deportati fu un autentico trauma verificare che il proprio racconto non veniva ascoltato e comunque non compreso. Non esiste un testimone in sé di un’esperienza, seppur unica: il testimone esiste solo nella situazione di testimonianza nella quale si pone. L’aver taciuto per molti anni ha reso parte dei sopravvissuti “fragili” non tanto nel resoconto dei fatti, perché la testimonianza è un’esperienza umana unica che non ha mai la pretesa di essere storicamente esaustiva; ma nella rilevanza che questo racconto assumeva nella società. Una testimonianza può superare la dimensione dell’esperienza individuale solo grazie ad un corpo sociale che si faccia carico di essa e la renda universale nella sua unicità. E quell’universalità non era ancora conquistata.

Da questo punto di vista è riconosciuto da tutti come sia stata l’istituzione del Giorno della memoria nel 2000 [16] a dare al testimone lo status pubblico di colui che si impegna a costruire una coscienza collettiva caratterizzata da una dimensione pratica dell’agire capace di trattenere il buono del passato e provando a renderlo coerente con il presente. La memoria, quindi, da fatto intimo, privato e familiare diviene un fatto collettivo e universale. E non è un caso che è proprio a partire da quel momento che il “pellegrinaggio” assume anche in Aned la connotazione più universale di “viaggio”.

La scelta di istituire il 27 gennaio per primi come paese, dando anche della deportazione una definizione più ampia e storicamente più corrispondente alle vicissitudini quantomeno italiane e ricordando «le vittime dell’Olocausto, delle leggi razziali e coloro che hanno messo a rischio la propria vita per proteggere i perseguitati ebrei, nonché tutti i deportati militari e politici italiani nella Germania nazista», ha sicuramente sollecitato l’istituzione del Giorno mondiale della memoria da parte dell’assemblea generale dell’Onu nel 2005.

Dentro la definizione di viaggio/pellegrinaggio da parte dell’Aned vi sono grandi differenze tra gli anni Cinquanta e gli ultimi anni Novanta. Cambia completamente il contesto politico, culturale e storico dell’Europa e del mondo con la fine della Guerra fredda e il crollo del muro di Berlino.

Da sola meta ai luoghi dello sterminio, il viaggio diviene successivamente l’esito di un lungo percorso di formazione con studenti e docenti, frutto di progetti didattici, di lezioni, di incontri preparatori o di concorsi in cui gli studenti lavorano sul tema della deportazione e producono elaborati da condividere con i propri coetanei dentro la scuola. Dunque, matura una realtà che ha nuovi e numerosi interlocutori “pubblici” (studenti, docenti, cittadini, istituzioni, associazioni, lavoratori e sindacati) con cui l’Aned, attraverso il viaggio, si impegna a mettere ordine nel passato ma anche a riflettere sul destino e il futuro della memoria, su ciò che rimane dall’esperienza dei Lager nelle generazioni lontane da quegli avvenimenti.

In questo perdurare di mutazioni delle condizioni di viaggio da “private” a “pubbliche” da “familiari” a “collettive” moltissimo merito ha il lavoro delle sezioni territoriali dell’associazione che costruiscono alleanze con le singole istituzioni comunali e regionali per trovare finanziamenti che permettano agli studenti e ai loro docenti di fare viaggi della memoria ma anche di favorire percorsi istituzionali che connettano il tema della deportazione oltre che con la scuola anche con i luoghi dove quei campi sorsero e con le persone che ancora oggi lì abitano. Già negli anni Ottanta furono sperimentati i primi incontri fra giovani di delegazioni provenienti da paesi diversi nei campi di concentramento. La progressiva riduzione del numero dei deportati presenti al viaggio (ma anche dei genitori, delle vedove, di alcuni degli stessi figli degli uccisi) aveva posto come centrale la questione di quale destino avrebbe avuto la memoria alla scomparsa dell’ultimo superstite dentro quell’esperienza così legata alla testimonianza diretta.

Inoltre non bisogna dimenticare il grande lavoro che alcuni deportati fecero negli anni Novanta nel costruire veri e propri gemellaggi tra alcune città italiane e i corrispettivi Comuni in cui sorsero i campi di concentramento, affinché le istituzioni di quei paesi si impegnassero a mantenere viva la memoria, oltre la testimonianza, nella celebrazioni e nella cura dei luoghi. Obiettivo primario era contribuire alla formazione di uno spirito di cittadinanza europeo, democratico e solidale a partire dalla convinzione che costruire un nuovo sentimento di fratellanza tra le nuove generazioni europee fosse l’unica strada per salvaguardare la cura e la memoria di quei luoghi e delle responsabilità politiche di ciò che era accaduto [17].

Per tutti i sopravvissuti, che simbolicamente giurarono la solidarietà nel piazzale dell’appello a Mauthausen, il percorso dei gemellaggi fu il naturale sbocco di quella solenne promessa accompagnata anche dal tanto agognato rispetto istituzionale e riconoscimento delle nazioni persecutrici, dopo anni di disconoscimento e di maltrattamento da parte della popolazione locale.

Si apre così verso la fine del XX secolo la riflessione su quella che David Bidussa [Bidussa 2012] chiama «L’era della post memoria»: come coniugare «il dovere della memoria» di cui scrive per tutta la sua vita Primo Levi con la perdita dei testimoni diretti?

Il mutare continuo dei viaggi della memoria di Aned ha a che fare certamente con il tentativo di dare una risposta a questa domanda e un nuovo senso alla vita di un’associazione che ha nel suo nome, nel suo statuto e nel suo scopo la figura del deportato e che oggi deve saper trasformare quella figura in uno sfondo pieno di senso.

Raffaele Mantegazza, autore di molti libri sul tema, scrive di come la democrazia debba essere rigenerata in continuazione e che nulla è dato per scontato o acquisito per sempre perché tutto deve essere ripensato, riprogettato e continuamente riconquistato: «La democrazia rinasce in ogni nuova generazione, deve essere quindi conquistata come un patrimonio nuovo» [Mantegazza 2019].

3. Le “vecchie” mete e i nuovi “mentori” del viaggio della memoria di Aned

Per l’Aned storicamente sono esistiti i pellegrinaggi (al plurale e non al singolare) della memoria: più viaggi con mete differenti per dar conto della complessità della deportazione, Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Mauthausen. Non è possibile scegliere un campo di concentramento o sterminio come unico o privilegiato luogo di memoria, almeno per la nostra associazione. Questo perché in ogni campo si sono consumate storie, tragedie e ingiustizie che meritano di essere raccontate. Penso a Ravensbrück, a circa 80 km da Berlino, che fu un campo di concentramento prevalentemente femminile, dove dal 1939 [18] al 1945 nacquero 870 bambini, ma solo pochissimi ebbero la fortuna di sopravvivere. Altri bambini, entrati nel Lager con le loro madri, non resistettero agli stenti, alla denutrizione, al clima. Penso a Treblinka, Chełmno, Belzec e Sobibór, campi di solo sterminio costruiti esclusivamente per attuare la “soluzione finale della questione ebraica” o al campo di Mittelbau-Dora [19] che nasce in un primo momento come campo di lavoro ma che poi si trasforma a tutti gli effetti in un campo di concentramento indipendente dove vengono trasferiti nel 1944 anche migliaia di deportati politici europei e tra gli italiani anche circa 800 internati militari italiani (Imi) per l’assemblaggio dei V2, missili e ultima arma del terrore nazista prodotta a partire dal 1943 per cercare di cambiare le sorti naziste della guerra.

Fig. 2. Inaugurazione del memoriale di Ravensbrück, 1959; nella foto sono ritratte Bianca Paganini (in ginocchio), Lidia Beccaria Rolfi e una terza ex deportata
Fig. 2. Inaugurazione del memoriale di Ravensbrück, 1959; nella foto sono ritratte Bianca Paganini (in ginocchio), Lidia Beccaria Rolfi e una terza ex deportata

Il sistema concentrazionario nazista nel suo complesso fu preciso nell’organizzare e soddisfare le sue esigenze, che mutarono nel tempo, ma che oscillarono sempre tra la funzione di sterminio e quella del produttivismo schiavile. Furono le esigenze e le richieste della guerra a determinare l’ago della bilancia.

Questo vuol dire, non tanto che ad ogni campo fu attribuito un unico e immutabile compito (lo stesso campo fu classificato nel corso del tempo in modo differente) quanto piuttosto che ognuno di questi campi è portatore di una sua specifica “trasformazione” che diviene la rappresentazione plastica dell’articolata storia del sistema concentrazionario e delle sue sfaccettature.

Ecco perché Aned mantiene ancora oggi un diversificato itinerario: perché privilegiando la visita di più siti è possibile dar meglio conto della complessità di un sistema costruito senza alcuna sbavatura. La scelta dell’obiettivo della visita dipende anche dalla storia locale alla quale fanno riferimento le diverse sezioni Aned [20]. Gran parte di esse si organizza per essere comunque presente alla annuale cerimonia internazionale in occasione dell’anniversario della liberazione di Mauthausen, con puntate, per l’occasione, al castello di Hartheim [21], a Dachau [22], a Ebensee e a Gusen. Mauthausen era l’unico campo che apparteneva alla “terza categoria” della classificazione del sistema concentrazionario nazista: ciò significa che per i prigionieri che venivano qui internati non era previsto il ritorno. Nel 1938 i primi 300 deportati provenivano da Dachau e, come tutti i prigionieri della fase iniziale, erano oppositori politici, nemici della Germania nazista da punire con il lavoro forzato, le torture, la malnutrizione e altri trattamenti disumani. I deportati che in seguito giunsero a Mauthausen appartenevano a diverse nazionalità: polacchi, ungheresi, spagnoli, sovietici, francesi, belgi, olandesi, italiani; vi furono anche numerosi ebrei, rom e sinti e “triangoli rosa”, ovvero prigionieri internati per il loro orientamento sessuale.

Gli italiani furono più di 6.000. Delle oltre 190.000 persone che si stima siano state rinchiuse a Mauthausen e nei suoi campi satellite, circa 90.000 trovarono la morte. Oltre 10.000 deportati furono uccisi nella camera a gas presente nel campo centrale.

La liberazione avvenne il 5 maggio 1945, e questa è la data che viene celebrata ogni anno con la cerimonia internazionale, alla quale partecipano delegazioni provenienti da tutto il mondo.

La scelta di rendere la partecipazione alla manifestazione internazionale di Mauthausen una delle protagoniste per eccellenza dell’itinerario della memoria di Aned ha in sé tutte le caratteristiche di cui abbiamo discusso sino ad ora:

- oggi la cerimonia di maggio a Mauthausen è la più imponente manifestazione antifascista dell’Europa intera;

- la manifestazione è il frutto articolato del lavoro di coordinamento internazionale del Comitato di Mauthausen a cui partecipano tutte le nazioni che hanno avuto deportati nel campo e dove l’Italia con Aned ha saputo sempre dare un contributo di altissima qualità progettuale [23];

- il carattere istituzionale della manifestazione si sposa con quel bisogno di cerimonie, di memoria di “gesti, monumenti e onori” che è difficile da comprendere se non si sono attraversate tutte le fasi che questa associazione ha maturato nel tempo e che abbiamo cercato di spiegare nelle pagine precedenti quando abbiamo parlato di elaborazione del lutto collettivo e di costruzione di una memoria fatta anche dal senso della giustizia, inteso come l’assunzione di responsabilità istituzionale da parte degli Stati europei dove sorsero i campi nazisti.

Queste mete “storiche” ci fanno dire oggi che questo itinerario “complesso” fatto di più luoghi, più aspetti concentrazionari e più piani di esperienze (emotivo, istituzionale, storiografico) è parte di ciò che rende oggi la proposta di Aned unica tra le diverse esperienze di viaggio, strumento potentissimo per approfondire e per mettersi in gioco.

Il secondo carattere peculiare di questa unicità sono le cerimonie che si svolgono durante tutto il viaggio e che sono possibili grazie all’impegno di Aned e in generale dei superstiti e dei familiari degli uccisi a erigere un omaggio monumentale in molti luoghi dello sterminio (vedi il monumento italiano a Mauthausen, vedi il monumento al deportato di Ebensee, il memoriale di Gusen, ma anche le innumerevoli targhe italiane nell’edificio del forno crematorio di Gusen o nel cortile del castello di Hartheim) che hanno come centralità la biografia dei tanti deportati. Senza la ricerca, ambito nel quale l’Aned si è sempre fortemente impegnata, quei nomi sarebbero rimasti dispersi nel vento. È purtroppo diffusa l’opinione che una manifestazione o un rito che dura da molto tempo perda completamente o quasi di significato.

L’Aned parte dal passato per interrogare il presente e individua i propri formatori come area di mezzo tra l’azione storica (che indaga invece il presente per arrivare al passato) [Wierviorka 1999] [24] e l’azione meramente pedagogica di chi interroga la natura umana nei luoghi della memoria.

È una posizione mediana, non un compromesso: è il tentativo di esperire entrambi i punti di vista (quello storico e quello pedagogico) attraverso le parole e le azioni dei suoi testimoni diretti e indiretti riconoscendone un forte carattere di indirizzo sia che essi siano vivi o morti. Ciò si traduce nell’interrogare il futuro sulla base delle “scelte fatte dai deportati”. Per potere fare questo, però, è necessario ricostruire con grande rigore il contesto storico, il processo di formazione e di affermazione del fascismo e del nazismo nel Novecento.

Questo passaggio meriterebbe un’attenzione e una riflessione molto più ampia di quanto non si riesca a fare in queste poche pagine rispetto al dibattito in corso che ruota attorno non solo al rapporto tra testimonianza e storia e al ruolo dei testimoni all’interno di questa dialettica, ma anche al tema della retorica della memoria in generale.

Davvero ascoltare tante volte il racconto di quell’orrore ci rende più adeguatamente formati davanti al rischio di un’eventuale ripetizione? E in assenza di testimoni, se nel tempo abbiamo permesso che prevalesse il dovere della memoria rispetto alla conoscenza della storia, la memoria può essere messa in discussione [Bidussa 2009]? Come far appello alla ragione, alla riflessione, al pensiero e al rigore quando i sentimenti pare che predominino sulla scena pubblica?

Certamente il Giorno della memoria ha contribuito a amplificare l’idea di una ricostruzione storica del passato dove la testimonianza si trasforma da necessità interiore a vero e proprio imperativo sociale e il testimone assume quasi un carattere profetico che porta anche Primo Levi ad affermare che se non si può rispondere alle domande formulate dai giovani forse bisognerebbe smettere di testimoniare [Bidussa 2009].

Naturalmente con il passare del tempo questo dibattito ha attraversato anche l’Aned, all’interno della quale si sono consolidati alcuni punti fermi:

- la storia va raccontata attraverso i documenti che sono le fonti primarie da cui attingere informazioni sulla ricostruzione, non solo del sistema concentrazionario, ma anche del processo di costruzione dei sistemi dittatoriali nazi-fascisti;

- la testimonianza e il suo carattere così complesso offrono l’opportunità, attraverso la “biografia delle scelte” di raccontare la storia non dal punto di vista delle vittime ma da quello di persone concrete che, lungi dall’essere idealizzate, seppero compiere la scelta di impegnarsi e di agire contro la dittatura e anche contro l’indifferenza.

In tal senso il viaggio è lo strumento dove poter valorizzare questo incessante dialogo tra la storia di ieri e l’impegno civile e sociale odierno.

Oggi i nuovi protagonisti della vita di Aned sono in gran parte i figli e nipoti dei deportati che militano nell’associazione e che, da tutte le sezioni d’Italia, moltiplicano le attività nei territori e accompagnano gli studenti nel loro viaggio della memoria. Accanto a loro l’associazione ha saputo accogliere anche centinaia di nuovi volontari che, non avendo alcun rapporto familiare con la deportazione, portano contributi e nuovi spunti preziosi. Questo passaggio avvenuto formalmente con il congresso di Milano del 2012 [25] ha permesso all’associazione un’apertura a nuove sensibilità e a diversi punti di vista, proprio mentre si imponeva una riflessione che ha obbligato l’Aned a riformulare la sua impostazione di viaggio per adeguarla alle nuove necessità di una società tanto mutata.

A volte e negli ultimissimi anni si è riscontrato un certo disinteresse o saturazione o quando non addirittura negazione, da parte degli studenti e di alcuni insegnanti, nei confronti del viaggio di formazione nei Lager in Europa. Si tratta di un fenomeno ancora non esteso a tutti i partecipanti, ma tuttavia diffuso e non da sottovalutare. È necessario che questo aspetto possa essere preso in considerazione e approfondito dall’Aned, soprattutto ragionando sul fatto che ogni viaggio è un nuovo punto di partenza; chi vi partecipa è espressione di un humus i cui legami culturali con la memoria si modificano anche per come “la stessa memoria viene trattata”.

Che cosa cambia quando non si può più avere una testimonianza diretta dei protagonisti degli avvenimenti?

Su questo tema si è spesa con molto rigore Valentina Pisanty, sottolineando come nell’epoca del post testimone emerga chiaramente il ruolo sociale conferito ai testimoni da buona parte della società: le vittime della deportazione sono diventate, loro malgrado, funzioni esemplari di una Shoah baricentro morale dell’umanità: se e quando i testimoni si spegneranno, ci sarà una perdita di identità dell’intera società umana. Da qui gli stessi sopravvissuti sono stati trasformati, da chi si occupa di politiche della memoria, in oracoli e feticci di una verità che, senza di loro, sarebbe incomprensibile. Il compito della memoria è stato sintetizzato nell’azione di «propagare il trauma della deportazione alle generazioni successive», riducendo la storia a un’azione di ritraumatizzazione delle generazioni future [Pisanty 2019]. Questo atteggiamento ha finito per avvalorare una retorica della memoria che si connota come un trauma mai archiviato e i “guardiani della memoria” (associazioni e istituzioni) ne diventano i depositari. Che cosa rende secondo la semiologa italiana estremamente pericolosa questa condizione? In estrema sintesi la memoria diventa valore in sé e non mezzo, strumento per orientarsi nel presente e nel futuro con la conseguenza che il vero nemico sembra trasformarsi nel terrore della dimenticanza piuttosto che nel razzismo e nella discriminazione di cui ogni deportato è stato oggetto. Si è arrivati dunque ad una trasfigurazione del ruolo della testimonianza che da fonte di conoscenza storica pare diventare unica forma di discorso autorevole su ciò che è avvenuto.

Anche l’Aned si è molto interrogata sulla sua funzione a mano a mano che i testimoni hanno incominciato a scomparire facendo molta attenzione a due aspetti che, anche in questo breve scritto, sono stati sottolineati con forza: la necessità (e non la delegittimazione) di un metodo storiografico come principio di selezione delle narrazioni più adatte a caratterizzare la memoria e l’assoluta volontà di non raccontare l’esperienza concentrazionaria esclusivamente dal punto di vista delle vittime. Il rischio di aderire in modo “sacrale” alla figura di un testimone con un portato indicibile è sempre dietro l’angolo e bene fanno alcuni studiosi, dalla Pisanty a Elena Loewenthal e a moltissimi altri a ricordarci che la memoria può essere resa sterile e in parte lo è già.

Anche per questo l’Aned ha sentito la necessità di avviare un’indagine conoscitiva (durata tre anni) attraverso la somministrazione di centinaia di questionari rivolti esclusivamente agli studenti che partecipavano al viaggio della memoria a Mauthausen. Il questionario ha fornito una risposta chiara: se sul piano del coinvolgimento emotivo tutti i partecipanti raccontavano di un’occasione unica e importante di conoscenza, è però emersa la necessità di una maggiore omogeneità e chiarezza nelle informazioni storiche di base.

Sulla base di questo risultato e con la consapevolezza che la testimonianza non può essere l’unico perno attorno al quale caratterizzare l’azione associativa, l’Aned ha lavorato per dare una risposta a un cambiamento evidente di azione, di prospettiva e delle stesse attività associative, costruendo il primo corso on line sulle deportazioni, che ha visto la coprogettazione del percorso didattico con l’Associazione Lapsus [26] sulla piattaforma del Consorzio Eduopen [27] che ha avuto la sua presentazione ufficiale il 27 gennaio del 2020 presso l’Università statale di Milano.

Una didattica della storia oggi non può non confrontarsi con la dimensione digitale: il risultato del lavoro congiunto tra le due associazioni è un corso composito, che integra videolezioni realizzate ad hoc, testimonianze video di sopravvissuti, mappe, infografiche e documenti digitalizzati, raccolti in oltre settant’anni di attività dall’Aned.

Le testimonianze dirette si integrano con fonti secondarie, documentarie e saggistiche, per contestualizzare le prime all’interno delle complesse vicende legate alle deportazioni. All’interno delle unità tematiche, il corso analizza il contesto in cui sono nati il fascismo e il nazismo, seguendo un approccio comparativo che dà particolare rilevanza al ruolo svolto dalla propaganda. Vengono analizzati il sistema di campi di concentramento e di sterminio, la pianificazione e l’esecuzione della deportazione di massa, la creazione di categorie di “indesiderabili” tra la popolazione, i fenomeni di collaborazione e opportunismo in tempo di guerra, e lo sfruttamento dei prigionieri come schiavi. Inoltre l’ultimo modulo del corso è dedicato alle vicende più recenti, con approfondimenti sul tema della “memoria divisa” [Contini 1997] della decostruzione degli stereotipi, del dibattito pubblico sul passato fascista e su luoghi comuni e false informazioni ancora oggi diffuse e che non permettono alla memoria collettiva del nostro paese di fare i conti con il passato.

In poche settimane il corso è stato completato con profitto da oltre 1.000 persone, in grandissima maggioranza giovani.

Ecco dunque che oggi dotarsi di nuovi strumenti che creino omogeneità nel processo formativo è ancora di più necessario, non solo per conservare le voci dei deportati e renderle fruibili ma anche per restituire il rigore e la fatica di quella idealità così intensa che una generazione ha saputo generosamente donare ai suoi connazionali contemporanei e futuri.

In quello sforzo così umano, che raccoglie tutta la forza e fragilità della nostra natura, sta la straordinaria potenza di questa associazione che diffonde il contenuto di tante preziose testimonianze connotate da quell’essenza magnificamente racchiusa nelle parole di Julius Fucik e di Andrea Lorenzetti, eroi e dirigenti della Resistenza europea:

Un bel giorno oggi sarà passato e si parlerà di una grande epoca e di eroi anonimi che hanno creato la storia. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, e il dolore dell’ultimo fra gli uomini non era meno grande di quello del primo il cui nome resterà. Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini, come persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia, come voi stessi [Fucik 2014].
Ci sono momenti nella vita che la coscienza chiama dentro di noi e dice Questo è il tuo dovere e non ci si può sottrarre senza perdere la stima di noi stessi [Lorenzetti 2014].

In un’Europa in cui tornano a scorrere sentimenti razzisti e in un mondo in cui i conflitti generano continue e nuove ferocie, l’Aned ha saputo mantenere vivo l’intreccio tra storia, connessione emotiva della testimonianza, i legami comunitari che hanno caratterizzato le scelte dei deportati e tenta di far vivere tutto questo nel viaggio della memoria: storia (documenti), realtà del luogo (visita dei campi) e realtà del vissuto (testimonianze) come esperienza di formazione e di crescista per le nuove generazioni.


Bibliografia

  • Bidussa D. 2009
    Dopo l’ultimo testimone, Torino: Einaudi
  • Bidussa D. 2012
    L’era della post memoria, saggio a cura di Nodari F., Brescia: Massetti e Rodella Editori
  • Caleffi P. 1968
    Si fa presto a dire fame, Milano: Mursia
  • Consenti S. 2011
    Il futuro della memoria, Milano: Paoline
  • Contini G. 1997
    La memoria divisa, Milano: Rizzoli
  • Fucik J. 2014
    Scritto sotto la forca, Presentazione di Calamandrei F., Postfazione di Fuciková G., Milano: Hoepli
  • Lorenzetti A. 2014
    Prigioniero dei nazisti. Libero sempre, Milano: Mimesis
  • Loewenthal E. 2014
    Contro il giorno della memoria, Torino: Add Editore
  • Maida B. 2014
    Il mestiere della memoria. Storia dell’Associazione nazionale ex deportati politici, 1945-2010, Verona: Ombre Corte
  • Maida B. e Mantelli B. (eds.) 2007
    Otto lezioni sulla deportazione: dall’Italia ai Lager, Milano: Quaderni della Fondazione Memoria della Deportazione n. 1, supplemento a “Triangolo Rosso”, periodico dell’Associazione nazionale ex deportati
  • Maida B. e Bissaca E. (eds.) 2015
    Noi non andiamo in massa, andiamo insieme. I treni della memoria nell’esperienza italiana 2000-2015, Sesto San Giovanni: Mimesis
  • Mantegazza R. 2019
    Lettera a un neonazista, Roma: Castelvecchi
  • Mantegazza R. 2001
    L’odore del fumo, Troina: Oasi editore
  • Parri F. 2019
    Come farla finita con il fascismo, Roma-Bari: Laterza
  • Pisanty V. 2012
    Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Milano: Mondadori
  • Pisanty V. 2019
    I Guardiani della Memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Milano: Bompiani
  • Rossi Doria A. 1998
    Memoria e storia: il caso della deportazione, Soveria Mannelli: Rubbettino
  • Signorelli A. 1996
    A Gusen il mio nome è diventato un numero, Como: Stampa Mistral-Nuova Brianza
  • Sofsky W. 2008
    L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Roma-Bari: Laterza
  • Tibaldi I. 1995
    Compagni di viaggio. Dall’Italia ai lager nazisti. I trasporti dei deportati 1943-45, Milano: Franco Angeli
  • Traverso E. 1995
    Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Torino: Bollati Boringhieri
  • Valota G. 2007
    Streikertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945, Milano: Guerini e Associati
  • Vico G. e Santerini M. 1995
    Educare dopo Auschwitz, Milano: Vita e Pensiero
  • Vasari B. e Buffulini A. 1992
    Il revier di Mauthausen. Conversazioni con Giuseppe Calore, Alessandria: Edizioni Dell’Orso
  • Wieviorka A. 1999
    L’era del testimone, Milano: Raffaello Cortina Editore

Note

1. Al punto 16 della sua agenda per il 2020, l’Onu afferma infatti che uno sviluppo equo e sostenibile non può prescindere dalla necessità di creare società pacifiche e inclusive, in cui vi sia un accesso universale alla giustizia e istituzioni responsabili ed efficaci a tutti i livelli.

2. L’Aned a partire dal 1956 si è strutturata, non solo con un comitato nazionale, ma anche con sezioni territoriali che ad oggi sono 27 in tutto il territorio nazionale per un totale di 2.470 iscritti.

3. Piero Caleffi, giornalista, scrittore, nel 1925 fu nominato segretario della Federazione socialista di Mantova e mantenne l’incarico fino alle “leggi fascistissime” del 1926. Nel 1943 fece parte della giunta esecutiva regionale del Partito d’azione in Liguria. Nel settembre dello stesso anno entrò nella missione Law diretta da Mino Steiner. Durante la dittatura fu arrestato e condannato più volte. Catturato nell’agosto del 1944 da fascisti e consegnato alle SS tedesche, fu deportato a Mauthausen.

4. Nato a Milano il 24 gennaio 1921, fu avvocato e presidente nazionale dell’Aned. Arrestato, per delazione, alla stazione di Lecco nel gennaio del 1944, finì prima a Fossoli e poi a Mauthausen e Gusen. Dopo la Liberazione, fu senatore comunista per diverse legislature, membro del Consiglio superiore della magistratura. Presiedette l’Associazione nazionale ex deportati fino alla sua morte il 14 agosto del 2015. Fu anche vice presidente nazionale dell’Anpi, direttore dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia e presidente della Fondazione milanese Memoria della deportazione, da lui stesso creata.

5. Nel caso della deportazione politica la predominanza del numero di deportati uomini rispetto al numero delle donne fu enorme (considerando solo i 23.000 deportati Oltralpe, 22.204 erano uomini e 1.514 donne) e il numero delle vedove fu considerevole. Diversa è la storia della deportazione ebraica, perché i circa 8.000 ebrei italiani furono rastrellati e consegnati dai fascisti alle organizzazioni militari naziste per organizzare i trasporti nei campi di concentramento o sterminio senza alcuna distinzione di genere e età e spesso morirono al loro arrivo nei campi perché sottoposti alla terribile selezione o inviati direttamente alle camere a gas.

6. Non tutti i deportati hanno scelto di essere testimoni. Sicuramente l’iscrizione e la partecipazione attiva all’associazione è stata una discriminante molto forte e ha di fatto favorito e permesso il processo della testimonianza.

7. Lettera privata di Milena Radoslav Baucer, vedova di Andrea Lorenzetti, morto a Mauthausen. A conferma di ciò che è stato scritto, Milena ha saputo della morte del marito il 12 giugno 1945 da Aldo Ravelli, caro amico e compagno di Andrea che lo aveva visto morire poco dopo la Liberazione, in “Triangolo Rosso”, 1-3, 2014, 19.

8. Mario Taccioli, ex-deportato della Breda di Sesto San Giovanni, membro del Partito comunista clandestino, arrestato a seguito degli scioperi del marzo 1944, sopravvissuto allo sterminio programmato di Mauthausen e autore di un diario di prigionia archiviato presso Fondazione Isec Istituto per la storia dell’età contemporanea di Sesto San Giovanni.

9. Archivio sezione Aned Sesto San Giovanni.

10. Noto architetto (progettò tra l’altro l’Università Bocconi di Milano), urbanista e scrittore. Militare, colonnello. Arrestato nel 1943 a Milano per la sua attività antifascista nelle formazioni Matteotti. Trasferito a Bolzano da dove partì per Mauthausen il 20 novembre1944. Morì il 22 aprile 1945 a Mauthausen.

11. Antifascista, combattente nel Comitato di liberazione nazionale veneto, fu arrestato a Padova nel settembre del 1944, portato a Bolzano e poi a Mauthausen dove giunse nel dicembre del 1944. Grazie alle sue conversazioni con gli amici deportati Bruno Vasari e Ada Buffulini uscì il libro Il revier di Mauthausen. Conversazioni con Giuseppe Calore.

12. Il 5 maggio 1945 è la data in cui le truppe statunitensi entrarono a Mauthausen, ultimo campo nazista ad essere liberato. Il 16 maggio, in occasione del rimpatrio del primo contingente di deportati, quello sovietico, si tenne sul piazzale dell’appello una grande manifestazione antinazista, al termine della quale fu approvato il testo di un appello noto come il Giuramento di Mauthausen.

13. Nella raccolta dei volumi del “Triangolo Rosso”, conservata nella biblioteca privata di Aned nazionale e che arriva fino ad oggi, la parola “pellegrinaggio”, nei resoconti di studenti o di rappresentanti istituzionali ma anche nel racconto degli stessi organizzatori, sostituisce di fatto la parola “viaggio” che incomincia a ricomparire invece verso i primi anni Duemila.

14. Tre sono i sottocampi costruiti intorno al villaggio di Langenstein (a 5 km da Mauthausen), denominati Gusen I, Gusen II, Gusen III. I lavori di costruzione di Gusen I furono avviati nel marzo del 1940. Nell’arco di tre anni il campo finì per contenere un numero di prigionieri superiore a quello del campo principale di Mauthausen, con l’arrivo di deportati sovietici, jugoslavi, francesi, italiani (dall’agosto 1943) e l’apertura di altre attività produttive (Steyr-Daimler-Puch AG) legate alla produzione bellica. Nel marzo del 1944 iniziarono i lavori per la costruzione del campo di Gusen II (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire il campo, lavoravano allo scavo di un sistema di gallerie entro le quali vennero collocati impianti per la produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre iniziò la costruzione di Gusen III, destinato alla produzione di laterizi (DEST). Furono scavati nella montagna circostante e nei pressi di St. Georgen 7 chilometri di tunnel (larghi da 6 a 8 metri, alti da 10 a 15) per ubicarvi la produzione bellica e i macchinari dell’Istituto di ricerca della Scuola superiore tecnica di Vienna, per ricerche connesse alla produzione missilistica (V1 e V2). I lavori furono eseguiti senza badare alla sicurezza dei deportati schiavi, provocando quotidianamente morti e feriti. La ricostruzione delle presenze di prigionieri e della mortalità lascia intravedere le durissime condizioni di vita e di lavoro dei deportati. Secondo le ultime ricerche, su circa 21.000 presenze registrate fra il 1940 e il 1942, si sono avuti almeno 14.000 decessi. Nel 1943, il numero di prigionieri più alto registrato è di 9.000 unità, quello dei morti è di 5.225. Nel 1944, si contano rispettivamente 22.000 e 4.700 unità; nel 1945, 15.000 e 8.800.

15. Questo è un aspetto estremamente rilevante di cui tener conto. Nei primi sopralluoghi ai campi gli abitanti del luogo erano infastiditi dalle visite degli ex deportati e alcune volte, addirittura, questo fastidio si poteva tradurre anche in confronti aspri e non privi di qualche attrito verbale.

16. La legge è la n. 211 del 20 luglio 2000, pubblicata della “Gazzetta ufficiale” 177 del 31 luglio 2000.

17. A partire dalla fine deli anni Ottanta nascono i gemellaggi tra le città di Prato e Ebensee (1987), poi Firenze e Mauthausen fino ad arrivare nel 1997 al gemellaggio di Empoli e St. Georgen an der Gusen e nel 1999 al gemellaggio di Sesto San Giovanni e Langenstein.

18. Il campo di Ravensbrück (letteralmente “il ponte dei corvi”) venne aperto il 15 maggio 1939 quando vi arrivò il primo contingente costituito da circa 867 donne austriache e tedesche, provenienti dal primo campo di concentramento femminile di Lichtenburg. Si trattava in gran parte di comuniste, socialdemocratiche e testimoni di Geova tedesche e “ariane” accusate di aver violato le leggi di Norimberga sulla “purezza della razza”, avendo avuto rapporti con persone di “razza” inferiore a quella tedesca. Il 29 giugno 1939 giunse al campo anche un trasporto di circa 400 donne di etnia rom e sinti con i rispettivi bambini.

19. Mittelbau Dora nacque come sottocampo di Buchenwald e i primi deportati vennero da lì trasferiti il 28 agosto 1943. Nell’estate del 1944 Mittelbau divenne a tutti gli effetti un campo di concentramento indipendente e vennero aperti diversi sottocampi, nei quali i deportati si occupavano dell’ampliamento dei tunnel in previsione della produzione e dell’assemblaggio dei missili V2.

20. Spesso le mete aggiuntive sono legate ai rapporti istituzionali costruiti negli anni a seguito dei gemellaggi siglati tra le diverse amministrazioni italiane e austriache o tedesche.

21. Il castello di Hartheim è situato ad Alkoven, in Austria, nei pressi della città di Linz. È noto per essere stato uno dei sei campi di sterminio dell’Aktion T4, il programma di “eutanasia” nazista che prevedeva l’eliminazione delle persone affette da disabilità fisiche o mentali. Aperto nel 1940, tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 cominciò lo smantellamento degli impianti di sterminio presenti nel castello: venne eliminata la camera a gas e distrutto il forno crematorio. L’ordine era di cancellare ogni traccia di quanto era avvenuto tra quelle mura. Dal gennaio 1945 la comunità di suore, cacciata con l’occupazione del castello da parte dei nazisti, riprese possesso di questi luoghi. La storia del castello di Hartheim emerse molto più tardi.

22. Primo campo di concentramento nazista, costruito nel 1933 a 16 km da Monaco su iniziativa di Heinrich Himmler, il 22 marzo 1933, solo un mese dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler e liberato il 29 aprile 1945. Divenne nel mese di luglio 1945 il luogo dove le autorità militari statunitensi diedero seguito alle sentenze di morte contro i criminali di guerra nazisti condannati al termine dei processi di Norimberga.

23. Per comprendere questo passaggio si riporta una notizia esemplificativa: a causa del Covid-19 non è stato possibile essere presenti, a maggio del 2020, alla manifestazione nel piazzale dell’appello di Mauthausen perché è stata annullata. Se però si fosse svolta, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli avrebbe dialogato con tutti gli studenti europei nella cava di Mauthausen, secondo una proposta dell’Aned fatta propria dal Comitato internazionale di Mauthausen.

24. L’autrice affronta il tema del ruolo del testimone e della sua evoluzione a partire dal processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961, primo evento mediatico in cui i testimoni cominciarono ad acquisire un’identità sociale specifica; ponendo diversi interrogativi sul rapporto tra storia e memoria e indagando il rapporto tra lo storico e il testimone.

25. Il 2012 fu l’anno che sancì il cambio dello statuto Aned che in precedenza vincolava il tesseramento a deportati e familiari e che da allora invece è aperto a tutti i cittadini italiani che, dichiarando di accettare i valori della guerra di Liberazione e della lotta contro il nazismo e il fascismo, si impegnano ad acquisire una approfondita conoscenza storica della Resistenza, del fascismo e delle deportazioni per mettersi in condizione di trasmetterli alle nuove generazioni.

26. Lapsus nasce nel 2007 come acronimo di Laboratorio progettuale studenti universitari di storia presso l’Università degli Studi di Milano dove svolgeva e svolge molte delle sue attività. Negli anni il progetto è cresciuto e da iniziale gruppo informale, nel 2011 si è costituita nell’Associazione culturale di Promozione Sociale LAPSUS – Laboratorio di analisi storica del mondo contemporaneo.

27. Eduopen è piattaforma digitale creata da 14 atenei pubblici italiani per offrire a tutti e gratuitamente l’opportunità di seguire percorsi formativi di alta qualità a distanza. Ogni anno propone decine di corsi ed alcuni “percorsi” (chiamati pathways): raccolte di lezioni su tematiche di grande interesse sviluppate con la partecipazione di docenti di diversi atenei. I corsi sono disponibili in modalità aperta e gratuita.