L’antifascismo è uno dei collanti affermativi che agisce tra le principali culture politiche italiane e i partiti che partecipano alla scrittura del testo costituzionale [C. Franceschini, S. Guerrieri e G. Monina 1997; M. Fioravanti e S. Guerrieri 1999]. Esso svolge la funzione di paradigma storico-politico perché costruisce un fine verso il quale indirizzare e preparare la forma dello Stato italiano e il suo rapporto con la società. Questo principio non è solo un termine di riferimento negativo rispetto a un nemico storico – il fascismo, appunto – ma un modello politico che, per quanto non omogeneo al suo interno, presuppone l’istituzionalizzazione della democrazia in Italia attraverso il ruolo di corpi intermedi come i partiti e attribuendo centralità agli strumenti della rappresentanza politica, primo tra tutti il Parlamento.

La forma istituzionale figlia dell’antifascismo è una democrazia parlamentare a centralità partitica che ha l’obiettivo di governare una società dagli anticorpi democratici giudicati deboli [Carocci 2002, 193]. Il modello raggiunge il suo apogeo con gli anni Settanta. Nel corso del decennio si svolge la stagione del compromesso storico che mira a legittimare reciprocamente le due culture politiche – quella cattolica e quella comunista - più importanti tra quelle a riferimento antifascista. Sempre negli anni Settanta matura un processo di revisione del paradigma antifascista che trova il suo primo spazio in sede storiografica per poi essere traslato anche in sede politica [Gallerano 1986; Baris 2011; Ridolfi 2012].

L’egemonia di un senso comune antifascista pone un limite netto, a destra, verso le culture politiche – afasciste o neofasciste – che contestano entrambi i caratteri principali del modello istituzionale repubblicano: il primato del parlamento e della forma-partito. Il Movimento sociale italiano (Msi) è vicino, ma non interno, a una cultura antipartito disgregata o che si presenta come una nebulosa [Lanaro 1992, 121-39]. L’organizzazione neofascista, infatti, non adotta il nome di “partito” per definirsi, anche se fa riferimento - a differenza dell’italiano apota - a un regime che fu anche di partito, come quello fascista [Ignazi 1989; Tarchi 1995; Tarchi 1997; Parlato 2006].

Poiché il Msi è posto ai margini di una democrazia che ha l’antifascismo tra i suoi valori di riferimento, la sua attività politica e il modo in cui essa è recepita rappresentano un termometro utile per capire con quale intensità e con quale cronologia il paradigma antifascista sia stato capace di esercitare consenso e di stabilire criteri di legittimità, e di discriminazione, riconosciuti. Al tempo stesso è plausibile affermare che la decostruzione del paradigma antifascista e la legittimazione della funzione politica della destra postfascista sono elementi di una stessa dinamica [Paggi 1997, 517-26; Paggi 2003, 103]. Ancora di più questa funzione di “termometro” può funzionare in una regione, l’Emilia Romagna, in cui sono penetranti ed efficaci sia il collante antifascista sia la presenza dei partiti nell’organizzazione della vita pubblica e nella costruzione di un modello democratico.

L’osservatorio regionale è interessante, inoltre, perché riflette lo scontro interno al Msi sulla strategia del partito e sulla leadership di Almirante contribuendo a delinearne meglio cronologia e contenuti: questo scontro durerà almeno fino al 1976 e sarà risolto con la scissione della componente moderata del partito e la costituzione di Democrazia nazionale (Dn) [Ignazi 1989, 174-80; Tarchi 1997, 53-5]. Il Msi è diviso tra chi spinge per l’integrazione, come destra d’ordine, nel sistema dei partiti in netta funzione anticomunista e chi privilegia l’aspirazione alla esclusione comunitaria che associa all’anticomunismo tematiche antipartitocratiche e anti-antifasciste.

Almirante coltiva la seconda impostazione nel corso di tutta la sua attività politica. Essa è fondata sull’utilizzo consapevole della nostalgia verso il fascismo come strumento aggregante all’interno della propria comunità che è posta così in contrapposizione e isolata rispetto alla democrazia dei partiti. La destra cui guarda Almirante predilige l’attivismo territoriale e adotta un lessico populista, come bene esemplifica il caso della rivolta di Reggio Calabria [Ambrosi 2009]. La destra che punta all’inserimento, invece, vuole legittimare il Msi fuori dal comunitarismo neofascista per proporlo come potenziale rappresentante per i ceti medi impauriti dal Sessantotto e come sponda ipotetica per il Partito liberale italiano (Pli) e la destra democristiana in funzione antemurale rispetto al comunismo. La coesione del paradigma antifascista è il termine di paragone con cui si confrontano queste due strategie e in base alla quale se ne può valutare l’efficacia.

1. La stagione dell’antifascismo. Il caso dell’Emilia Romagna (1970-1976)

Il ruolo coesivo dell’antifascismo, nell’Emilia Romagna dei primi anni Settanta, probabilmente aumenta d’intensità rispetto al decennio precedente. Quando, nell’aprile del 1971, la giunta comunale di Rimini avanza «formale richiesta affinché le autorità competenti proibiscano, per ragioni di o.p., qualsiasi raduno di aderenti at organizzazioni di estrema destra, compreso il Msi» [1] in occasione di un raduno di ex-ausiliarie della Repubblica sociale italiana (Rsi), l’impressione è che sia venuta meno una sorta di tacita tolleranza per le manifestazioni nostalgiche, che evidentemente devono essersi svolte fino ad allora senza particolare apprensioni. La questura di Forlì, infatti, si dimostra preoccupata solo per la possibile partecipazione alle iniziative di «elementi attuale destra extra parlamentare» e per «eventuali partenze volta Predappio gruppo aut elementi isolati che non siano annoverati tra consueti pellegrinaggi» [2].

I risultati elettorali del biennio 1971-72 fanno percepire il Msi, a sinistra, come il potenziale perno per una deriva “greca” per la democrazia italiana. Il tentativo missino di presentarsi nei termini di una rinnovata destra democratica, perseguito ad esempio con le dichiarazioni di fedeltà al modello democratico e alla Resistenza che Almirante rilascia durante una tribuna politica nel 1972 [Servello 2008, 49], è poco convincente e ambiguo. Come altrettanto ambigue sono una serie di interviste televisive di quegli anni: si veda per esempio la conferenza stampa del 25 maggio 1970, disponibile on line sul sito della Fondazione Giorgio Almirante, nel corso della quale Almirante sostiene che è la necessità di difendere la democrazia dal “pericolo comunista” a legittimare il “golpe dei colonnelli”.

La campagna elettorale svoltasi per le elezioni politiche del 1972 si segnala al centro-nord per gli scontri che vedono coinvolti gli extra-parlamentari di sinistra e i militanti delle organizzazioni giovanili missine [Tarchi 1997, 45]. In Emilia Romagna il partito guadagna consensi ma partendo da percentuali basse: nella circoscrizione di Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia passa dal 2,24% del 1968 al 3,86%; nella circoscrizione di Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì l’aumento va dal 2,56% al 4,21% [3].

Questo successo relativo, però, contribuisce a stendere intorno al Msi un “cordone sanitario”. Un reportage de “Il Borghese” sull’Emilia lascia intuire come questo rinnovato antifascismo sia percepito anche a destra. La regione, per l’autore del reportage, è «amministrata dai comunisti con la complicità della Dc»: un blocco socio-politico che mostrerebbe segni di cedimento confermati dalla «campagna diffamatoria e calunniosa [...] che fin dal maggio dell’anno scorso [...] il Partito comunista ha montato nei confronti della destra e delle sue organizzazioni giovanili». Il clima difficile per i missini è una novità «se è vero [...] che soltanto fino a pochi anni or sono la presunta “tolleranza” comunista arrivava al punto di mandare i vigili urbani al cimitero per le celebrazioni dei reduci della Repubblica sociale». Il reportage è completato con un’intervista a Pietro Cerullo, Presidente del consiglio nazionale del Fronte della gioventù, che relaziona il cambio di clima alla nascita di «una destra anticomunista [...] che sta maturando nel confronto quotidiano con gli avversari» [4].

Cerullo sembra voler seguire la prospettiva dell’inserimento in funzione anticomunista. La sua azione territoriale, comparata con quella che Almirante svolge contemporaneamente in Emilia Romagna, certifica una divaricazione di obiettivi tra le destre che compongono il Msi. I tempi della divaricazione sono importanti perché consentono di rivedere la cronologia fornita da Piero Ignazi secondo cui le prime avvisaglie del conflitto tra correnti nel Msi vanno cercate nell’uscita dal partito di Gino Birindelli il 26 giugno del 1974 [Ignazi 1989, 174-5], mentre conferma l’interpretazione di Tarchi che retrodata la prima espressione formale della contrapposizione tra moderati e nostalgici al X congresso del Msi (1973) [Tarchi 1997, 49]. Il tornante del 1973 è decisivo, a destra, sia per la reazione dell’area moderata del partito all’uccisione dell’agente Marino durante una manifestazione neofascista [Panvini 2009, 282-3] sia per il maturarsi della proposta comunista del “compromesso storico”, nel settembre di quell’anno, che prelude all’avvicinamento del Pci al governo del paese. Il nuovo governo di centro-sinistra, proprio nei giorni in cui Berlinguer propone le sue riflessioni sui fatti cileni che prefigurano la proposta del compromesso storico, è presentato alla Direzione del Pci come un positivo passo in avanti anche per l’opera di contenimento della destra che sta svolgendo [Barbagallo 2006, 184].

La divaricazione in seno al Msi si manifesta anche prima del 1973. Cerullo, nell’ottobre del 1972, organizza un incontro tra il Segretario nazionale e un gruppo di personalità locali ravennati, prevalentemente piccoli imprenditori ed esponenti del Pli. Almirante, in questa sede, non sostiene l’ipotesi dell’inserimento in funzione anticomunista, cui guarda una platea moderatamente di destra, perché prevede il ritorno a breve a «una forma di governo che implica il reingresso dei socialisti e, conseguentemente, l’inserimento, sia pure indiretto, dei comunisti nella scena politica italiana» [5]. L’obiettivo del Msi, per il suo Segretario, è di garantirsi uno spazio comunitario e di rappresentanza in parlamento: per questo Almirante adotta una posizione “centrista” che è distinta, anche se non equidistante, sia dalla destra moderata sia dai gruppi extra-parlamentari, la cui attività violenta egli teme possa essere controproducente per il successo del partito.

Cerullo, al contrario, crede all’inserimento dei missini e nel novembre del 1972, nel corso del suo primo incontro con i suoi elettori a Ravenna, si dichiara favorevole al mantenimento «di un governo come quello attuale» che, pur non rispecchiando «le finalità del Msi [...] potrebbe determinare, in un prossimo futuro, una ulteriore spinta verso destra, che allontanerebbe ogni possibilità di ritorno al centro-sinistra [...] ormai fallito» [6]. Che il Msi sia pensato, da Cerullo, come il “partito anticomunista” è suggerito anche dal fatto che nel territorio in cui agisce, quello ravennate, non sono segnalate iniziative a carattere nostalgico. In questa città, nel dicembre del 1972, è organizzato il primo convegno dell’Italia centrale del Fronte della gioventù cui partecipano dirigenti nazionali come Mario Tedeschi, Massimo Anderson e Gino Birindelli [7] che usciranno dal Msi in polemica con Almirante.

La strategia dell’inserimento è però velleitaria perché l’antifascismo è un collante che non mostra crepe negli anni Settanta, mentre la linea almirantiana della difesa comunitaria risponde ai desideri della base missina che tende a radicalizzarsi nel clima di scontro del periodo [Tarchi 1997, 49]. Tra l’altro la provincia in cui è più attivo Cerullo, Ravenna, è l’unica della Romagna in cui i risultati elettorali sono analoghi a quelli delle aree emiliane a minore penetrazione neofascista: i missini, a Ravenna, non superano il 2,89% dei voti, registrando un aumento poco significativo (0,3%) rispetto al 1968 [8].

L’isolamento del Msi è trasversale a tutte le province regionali. A Ferrara la prefettura avverte che il «cosiddetto rancio sociale riservato oltre che at iscritti e simpatizzanti, at ex combattenti Repubblica sociale italiana», un raduno «tradizionalmente tenuto per molti anni», è rinviato, rispetto alla data fissata al novembre del 1972, per le proteste del «consiglio comunale cittadino», dei «partiti», delle «associazioni partigiane et sindacati che ritenevano provocatoria effettuazione tale raduno in un locale nei pressi del quale trovansi lapidi relative episodi guerra partigiana» [9]. Contro l’iniziativa si schierano tutti i partiti, tranne il Pli, ed è paventata la possibilità «che moltitudine operai fabbriche et lavoratori in genere tentino comunque di impedire riunione in argomento» unendosi ai gruppi della sinistra extraparlamentare che hanno manifestato «in termini accesi proposito di impedire aut disturbare suddetto raduno» [10]: l’impressione è che la tolleranza verso i missini divenga più debole anche in virtù del fatto che la mobilitazione antifascista attraversa la società oltre che i partiti. La federazione ravennate del Msi, infine, rimanda il «noto raduno conviviale [...] causa sopraggiunte difficoltà avanzate at organizzatori da gestore ristorante» e lo trasferisce «in altro pubblico esercizio che trovasi immediata periferia capoluogo di Cento» [11].

A Ravenna tutti i partiti, tranne il Pli, consegnano al prefetto «un pro-memoria» col quale ribadiscono «la loro ferma volontà di opporsi ad ogni manifestazione di “chiara marca fascista”, organizzata in qualsiasi luogo pubblico [...] suscettibile di provocare contrasti e disordini, chiedendo il divieto di dette manifestazioni durante il periodo delle celebrazioni della resistenza, e cioè dal 25 aprile al 1° maggio p.v.». Il rappresentante del Pli, che non sottoscrive il promemoria per non legittimare il divieto di manifestare, dichiara comunque «di approvarne la prima parte» [12], che afferma l’estraneità del Msi alla normale dialettica democratica tra partiti.

L’adesione alla pregiudiziale antifascista impregna la società civile emiliano-romagnola ed è certificata da eventi come il famoso incidente di Cantagallo, scaturito dal fatto che il riconoscimento di Almirante da parte di un impiegato del locale autogrill provoca uno «sciopero immediato esteso anche addetti distributori carburanti durante permanenza in loco parlamentare del Msi-Dn» [13]. La reazione missina al boicottaggio si esplicita il 23 giugno del 1973, quando Cerullo improvvisa una protesta allo stesso autogrill durante la quale sono colpiti «con pugni due guardie sicurezza et due camerieri» [14]. L’incursione provoca, pressoché immediatamente, uno sciopero generale indetto dai sindacati confederali che registra adesioni altissime e così divise per settore: «175 su 175 dipendenti Mottagrill Cantagallo; 6130 su 10335 metalmeccanici; 980 su 1121 dipendenti maglifici; 295 su 360 lavoratori legno; 1405 su 1650 lavoratori edili; 350 su 375 dipendenti enti locali; 430 su 600 lavoratori commercio» [15]. L’isolamento agevola l’egemonia della strategia almirantiana e anche Cerullo, in corrispondenza, sembrerebbe adottare un lessico più propriamente antipartito: durante un’iniziativa svoltasi a Bologna, egli fa coincidere l’obiettivo del Msi nel «profondere tutte le [...] forze onde sventare ogni piano clerico-marxista [...] per smascherare gli intrallazzi e le ruberie della Dc» e «la strumentalizzazione da parte del Pci delle frange estremistiche di sinistra» [16].

Toni analoghi sono utilizzati dal periodico più vicino all’area moderata del neofascismo, “Il Borghese”. Il modo in cui esso descrive il rapporto tra comunisti, cattolici e laici in Emilia Romagna lascia intendere che quest’area del Msi adesso aspiri a rappresentare i settori di società che si reputano delusi dall’avvicinamento della Dc ai comunisti.

[[figure caption="Archivio Fondazione Ugo Spirito (Afus), Fondo Movimento Sociale Italiano (Msi), Serie Istituto di studi corporativi (Isc), Documentazione storica del Msi, propaganda elettorale, immagine 86." width="400px" align="left"]]figure/2013/sorgona/sorgona_2013_1.jpg[[/figure]]

La scelta, ipoteticamente concorrenziale nei confronti della Dc, è dovuta anche al fatto che gli esponenti dell’area moderata democristiana, come Forlani, dopo la campagna referendaria del 1974 pongono una netta pregiudiziale antifascista contro quelle che si giudicano essere le minacce eversive della destra [Tarchi 1997, 51]. La contestazione del modello comunista avviene asserendone l’egemonia sulla Dc e i laici, ottenuta mediante un modello di gestione clientelare del potere. Il “sistema” comunista è accusato di voler salvare la cooperazione da una crisi che la costringe «a discendere dall’Emilia verso il sud, fino a Civitavecchia» [17]. Il Pci riassume, in questo caso, i due momenti della polemica missina, quello anti-partitocratico e quello anticomunista, in virtù del fatto che governa la regione e le principali amministrazioni comunali, ma, in linea di massima, i due argomenti polemici non possono muoversi congiuntamente per chi ha come obiettivo l’inserimento e il dialogo con alcuni di quei partiti in funzione anticomunista.

Almirante non ha oppositori convinti e coerenti, mentre la sua idea di destra è ribadita proprio in occasione di un comizio bolognese durante il quale, nel momento in cui tutti i partiti italiani denunciano il golpe militare che rovescia il governo Allende [Tosi 2003, 255], egli fa riferimento «al viaggio dell’on. Tremaglia in Cile, Argentina, Bolivia dove le massime autorità di quei paesi hanno fatto intendere di voler contribuire alla lotta delle destre in Europa». La relazione della prefettura sul comizio sottolinea, significativamente, come Almirante abbia inteso utilizzare «temi e slogans tipici di un fascismo ante marcia» per eccitare una «platea acclamante composta quasi esclusivamente da giovani inclini più all’azione squadristica che ad una meditata azione politica». L’atteggiamento è ritenuto il frutto di un’estremizzazione dell’azione missina nel territorio emiliano cui corrisponde «l’assenza significativa di Romualdi, in altre circostanze sempre al seguito del Segretario nazionale» [18], quindi del leader missino associabile a una idea di destra non nostalgica [Parlato 2006, 80].

L’area emiliana è quella in cui Almirante è più attivo e in alcune delle province emiliane l’attivismo missino appare più vigoroso, come nel caso di Parma [19]. Anche i toni dell’asse antifascista sono più duri in questa città e quando è annunciata la riapertura della sede della federazione provinciale del Msi, la giunta comunale, nel gennaio 1974, emette un comunicato stampa «con cui si definisce il Movimento sociale “partito al bando della legalità costituzionale e della coscienza civile del popolo italiano”» [20] mentre alla protesta del comune si uniscono «i parlamentari locali ed i rappresentanti dei partiti antifascisti» [21]. L’attivismo missino a Parma, però, sembra pagare. Nel 1972 il partito sfiora il 5% dei voti registrando un aumento consistente rispetto al 3% del 1968 [22], mentre nel 1976 il calo di qualche decimale, il Msi raggiunge il 4,18% dei voti, è comunque analogo a quello che il partito subisce a livello nazionale [Pino 2013].

La Romagna, invece, è un’area in cui l’attività politica missina si presenta come più moderata e a connotazione anticomunista, come nel caso del seminario di studi dei quadri dirigenti del Fronte della gioventù (Fdg) dell’Emilia Romagna, della Lombardia e della Toscana tenuto a Ravenna, dal 3 al 4 novembre del 1974. L’iniziativa è finalizzata a spiegare l’opposizione del Fdg ai decreti delegati e sensibilizzare «le masse studentesche in primo luogo e l’opinione pubblica in generale sugli effetti controproducenti e deleteri per la società italiana e vantaggiosi per il Pci, che intenderebbe strumentalizzare detti decreti per i propri fini» [23]: una campagna collimante con l’attività giornalistica de “Il Borghese” che si occupa, proprio in quei mesi, del sistema educativo bolognese contestandone il libertarismo [24].

Il reportage de “Il Borghese” sul compromesso storico in Emilia Romagna indica ulteriormente la prospettiva per la destra cui guarda questa sua componente. Ai democristiani bolognesi si attribuisce un’idea di città che «non è dissimile da ciò che vogliono i social comunisti» perché propongono una politica di pianificazione che costringa le piccole e medie imprese «a subordinare le loro scelte produttive a “una generale politica di programmazione democratica”». Il compito della destra, conseguentemente, è di accattivarsi un’area di elettorato e un blocco politico estranei al compromesso storico e preoccupati dall’attivismo extra-parlamentare nonché dalle «decine di migliaia di attivisti e di cialtroni riuniti in piazza Maggiore» che hanno riempito di insulti «gli oratori della Dc, in occasione della cerimonia funebre successiva all’attentato dell’Italicus» [25].

Di fronte al percorso di avvicinamento al “compromesso storico” e alla stagione dei successi elettorali più importanti nella storia del Pci – il biennio 1975-1976 – le varie anime che compongono il Msi provano l’ultimo tentativo di normalizzarsi come soggetto organizzato dell’anticomunismo attraverso la Costituente di destra che si rivolge all’anticomunismo cattolico e ai settori più conservatori del mondo liberale [Tarchi 1997, 52-3]. Il nuovo soggetto politico vede confluire nelle file missine solo due politici democristiani – Puro Giacchero e Agostino Greggi – interpreti di un cattolicesimo conservatore [Ignazi 1989, 172]. A cavallo della costituzione formale di questo movimento, che avviene nel novembre del 1975, in Emilia Romagna sono organizzate delle iniziative per fornirgli una base territoriale. Le reazioni che suscitano questi tentativi confermano una specificità per aree che distingue il territorio romagnolo da quello emiliano.

A Ravenna, la «locale federazione provinciale del Msi» prende contatti «con elementi politicamente considerati “indipendenti” o “dissidenti” di altri partiti e comunque di tendenze spiccatamente anticomunista, fra i quali anche repubblicani, liberali e monarchici, senza raccogliere, però, alcuna formale adesione» [26]. A Parma, invece, le iniziative segnalate sono tutte sbilanciate verso la destra radicale, qui intesa come quella parte di destra che radicalizza l’isolamento dei neofascisti e la critica alla democrazia, considerata una forma politica egualitaristica che rappresenta la decadenza della società occidentale [Revelli 1985]. Nel comune di Parma è costituito «un preteso “movimento sociale autonomo”» di cui fa parte Pietro Montruccoli «già commissario straordinario di questa federazione del Msi» e che come prima iniziativa procede «alla raccolta di 150 mila lire da devolvere a favore dei responsabili dell’omicidio dell’extraparlamentare di sinistra Mario Lupo, recentemente condannati e tuttora detenuti» [27], mentre il Segretario provinciale Aldo Colli rassegna le sue dimissioni per protestare contro la nascita della Costituente perché servirebbe solo «a dare respiro alla democrazia cristiana [...] per contrastare l’avanzata comunista» [28].

Tra le città di Parma e Ravenna si conferma, fra l’altro, quella differenza in termini elettorali che fa della prima, insieme a Piacenza, l’area emiliana che più si avvicina alle percentuali romagnole e di Ravenna quella che invece si avvicina più alle percentuali, particolarmente basse, che il Msi raggiunge in Emilia. Un dato importante è che a Predappio, luogo di culto tra quelli che definiscono l’identità neofascista, il Msi raggiunge le percentuali regionali più consistenti alle politiche del 1976 con una picco dell’8,37% e anche nei comuni limitrofi i risultati sono significativamente superiori alla media regionale [Pino 2013]: la strategia nostalgica di Almirante, in queste aree, sembra funzionare. Il Msi, però, non è più percepito come un pericolo ed è ormai diviso al suo interno. Il partito esce sconfitto sia nel referendum per il divorzio sia nelle amministrative del 1975.

La parabola della percezione territoriale del Msi e di un potenziale rischio fascista nella regione è adeguatamente comprovata anche dall’indagine sul neofascismo in Emilia Romagna che è coordinata dal Comitato regionale per il XXX Anniversario della Resistenza, organo istituito con legge regionale n.10 del 4 marzo 1974. Tutti i partiti, eccetto il Msi, figurano dentro questo comitato e ciò conferma l’esistenza di un vasto asse antifascista. La minuziosa denuncia delle attività neofasciste evidenzia come il picco del conflitto, nella regione, si raggiunga tra il 1969 e il 1974. Il quadro fornito sulle singole province converge con le informazioni ricavate tramite documenti d’archivio e Parma e Bologna emergono, dall’indagine, come le città a più alta intensità conflittuale. Il capoluogo regionale, soprattutto, vive una radicalizzazione dello scontro anche per l’influenza di una destra eversiva non identificabile con il Msi. A Parma, invece, il Msi sembrerebbe essere più coinvolto negli scontri, oltre che diviso al suo interno. A Modena e Reggio Emilia, pur registrando un’attività territoriale dei neofascisti maggiore rispetto a quella testimoniata tramite i documenti di archivio, l’attività neofascista è circoscritta e si preferisce l’azione anonima, anche se tra il 1972 e il 1973 aumentano le provocazioni e gli scontri pubblici, compresi quelli a carattere violento. Le notizie relative a Piacenza, Ferrara e Ravenna raccontano di un conflitto politico che può essere definito fisiologico, ma nel ravennate si registra una escalation nel corso del 1973 che culmina con l’uccisione di Adriano Salvini, il 7 luglio. Forlì, invece, si caratterizza come la provincia romagnola in cui sono più evidenti i caratteri nostalgici della presenza missina. Da questo quadro, confrontato con i risultati elettorali dei singoli territori, si può dedurre che la dinamica del consenso neofascista non dipenda in modo deterministico dall’intensità del conflitto. Aree di insediamento elettorale di discreto livello, come Parma e Piacenza, sono pressoché agli antipodi per tipologia di presenza territoriale - conflittuale la presenza nel parmense, pressoché silenziosa quella nel piacentino - anche se vi è una certa maggiore capacità di creare consenso nelle aree trans-provinciali (Parma, Bologna, Forlì) in cui il Msi presidia spazi pubblici, compresi spazi di conflitto pubblico, più ampi.

Il ciclo conflittuale degli anni Settanta è chiuso dal biennio 1973-74, mentre nei primi quattro mesi del 1975 vi sono intere province (Reggio Emilia, Modena, Ferrara) in cui le notizie di attività neofasciste sul territorio rasentano l’irrilevanza [Comitato regionale per il XXX Anniversario della Resistenza 1976, I]. Un segnale del disinteresse, ricavato dalla documentazione d’archivio, è che in una città come Bologna a contestare la nascita della locale sezione della Costituente di destra ci sia solo un gruppo di Lotta continua [29].

L’osservatorio emiliano-romagnolo è utile anche per comprendere quanto Almirante veda nella Costituente un espediente tattico per prendere tempo nel momento in cui la componente moderata del partito è schierata contro di lui. Se di fronte alla platea dell’hotel Baglioni di Bologna, convocata per presentare la Costituente, Almirante attribuisce il senso dell’operazione al «bisogno di una destra moderna ed efficiente, nello stesso tempo anticomunista e garante dell’ordine e della giustizia sociale», il giorno successivo, durante una conferenza nei locali della federazione bolognese, egli fissa per il Msi l’obiettivo di «eliminare ogni dubbio circa l’unità, la compattezza del partito» e di «delineare una strategia politica tale da non alienarsi le simpatie di vecchi nostalgici e di giovani inclini più alla lotta aperta che non alla riflessione politica». Almirante sa bene che l’anticomunismo è uno dei sentimenti inalienabili della base missina e vi fa ricorso quando afferma che l’obiettivo della Costituente è di «creare un fronte unico tale da contenere e respingere l’offensiva comunista» [30], ma questo anticomunismo viene vissuto come funzione di testimonianza rispetto a un Paese da cui ci si considera esclusi perché è fondato sull’antifascismo.

2. L’esclusione legittimata del Msi tra apogeo e crisi del paradigma antifascista (1976-1983)

Le elezioni politiche del 1976 segnano un netto arretramento del Msi, mentre i democristiani riescono a mantenere intatto il proprio blocco elettorale. La Dc evita il sorpasso comunista con una costruzione delle candidature di lista che cerca di rappresentare un settore di borghesia anticomunista e potenzialmente di destra [Craveri 1995, 806] cui guardano i moderati del Msi. Il risultato accelera la formazione della corrente di Dn, che arriva in pochi mesi a scindersi dal partito. La scissione priva il Msi della maggioranza dei parlamentari e di parte consistente dei consiglieri negli enti locali [Ignazi 1989, 178-9], ma ciò agevola un ricambio di classe dirigente con la cooptazione di giovani vicini ad Almirante e anche di suoi oppositori [Tarchi 1997, 61]. La scissione, inoltre, avviene dopo che Almirante ha concentrato in modo pressoché cesaristico i poteri sulla figura del Segretario nazionale con il IX (1970) e il X congresso (1973) [Tarchi 1997, 42-50]. Il Segretario del Msi può controllare la struttura del partito e affrontare da una posizione di forza questa frattura. Le trasformazioni statutarie, soprattutto, vanno tenute in conto quando si affronta il tema del rapporto tra centro e periferia nel Msi. È probabile che esse agevolino, nelle aree a consenso ristretto, una dinamica gerarchica e verticale tra le due polarità, come accade nel caso dell’Emilia Romagna, in cui appare pressoché immediato il riflesso della politica nazionale del partito e delle sue correnti sull’attività territoriale. Proprio in virtù di questo rapporto tra nazionale e locale nelle aree a consenso ristretto, l’osservatorio locale emiliano-romagnolo è utile per comprendere come il Msi affronti la scissione. Il centro del partito prova a recuperare l’attivismo giovanile della destra radicale per vincere la sfida con Dn, seguendo un indirizzo nazionale che gli almirantiani attueranno tra il 1977 e il 1979, mentre la normalizzazione dei rautiani e la marginalizzazione della Nuova destra diventeranno più spedite dopo che Dn si sarà rivelata un’operazione elettoralmente inconsistente [Ignazi 1989, 180-1; Tarchi 1995, 127-39].

Nel caso della federazione bolognese, la Prefettura notifica che, dopo la strage di Acca Larentia, «alcuni appartenenti al Fronte, ed in particolare gli ex ordinovisti Pioli Rodolfo e Costa Luigi, sostenitori della “linea dura”, si sarebbero fatti promotori di alcune iniziative giudicate inopportune e controproducenti dai dirigenti locali del Partito al punto di provocare una frattura fra gli stessi e gli appartenenti al “Fronte della Gioventù”». Filippo Berselli, che è commissario straordinario della federazione bolognese e per il Prefetto trova sostenitori «nell’ala romualdiana del partito», chiede lo scioglimento della federazione ad Almirante che «investito del problema, non ha [...] preso alcuna decisione in merito» [31].

Il Msi, inoltre, supera agevolmente la sfida lanciata da Dn sia a livello nazionale sia nella regione. In Romagna, tra l’altro, Dn si attesta allo 0,22% e a Ravenna supera a stento lo 0,1% [32], mentre le aree in cui il Msi mantiene un elettorato significativamente superiore alla media sono, fatta eccezione per il caso di Piacenza, quelle più distanti dalle cinture urbane – Fiumalbo, Pievepelago – e, al solito, Predappio e i comuni limitrofi [Pino 2013].

L’XI (1977) e il XII (1979) congresso del Msi rinforzano la leadership di Almirante mentre il biennio che li separa segna la crisi dei governi di solidarietà nazionale e il ritorno del Pci all’opposizione. Il rischio comunista, in Italia, è depotenziato mentre la strategia dell’isolamento dal “sistema” diviene il senso comune che il Segretario del Msi consegna al partito.

La documentazione disponibile per il nostro caso di studio conferma che anche sui territori si riflette questa dinamica confermando come la “lotta al sistema” divenga lessico condiviso, per quanto diversamente declinato, delle due componenti più robuste del Msi [Ignazi 1989, 207-13]. Il prefetto di Bologna, ad esempio, riferisce che il consigliere regionale del Msi Alessandro Mazzanti, nel corso di un’iniziativa sugli enti locali svoltasi nel gennaio del 1979, attribuisce all’accordo «delle forze politiche “del così detto arco costituzionale”» un’occupazione delle istituzioni pubbliche che lascia uno spazio vastissimo a disposizione delle opposizioni con l’obiettivo di conseguire «il superamento della “pesante discriminazione antifascista”» da esse esercitata [33].

L’isolamento sistemico contribuisce a dismettere ogni residuale paura di rischio fascista, visto che la strategia del Msi si fonda ora sul rifiuto aprioristico del coinvolgimento in alleanze di governo in funzione anticomunista. Un tornante decisivo per comprendere come agisca questa sorta di “isolamento legittimante”, e che si colloca tra storia nazionale e regionale del Msi, è individuabile nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. La reazione del Pci alla strage, ad esempio, rivela quanto si giudichi marginale il peso potenziale del Msi per eventuali derive a destra.

La matrice dell’attentato, su “l’Unità”, è subito attribuita ai fascisti, nello specifico ai Nuclei armati rivoluzionari (Nar), e l’attentato è collegato a quello dell’Italicus. Nel corso di un breve excursus sulla situazione giudiziaria relativa a questa seconda strage, è definita «sconcertante» l’assoluzione di alcuni «mazzieri» [34] missini, pur non facendo cenno a un coinvolgimento diretto del Msi. Il collegamento con ambienti missini è solo indiretto. L’organo ufficiale del Pci insiste sulla connessione tra frange estremiste di destra - Ordine nuovo prima, i Nar adesso - e un sistema di «appoggi politici, ideologici ed economici» al centro della «“strategia della tensione” degli anni Settanta» [35]. Nell’intervista che Pecchioli, responsabile della sezione “Problemi dello stato” del partito, rilascia a Ugo Baduel due giorni dopo l’attentato, il dirigente comunista sostiene che la bomba è stata messa per determinare un attacco alle istituzioni democratiche, nella speranza che avvenga «qualcosa di simile» allo spostamento elettorale a destra verificatosi nel biennio 1971-72. Pecchioli, però, condanna preventivamente ogni escalation di violenza contro i missini, deprecando l’attacco alle sedi del Msi, e diffida dall’utilizzare la strage come «copertura per ritorsioni improntate a una logica altrettanto aberrante» [36]. Il segretario del Pci Berlinguer, il giorno seguente, indica i settori del governo o i “poteri forti”, più che il neofascismo, quando deve individuare possibili mandanti di un attentato cui si attribuisce il fine di spostare a destra l’asse politico del Paese:

Il prolungarsi di un quadro di incertezza politica e di inettitudine al vertice del Paese favorisce obiettivamente spinte eversive e antidemocratiche. Se le cose restano come sono è inevitabile che una parte dei gruppi dominanti e anche del personale politico e di governo lavori per preparare una soluzione più a destra [...] cercando di illudere una parte del Paese che si possa colmare in questo modo il vuoto di direzione oggi esistente [37].

A questa linea si associa anche Alfredo Reichlin che riconduce i mandanti più probabili a delle menti raffinate che usano il terrorismo per determinare l’esclusione dei comunisti dal governo [38]. La pregiudiziale antimissina sembra relativamente più forte a livello locale. In seno al consiglio comunale, il 3 agosto 1980, i «consiglieri di sinistra» e «quello del Pri» abbandonano «immediatamente l’aula» quando si alza «a parlare il rappresentante del Msi» [39], ma ciò vuol dire, però, che democristiani e liberali non li seguono.

Il Pci, a giudicare dalle reazioni immediate, sembrerebbe considerare la strage di Bologna uno dei veicoli del suo isolamento da un’alleanza di governo in cui agisce una pregiudiziale anticomunista e il blocco di maggioranza che determina quella esclusione diviene il vero nemico. Il modo in cui il Pci legge la strage nell’immediato è, inoltre, analogo alla memoria che dell’attentato è preservata nella società bolognese e nell’Associazione dei familiari delle vittime. In entrambi i casi alla strage si attribuisce una matrice fascista, ma la denuncia più pesante è rivolta alle istituzioni se è vero che il tono prevalente nei discorsi commemorativi «è costantemente negli anni quello della denuncia in relazione ai depistaggi, al segreto di stato, alle sentenze ingiuste o ancora al trattamento ingiusto subito dalle vittime e dai loro familiari» [Tota 2003, 78]. La memoria della strage colloca l’evento tragico non dentro un potenziale rischio fascista, semmai lo ricorda come uno dei segnali del disfacimento di uno stato governato da partiti che sono comunque a tradizione antifascista: la strage, allora, non inverte la crisi del paradigma antifascista, né riannoda i nessi tra i partiti che vi fanno riferimento.

Il lessico anti-antifascista guadagna in intensità nella comunicazione politica missina nel corso degli anni Ottanta. Le due correnti principali che animano il dibattito interno al Msi – quella almirantiana e quella rautiana – sono accomunate da una visione olistica della crisi del sistema che trapassa dai partiti alla società. I modelli di partito cui fanno riferimento queste due correnti, però, sono evidentemente diversi. Il Msi pensato da Almirante è una struttura verticistica che ha bisogno di attivare il militante dall’alto e lo tiene a sé vicino grazie al richiamo nostalgico e a campagne d’opinione sulle emergenze che di volta in volta si ritengono perturbare la società italiana. Il partito cui pensa la corrente di Rauti deve agire mediante “associazioni parallele” e inverte il ruolo tra vertice e militanza voluto dagli almirantiani [Ignazi 1989, 213-8; Tarchi 1997, 67-8]. La destra di Almirante rimane una destra d’ordine dal tratto populista e le campagne di mobilitazione che propone, come la raccolta di firme a favore della pena di morte, rientrano in questo alveo mentre sono irricevibili per movimenti, come la Nuova destra, che vengono messi fuori dal Msi proprio per la loro contrarietà a queste iniziative [Tarchi 1995, 138-9]. La destra rautiana preferisce intervenire con mobilitazioni che richiamano le emergenze sociali più eclatanti, soprattutto quelle che interessano i giovani - la piaga della tossicodipendenza ad esempio [Ignazi 1989, 216] - e si risolvono anch’esse prevalentemente in campagne d’opinione visto lo scarso successo delle “associazioni parallele”. L’adozione di un modello politico che si muove in entrambi i casi per campagne d’opinione, indica una certa convergenza del Msi verso un modello di azione politica sperimentato per primo, in Italia, dal Partito radicale [Mastropaolo 2000, 55-7], ma che si espanderà ben oltre questa cultura politica e costituirà una delle forme della reazione alla crisi del modello partito tradizionale.

[[figure caption="Afus, f. Msi, s. Isc, Documentazione storica del Msi, propaganda elettorale, immagine 68." width="600px"]]figure/2013/sorgona/sorgona_2013_2.jpg[[/figure]]

Nel caso di studio dell’Emilia Romagna, l’attività territoriale riflette le indicazioni che le due principali correnti forniscono dal centro. Il tipo di campagna d’opinione che ha più successo è sicuramente quello privilegiato dalla componente movimentista del partito e ciò può suggerire che la minoranza missina riesca a incidere territorialmente sulla vita dell’organizzazione anche nella fase cesaristica del Msi almirantiano. Le iniziative svolte dal Msi sul territorio emiliano e romagnolo testimoniano di una netta inclinazione alla polemica anti-sistemica. A Parma, ad esempio, nel gennaio del 1983 è organizzata una «conferenza dibattito su tema il dramma della droga» che già dal sottotitolo - «responsabilità del regime e proposte alternative della destra» [40] - indica come il Msi voglia diffondere capillarmente una rappresentazione del sistema-Italia come intrinsecamente corrotto a partire dal suo vertice politico antifascista e per questo “partitocratico”.

Cambiano significativamente e si riducono anche le contestazioni al diritto dei neofascisti di svolgere pubblicamente le proprie iniziative. Il 4 dicembre del 1982, Rauti organizza un convegno a Bologna sul tema della droga, da svolgere al quartiere Marconi. Sebbene la conferenza sarà sospesa per evitare scontri, le contro-manifestazioni non si specificano in senso antifascista, ma contestano al Msi la sua collocazione atlantica, visto che esse si riassumono in «un incontro dibattito su problemi desaparecidos argentini» e in una tappa della marcia della pace da Milano a Comiso [41].

La polemica antipartitocratica e il declino dell’influenza comunista sulla politica nazionale sono fattori che consentono al Msi un maggiore spazio d’azione. [[figure caption="Afus, f. Msi, s. Isc, Documentazione storica del Msi, propaganda elettorale, immagine 99." width="400px" align="left"]]figure/2013/sorgona/sorgona_2013_3.jpg[[/figure]] Le scarne notizie di contestazioni alle iniziative missine sono tutte attribuite a organizzazioni marginali, come nel caso di un comizio di Almirante organizzato a Faenza nel marzo del 1983, che provoca l’affissione di manifesti di protesta da parte di Democrazia proletaria [42]. È opportuno sottolineare come da province che fino ad allora hanno prodotto ben poche notizie riguardo l’attività territoriale neofascista, Reggio Emilia ad esempio, arrivino comunicazioni più rilevanti riguardo comizi e iniziative tematiche del partito. La prefettura di Reggio Emilia, nell’ottobre del 1982, notifica lo svolgimento di un comizio cittadino al quale partecipano «circa 500 simpatizzanti, oltre gruppetto contestatori debitamente tenuto at distanza da forze ordine» [43], mentre nel gennaio del 1983 Rauti svolge una «conferenza organizzata su diffusione stupefacenti da locale federazione Msi-Dn presso sala convegni albergo Astoria» cui partecipano «circa 100 persone» [44].

Il Msi conduce la sua polemica contro la “democrazia dei partiti” nel momento in cui per la prima volta se ne riconosce la legittimità effettiva come partito e Craxi ne riceve una delegazione per le consultazioni sulla formazione del suo primo governo [Ignazi 1989, 219-38]. La “legittimazione” del Msi avviene nel momento in cui i soggetti principali della “democrazia dei partiti” si esercitano a rimettere in discussione se stessi, secondo dinamiche che per alcuni interpreti agevolano quando non portano direttamente al crollo della prima Repubblica [Cafagna 1993, 131; Mastropaolo 2000, 10-6] affermandone la crisi non reversibile di fronte all’opinione pubblica.

La normalizzazione della presenza del Msi non corrisponde a una sua avanzata elettorale ma è indice dell’indebolimento del nesso antifascista tra i partiti italiani. La penetrazione di un modello de-ideologico di aggregazione politica e la crisi storico-politica del paradigma antifascista probabilmente agevolano l’allargamento degli spazi di tolleranza per il Movimento sociale. Tra i sintomi della crisi del paradigma antifascista si inseriscono le manifestazioni per il centenario della nascita di Mussolini cui il partito dedica un grande impegno organizzativo [45]. Le celebrazioni partono da Predappio, il 29 luglio del 1983, di fronte a «circa 5000 persone convenute con 30 pullmans et 400 auto» mentre si rende «necessario intervento contingente o.p. forza pubblica per contenere animosità piccoli gruppi estremisti destra che tentavano dare inizio manifestazioni apologetiche cessato regime» [46]. L’iniziativa si muove per tappe, una delle quali è svolta nel novembre del 1983 a Bologna presso la sala Europa del Palazzo dei congressi e alla quale partecipano «circa 800 persone, provenienti dalle principali città dell’Emilia Romagna» [47].

La celebrazione del centenario segnala il feticismo nostalgico della destra almirantiana e la sua incapacità di ripensarsi politicamente oltre il ritualismo dell’identità e la definizione di un nemico sistemico che sempre di più è identificato col sistema dei partiti e non col comunismo, almeno sullo scenario italiano. L’iniziativa, però, è anche indice dell’indebolimento di un senso comune antifascista, se è vero che le manifestazioni celebrative si svolgono in parte consistente e senza contestazioni di rilievo anche in Emilia Romagna.

3. Conclusioni

La celebrazione del centesimo anniversario della nascita di Mussolini è un’operazione comprensibile se si ha presente il modo in cui Almirante immagina il Msi: un soggetto politico a riferimento nostalgico. La nostalgia presuppone che del fascismo si assimili il mito, non la realtà storica. I neofascisti non partecipano che tangenzialmente o per ragioni elettorali al dibattito su fascismo e antifascismo che matura a partire dalla metà degli anni Settanta e dura almeno fino alla fine della prima Repubblica. La commemorazione della nascita di Mussolini è più che altro un rito comunitario, per quanto allargato anche a figure di esperti che col mondo del neofascismo non hanno nulla a che vedere, come Renzo De Felice. L’iniziativa, però, non solo non è oggetto di contestazioni ma avviene subito dopo le elezioni politiche del 26 giugno del 1983, che rappresentano un significativo successo per il Msi.

Riguardo il nostro caso di studio, il Msi raggiunge il 10,33% dei voti a Predappio, quarto comune della regione dopo Fiumalbo (16,04%), Nibbiano (11,8%) e Borghi (10,73%) [Pino 2013]. Per ciò che riguarda gli equilibri territoriali tra le due aree della regione, per la prima volta il Msi in territorio emiliano supera le percentuali ottenute in Romagna [48], soprattutto grazie agli ottimi risultati ottenuti a Piacenza [Pino 2013].

Il dato elettorale e lo svolgimento delle celebrazioni sono elementi che, per quanto marginali possano sembrare, si collocano tra quelli che in quel decennio segnalano non solo l’indebolimento dell’antifascismo come collante tra culture politiche ma anche il fatto che, in Italia, si stia diffondendo un nuovo senso comune diffidente rispetto alla democrazia dei partiti. La reazione istituzionale a questo senso comune sfocia nel ritorno a formule politiche tradizionali – il pentapartito come forma di centrismo [Craveri 2003, 13] – che blandiscono l’elettorato utilizzando gli strumenti del welfare state e dell’intervento pubblico piuttosto che rispondere all’urgenza di modernizzare quegli strumenti [Barca e Trento 1997, 226-32]. Le polemiche sulla riforma del sistema repubblicano e sul “mito” fondativo della Repubblica indubbiamente convergono dentro la critica alla struttura partitica [Mastropaolo 2000, 23-5], in un paese in cui, inoltre, tra il 1973 e il 1993 i tassi di insoddisfazione verso il sistema politico sono doppi rispetto alle altre democrazie europee [Morlino e Tarchi 1996, 41-63]. Ciò può fare ipotizzare che la crisi della democrazia dei partiti e dello stesso paradigma antifascista non sia frutto di un dibattito intellettuale e/o dell’introduzione di un nuovo lessico politico, ma dei limiti di quel modello di fronte alle trasformazioni che le sue condizioni di possibilità affrontano tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. Se questo modello regge con alte percentuali di consenso è perché la forma partito cui fanno riferimento è un fattore aggregante a sé: un mezzo efficace, poderoso e imitato anche dai suoi antagonisti, mentre la sua crisi è anche una crisi di senso, di fini generali, una volta esauritisi quelli che forgiano il compromesso democratico e “antifascista”.

L’indebolimento del senso comune antifascista può aver comportato fenomeni di larvata rivalutazione del fascismo che vanno indagati nella loro specificità storica. In Italia, come abbiamo visto, è rilevabile una tolleranza, istituzionale e di popolo, verso celebrazioni - il centenario della nascita del fondatore del fascismo - di cui è difficile trovare l’analogo in contesti europei assimilabili a quello italiano e il riferimento più evidente è al caso tedesco. Possiamo allora ipotizzare che si diffonda, negli anni Ottanta, una volgarizzazione dai tratti giustificatori del fascismo come “regime d’ordine”, dipinto come rapido quando non efficiente, di contro a un modello, quello democratico-parlamentare, che sfocia nella ipertrofia dialettica, in una contrattazione permanente che dilata i tempi della decisione politica. In una rappresentazione siffatta è facile che la natura antidemocratica e antiparlamentare del fascismo finisca con l’assumere un tratto positivo ed è necessario studiare a fondo questa immagine volgarizzata del fascismo perché è possibile che in essa emerga una cultura politica estesa ben oltre il confine della comunità missina. L’utilizzo di una descrizione del fascismo, che usa come discrimine le leggi razziali, proposta da importanti uomini politici rappresentativi della seconda Repubblica, è indice di un senso comune cui si fa riferimento non tanto per rimettere in piedi un’ideologia morta, quanto per proporre un sistema politico in cui il modello partitico-parlamentare può essere sostituito da un direttismo che lega potere esecutivo e società civile. In questa accezione i segnali di crisi dell’antifascismo, passibili di essere registrati anche in una regione che di antifascismo è permeata, preannunciano la definizione di un mito fondativo alternativo a quello antifascista e pensato per una nuova repubblica.


 

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Risorse

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http://www.fondazionespirito.it
Fondazione Giorgio Almirante
http://www.giorgioalmirante.it
Fondazione Alleanza Nazionale
http://www.alleanzanazionale.it

Note

1. Archivio Centrale dello Stato (Acs), Ministero dell’Interno – Gabinetto (Mig), Partiti politici (Pp) 1971-1975, b.16, fasc. Movimento sociale italiano (Msi), Forlì e Provincia, telegramma del sindaco di Rimini, On. Prof. N. Pagliarani, indirizzato al Ministero dell’Interno, Forlì 14 aprile 1971. Si veda anche ivi, telegramma del Prefetto Bettarini, 15 aprile 1971.

2. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b. 16, fasc. Msi – Forlì e Provincia, telegramma del Questore Anania, Forlì 6 aprile 1971.

3. Fonte Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni.

4. Piero Capello, L’Emilia che cambia. Dove l’intolleranza nasconde la crisi del «Pci», “Il Borghese”, 30 aprile 1972, pp.1201-3.

5. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Ravenna e Provincia, telegramma del Prefetto, 18 ottobre 1972.

6. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Ravenna e Provincia, telegramma del Prefetto, 15 novembre 1972.

7. Cfr. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.19, fasc. Msi - Fronte della Gioventù (Fdg), relazione del Prefetto, Ravenna 14 dicembre 1972.

8. Fonte Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni.

9. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.16, fasc. Msi – Ferrara e Provincia, telegramma del Prefetto Nicastro, 12 febbraio 1973.

10. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.16, fasc. Msi – Ferrara e Provincia, telegramma del Prefetto Nicastro, Ferrara 24 febbraio 1973.

11. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.16, fasc. Msi – Ferrara e Provincia, telegramma del Prefetto Nicastro, Ferrara 24 febbraio 1973.

12. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Ravenna e Provincia, telegramma del Prefetto Nicastro, Ferrara 24 febbraio 1973.

13. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.18, fasc. Msi affari generali e varie, telegramma del Prefetto Menichini, Bologna 20 giugno 1973.

14. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.18, fasc. Msi affari generali e varie, telegramma del Prefetto Menichini, Bologna 23 giugno 1973.

15. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.18, fasc. Msi affari generali e varie, telegramma del Prefetto Menichini, Bologna 27 giugno 1973.

16. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.18, fasc. Msi affari generali e varie, telegramma del Prefetto Padalino, Bologna 24 dicembre 1973.

17. Giuseppe Bonanni, Urbanistica di rapina, “Il Borghese”, 1 aprile 1973, p.829.

18. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.16, fasc. Msi – Bologna e Provincia, relazione del Prefetto Padalino, Bologna 24 dicembre 1973.

19. A Parma, il 16 marzo 1972, sono affissi ciclostilati dal titolo Il Sindaco delle Brigate Rosse contro Aldo Aniasi, in occasione della sua decisione di assegnare una medaglia di benemerenza civica al Commissario Calabresi. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.19, fasc. Fdg, relazione del Prefetto Franzè, Parma 22 marzo 1973.

20. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Parma e Provincia, relazione del Prefetto Longo, Parma 18 gennaio 1974.

21. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Parma e Provincia, relazione del Prefetto Longo, Parma 18 gennaio 1974.

22. Fonte Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni.

23. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.19, fasc. Msi - Fdg, relazione del Prefetto Manlio Maglioni, Ravenna 5 novembre 1974.

24. Cfr. Piero Capello, Una trappola per i ceti medi, “Il Borghese”, 1 dicembre 1974, pp.1090-1.

25. Piero Capello, Il bacio della morte, “Il Borghese”, 24 novembre 1974, pp.988-9.

26. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Ravenna e Provincia, relazione del Prefetto Manlio Maglio, 17 dicembre 1975.

27. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Parma e Provincia, relazione del Prefetto Longo, Parma 10 ottobre 1975.

28. Acs, Mig, Pp (1971-1975), b.17, fasc. Msi – Parma e Provincia, relazione del Prefetto Longo, Parma 29 ottobre 1975.

29. Cfr. Acs, Mig, Pp (1975-1980), b.11, fasc. Msi – Bologna, telegramma del Prefetto Padalino, Bologna 8 marzo 1976.

30. Acs, Mig, Pp (1975-1980), b.11, fasc. Msi – Bologna, relazione del Prefetto Padalino, Bologna 11 marzo 1976.

31. Acs, Mig, Pp (1975-1980), b.11, fasc. Msi – Bologna, relazione del Prefetto Padalino, Bologna 16 febbraio 1978.

32. Fonte Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni.

33. Acs, Mig, Pp (1975-1980), b.11, fasc. Msi – Bologna, relazione del Prefetto Boccia, Bologna 2 febbraio 1979.

34. Senza firma, Sei anni fa l’“Italicus”: fascisti rinviati a giudizio, “l’Unità”, 3 agosto 1980, p.4.

35. Se. c., Nar: "Siamo stati noi, in onore di Tuti", “l’Unità”, 3 agosto 1980, p.4.

36. Ugo Baduel, Intervista a Pecchioli, “l’Unità”, 4 agosto 1980, pp.1-4.

37. Enrico Berlinguer, Senza timone, “l’Unità”, 5 agosto 1980, p.1.

38. Cfr. Alfredo Reichlin, Ciò che non si vuole vedere, “l’Unità”, 6 agosto 1980, p.1.

39. Bruno Enriotti, In Comune tutte le voci di Bologna che resiste, “l’Unità”, 4 agosto 1980, p.2.

40. Cfr. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Parma, telegramma del Prefetto Materia e del Questore Tronca, Parma 28 gennaio 1983.

41. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.10, fasc. Msi – Bologna, telegramma del Prefetto Carrubba, Bologna 4 dicembre 1982.

42. Cfr. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Ravenna, telegramma del Questore Epifani, Ravenna 2 marzo 1983.

43. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Reggio Emilia, telegramma del Prefetto Augusto Isgrò, Reggio Emilia 29 ottobre 1982.

44. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Reggio Emilia, telegramma del Prefetto Augusto Isgrò, Reggio Emilia 30 gennaio 1983.

45. È significativo di un certo disinteresse verso questa iniziativa che l’Associazione familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, nel documento stilato il 21 ottobre del 1982 che chiede di bloccare le celebrazioni in Emilia Romagna, sottolinei con preoccupazione che «non si siano ancora elevate, sulla stampa, proteste e opposizioni a questo disegno» considerato «provocatorio e minaccioso [...] verso tutti gli italiani democratici». Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Affari Generali (Ag), relazione del capo di gabinetto del Ministero dell’Interno per il dipartimento di P.s., Roma 10 novembre 1982.

46. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Ag, telegramma Prefetto Boccuccia, Forlì 29 luglio 1983.

47. Acs, Mig, Pp (1981-1985), b.11, fasc. Msi – Ag, relazione del Prefetto Carrubba, Bologna 8 novembre 1983.

48. Nella circoscrizione emiliana il Msi arriva al 3,79%, in quella romagnola si attesta al 3,71%. Fonte Ministero dell’Interno – Archivio storico delle elezioni.