Nel 1992 Paolo Sorcinelli, uno dei massimi interpreti della storia sociale italiana, dava alle stampe il volume La follia di guerra. Storie dal manicomio negli anni Quaranta, un testo basato sullo studio delle cartelle cliniche degli archivi degli ospedali psichiatrici di Mantova, Pesaro e Reggio Emilia fra il 1940 e il 1950. Un modo per rappresentare non tanto la storia della pazzia e della psichiatrica italiana durante la guerra, ma per tracciare – si legge nella quarta di copertina del libro - «la storia di quelli che nella “follia della guerra” si sono trovati coinvolti e di quelli che alla “follia della guerra” hanno partecipato senza sapere di essere, sin dall’inizio, dei pazzi». Un classico esempio di storia sociale cioè di quel modo di fare storia che, affermatosi in Francia negli anni Trenta, ha portato alla ribalta anche in Italia, seppur con decenni di ritardo, quella maggioranza di uomini che la storia aveva sempre trascurato e che non rientravano tra i protagonisti della cosiddetta storia événementielle. Ciò ha permesso di leggere la storia con una sensibilità interpretativa diversa rispetto al passato, attraverso nuove fonti non indirizzate solo alla ricostruzione degli avvenimenti e dei contesti politici e diplomatici in senso stretto.
Il libro di Matteo Petracci, I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Donzelli, Roma 2014), pur non citando i lavori di Sorcinelli, si colloca in questo filone riuscendo ad affrontare un tema ormai tipico della storia sociale, quello della marginalità, e a fornire un quadro interpretativo che non si sottrae dall’approfondire il sistema totalitario italiano in rapporto al trattamento dell’articolato mondo degli antifascisti. Tra questi, quelli definiti “pazzi”, internati in strutture psichiatriche sanitarie o giudiziarie, incarcerati o mandati al confino, sono i protagonisti di un volume ricco di spunti interpretativi dal quale bene si evince l’uso dell’internamento da parte dei regimi per il controllo dei dissidenti considerati folli poiché non disposti a piegarsi al potere.
I continui riferimenti all’evoluzione legislativa dei modelli di internamento a partire dalla fine dell’Ottocento, anche in rapporto alla storia e alle linee di pensiero della psichiatria italiana, arricchiscono il quadro. Una scienza, la psichiatria, alla quale i governi fecero ricorso, ma che venne a sua volta influenzata dall’evoluzione dei diversi contesti politici e sociali venutisi a creare in Italia a partire dall’Unità. Non manca infine un approfondimento sulla struttura legislativa del fascismo, prima movimento e poi regime, che dimostra come l’istituzionalizzazione dell’uso della violenza e della costrizione, utilizzate contro gli antifascisti, sia stata funzionale alla costruzione dello stato totalitario. Uno stato che divenne fascista così come il fascismo si fece Italia e considerò tutti gli antifascisti come antitaliani, fino ad additarli come pazzi e di conseguenza portatori di idee folli. Il volume si presenta quindi come una storia che è al contempo storia sociale, storia politica, storia delle istituzioni, ma anche in parte storia di una branca della scienza, grazie all’uso che l’autore fa delle diverse fonti.
Petracci ha dato il via alla sua ricerca con la lettura delle biografie degli oltre 44.500 antifascisti schedati nel Casellario politico centrale – lo schedario creato alla fine dell’Ottocento presso la Direzione centrale di Pubblica sicurezza – curate da Adriano Dal Pont per i Quaderni dell’Anppia isolando i casi di 475 antifascisti schedati e finiti in manicomio giudiziario, e ad essi ha affiancato lo studio dei dati emersi dai cosiddetto “fondi sovversivi” conservati presso gli archivi di stato di Bologna, Macerata, Ancona e Perugia. Archivi che portano comunque, già solo a livello quantitativo, a estendere la dimensione di donne e uomini sottoposti ad internamento psichiatrico con motivazioni di carattere politico.
I fondi locali permettono infatti di ampliare la ricerca, e questo non solo nel caso degli internati psichiatrici, a tutti quei soggetti la cui posizione non è stata trasmessa agli organi centrali e che quindi non hanno un fascicolo presso il Casellario politico centrale. Così solo a Bologna da 24 si passa a 35 casi e a Macerata da 4 a 7. Ciò dimostra l’importanza di una serie archivistica come quella dei sovversivi che a Bologna abbiamo a disposizione solo da pochi anni e sulla quale si sta lavorando in più direzioni.
Gli archivi di alcuni importanti ospedali psichiatrici (Ancona, Firenze, Macerata, Montebello, Perugia, Roma, Sassari e Volterra), oltre ai fondi relativi a istituzioni fasciste quali l’Opera nazionale balilla o l’Opera nazionale dopolavoro, arricchiscono il quadro della ricerca su fonti ufficiali alle quali l’autore affianca la memorialistica di cui fa un ampio ma cauto utilizzo. Nelle memorie degli antifascisti molto poco è rimasto dell’internamento per la mancata voglia di ricordare quanto subito, ma anche per la paura di essere “bollati” nella società democratica; non è un caso se Giuseppe Massarenti, la cui esperienza personale Petracci ricostruisce nel dettaglio, fece numerosi tentativi nel dopoguerra per ottenere una dichiarazione che confermasse i motivi politici del suo internamento sollevandolo dall’accusa infamante di essere pazzo. Storie di vita che se in questo libro sono funzionali a costruire un quadro d’insieme, sarebbe utile poter approfondire andando a leggere, ad esempio, la stampa dell’epoca per comprendere al meglio gli effetti che l’internamento ebbe sui quadri politici dell’antifascismo locale o per interrogarsi sulle differenze di genere nei modelli repressivi.
La devianza sociale, sotto forma estrema di pazzia, ma anche di ozio, alcolismo e vagabondaggio, fu quindi una categoria entro la quale il fascismo incluse molti oppositori per controllarli, ma anche per contenere la possibile divulgazione di teorie contrarie al regime, screditando i militanti antifascisti e le loro convinzioni politiche. L’internamento psichiatrico rappresentò però anche un mezzo per gli antifascisti per sfuggire al carcere e alla polizia – una pratica già utilizzata dai fanti nella prima guerra mondiale – in un sistema in cui le libertà personali vennero minate alla radice attraverso la creazione del Tribunale speciale per la difesa dello stato, incaricato di giudicare i reati politici contro il fascismo e lo stato, e il confino, una forma preventiva di polizia che limitava gli individui ancor prima dell’accertamento giudiziario relativo ad un possibile reato.
I matti del duce ci propone anche uno sguardo sull’apparato di controllo, fatto di agenti, spie e delatori, sui sorveglianti e sul personale infermieristico, senza tralasciare i direttori dei manicomi. Alcuni di essi cercarono di ribellarsi alle decisioni fasciste sulla reclusione per motivi psichiatrici comprendendo come dietro ad un sistema che dava loro ampio potere discrezionale – permettendo l’internamento di una persona sulla base di una segnalazione, un’ordinanza di pubblica sicurezza e un certificato medico – vi fosse tutto il disprezzo della vita umana tipico dei fascisti, un disprezzo che si riversò in modo particolare su coloro i quali rifiutarono di obbedire e conformarsi al regime.