Sergio Zavoli nasce a Ravenna il 21 settembre 1923, ma trascorre l’infanzia e la giovinezza a Rimini, dove nel 1972 gli viene conferita la cittadinanza onoraria «per essere rimasto sempre riminese, pur non essendo nato in questa città». Dal 1947 al 1962 è giornalista radiofonico della Rai. Per la televisione, chiamato da Enzo Biagi nel 1961, inventa e conduce il Processo alla tappa, trasmissione incentrata sul Giro d'Italia che condurrà fino al 1969. Mentre del 1972 è un altro programma di successo: Nascita di una dittatura.
Dal 1976 al 1980 è direttore del GR1. E dal 1980 al 1986 è presidente della Rai. Agli anni successivi appartengono programmi come Viaggio intorno all'uomo, La notte della Repubblica e Viaggio nel Sud. Dal 1992 al 1995 dirige Tele San Marino, nella sua fase di avvio. Dal 2001, dopo Viaggio nella scuola, si ritira dal piccolo schermo.
Attento alle conseguenze storiche e sociali degli eventi, Zavoli nel corso della sua carriera riesce a restituire al documentario il suo intrinseco valore di testimonianza viva e intensa, facendo scuola per intere generazioni di giornalisti in radio e in televisione.
Tra il 1993 e il 1994 è direttore de “Il Mattino” di Napoli. Nel 1986 riceve la laurea honoris causa in lettere dall'Università di Urbino. Mentre nel 2007 l’Università di Roma gli conferisce la laurea honoris causa in editoria, comunicazione multimediale e giornalismo.
È eletto al Senato nelle liste dei Democratici di sinistra nel 2001, nelle liste dell'Ulivo nel 2006 e nel Partito democratico nel 2008 e nel 2013. Da febbraio 2009 a maggio 2013 è presidente della Commissione di vigilanza Rai.
Nel corso della grande festa di compleanno organizzata per i suoi 90 anni (che ha visto la partecipazione di Ettore Scola e Valter Veltroni), il Sindaco di Rimini ha dichiarato: «Abbiamo voluto questo evento con tutta la passione e l’affetto che meritano i compleanni delle persone speciali, per festeggiare gli splendidi 90 anni di un grande italiano, un italiano speciale, un testimone che sa raccontarci i fatti e i sentimenti della vita con la stessa poesia, con l’incantamento e lo stupore di un bambino e la lucidità di chi vede in profondità prima degli altri».
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Con un’iniziativa editoriale di grande valore etico, oltre che artistico, l’Istituto storico della Resistenza di Rimini ha recentemente affiancato un disegno di Alberto Sughi a un tuo bellissimo testo, dedicato ai Tre Martiri, i tre giovani partigiani impiccati il 16 agosto 1944 nella piazza centrale di Rimini, che da allora ne porta il nome e nel cui ricordo centinaia e centinaia di persone si ritrovano ogni anno senza bisogno di alcuna particolare «promozione». Quanto c’è del ricordo di quei tre ragazzi nella tua ben nota predilezione a preferire l’incontro e il confronto coi giovani, ad ogni 25 aprile? Dopo settant’anni, in che modo la Resistenza può dunque continuare a rappresentare un valore per i giovani d’oggi?
Sergio Zavoli Partirò da una metafora fondata sulla realtà. Rimini ha due bellissime piazze: Giulio Cesare l’una, Cavour l’altra. La prima, nel 1944, vide tre ragazzi appesi a un capestro e il loro fu l’ultimo, tragico grido partigiano contro i tedeschi ormai in rotta, mentre alle porte si annunciava la battaglia per la liberazione di Rimini; la seconda, dopo 70 anni, ha visto un gruppo di amici intorno a due tavolini di un caffè, tra cui Stefano Pivato, Paolo Zaghini e Nando Piccari che aspettavano di mostrarmi una grande novità. Io venivo da Roma, per il 25 aprile, e con i testimoni a me più vicini mi aggiornavo sulle vicende riminesi. La novità, che farà il giro non solo della Romagna e dell’Emilia, fu questa: l’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ndr), falcidiata dall’anagrafe, era rimasta priva – per dir così – di se stessa. In quel tramonto c’era chi vedeva la fine di una storia, insieme, drammatica e vittoriosa, e tutto lasciava temere che se ne sarebbe parlato sempre meno. All’improvviso, ecco la novità: una decina di ragazzi avevano chiesto l’iscrizione a qualcosa che non poteva finire con la vita dei Tre Martiri, e l’Anpi sembrò come rifiorita. Quella mattina, mi sembra adesso, le due piazze si scambiavano una sorta di fratellanza in cui l’una ricordava un ideale e a quell’altra era venuto in mente di farlo durare.
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Nel settembre 1944, alla liberazione di Rimini, avevi 21 anni. Ricordi i tuoi pensieri di allora, in quell’Italia e in quella città distrutte dalla guerra?
S.Z. La guerra aveva distrutto ogni cosa disperdendo una comunità. Quando rientrammo attraverso i varchi aperti dalle granate nella cinta orientale, il rosso degli antichi mattoni romani era il solo colore in una città di calce e di gesso, qua e là alta un metro. Ricordo che per orientarci c’erano i campanili. Fu una specie di epopea silenziosa, chinata sulle macerie.
Che effetto ti ha fatto sentire, in questi decenni, la Resistenza sminuita a «mito resistenziale»?
S.Z. Occorre riandare a quando la città, che tra grandi e piccoli si era presa addosso quattrocento bombardamenti, si rimise in piedi. Sembrò, lì per lì, che vivere e sognare fossero diventati sinonimi. Nacque, sì, anche un sentimento mitico, frutto di una coscienza ritrovata insieme con la retorica, gli orgogli e le ferite che accompagnano, segnandole, le grandi prove.
Poi, sul muraglione della ferrovia, vidi il primo manifesto da morto – Gasperoni Elvira, 63 anni, diplomata ostetrica. Si ricominciava a vivere uno alla volta. Tornava la normalità, nasceva il mito. A casa nostra – dopo il primo bombardamento, che la colpì di striscio – mancavano una porta e un paio di finestre; un vicino con la casa quasi distrutta ci invitò a cercare tra le sue macerie. Stava rinascendo, a suo modo, la comunità, si tornava a mettere in comune quasi tutto.
Hai raccontato tante storie del nostro Paese, ricordane una particolarmente viva nella memoria…
S.Z. Fu, ed è rimasta L’Armata delle valli, un racconto televisivo della guerra nel ravennate degli uomini di Bulow (Arrigo Boldrini, ndr) leggendario comandante di un «esercito» senza stellette che combatté con i nostri, ultimi soldati in divisa e gli Alleati. Erano contadini e studenti, impiegati e operai, e poi le donne che, da come stendevano panni bianchi, segnalavano le mosse dei tedeschi, in un territorio giudicato impenetrabile. L’armata, che conterà centinaia di caduti, nel giudizio degli esperti diventerà «un esempio e una lezione per le scuole militari».
C’è un libro a te caro che racconta la storia, o una storia, della Resistenza?
S.Z. È L’Agnese va a morire di Renata Viganò e Antonio Meluschi. Credo sia il più bel romanzo sulla guerra partigiana, non solo in Italia.
Fellini, di cui sei stato grande amico, ti ha mai espresso una sua qualche opinione sulla Resistenza?
S.Z. Federico rimase al di fuori di una partecipazione attiva alle vicende della guerra. Ne seguiva gli sviluppi, ne capiva ovviamente la gravità e l’orrore, ma a quella tragedia era interessato più per gli aspetti civili, morali e, comunque, umanitari. Quel distacco forse ebbe qualche origine nell’adolescenza, cioè quando la sua notevole magrezza – a scuola lo chiamavano Gandhi – consigliò di risparmiargli l’educazione fisica in palestra e le prove ginniche, comprese nelle «premilitari» del «sabato fascista». Immerso nei suoi sogni, e ormai alle prese con la sua creatività, allo scoppio del conflitto era già a Roma. Quando finirà la guerra saranno chiare le avvisaglie del suo grande cinema. E il suo antifascismo sarà esplicito in Amarcord, a cominciare dalla sequenza del padre che, dopo un interrogatorio, è costretto a ingurgitare l’olio di ricino; ma dedicherà un’ironia dissacrante a ogni rito enfatico, declamatorio, retorico del regime. Per la violenza, di qualunque specie, nutrirà un’avversione istintiva. Non a caso parteciperà alla sceneggiatura di Roma città aperta, di Rossellini; e all’onoranza funebre allestita a Botteghe Oscure in morte di Enrico Berlinguer. «Era una persona che suscitava simpatia e rispetto», dirà accettando l’invito di alcuni amici comunisti, a cominciare dal fedele compagno di lavoro Pietro Notarianni. Il popolo comunista fu grato di quella testimonianza e glielo dimostrò, al di là delle transenne, con un grande applauso.
Bibliografia
- Viganò R. 1949
- L’Agnese va a morire, Torino: Einaudi
- Zavoli S. 1973
- Nascita di una dittatura, Torino: Società editrice internazionale
- Zavoli S. 1981
- Socialista di Dio, Milano: Mondadori
- Zavoli S. 1987
- Romanza, Milano: Mondadori
- Zavoli S. 1992
- La notte della Repubblica, Roma: Nuova Eri
- Zavoli S. 2002
- Diario di un cronista: lungo viaggio nella memoria, Milano: Mondadori
- Zavoli S. 2011
- Il ragazzo che io fui, Milano: Mondadori