1. Dall’allocuzione di Giulio Cesare alla sua statua in piazza
Nel 1933 Benito Mussolini donò alla città di Rimini la copia bronzea di una statua marmorea di Giulio Cesare di epoca romana che fu collocata nell’attuale piazza Tre martiri. Da quel momento la statua divenne un simbolo per Rimini, un simbolo che istituiva un parallelo fra l’imperatore romano e il duce, e che diventò una rappresentazione del potere fascista. Come tale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale e in anni più recenti, la statua è stata fonte di accesi scontri e discussioni storico-politiche. Nelle pagine che seguono ripercorrerò la parabola della statua di Cesare dalla inaugurazione, all’oblio, al recupero, a partire dai motivi storici e culturali che portarono la statua dell’imperatore a Rimini.
Questi motivi risalgono all’epoca romana, per meglio dire cesariana, e precisamente al giorno del 49 a.C. in cui Giulio Cesare, dopo aver attraversato il Rubicone, tenne la sua allocuzione ai legionari nel foro di Ariminum, ovvero nell’odierna piazza Tre martiri di Rimini, prima di dirigersi a Roma, innescando di fatto la guerra civile.
Le fonti classiche ricordano che Giulio Cesare si rivolse ai suoi seguaci da una posizione elevata (in agmine), salendo su un suggestum per mostrarsi e parlare ai soldati. Secondo la tradizione a Rimini Cesare salì su una grande pietra, che poi restò per secoli nella piazza, ma che non coincide con il cippo ancora oggi visibile. Il cosiddetto “petrone” di epoca romana su cui sarebbe salito Cesare, e che fu mostrato a Petrarca negli anni Venti del XIV secolo [Ravara Montebelli 2010, 55], fu infatti posizionato sopra un basamento realizzato per volere dei magistrati cittadini nel 1555 al fine di preservare per le future generazioni il “petrone” deterioratosi nel tempo [Campana 1933] e vi rimase fino ai bombardamenti del 1943-45.
È necessario precisare che la dedicazione della piazza a Giulio Cesare non risale al ventennio fascista, come molti ritengono, ma è precedente. Come ricordato da Luigi Tonini in un opuscolo del 1873, nei documenti del VII secolo la piazza era indicata con il termine forum o campus fori, poi come piazza S. Antonio, piazza Grande o piazza Maggiore e «appellata oggi col nome di Piazza Giulio Cesare» [Ravara Montebelli 2010, 47-79].
È evidente che le politiche fasciste consapevolmente generarono nell’opinione pubblica un’associazione tra le gesta dell’imperatore romano e la marcia su Roma del 1922, tuttavia è doveroso ricordare che l’avvicinamento di Mussolini al mito della Roma imperiale non fu immediato: anzi, quando era un giovane socialista, non solo auspicava uno spostamento della sede del giornale «Avanti!» da Roma a Milano, motivando che quest’ultima era capitale morale d’Italia, ma soprattutto descriveva la città laziale in questo modo:
Roma città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati. Roma – città senza proletariato degno di questo nome – non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il centro e il focolare d’infezione della vita politica nazionale […]. Basta, dunque, con lo stupido pregiudizio unitario per cui tutto, tutto, tutto dev’essere concentrato in Roma – in questa enorme città-vampiro che succhia il miglior sangue della nazione [Giardina, Vauchez 2008, 213-214].
Questo orientamento così netto, che trovava continuità in posizioni anarchiche e socialiste sorte nell’Ottocento, iniziò ben presto a mutare fin dagli esordi come capo politico dei fasci di combattimento. Da quel momento in poi Mussolini utilizzò il mito di Roma per finalità direttamente riconducibili alle sue politiche volte alla stabilizzazione del movimento e alla presa del potere in Italia. Il duce affermò nel 1932: «Il saluto romano, le date e le commemorazioni, sono indispensabili per conservare il pathos ad un movimento» [Ludwig 2001, 93].
Alessandra Tarquini, nell’analizzare le posizioni di Andrea Giardina e di Emilio Gentile sul rapporto regime fascista e romanità, ha ricordato che «il fascismo dichiarò di voler assumere l’eredità romana non per nostalgia reazionaria, né per tornare a un lontano passato, ma perché il mito di Roma aveva una funzione legata al futuro» [Tarquini 2011, 130]. Già negli anni della rivoluzione fascista, Mussolini prese la strada dell’esaltazione dell’antica Roma: ne assunse i simboli, il lessico, i gesti, l’ordinamento e le gerarchie, questa esaltazione andò avanti fino al crollo del 1943. Ma in Mussolini non ci fu mai un sincero interesse per l’antichità e le sue vestigia, come dimostrano le distruzioni romane e riminesi avvenute attorno ai monumenti romani: per il capo del fascismo la storia romana aveva valore, non perché avesse una sua qualità storico-artistica, ma come serbatoio di miti utili al suo tornaconto politico. Infatti l’uso della storia in epoca fascista non si limitò alla strumentalizzazione della storia romana, ma il regime prese tutto ciò che gli fu utile per i propri obiettivi da ogni epoca storica: medioevo, Rivoluzione francese, antichità greca ed etrusca, Rinascimento, senza badare alla coerenza storica e alla compatibilità politica [Salvatori 2021, 8].
L’esaltazione della storia romana, a Roma prima e poi in tutt’Italia, aveva il compito di mostrare al mondo la potenza fascista, la sua capacità di realizzare un immaginario collettivo attraverso la costruzione di una città moderna proiettata nel futuro. Via dell’Impero fu il centro di quest’opera di propaganda [Tarquini 2011, 130].
Nei primi anni Venti, mentre a Rimini si lavorava per dare al cippo di Giulio Cesare una posizione stabile e definitiva (la sua collocazione intralciava lo sviluppo della piazza, impedendo la creazione di una linea tranviaria) [Ravara Montebelli 2010, 66-67], a Roma già dal 1924 Benito Mussolini cominciò a riflettere sul proposito di valorizzazione dei resti del foro romano. Un progetto che ebbe un’incubazione molto lunga, in quanto il primo colpo di piccone fu dato il 3 gennaio 1932. Il 21 aprile di quell’anno una copia bronzea della statua loricata di Giulio Cesare di età traianea venne inizialmente collocata nel foro di Cesare e poi spostata lungo via dell’Impero, attuale via dei Fori imperiali, insieme alle statue degli imperatori Augusto, Nerva e Traiano, dove ancora oggi è possibile vederla (mentre l’originale si trova in Campidoglio).
L’ispirazione di donare una statua del dittatore romano alla città di Rimini fu data a Mussolini da un noto prelato riminese. Nel marzo del 1933, don Domenico Garattoni, già direttore del settimanale cattolico «L’Ausa», poi sospeso a divinis a causa della sua adesione al fascismo, nel corso di un’udienza suggerì a Mussolini di donare a Rimini una copia della statua. Una testimonianza sul dialogo avuto si ricava da un’intervista rilasciata da don Garattoni alla fine degli anni Settanta a Liliano Faenza:
«Eccellenza, ieri sono stato in Via dell’Impero». Lui mi ascolta, fissandomi con occhi rotondi, proseguo: «In passato da quelle parti, ci andavano solo i turisti, col Baedeker». E glielo fo vedere. Lui tace. Io vengo al sodo; «Eccellenza, fra le città romagnole, credo che Rimini sia la Romana. L’Impero è morto a Ravenna, ma a Ravenna di romano c’è più niente. Ravenna è bizantina. A Rimini, invece…». «A Rimini?» – interroga il duce – «A Rimini abbiamo l’Arco, il Ponte, l’Anfiteatro, il Foro…», «Il Foro? – scatta il duce dietro la grande scrivania – ma dove ce l’avete il Foro?». – «Eccellenza, forum-fori, in latino, vol dire piazza, e noi a Rimini abbiamo la piazza Giulio Cesare. Lì sorge il plinto, nel punto preciso in cui Cesare ha arringato le legioni prima della marcia su Roma […] vi tenne la gran diceria...» – «Macché – interrompe il duce – macché diceria. Cesare il discorso lo fece a Ravenna». – «A Ravenna – prosegue don Garattoni – fece una sosta, ma fu da Rimini che spiccò il grande volo […] senta, Eccellenza, perché non dona a Rimini una statua di Giulio Cesare simile a quella che ha voluto sulla via dell’Impero?». – Mussolini resta pensieroso. Poi punta gli indici davanti a sé, e: «Già! – esclama risoluto – lì ci starà bene» [Faenza 1982, 27-28].
Venne così commissionata alla prestigiosa fonderia d’arte Laganà di Napoli la realizzazione della copia in bronzo della statua.
Il 13 aprile del 1933 il podestà Palloni scrisse un telegramma di ringraziamento a Mussolini e il duce rispose:
La statua di Giulio Cesare che ho deciso di offrire alla vostra città sarà eguale a quella in bronzo che sorge in Via dell’Impero. Se possibile, la innalzerete sulla colonna dalla quale Giulio Cesare parlò ai militi della XIII legione dopo che – tratto il dado e varcato il Rubicone – ebbe deciso la marcia su Roma. Ogni anno agli Idi di marzo voi avrete cura di adornare con fiori la statua del fondatore dell’Impero Romano [Pasquini 1933, 12].
Due giorni dopo, il 15 aprile 1933, Palloni inviò a Mussolini un nuovo messaggio:
Vostri comandamenti saranno eseguiti. Statua Giulio Cesare sarà innalzata in Piazza omonima sopra il suggesto da cui la parola del grande condottiero ai legionari segnò il principio dell’Impero Romano. […] Rimini rinnova V.E. infinita gratitudine et fa voti presenza Duce d’Italia all’inaugurazione del monumento del Duce Romano [Ravara Montebelli 2010, 92].
Da quel momento i principali artisti riminesi si attivarono per realizzare il volere del duce e collocare l’imponente statua in bronzo di Cesare, alta oltre 2,80 m con un peso stimato di almeno 20 quintali, sopra l’antico ed esile monumento.
Il pittore e giornalista Luigi Pasquini, che curò il volume miscellaneo edito dal Comune di Rimini per l’inaugurazione della statua, pubblicò in copertina e all’interno la sua celebre xilografia con la statua di Giulio Cesare sopra il piedistallo del “petrone”. La didascalia recitava: «Interpretazione ideale del comandamento del Duce espresso nel messaggio al Podestà di Rimini» [Pasquini 1933]. Questa immagine si è impressa in modo talmente indelebile nella mente dei riminesi, che ancora oggi molti credono che la statua sia stata realmente posizionata su quel piedistallo.
La statua sarebbe stata collocata alla base della torre dell’orologio nella piazza Giulio Cesare. La decisione fu presa dall’architetto Gaspare Rastelli, impegnato già dal 1931 in un progetto di consolidamento e ripristino della torre. I lavori erano in corso quando, il 27 marzo 1933, il sindaco informò Rastelli del dono della statua e l’architetto rispose prospettando l’intenzione di posizionarla in una nicchia alla base della torre oppure direttamente davanti all’arcata centrale chiusa.
Rastelli, che in quel momento si trovava a Roma, visionò la statua sui fori imperiali, misurò il basamento su cui era posizionata (1.40 x 0.90 m) e scrisse al sindaco: «Il piedistallo che abbiamo attualmente nella nostra piazza (che non è romano) è assai più bello e significativo. Se questo fosse di larghezza voluta andrebbe meravigliosamente bene […]». Tuttavia, le dimensioni del “suggesto” riminese non erano compatibili e fu quindi necessario realizzare un nuovo basamento, esattamente uguale a quello di Roma, sul fronte del quale fu scolpito il testo: «C. CAESAR/DICT/RVBICONE SVPERATO/CIVILI BEL/COMMILIT SVOS/HIC IN FORO AR/ADLOCVT», e ai lati, sul fianco sinistro «EX DONO BENITI MUSSOLINI» e su quello destro «A. MCMXXXIII A FASC. RENOV. XI».
La statua arrivò a Rimini il 27 giugno 1933, fu posizionata in piazza Giulio Cesare sul nuovo basamento ai piedi della torre dell’orologio e fu inaugurata il 10 settembre dello stesso anno, alla presenza del senatore Emilio Bodrero. Questi aprì il suo discorso presso il teatro Vittorio Emanuele (oggi teatro Poletti), davanti al sipario che raffigurava il passaggio del Rubicone, con queste parole:
Ben avventurata è la vostra città, o Riminesi, se oggi per il dono della statua di Giulio Cesare da parte del Duce nostro, congiunge in un magnifico ricordo due grandi nomi, due fatti similmente gloriosi. Pochi luoghi al mondo possono vantare un più alto significato, come il Rubicone che scorre qui presso, reso oggi anche più illustre dalla nuova consacrazione che Benito Mussolini ha voluto dargli rendendo onore non solo al suo antenato politico, ma anche a questa sua generosa terra di Romagna [Ravara Montebelli 2010, 252-261].
In questo modo si sanciva l’identità, quasi la trasfigurazione, di Giulio Cesare e Benito Mussolini, un nesso perdurato nel tempo, talvolta posto in evidenza e talvolta sottaciuto o criticato fino ad oggi e che ha condizionato le scelte politiche sulla statua di Cesare e sulla piazza in cui fu collocata.
2. Gli effetti dell’uso politico della storia
e la contaminazione dei monumenti: il caso riminese
La statua di Giulio Cesare sopravvisse alla guerra e agli intensi attacchi aerei che subì la città di Rimini dal novembre 1943 ai primi giorni del 1945. Invece, le tracce del “petrone”, che si voleva autentico, si perdono a seguito dei bombardamenti del 1944-45 durante i quali la piazza e i palazzi circostanti subirono danni ingenti: forse il “petrone” fu scalzato dal cippo cinquecentesco e, scambiato per comune maceria, fu smaltito come tale.
La liberazione della città avvenne il 21 settembre 1944, quando le truppe alleate, composte principalmente da greci, neozelandesi, polacchi, canadesi e gurkha nepalesi, riuscirono a sfondare le ultime resistenze tedesche sul torrente Marano al confine tra Riccione e Rimini. Gli antifascisti e i partigiani di Rimini si attivarono immediatamente, accogliendo i liberatori stranieri: fu il socialista Gomberto Bordoni a scortarli verso il centro della città ormai sgombro dalla presenza dei tedeschi in rotta verso nord. Bordoni e i partigiani Guido Nozzoli, Decio Mercanti, Arnaldo Zangheri, Vittorio Zanni e Giuseppe Polazzi si incontrarono con il comando alleato per decidere come affrontare quella drammatica situazione. Su di loro, essendo in maggioranza comunisti, gravavano forti pregiudizi da parte alleata, per questo la loro richiesta di contribuire alla liberazione del territorio comunale in maniera militare fu respinta; al contrario fu loro chiesto di occuparsi delle necessità della città [Mercanti 1985, 91].
Se da un lato i riminesi si salvarono dalle punte estreme del terrore provocato dagli occupanti e dall’alleato repubblichino tramite i grandi massacri legati alle azioni di contrasto alla Resistenza, i mesi dall’8 settembre 1943 alla Liberazione furono comunque durissimi, tanto da segnare indelebilmente le loro vite. Due momenti in particolare toccarono i riminesi: i tremendi bombardamenti che martirizzarono la città e il distruttivo passaggio del fronte con la battaglia di Rimini che rese la situazione più drammatica.
Dal 1° novembre 1943 Rimini fu fatta bersaglio di terribili attacchi aerei atti a colpire le vie di comunicazione; la ferrovia e i ponti sul fiume Marecchia furono obiettivi privilegiati, un supplizio che ebbe il suo culmine il 28 dicembre 1943, quando la città fu colpita per tre giorni consecutivi, e che continuò fino al 4 gennaio 1945 [1]. Tali attacchi provocarono la distruzione di oltre l’80% della città e, dopo la morte di 600 persone nei primi mesi, determinarono lo sfollamento dall’abitato: già lentamente avviato dal novembre 1943, esso divenne generale dopo il grande bombardamento di fine dicembre. La popolazione, impossibilitata a rimanere in città, fu costretta a spostarsi nelle campagne, i più fortunati presso i propri parenti, chi non ne aveva occupò le grandi gallerie della ferrovia Rimini-San Marino. Fu l’inizio di enormi sofferenze.
L’altro grande trauma vissuto dai riminesi fu il passaggio del fronte: la battaglia per lo sfondamento della Linea Gotica iniziò il 25 agosto 1944 ed ebbe termine il 26 settembre con la definitiva liberazione di Bellaria – Igea Marina, che a quel tempo era la frazione più a nord di Rimini. Nel documento redatto dal Comune di Rimini in data 16 maggio 1945 [2] è riportata la cronologia dei bombardamenti da cui si apprende che dal 1° al 20 settembre 1944 la città di Rimini fu colpita da 149 bombardamenti aerei e da 14 bombardamenti navali. A quest’inferno che pioveva dal cielo vanno aggiunti gli scontri casa per casa tra il fiume Foglia e il fiume Marecchia fra alcune centinaia di migliaia di soldati, tedeschi e Alleati [3].
La guerra, l’occupazione tedesca e la Repubblica sociale determinarono sicuramente una frattura tale da orientare la transizione dopo il fascismo a favore della Repubblica italiana; questo fu vero a livello nazionale, come dimostra il dibattito storiografico, e lo fu anche per Rimini [4]; qui la popolazione, per le suddette peculiari condizioni di guerra sperimentò la durezza del crepuscolo del duce e del fascismo, la faccia più brutale del quale fu svelata ai riminesi da quei tragici mesi con la guerra in casa e soprattutto dal terrore con il quale governarono i nazifascisti. Un momento, come ci ricorda il ricercatore Maurizio Casadei [5], che risulta ancora scarsamente analizzato dal punto di vista politico-amministrativo, ma che è decisivo per comprendere le scelte fatte in quel periodo, comprese quelle legate alla statua di Giulio Cesare.
In questo senso il crudele assassinio di tre partigiani, avvenuto proprio in piazza Giulio Cesare, fu sicuramente un profondo trauma nell’animo dei riminesi; sia i compagni di lotta – futuri dirigenti politici – sia i comuni cittadini, rimasero colpiti dall’accanimento nazifascista nei confronti dei tre giovani. La loro impiccagione avvenne il mattino presto del 16 agosto 1944; i componenti del locale fascio si diedero alla fuga già alla fine d’agosto e 37 giorni dopo la città fu definitivamente liberata.
Come anticipato, il Comitato di liberazione nazionale (Cln) di Rimini si dette immediatamente da fare per ricostruire la città e per permettere il ritorno degli sfollati nelle proprie case, ed ebbe come incombenza più importante la riorganizzazione politica della transizione in atto. Un’indicazione importante su quale fosse la linea politica scelta dal Cln riminese ci arriva da Guido Nozzoli, uno dei principali animatori della Resistenza locale, ed è tratta dall’intervista rilasciata da quest’ultimo all’editore Bruno Ghigi che gli chiedeva come avessero preparato l’arrivo degli Alleati:
Molti progetti e, soprattutto tante riunioni a tutti i livelli per preparare un nostro intervento alla liberazione di Rimini e abbozzare l’intelaiatura amministrativa, sindacale e politica della città. Tra l’altro venne designato come Sindaco – in accordo con il C.L.N. – il dottor Clari, per riconfermare simbolicamente la continuità della presenza socialista nell’amministrazione comunale interrotta dalla dittatura fascista. Nell’attesa che il dottor Clari, vecchio e malandato di salute, potesse insediarsi al posto di primo cittadino, ne avrebbe fatto le veci il bravo Arnaldo Zangheri a cui toccò di portare il peso di quella responsabilità nelle prime, difficili settimane [Ghigi 1980, 221].
Fu questo il metro di misura con cui i nuovi amministratori di Rimini gestirono la transizione politica di quei frenetici anni. Il fascismo doveva essere considerato una parentesi che aveva interrotto un percorso democratico che stava avanzando grazie al socialismo; tutta la transizione doveva essere gestita in questa maniera. Per raggiungere tale obiettivo bisognava cancellare i tanti simboli del fascismo presenti in città [Susini 2016, 20] [6].
Il luogo di massimo scontro di questa lotta di memorie fu proprio la piazza più grande e importante di Rimini, l’allora piazza Giulio Cesare. Quel luogo era diventato il tempio delle grandi adunate del regime soprattutto dopo la collocazione della statua di Cesare, grazie al fatto che tale monumento, come ben sappiamo dalle stesse dichiarazioni dei fascisti dell’epoca [Faenza 1982, 26-28], rappresentava non solo il grande condottiero romano ma anche, per allusione, lo stesso Mussolini. La manifestazione del 10 settembre 1933 per la collocazione del Giulio Cesare in piazza fu un evento talmente rappresentativo che Federico Fellini lo tenne come modello per la parata fascista rappresentata in Amarcord, il film premio oscar nel 1975 [Maroni 2014]. La statua era dunque un evidente esempio di uso politico della storia: Mussolini come Cesare, il nuovo duce che marciava verso Roma per conquistare l’Italia trasformandola in impero.
Proprio in quel luogo, divenuto il cuore del fascismo locale, avvenne la più grande violenza compiuta dal nazifascismo a Rimini, ovvero l’assassinio per impiccagione dei tre giovani partigiani gappisti Adelio Pagliarani, Luigi Nicolò e Mario Capelli, un fatto che scosse profondamente la coscienza cittadina e che produsse non solo un’immediata reazione d’orrore, ma segnò anche il definitivo abbandono del fascismo per la maggioranza dei riminesi [Cavallari 1979, 37]. La modalità con cui furono uccisi, il fatto che non cedettero alle torture subite e l’esposizione dei loro cadaveri alla città rese quei giovani riminesi tre martiri, eroi caduti nella maniera più iconica dell’immaginario resistenziale [Susini 2016, 36]. Quest’immaginario antifascista si scontrava apertamente con quello fascista, costruito in precedenza proprio in quel luogo.
Tale convivenza di memorie “contro” non poteva sopravvivere ai fatti e al nuovo corso politico che stava avanzando: già nella prima delibera di Giunta redatta il 9 ottobre 1944 si manifestavano questi intendimenti e la nuova amministrazione cittadina rinominava piazza Giulio Cesare in Tre martiri [Susini 2016, 16]. Credo che un passaggio scritto da Oreste Cavallari, avvocato repubblicano, descriva bene l’umore attorno a questo cambio d’intitolazione: «Due giorni dopo la Giunta deliberò di intitolare la piazza Giulio Cesare ai tre Martiri: Mario Capelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani. Il dittatore se l’era goduta davvero poco, appena dodici anni, la sua piazza» [Cavallari 1979, 30]. Cavallari denota in maniera estremamente chiara e tangibile quanto fosse forte la consapevolezza nei riminesi che quella statua fosse un simbolo politico. Dopo l’elezione a sindaco della Liberazione di Arturo Clari, questo fu il secondo segnale dato alla cittadinanza per far capire quale cambio di passo volessero imprimere i nuovi amministratori.
Meno di un anno dopo la statua fu tolta dalla piazza: Luigi Pasquini, pittore e intellettuale riminese, fascista «più per la via del ‘sentire’ che dell’adesione ideologica» [Bernucci 2017, 47-59] nonché, come si è detto, curatore del libretto redatto per l’inaugurazione della statua nel 1933, ci racconta che il 20 giugno 1945 un gruppo di operai incaricati dal Comune tolse la statua [Ravara Montebelli 2010, 103]. Era chiaro che quella piazza intitolata ora ai Tre martiri dovesse diventare anche il luogo della memoria di tutti i caduti partigiani riminesi: questa volontà fu manifestata apertamente nel primo anniversario dell’impiccagione, il 16 agosto 1945, quando il sindaco Clari durante l’orazione pubblica sostenne che l’amministrazione voleva erigere un luogo a ricordo dei partigiani caduti per la Libertà. Sul «Giornale di Rimini» del 19 agosto 1944, l’architetto Manni, incaricato della ricostruzione dell’intera piazza, presentò due tipologie di monumento ai caduti che furono esposte al giudizio pubblico durante i giorni della ricorrenza [Susini 2016, 16-20].
Il luogo scelto per collocare la lapide ai caduti partigiani fu proprio lo spazio lasciato vacante dalla statua di Giulio Cesare, la loggia sotto la torre dell’orologio: un modo plastico, visivo e tangibile per sottolineare la conquista della piazza e il superamento del fascismo, ma soprattutto il nuovo patto democratico su cui si doveva fondare la nascente Repubblica [Susini 2016, 16-20]. Il duce sostituito dai partigiani.
Questa scelta non interruppe la discussione in merito alla fine della statua Giulio Cesare; il primo Consiglio comunale democraticamente eletto, che vedeva come sindaco Cesare Bianchini e una maggioranza composta da 18 consiglieri comunisti e dieci socialisti, difese la precedente decisione di togliere la statua di Cesare dalla piazza. Furono soprattutto i primi a volere difendere questa impostazione politica, in particolare fu Guido Nozzoli che si spese per mantenere questa conquista: «Giulio Cesare è simbolo di ambizioni mancate, può essere sostituito senza rimpianti!» [Cavallari 1979, 95].
Ma intanto, prima di questa discussione in seno al Consiglio comunale, il 16 agosto 1946 fu collocata la prima lapide ai caduti per la libertà, un’opera voluta primariamente dall’Associazione partigiani, ma collettivamente sostenuta dall’amministrazione comunale e da tutti i partiti politici antifascisti. Mentre i caduti partigiani guadagnavano il centro della piazza, la statua di Cesare veniva sepolta, almeno secondo quanto riportano le fonti ufficiali, per evitare che fosse requisita dagli Alleati, che miravano sia a recuperare materiale ferroso, che a eliminare un simbolo riconoscibile del duce e della dittatura [Bonizzato 2001, 87-88]. Il seppellimento fu effettuato dai vigili del fuoco il 6 luglio del 1945 [Ravara Montebelli 2010, 103]. Lo scavo fu fatto in uno dei tre capannoni dei vigili del fuoco, sotto ad una pila di tubi ad uso dell’acquedotto [Bonizzato 2010, 14-15]. Particolare significativo su cui non sorvolare, anche nell’ottica dell’evoluzione attuale delle vicende del Giulio Cesare, è il fatto che dal 20 giugno al 6 luglio la statua venne ricoverata presso gli Istituti comunali di Rimini [Ravara Montebelli 2010, 102].
Su quello che accadde in seguito la tesi più accreditata, almeno seguendo i documenti e le testimonianze disponibili, è che la statua rimase sepolta almeno fino il 1951; in una lettera datata 6 aprile 1951 l’allora prosindaco di Rimini Gualtiero Bracconi comunicava al Prefetto che la statua sepolta nel 1945 era a quella data già stata disseppellita e ricollocata nei depositi dell’Azienda acquedotto «in buono stato di conservazione». Dopo questa data pare però sia probabile, secondo le testimonianze raccolte da Giuliano Bonizzato, che la statua sia tornata sottoterra fino al giugno 1953, quando è stata ritrovata da un giovane militare appartenente del 35° reggimento d’artiglieria di stanza a Rimini. Da quel momento fino al 2021 la statua è stata collocata all’interno del cortile della caserma Giulio Cesare costruita nel 1936 [Bonizzato 2010, 14-15].
Non sappiamo con certezza se questo seppellimento fu fatto per protezione o per oscurantismo, quello che è certo è che mettere sottoterra, nascondere, rappresenta perfettamente una delle maniere con cui si è affrontata la memoria del fascismo in quel momento storico, ovvero seppellirlo e aspettare che l’oblio del tempo e l’azione democratica facessero il loro compito [Assmann 2021, 54-59]. Ma, come possiamo facilmente riscontrare sia sul piano nazionale, sia per questa vicenda specifica, non fu così; i conti con il passato non sono stati fatti fino in fondo e di quella statua si dibatte nel 2021 e probabilmente si dibatterà nel futuro finché non si giungerà a soluzioni che affronteranno la storia del paese e le sue difficili memorie.
Come ben afferma la studiosa tedesca Aleida Assmann,
[…] la storia non è terreno esclusivo degli storici, che a posteriori ripercorrono i luoghi degli eventi, studiano le fonti e ne discutono a livello accademico […]. La storia, inoltre, è terreno di caccia per i media, che possono farne uso per articolare un discorso pubblico, nonché responsabilità dello Stato che ne prescrive l’insegnamento nelle scuole e indice giornate commemorative; e, non da ultimo, è materia della società civile che deve sempre confrontarsi con il proprio passato [Assmann 2021, 151].
Ad oggi purtroppo, a mio avviso, il fascismo è un oggetto di storia solo per i professionisti della materia, ma è ancora argomento di viva politica, sia nella prospettiva fascista sia antifascista, il che non fa altro che spostare cronologicamente più avanti la sua definitiva storicizzazione.
La storia della statua di Giulio Cesare rappresenta perfettamente lo stato costante in cui vive il nostro paese: un eterno passato che non passa mai, che continua a far discutere, spesso in maniera inutile, strumentale e fine a se stessa, una discussione che appare ormai ripiegata su di sé. Infatti il dibattito sulla statua è continuato costantemente per tutto il tempo che ci separa da quando è stata tolta dalla piazza: si è discusso di ogni aspetto, politico e storico, si sono tentate tutte le soluzioni possibili per risolvere il “caso Giulio Cesare”, ma nulla ha rimosso definitivamente lo stallo.
Attorno al destino di questa statua nel corso dei decenni si sono mossi politici, intellettuali, associazioni, singoli cittadini, ed è quindi difficile fare anche solo una sintesi del dibattito sui giornali locali: la mole di questi interventi è veramente importante.
Quello che si può rilevare è spesso il carattere disomogeneo della discussione, caratterizzata da lunghi momenti di (apparente) silenzio e brevi, quanto intensi, momenti di discussione sui giornali, ove tutti i protagonisti di queste vicende esprimono in maniera veemente e rituale le proprie opinioni. Il momento di maggior vigore di tale disputa si è probabilmente avuto a cavallo tra il 1995 il 1996, quando la Giunta di centrosinistra diretta dal sindaco Giuseppe Chicchi ha deciso di far collocare in piazza Tre martiri una copia della statua del 1933. Dopo questa dichiarazione d’intenti del sindaco, i giornali locali, «Il Resto del Carlino» e «Il Corriere di Rimini», spesso hanno aperto con gli aggiornamenti sull’avanzamento dei lavori e sulle polemiche ad esso legate. L’Associazione partigiani di Rimini è stata in prima linea contro questa decisione. Non sono mancate pubblicazioni sul tema: più rigorose e scientifiche come quella dell’archeologa Ravara Montebelli o più divulgative e di carattere “propagandistico” come quelle di Umberto Bartolani. Quello di cui non abbiamo traccia è un serio e strutturato ragionamento su questi temi, messo in campo da specialisti che potessero aiutare, soprattutto i cittadini ma non solo, a riflettere su cosa fare per dare il giusto senso a quel monumento e all’intero periodo storico.
Infine, nel 1996 la nuova copia donata dal Rotary club di Rimini fu collocata su un lato della piazza, montata sopra al basamento originale degli anni Trenta, e inaugurata nella ricorrenza delle Idi di marzo. Le iscrizioni laterali sul basamento ricordo del dono di Mussolini, ancora visibili a un occhio attento, risultano riempite di gesso e nascoste da una targa.
3. Una statua in cerca di una collocazione definitiva
Oggi viviamo un’ulteriore fase di questa discussione: dopo circa 70 anni di permanenza della statua di Cesare presso l’omonima caserma militare, il 14 maggio 2021, il Comune di Rimini, nella persona dell’assessore alla Cultura Giampiero Piscaglia, ha deciso di collocare l’opera nel museo della città. Se questa nuova collocazione si accompagnerà alla creazione di una sezione di storia contemporanea del museo, allora potremmo parlare forse di un tentativo meritorio di chiusura della questione Giulio Cesare, in quanto si inaugurerebbe (finalmente) un nuovo modo per discutere in merito a quella statua. Una comunicazione storica che eliderebbe il rischio di letture apologetiche del fascismo di cui la statua è comunque portatrice, che permetterebbe una storicizzazione e una narrazione completa della statua, dalla genesi alle peripezie del dopoguerra, e libererebbe la possibilità di ricordare l’evento legato a Giulio Cesare senza le strumentalizzazioni imposte dall’uso politico della storia.
È giusto dire che il ritorno della statua di Cesare è auspicato non solo da esponenti del mondo politico che si richiama al fascismo, ma anche da studiosi e appassionati di storia romana. Tuttavia, confrontando questa situazione con altre simili nel territorio comunale, possiamo facilmente notare come ci siano punti in comune in queste richieste che tendono sempre a privilegiare la storia romana a discapito di quella più recente, come ci fosse una preordinata scala di valori. A mio avviso è interessante paragonare la questione Giulio Cesare con un altro luogo del territorio di Rimini in cui si sovrappongono storie diverse, ovvero il complesso Asilo svizzero – Ceis e anfiteatro romano. Anche in questo caso abbiamo un conflitto di memorie, in cui la divisione tra coloro che vorrebbero mettere in luce le vestigia romane e chi vorrebbe mantenere la presenza del progetto sociale del dopoguerra, sottende anche una diversa posizione politica di visione di fascismo e antifascismo.
Il Ceis, infatti, è il frutto del lavoro di una importante cooperatrice socialista Margherita Zoebeli, appartenente al Soccorso operaio svizzero, che creò a Rimini un primissimo centro di aiuto per le persone più bisognose all’indomani della guerra. Inaugurato ufficialmente il 1° maggio 1946, questo doveva diventare un centro sociale e educativo per lenire le sofferenze della popolazione, soprattutto donne e bambini, prime vittime della guerra. Il luogo doveva essere vicino al centro, avere una fonte d’acqua per gli approvvigionamenti ed essere sufficientemente sgombro da macerie: per questo motivo, lo spazio scelto fu quello nei pressi dell’anfiteatro. Come nel caso precedente, si è successivamente aperto uno scontro di memorie, quella antifascista che vuole la convivenza delle due identità, quella contemporanea e quella romana, e quella nostalgica, che a Rimini ha sempre esaltato la romanità, e quindi vorrebbe l’esclusività di quel luogo, chiedendo a gran voce lo spostamento delle delicate strutture dell’Asilo svizzero. Anche da questo confronto emerge una visione politicizzata della storia, molto simile a quella usata da Mussolini per piegare a suo uso e consumo l’intera storia romana, anch’essa vittima di queste politiche strumentali.
Quello che accade a Rimini non è un caso isolato, come si è visto in tantissimi casi, nazionali ed europei, molti nostalgici dei regimi del recente passato, avvertiti come migliori del presente, tentano di problematizzare artefattamente alcuni casi storici per cercare di imporre simboli e letture storiche uscite sconfitte dal secondo conflitto mondiale. Soprattutto nell’Est Europa, dopo il crollo del regime sovietico, sono rimasti aperti numerosi contenziosi che riguardano monumenti che rappresentano i fatti e gli accadimenti della prima metà del Novecento. Conflitti di memoria che sono rimasti aperti, che il periodo comunista ha messo solo sotto il tappeto senza risolverli e che invece oggi producono ancora risentimenti e incomprensioni, sommandosi alle successive memorie difficili lasciate dai regimi comunisti.
Viviamo in un momento storico di passaggio e in rapida evoluzione, movimenti radicali come quello del Black lives matter, anche se spesso in maniera forzata, hanno aperto un ampio dibattito sul tema dei monumenti e su cosa essi rappresentano [7]. Siamo di fronte alla necessità di trovare nuovi linguaggi e dare una nuova semantica ai monumenti affinché riescano a restituirci un significato più aderente alle nuove concezioni storiche e sociali.
Riprendendo il concetto di “paesaggi contaminati”, coniato dallo scrittore tedesco Martin Pollack per indicare i luoghi segnati dalle tragedie della Seconda guerra mondiale [Pollack 2016, 93], definirei il Giulio Cesare di Rimini una “statua contaminata”, un monumento che è stato “alterato” da un uso politico della storia e dal sangue dei tre martiri che ha bagnato quella piazza. Per questo, come ci insegna lo storico Alberto Cavaglion, è necessario mettere all’opera non più i “gendarmi della memoria”, bensì i “giardinieri della memoria”, persone che attraverso una molteplicità di linguaggi riescano a estrarre i migliori messaggi da quella storia verso le giovani generazioni [Cavaglion 2021, 93].
Bibliografia
- Assmann 2021
Aleida Assmann, Il sogno europeo. Quattro lezioni dalla storia, Rovereto, Keller editore, 2021. - Bernucci 2017
Luigi Pasquini. Un cronista del pennello, a cura di Annamaria Bernucci, Bologna, Minerva, 2017. - Bonizzato 2001
Giuliano Bonizzato, Cronache malatestiane del terzo millennio, Rimini, Raffaelli, 2001. - Bonizzato 2010
Giuliano Bonizzato, Cesare sepolto due volte vuole tornare nella sua piazza, in «La voce di Romagna», 6 gennaio 2010, pp. 14-15. - Calbucci, Zaghini 2002
Gianluca Calbucci, Paolo Zaghini, I politici locali: consiglieri, assessori e sindaci del Riminese, 1946-2001, Rimini, Capitani Editore, 2002. - Campana 1933
Augusto Campana, Il cippo riminese di Giulio Cesare, Rimini, Libreria Arnaud, 1933.
Cavaglion 2021 - Alberto Cavaglion, Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, Torino, Add editore, 2021.
- Cavallari 1979
Oreste Cavallari, Bandiera rossa la trionferà! Rimini 1944-1946, Rimini, Ed. Lettere Storia Arte, 1979. - Faenza 1982
Liliano Faenza, Gli anni della GIL, in «Storie e storia», numero monografico Scuola e fascismo a Rimini negli anni Trenta, 8 (1982), pp. 9-116. - Giardina, Vauchez 2000
Andrea Giardina, André Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2000. - Ghigi 1980
Bruno Ghigi, La guerra a Rimini e sulla Linea Gotica dal Foglia al Marecchia, Rimini, Bruno Ghigi editore, 1980. - Ludwig 2001
Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano, Mondadori, 2001 (I ed. 1932). - Maroni 2014
Oriana Maroni, Le carte della memoria. Immagini e documenti della città in guerra nelle collezioni della Biblioteca Gambalunga, in Rimini 1944-2014 (…) pur l’avvenir siam noi. Racconti di guerra, Rimini, Comune di Rimini, 2014. - Maroni 2018
Oriana Maroni, Le ombre lunghe della nostalgia. Luigi Pasquini, un poligrafo di Romagna, Bologna, Minerva, 2018. - Mercanti 1985
Decio Mercanti, Attività del Comitato di Liberazione di Rimini dalla liberazione al suo scioglimento, in «Storie e storia», 13 (1985), pp. 91-103. - Montanari 1989
Antonio Montanari, Rimini ieri, Dalla caduta del fascismo alla Repubblica 1943-1946, Rimini, Ed. Il ponte, 1989. - Pasquini 1933
Luigi Pasquini, Gli studi e i progetti per la scelta del luogo e per il collocamento della statua in Rimini di Giulio Cesare, Rimini, Comune di Rimini, 1933. - Pollack 2016
Martin Pollack, Paesaggi contaminati. Per una nuova mappa della memoria in Europa, Rovereto, Keller, 2016. - Ravara Montebelli 2010
Alea Iacta Est. Giulio Cesare in Archivio, a cura di Cristina Ravara Montebelli, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2010. - Salvatori 2021
Il fascismo e la storia, a cura di Paola S. Salvatori, Pisa, Edizioni della Normale, 2021. - Susini 2016
Daniele Susini, Sotto l’ombra di un bel fior. Il monumento ai Caduti per la Libertà di piazza Tre Martiri 1946-2016, Rimini, Comune di Rimini, 2016. - Tarquini 2011
Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Bologna, il Mulino, 2011. - Tonini 1873
Luigi Tonini, La Piazza Giulio Cesare nella città di Rimini, Rimini, Tipografia Sigonio, 1873.
Note
1. Archivio di Stato di Forlì (ASFO), Prefettura, Comitato provinciale protezione antiaerea (CPPAA), b. 33, f. 3. Consultabile anche all’indirizzo https://www.anvcgdidatticaperlapace.it/rimini-in-guerra/cronologia.
2. ASFO, Prefettura, CPPAA, b. 33, f. 3.
3. Ibidem.
4. Dati significativi di questa tendenza li possiamo riscontrare nelle due prime libere elezioni tenute dopo la caduta del fascismo, il referendum del 6 giugno 1946 tra monarchia e repubblica e le prime elezioni comunali del 6 ottobre 1946. A Rimini la repubblica vinse con percentuali superiori al 70% in linea con l’intera circoscrizione che vide trionfare il nuovo sistema con oltre 80% delle preferenze [https://bit.ly/3IhreN9], mentre alle elezioni amministrative i comunisti presero il 37,16% e i socialisti il 22,60% in generale il blocco antifascista corrispondente al precedente Comitato di liberazione nazionale conquistò quasi il 90% dei voti [Calbucci, Zaghini 2002, 362].
5. Il ricercatore ha presentato una relazione sul tema Le difficoltà della prima ricostruzione in alcuni comuni del Riminese all’interno del convegno organizzato dall’Archivio di Stato di Rimini, Coltivare la storia e la memoria, a Rimini il 31 gennaio 2015.
6. Questa cancellazione dei simboli fascisti era già iniziata il 25 luglio 1943, giornata in cui avvenne la cosiddetta caduta del fascismo con la deposizione di Benito Mussolini. Presso l’Archivio di Stato di Rimini nel fondo del Comune di Rimini è presente un documento in cui il podestà Bianchini chiedeva la cancellazione dei riferimenti a Mussolini in città, tra cui la stessa scritta presente sul basamento della statua di Cesare «Ex Dono Benito Mussolini».
7. Vedere introduzione al presente dossier.