*Foto di copertina: Storia in viaggio. Da Fossoli a Mauthausen edizione 2018 [Archivio fotografico Centro studi e documentazione-Fondazione Fossoli]
Dal 2005 la Fondazione Fossoli è impegnata nella realizzazione di un progetto didattico volto a accompagnare studenti e studentesse degli istituti superiori della provincia di Modena (nel complesso 32 scuole) a conoscere l’universo concentrazionario. Dal 2005 al 2016 il progetto ha avuto per titolo Un treno per Auschwitz e la destinazione è stata il complesso di Auschwitz-Birkenau; dall’anno scolastico 2016-2017 il progetto porta invece il titolo Storia in viaggio. Da Fossoli a Mauthausen e destinazione sono le città di Monaco e di Linz, Dachau, Mauthausen e i suoi sottocampi Gusen e Ebensee e il castello di Hartheim. Nella scia della scelta della Fondazione, emerge una riflessione sul rapporto tra luogo, storia, didattica e costruzione della memoria delle nuove generazioni che può contribuire a considerazioni sul viaggio di memoria in quanto «atto [volto a] definire e costruire uno sguardo sul passato prossimo che si ritiene utile o indispensabile per il presente» [Bidussa 2015, 17].
1. Un treno per Auschwitz
La prima edizione di Un treno per Auschwitz è del 2005: a quella data “Auschwitz” è ormai un toponimo noto anche nel nostro paese che, entrato nell’uso, funziona come simbolo della deportazione all’interno della memoria collettiva italiana [Gordon 2013]. Anche in Italia è diventato uno di quei nomi di luogo attraverso cui si nominano gli eventi e in cui si rispecchia quella convinzione per cui «il luogo sembra permettere di conferire “veridicità” al ricordo […] semplicemente c’è, si può vedere, si può toccare, si può percorrere» [Pirazzoli 2010, 44]. Potremmo forse dire che, consapevolmente o meno, il progetto Un treno per Auschwitz, come altri che in quegli anni sono stati avviati nel nostro paese, è stato uno di quegli atti collettivi con cui si è cercato di radicare, nella coscienza dei più giovani, un’acquisizione della memoria collettiva relativamente recente per l’Italia. Varrà quindi la pena soffermarsi su come Auschwitz si è andato costruendo in quanto luogo di memoria per considerarne l’interazione con il progetto Un treno per Auschwitz.
1.1. Il luogo, la sua memoria e il viaggio
Il 2 luglio 1947 il governo polacco vara una legge con la quale designa il complesso di Auschwitz-Birkenau a monumento statale commemorativo del «martirio del popolo polacco e degli altri popoli». Il perimetro ufficiale del museo nazionale comprende Auschwitz I e Auschwitz II - Birkenau; Auschwitz III - Monowitz (l’Auschwitz di Primo Levi) è escluso dall’area e da qualsiasi vincolo conservativo: la fabbrica chimica, durante la guerra di proprietà dell’IG Farben, è rimasta una delle industrie chimiche più importanti del paese e il ritmo del lavoro intorno ad essa ha escluso da sempre quello degli atti commemorativi.
Al momento della fondazione del museo nazionale, l’impostazione memoriale ruota intorno a due assi principali: la declinazione nazionale e la lotta contro il nazifascismo. Ad Auschwitz I le baracche vanno organizzandosi per ospitare, oltre all’archivio e alla biblioteca, un’esposizione generale sulla storia del campo e successivamente quelle nazionali sulla storia delle deportazioni dai vari paesi. L’internazionalizzazione della memoria del campo consolida e rispecchia un paradigma di lettura antifascista: secondo le abitudini memoriali del dopoguerra, la Resistenza è il prisma attraverso cui si guarda la deportazione, legandola alle storie nazionali, promuovendo il deportato politico a simbolo di tutti i deportati e lasciando nell’ombra la deportazione razziale. È in questo quadro memoriale che dagli anni Sessanta iniziano ad aprirsi le prime esposizioni nazionali e, all’inizio dei Settanta, l’Associazione nazionale ex deportati (Aned) avvia la procedura per realizzare un’esposizione italiana in «onore di tutti gli italiani caduti in tutti i campi di sterminio» [Maris 1980]: significativamente la discussione aperta all’interno dell’Aned a proposito della realizzazione di un padiglione italiano mette in evidenza la consapevolezza condivisa tra i soci che quel campo è uno dei meglio conservati, in grado di dare a vedere la complessità dell’universo concentrazionario e per questo destinato a diventare in futuro luogo di visite sempre più frequenti [Ruffini 2009]. Se è nella scia di questa consapevolezza che l’Aned realizza il memoriale italiano affidandosi non a una esposizione documentaria, ma al gesto artistico considerato segno più efficace a perpetuare la voce di sopravvissuti, tale consapevolezza è profetica e la sorte del memoriale esplicativa dell’evoluzione della politica di memoria del museo di Auschwitz.
Il memoriale è installato nel 1979 e inaugurato nell’aprile del 1980: agli occhi delle autorità polacche, l’opera, che è una vera e propria installazione site specific ante litteram, appare «bell[a], ma incomprensibile». Quello spazio strutturato come una spirale da Lodovico Belgiojoso è un atto di memoria che crea una situazione dissonante e non conforme con le abitudini memoriali del tempo, ma capace di assumere l’ufficialità del discorso memoriale, declinandola in maniera unica e originale [1]: un laboratorio di memoria, non certo il copione rigido per una lettura univoca della storia.
Dieci anni dopo l’inaugurazione del memoriale e quindici prima del primo arrivo di Un treno per Auschwitz da Carpi, il museo avvia una riflessione sul bisogno di un ammodernamento del luogo in sintonia con il nuovo panorama memoriale europeo e internazionale. Quando vi giungono i primi studenti accompagnati dalla Fondazione Fossoli lo spazio del museo è un luogo stratificato da processi di memoria in cui orizzonti memoriali passati e presenti creano tensioni, chiare agli organizzatori, più o meno percepibili dagli studenti, che pur vi sono immersi con la loro sfrontata voglia di conoscenza.
Negli anni Novanta, la Shoah si è ormai imposta come prospettiva attraverso cui leggere l’intero universo concentrazionario, mentre il paradigma antifascista declina giorno dopo giorno: l’ammodernamento del museo di Auschwitz è impostato su una rilettura della storia del campo centrata sulla Shoah, nello stesso momento in cui gli importanti cambiamenti politici europei non solo ne influenzano inevitabilmente le scelte, ma per alcuni anni lasciano nello stesso spazio museale tracce cariche degli stravolgimenti che hanno cambiato il volto dell’Europa (un solo esempio: non esisteva più la Jugoslavia, ma continuava ad esserci il memoriale jugoslavo). In questo clima di ammodernamento, il memoriale italiano diventa un intralcio per tutti; è malvisto dalla Polonia, che sente come simboli di un passato da dimenticare le immagini che rimandano al partito e alla Resistenza comunisti, senza rendersi conto del dialogo che queste instaurano con altre che evocano altri attori e vittime della lotta antifascista (tra gli altri il mondo cattolico, i sindacati e gli “ebrei”); è abbandonato da un’Italia in cui l’indifferenza per il passato propria degli anni Ottanta ha aperto la strada al revisionismo degli anni Novanta, di fronte al quale ci si rifugia nell’organizzazione dei rituali della memoria di cui i viaggi sono parte integrante [Pisanty 2020].
Nel 2005, quando nasce Un treno per Auschwitz l’Italia, dopo un interessante dibattito parlamentare ha istituito da qualche anno il Giorno della memoria proprio nella data della liberazione del campo di Auschwitz, il 27 gennaio: è stato per l’Italia un passo importante, che nel 2001 ha riempito un vuoto di memoria poiché, a differenza di altri paesi, il nostro non aveva mai avuto una giornata espressamente dedicata alla deportazione, e nello stesso tempo ha esplicitato una sensibilità che si sarebbe riconfermata nel 2002 con l’istituzione in ricorrenza del 27 gennaio della Giornata della memoria dell’Olocausto e della prevenzione dei crimini contro l’umanità da parte del Parlamento Europeo e, nel 2005, della Giornata internazionale in ricordo delle vittime dell’Olocausto da parte dell’Onu.
Il progetto Un treno per Auschwitz si muoveva in sintonia con il panorama memoriale che l’Italia si stava costruendo in quanto paese europeo legato per tradizione a quello che si dice l’Occidente: il viaggio era promosso con la collaborazione e la partecipazione delle istituzioni – la Regione Emilia Romagna e gli otto Comuni capo distretto della Provincia: Carpi, Castelfranco Emilia, Finale Emilia, Mirandola, Modena, Pavullo, Sassuolo e Vignola – e realizzato grazie al contributo fondamentale delle quattro fondazioni bancarie presenti sul territorio provinciale [Mantovani 2015]. La presenza attiva di questi soggetti istituzionali era stata cercata come garanzia di radicamento del progetto sul territorio e nello stesso tempo era concreta testimonianza dell’impegno delle istituzioni nel far crescere un sentimento di cittadinanza consapevole dello spazio che si abita e dei processi storici che lo hanno attraversato, lo hanno legato ad altri luoghi e inserito nel contesto politico contemporaneo.
Certo, non va nemmeno dimenticato che per la Fondazione Fossoli la scelta della destinazione di Auschwitz non è mai stata solo il riflesso automatico di un orizzonte memoriale, ma corrispondeva pur sempre alla scelta della meta a cui storicamente erano diretti il maggior numero dei treni preparati nel campo di transito di Fossoli e partiti dalla stazione di Carpi. Va allora sottolineata una mossa compiuta dalla Fondazione, costosa in termini di organizzazione, ma ricca in termini simbolici. Fossoli e Carpi non sono toponimi parlanti per la collettività italiana né tanto meno simboli della sua memoria collettiva – forse lo sono stati, ma non lo erano più nel 2005: con il viaggio diventavano invece il punto di partenza per Auschwitz per partecipanti provenienti da tutto il territorio provinciale. Il treno li ha sempre aspettati nella stazione di Carpi nel cui piazzale erano salutati dalle autorità. Si trattava certo di ripetere filologicamente l’itinerario compiuto dai deportati, ma anche di far confluire in un luogo ai margini dei circuiti memoriali tutti i partecipanti evidenziando il valore memoriale del luogo con la presenza fisica di uomini e donne (studenti, studentesse e insegnanti) che conoscevano l’evento di cui il loro essere lì intendeva riattivare il ricordo.
Agli occhi di tutti i partecipanti o dei passanti casualmente spettatori della partenza la stazione di Carpi non sarebbe mai più stata solo la stazione che si attraversa di corsa in cerca di una coincidenza o si vede dal finestrino di un treno che porta altrove. Del resto, anche per i rappresentanti delle istituzioni chiamati a intervenire, la trasferta ha finito per funzionare come un vis à vis con un luogo di cui anche a loro, proprio in quanto amministratori, era affidata la cura.
1.2. Scelte e modalità di viaggio
Nella scia di queste osservazioni possiamo allora rilevare alcune caratteristiche e modalità più generali del progetto Un treno per Auschwitz.
Innanzitutto gli obiettivi che la Fondazione Fossoli ha dal 1996, anno della sua istituzione, pongono al centro la storia come perno attorno al quale costruire la valorizzazione del campo e il dialogo con il pubblico. Così la Fondazione li sintetizza sul suo sito:
la diffusione della memoria storica mediante la conservazione, il recupero e la valorizzazione dell’ex campo di concentramento di Fossoli; la promozione della ricerca storico-documentaria sul Campo di Fossoli nelle sue diverse fasi di occupazione; la progettazione e l’attivazione di iniziative a carattere divulgativo, didattico e scientifico, rivolte in particolare alle scuole e ai giovani, negli ambiti di competenza propri della Fondazione, nonché dei diritti umani e dell’educazione interculturale.
Non stupisce quindi che la cura per la conoscenza storica sia stata un elemento fondamentale del progetto: l’attivazione di percorsi formativi specifici per i docenti e per gli studenti testimonia della volontà di garantire una capillare occasione di approfondimento dei temi storici in cui si radicava la proposta del viaggio. Per gli insegnanti l’incontro con «storici e studiosi italiani e stranieri di altissimo livello scientifico» era l’occasione di approfondire metodi e conoscenze; per gli studenti l’obbiettivo era assicurare a ciascun viaggiatore «l’acquisizione di conoscenze essenziali rispetto al tema della Shoah» [Mantovani 2015, 128].
Se la conoscenza storica era un preliminare indispensabile, il viaggio apriva però a una dimensione esperienziale ed emozionale in cui la conoscenza diventava il trampolino per pratiche didattiche e formative che la trascendevano ampiamente. Gli organizzatori, consapevoli che per conoscere la storia della Shoah non c’è bisogno di andare ad Auschwitz [Mantovani 2015], avevano concepito il viaggio come un contenitore di esperienze capaci di attivare le competenze trasversali, per dirla in termini scolastici, necessarie per costruire la memoria.
Il viaggio diventava occasione per un percorso lungo l’intero anno scolastico e si concretizzava al momento del trasferimento in Polonia in un «vero e proprio “laboratorio itinerante”, un laboratorio di storie e di memorie a confronto e di scambio intergenerazionale» [Mantovani 2015, 127]. Insieme agli studenti sul treno viaggiavano «anche scrittori, giornalisti, studiosi, musicisti e adulti che a vario titolo chied[evano] di partecipare»: tutti mettevano a disposizione il loro sapere e le loro competenze per «condividere con i ragazzi questo viaggio nelle memorie e per la memoria» [Mantovani 2015, 127]. Viaggio nelle memorie e per la memoria, Un treno per Auschwitz dimostrava nei fatti quanto la memoria è costruzione delle forme con cui intendiamo raccontare il passato nel presente: l’offerta formativa, attenta ai diversi linguaggi e alle loro potenzialità, era garantita dal coinvolgimento di figure professionali che, condividendo con i ragazzi il viaggio, ai ragazzi offrivano le competenze specifiche del loro sapere fare. Fotografi e videomaker professionisti e gli scrittori Carlo Lucarelli e Paolo Nori si sono negli anni avvicendati nel progetto, coinvolgendo studenti e studentesse in workshop che, avviati prima del viaggio, durante il viaggio diventavano per i ragazzi occasione di attraversare i luoghi con una doppia consapevolezza: non solo quella storica acquisita nel percorso formativo, ma anche quella – inevitabile, ma non scontata – della forma da dare all’esperienza che si stava vivendo per renderla ricordo in grado di essere condiviso e comunicato agli altri. Inutile dire che la partecipazione agli workshop era volontaria e la scelta del tutto dipendente dalla sensibilità specifica a ciascun viaggiatore; importante aggiungere che dal 2006 i risultati di questi percorsi sono stati raccolti e presentati in un unico contenitore dal significativo titolo Obbiettivo memoria. Attraverso le realizzazioni dei ragazzi (tra cui nel 2015 Silvia Mantovani segnalava come uno tra i più originali il Videodizionario della Shoah) l’esperienza del viaggio era condivisa ogni anno all’interno della comunità, in primis scolastica, ma non solo, e studentesse e studenti diventavano attori di memoria attiva, narratori del passato e nello stesso tempo dell’esperienza che nel presente li aveva avvicinati a quel passato.
È importante allora sottolineare che l’atto di memoria che la Fondazione Fossoli proponeva con il progetto Un treno per Auschwitz pareva proprio inserirsi nella scia di quel lavoro intrapreso dai sopravvissuti italiani sui simboli e sugli stereotipi memoriali per costruire una memoria condivisa e originale, vale a dire nello stesso tempo di tutti e specifica a ciascuno e forse proprio per questo critica, capace cioè di rapportarsi con autonomia al presente, ai suoi modi di vivere e di pensare. Ai nostri occhi il progetto pareva attraversato da quello spirito per cui alla pagina di storia ordinata in una mostra documentaria i sopravvissuti avevano più volte preferito la ricerca delle forme per dire il passato, la bellezza “incomprensibile” del gesto artistico che parla a tutti e interroga ciascuno individualmente.
Viene spontaneo osservare che del resto la Fondazione è custode tanto del campo di Fossoli che del Museo Monumento al deportato politico e razziale di Carpi e così rilevare il peculiare rapporto costruito dalla Fondazione con il luogo Auschwitz.
Da una parte, la visita al complesso di Auschwitz-Birkenau era proposta su due giorni, il primo ad Auschwitz I e il secondo ad Auschwitz II: l’attraversamento del luogo stratificato di memoria era scisso da quello che, almeno per le prime edizioni del progetto, si poteva definire luogo vuoto, senza percorsi di visita prestabiliti, “nudo” per dirla con Elena Pirazzoli [Pirazzoli 2010]. Tornare al museo il giorno dopo la prima visita a Auschwitz I e attraversare due volte la cittadina di Oświęcim permettevano di calare il simbolo Auschwitz in una quotidianità che, seppur solo accennata, lo rendeva luogo con una propria vita intorno. Il viaggio della Fondazione non ha mai previsto, come del resto nessun altro viaggio organizzato dall’Italia, una visita a Oświęcim o un attraversamento consapevole del territorio di quello che era il distretto di Oświęcim, di cui la zona oggi occupata dal museo era solo una parte, e anche le veloci soste del pullman davanti al monumento in ricordo dei deportati di Monowitz sono state ben presto vietate dalle autorità polacche. Eppure, quel ritornare al museo, sostare nei luoghi, ha sempre contribuito a collocare l’Auschwitz visitato dentro la storia del territorio che lo circonda, in cui i segni del volgere degli anni e dei cambiamenti politici sono sempre stati evidenti: pur se implicitamente, il luogo simbolo diventava luogo reale sulla cui storia in quanto museo i più curiosi non mancavano di porre domande. Il ritorno sui luoghi ne favoriva la sedimentazione come se ciascuno fosse stimolato a considerare che per ricomporre la storia di un luogo così complesso fosse necessario interrogarlo da più punti vista, creando un montaggio sempre diverso per attraversarlo: come veri viaggiatori, muniti di una guida come quella di Carlo Saletti e Fedriano Sessi e «invitati a crearsi collegamenti, a prodursi un esercizio di montaggio: fatti, luoghi, date possono essere assai utilmente incrociati per favorire la conoscenza dei fenomeni» [Saletti e Sessi 2011, 9].
Se poche sono state le edizioni di Un treno per Auschwitz che hanno previsto la visita al memoriale italiano, chiuso dal 2008, molte sono state quelle che, dopo l’immersione nei blocchi dell’esposizione generale, hanno contemplato quella nei blocchi considerati dalla direzione esempi riusciti dell’ammodernamento intrapreso: il padiglione ungherese e quello israeliano. La visita guidata in Auschwitz I portava a confrontarsi con il luogo che andava riorganizzandosi secondo le nuove politiche memoriali, ma quella a Auschwitz II - Birkenau obbligava a fare i conti con i silenzi carichi di storie che solo alcuni luoghi riescono a conservare.
Auschwitz II - Birkenau, luogo nudo per eccellenza, almeno ai tempi delle prime edizioni, diventava il contesto ideale dove la Fondazione riusciva a ritagliarsi lo spazio per una cerimonia tutta sua, in grado di interpellare il luogo nella sua stratificazione di tempi e di storie: studenti e studentesse erano così protagonisti di un atto di memoria che in quel luogo silente risuonava come un mormorio capace di creare una dimensione di intimità di fronte alla vastità smisurata dello spazio circostante. Ogni anno la celebrazione era diversa perché ragazzi e ragazze erano diversi e, chiamati a diventare in quel luogo vuoto protagonisti di memoria, erano spinti a cercare dentro di sé le ragioni del loro viaggio.
E proprio l’intreccio tra dimensione collettiva e individuale, ufficiale e intima, uguale per tutti e personale, rendeva il viaggio un laboratorio alla ricerca di un equilibrio non scontato tra riti della memoria standardizzati e acquisizione personale del passato.
2. Storia in viaggio: da Fossoli a Mauthausen
2.1 Una scelta
Proprio la fragilità di un tale equilibrio ha portato la Fondazione a compiere una scelta controcorrente e non scontata da realizzare: all’inizio dell’anno scolastico 2016-2017, dopo 12 edizioni di Un treno per Auschwitz e oltre 7.000 studenti e 600 insegnanti accompagnati in Polonia, in un momento in cui Auschwitz è incontestabilmente per tutti il simbolo della deportazione, capace da solo di esprimere una sensibilità storica e una volontà d’impegno nel presente, la Fondazione ritiene arrivato il momento di «dare nuova vita al progetto» [Luppi 2016]. E le novità che si intendono introdurre sono di quelle così in dissonanza con l’orizzonte d’attesa degli interessati al viaggio che possono addirittura rischiare di comprometterne la riuscita.
Gli anni d’intenso lavoro con gli istituti della provincia di Modena hanno però costruito intorno alla Fondazione una rete solidale d’insegnanti che condividono con questa una riflessione consapevole sul ruolo di adulti impegnati nel formare le nuove generazioni. D’altra parte, l’attenta opera di valorizzazione del campo di Fossoli ha dato i suoi frutti: tante le iniziative e i rapporti istituiti negli anni dalla Fondazione, che sono qui impossibili da enumerare, ma che per il nostro discorso possono essere sinteticamente evocati nella nomina nel 2017 di Maria Cleofe Filippi a presidente della rete Paesaggi della memoria, dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione e della liberazione in Italia. È certo esagerato dire che Fossoli si impone ormai come toponimo simbolo anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, degli studiosi, degli insegnanti e studenti più accorti, ma è sicuro che gli anni di lavoro sulla storia del luogo, sulla sua promozione anche fuori dall’Italia, sulla didattica e sulla formazione degli insegnanti hanno portato la Fondazione Fossoli ad avere la forza di proporre idee che non solo rispecchiano intelligentemente l’esistente, ma hanno l’ardire di modificarne gli equilibri.
Le ultime edizioni del viaggio, a fronte dell’entusiasmo dei giovani partecipanti, avevano evidenziato agli occhi degli organizzatori, degli insegnanti più sensibili e degli studiosi coinvolti una saturazione di memoria che rendeva quasi impossibile costruire un rapporto personale con il luogo necessario per mantenere quell’equilibrio, fragile ma fondamentale, tra il simbolo/stereotipo collettivo e l’esperienza individuale della memoria del passato. «Già prima del decennale del Treno – ricorda oggi Marzia Luppi, direttrice della Fondazione, intervistata al proposito per quest’articolo – avevamo notato una certa abitudine al viaggio e una progressiva diminuzione di interesse, accompagnate dal fatto che ormai tutti andavano a Auschwitz e che la meta nella sua scontatezza rischiava di perdere efficacia formativa e riflessiva».
È così che con il suo esaurirsi l’esperienza di Un treno per Auschwitz induce a riflettere su quanto l’esposizione di Auschwitz come simbolo della deportazione all’interno della percezione collettiva abbia finito negli anni per renderlo non solo un luogo dell’immaginario già visto e in qualche modo attraversato prima ancora di essere concretamente visitato, ma anche accecante, che rischia di occupare con la forza del simbolo ogni spazio dell’immaginazione e della curiosità di chi guarda. Da una parte risultava sempre più chiaro – dalle fotografie, dai commenti, dalle emozioni provate – che studenti e studentesse più che lasciarsi interrogare dal luogo ne ricercavano l’immagine già conosciuta, particolari e prospettive già familiari; dall’altra parte, il passare degli anni ha dimostrato a diversi livelli che la centralità di Auschwitz, se ha riportato l’attenzione sulla deportazione razziale, relegata per anni nell’ombra dell’indifferenza e della dimenticanza, schiacciata nel cono d’ombra del simbolo della deportazione politica, non ha portato invece a costruire una visione complessa dell’universo concentrazionario e delle sue diverse e intrecciate dinamiche storiche: abbiamo assistito a una sostituzione di simboli (da quello della deportazione politica a quello della deportazione razziale), non alla costruzione di un immaginario capace di riflettere l’intreccio di storie e prospettive diverse.
Di fronte a questa situazione la Fondazione è ripartita dalla sua storia e dalla centralità della storia nella sua missione: era chiaro che non si trattava di rimettere in discussione l’impianto metodologico, ma di riconsiderare il prisma attraverso cui vedere l’universo concentrazionario per introdurre una novità importante. All’interno della consolidata struttura didattica/esperienziale del progetto, si è imposto un cambio di destinazione, radicale e carico di conseguenze nell’approccio e nell’esperienza del viaggio.
È il caso di notare che la Fondazione non ha mai pensato di rinunciare alla realizzazione del viaggio, né di modificarne la metodologia che si è andata sviluppando nel tempo sui tre assi della conoscenza, dell’esperienza del luogo e del coinvolgimento degli studenti; ha invece continuato a credere che la finalità ultima del lavoro sia quella di «aiutare gli studenti a comprendere il passato perché affrontino con maggiore consapevolezza il presente» [Luppi 2016]. È allora importante sottolineare che il cambiamento a partire dalla conoscenza della storia del campo di transito di Fossoli deriva dalla volontà di recuperare la dimensione complessa del fenomeno della deportazione, letta nel più grande quadro della repressione nazifascista sotto il Terzo Reich.
Nella storia di Fossoli la Fondazione ha trovato le ragioni con cui riformulare una proposta del viaggio, senza paura invitando studenti e studentesse in un percorso non solo lontano dai classici itinerari memoriali, ma su luoghi di memoria che non sono scontati a priori dell’immaginario di ciascuno e in alcuni casi hanno persino bisogno di uno sguardo informato per farli vivere come luoghi di memoria.
Il sapere storico acquisisce così un ruolo centrale in un viaggio in cui nulla può essere dato per conosciuto: Dachau, Mauthausen e Gusen sono stati toponimi familiari per la collettività italiana, ma privi di qualsiasi eco tra i giovani; il castello di Hartheim o Ebensee restano per i più nomi privi di significato; e non è certo per scoprire le tracce del nazismo che normalmente si pensa a una visita a Monaco o Linz. La nuova proposta invita a un viaggio che è incontro con tracce da riattivare attraverso la conoscenza perché diventino tasselli nella costruzione di una memoria capace di disarticolare la ricostruzione univoca della storia o la sua riduzione a simbolo. In questo modo la Fondazione ha voluto aprirsi «a realtà storiche e culturali diversificate» portando i partecipanti al viaggio ad attraversare luoghi diversi per «dare conto della complessità del fenomeno della deportazione, delle sue molteplici diramazioni e sfumature» [Luppi 2016]. Non si è trattato solo di mettersi ai margini del panorama memoriale per ritrovare posti nudi di memoria, ma di riconsiderare l’equilibrio tra i luoghi nella definizione dell’universo concentrazionario, come a cercare di fare emergere in ciascun viaggiatore la consapevolezza del progetto generale nazifascista per l’Europa, progetto che il sistema concentrazionario rispecchiava.
Significativamente il viaggio ha quindi cambiato nome: non più Un treno per Auschwitz, ma Storia in viaggio. Da Fossoli a Mauthausen. Da un’idea di viaggio come spostamento per raggiungere una meta scelta per il suo valore simbolico si è passati a quella di viaggio come itinerario che si svolge lungo una serie di tappe, quasi a scandire per capitoli una storia da recuperare dentro il tessuto dell’Europa. Le nuove mete inserite – Monaco, Dachau, Mauthausen, Gusen, Linz, il castello di Hartheim, Ebensee – formano una costellazione di senso che introduce nel rapporto con il luogo anche il fattore tempo, evidenziando il sistema concentrazionario come sistema in continuo cambiamento. L’approfondimento della storia deve obbligatoriamente accompagnare lo svolgimento del percorso, perché si tratta di confrontarsi con una storia ai margini di quelle conoscenze pregresse che l’essere cittadini e cittadine di un paese inevitabilmente deposita in ciascuno.
Inevitabilmente anche la modalità per raggiungere i luoghi e il tempo del viaggio sono cambiati: non più un unico treno, dove viaggiavano insieme tutti i partecipanti, ma nove-dieci pullman, ognuno una micro-comunità all’interno della quale operatori della Fondazione, storici e insegnanti hanno il compito di attivare scambi, processi di conoscenza e di interazione tra e con gli studenti. Non più due giorni di viaggio tra andata e ritorno e la permanenza di altri due a Cracovia (base per la visita in pullman al complesso di Auschwitz), ma cinque giorni con soste in diverse località.
La scelta del cambiamento non è stata per nulla scontata e, prima di passare a considerare alcune specificità del progetto, sembra importante almeno accennare alle resistenze che la Fondazione e la sua direttrice hanno incontrato da parte tanto di studenti e studentesse, delusi di non andare più ad Auschwitz, che di alcuni adulti coinvolti.
Consapevole dell’inattualità della scelta, Marzia Luppi ne ha verificato attentamente la fattibilità, andando più volte sui luoghi insieme ad alcuni storici che poi avrebbero accompagnato gli studenti, incontrando gli operatori di enti, musei per valutare l’impatto del cambiamento su quanto del progetto è da sempre considerato il nocciolo fondamentale: la formazione e il lavoro attivo degli studenti. Ha relazionato le ragioni del cambiamento ai partner che nel loro insieme hanno garantito il loro sostegno, in alcuni casi venuto meno o ridimensionato nel tempo per ragioni diverse. Ha lanciato la sfida agli insegnanti chiedendo loro un maggiore coinvolgimento diretto e agli studenti un salto al di là del loro immaginario per renderlo forse più ricco. L’aspetto economico l’ha aiutata nella difficile opera di persuasione: i costi per il viaggio ad Auschwitz, e soprattutto per il treno – che, si ricordi, nelle ultime edizioni doveva essere affittato dalle ferrovie tedesche, le uniche a mettere a disposizione treni charter per i viaggi della memoria in Europa – erano negli anni andati aumentando a discapito dei fondi stanziati per la formazione tanto dei docenti che degli studenti.
Nella prima edizione del nuovo progetto le adesioni di studenti e studentesse sono state scarse e i partecipanti meno di 300, persuasi quasi uno ad uno; già dalla seconda edizione, complici il passaparola dentro le scuole e i lavori di restituzione previsti anche dalla nuova formula, i numeri però hanno cominciato a salire per arrivare ai 500, e soltanto 500 perché contingentati, dell’edizione 2019.
2.2. Il progetto
Per riflettere su alcune peculiarità del nuovo progetto ci sembra importante partire dal considerare l’area attraversata in quanto luogo di memoria.
Sarà bene non dimenticare che la prima notizia arrivata in Italia dai Lager dopo la fine della guerra e condivisa da tutta la collettività è la lista dei nomi di sopravvissuti italiani di Mauthausen e dei suoi sottocampi, letta alla radio e riportata sui giornali nei primi giorni del mese di giugno 1945, in concomitanza con l’arrivo di una delegazione di sopravvissuti da là partita per sollecitare le autorità italiane a occuparsi del rimpatrio degli ex deportati che nei Lager attendevano liberi, ma distrutti nel corpo e nell’anima.
Nel clima dell’immediato dopoguerra Mauthausen e i suoi sottocampi diventano presto un simbolo nella lettura della deportazione nella scia della Resistenza; non possiamo forse parlare di simbolo unico, perché in un paese cattolico come l’Italia non si manca certo di ricordare Dachau, destinazione di molti sacerdoti condannati per la loro azione antifascista. E se è vero che l’immagine della scala di Mauthausen valeva allora come oggi l’immagine del cancello di Auschwitz I o dell’ingresso di Birkenau, c’è anche un altro motivo del radicamento di quei luoghi nella coscienza collettiva italiana.
Mauthausen e i suoi sottocampi e, anche se in misura minore, Dachau erano stati la destinazione assegnata prevalentemente alla deportazione politica italiana e nell’immediatissimo dopoguerra diventano subito meta di viaggi di molte famiglie alla ricerca dei propri congiunti o almeno dei loro resti. In particolare sono spesso le donne, le mogli dei deportati che, rimaste sole a prendersi cura dei figli e senza notizie del proprio marito da mesi, si mettono in viaggio verso quei campi per sapere e per capire. È significativo che la prima visita compiuta da familiari a Mauthausen sia stata fatta da Hilda Lepetit che individuò a Ebensee la fossa comune dove probabilmente riposava il marito Roberto e lì fece erigere un monumento. Progettato da Giò Ponti e inaugurato nel 1948 è costituito da una semplice croce sul cui basamento è incisa la frase:
Al marito qui sepolto – compagno eroico dei mille morti che insieme riposano – e dei milioni di altri martiri di ogni terra e di ogni paese – affratellati dallo stesso tragico destino – una donna italiana dedica – pregando perché così immane sacrifizio – porti bontà nell’animo degli uomini.
Il gesto di una donna italiana va strutturando il primo segno intorno cui si catalizza la memoria del luogo (qui vengono raccolte le salme da altri cimiteri della zona e gli italiani sono traslati vicino al monumento Lepetit), nello stesso momento in cui l’urbanizzazione del dopoguerra assorbe e cancella i resti del campo. Se è vero che Mauthausen è dichiarato monumento pubblico dal 1949, lo spazio occupato dal campo di Gusen subisce la stessa rapida urbanizzazione di Ebensee e solo un intervento dell’Aned, in collaborazione con i sopravvissuti francesi, salva l’area del crematorio e lo converte in memoriale grazie all’intervento dello studio BBPR [2]. Anche il castello di Hartheim, come in parte anche Dachau, vedono nel dopoguerra un riutilizzo che fatica a convivere con la memoria del luogo. Lo sviluppo delle politiche della memoria in questi luoghi è un argomento affascinante che porterebbe lontano, ma ora ci interessa di più avanzare un’osservazione generale: l’area toccata dal viaggio, non più al centro del panorama memoriale contemporaneo, conserva tuttavia le tracce di una volontà di memoria in cui lo slancio a costruire un posto alla deportazione all’interno della coscienza collettiva italiana si intreccia con l’intimità di una ricerca e di un ricordo personali. L’affastellarsi di fotografie e lapidi su una faccia del muro che costituisce il monumento italiano eretto nell’area del campo di Mauthausen destinata a quelli nazionali e le varie targhe in memoria deposte intorno al crematorio di Gusen e nel cortile del castello di Hartheim testimoniano con evidenza che nel nostro paese la memoria della deportazione nasce dal basso, grazie a un esercizio di memoria attiva ante litteram, capace di unire bisogno di conoscere e fantasia delle forme del ricordo.
È proprio l’interazione con questi luoghi che evidenzia alcune caratteristiche implicite al progetto di viaggio che la Fondazione propone.
L’assodato impianto metodologico che sta alla base anche di Storia in viaggio. Da Fossoli a Mauthausen trova eco nei luoghi visitati e l’esperienza del viaggio diventa conoscenza contemporaneamente del fenomeno complesso della deportazione e della costruzione della sua memoria: sfasati rispetto alle abitudini memoriali contemporanee, i luoghi attraversati obbligano a inserirle in un processo temporale, nello stesso momento in cui riportano la deportazione dentro al quadro politico dell’Europa nazifascista.
Significativa a questo proposito la visita a Monaco e a Linz. Grazie all’impegno della Fondazione, dei suoi storici e dell’agenzia di viaggio (che, si noti, è la stessa Fabello organizzatrice dei primi pellegrinaggi in questi luoghi poiché fondata da un ex deportato) è proposto un percorso sui luoghi del nazismo, la cui definizione è stata occasione di approfondire le proprie conoscenze anche per le guide locali, abituate a ben altri itinerari. Durante il viaggio, l’attraversamento del tessuto urbano di città normali della nostra Europa rimanda così a una storia che non solo contestualizza quella dei Lager che si visitano, ma crea legami tra lo spazio del luogo di memoria e quello della vita quotidiana. D’altra parte, la visita a queste città, mentre allena lo sguardo e fa crescere in ciascuno la capacità di cogliere le tracce del passato, insegna a esercitare un’archeologia del tempo presente che mette a nudo quanto la memoria del nazifascismo sia, troppo spesso, cancellata dal tessuto urbano europeo e finisca per essere relegata a luoghi di memoria specifici che inevitabilmente si riflettono come parentesi, sia spaziali che temporali, nella coscienza di ciascuno.
In secondo luogo, il filo rosso che lega i Lager visitati al resto del tessuto urbano rafforza il legame con il campo di Fossoli. Ancora una volta è interessante osservare come la Fondazione abbia scelto il luogo di partenza indipendentemente da ogni logica organizzativa, ma dentro una piena consapevolezza del valore simbolico dei gesti: il nuovo progetto prevede la partenza dal campo di Fossoli, dove certo non è semplice far stazionare nove-dieci pullman, ma dove le parole dei saluti delle autorità acquistano sempre un’altra eco, quasi che il luogo richiamasse tutti, le stesse autorità in primis, a una certa misura, a quel contegno che nasce dalla necessità di fare i conti con la realtà dell’esperienza vissuta.
Interessante allora osservare che la cerimonia finale del viaggio, che si svolge a Ebensee, si ricollega idealmente a Fossoli proprio attraverso una riflessione sulle parole usate dai testimoni per raccontare: al momento della partenza, su ogni pullman vengono distribuiti i testi delle frasi dei condannati a morte incise sui muri del Museo Monumento al deportato politico e razziale di Carpi e si affida ai partecipanti il compito di sceglierne una e farne un commento, in gruppo o individualmente, da consegnarsi prima della penultima notte di viaggio. Tra questi commenti gli organizzatori ne scelgono una decina che autori e autrici leggono nella cerimonia a Ebensee. Il luogo e la modalità della lettura sono altrettanto significativi dello spirito con cui è concepito l’intero progetto: se la neve lo permette, le frasi vengono lette davanti all’ingresso della galleria di Ebensee, ma se il freddo eccessivo lo rende impossibile e diventa fattore di distrazione per i ragazzi, la cerimonia si sposta intorno al monumento Lepetit. Solo nella prima edizione è stato previsto, per altro dopo la visita a Mauthausen, un discorso istituzionale, giustificato dalla presenza del presidente della Fondazione venuto a condividere il varo della non facile impresa; negli anni successivi non è stato più previsto alcun intervento ufficiale di autorità o di altri adulti, ma è stato studiato nei dettagli il mezzo con cui, nel silenzio di Ebensee e di fronte a centinaia di giovani, far arrivare le parole lette da ragazzi e ragazze. La Fondazione ha optato per un megafono, strumento antico che, se non assicura l’ascolto garantito dagli auricolari usati durante le visite, obbliga all’attenzione e fa risuonare nel luogo le parole dei giovani.
Si sbaglierebbe però nel pensare che la voce degli adulti sia stata progressivamente espulsa dal viaggio; anzi, il nuovo progetto proprio mettendo al centro la storia assegna agli adulti un compito preciso: a fianco delle competenze degli esperti dei linguaggi della comunicazione (sono ancora coinvolti videomaker, fotografi, giornalisti e scrittori professionisti), si intende trasmettere un sapere che funziona come nota a piè di pagina indispensabile per entrare nei luoghi. Agli adulti non è richiesto nessun discorso valoriale, ma nemmeno meramente tecnico, quanto piuttosto un lavoro sul proprio sapere in grado di trasmettere ai giovani chiavi di accesso ai luoghi, diverse perché legate alla specifica preparazione degli adulti coinvolti e alla loro diversa sensibilità. Va notato allora il nuovo compito affidato agli storici coinvolti a cui è chiesto di alternarsi sui diversi pullman e garantire una continuità della riflessione storica durante il percorso. Tra visite ai luoghi, approfondimenti sul pullman e laboratori serali tutti i partecipanti alla fine dell’esperienza hanno incontrato almeno una volta tutti gli storici: un modo anche per trasmettere ai giovani la consapevolezza che la storia non è un discorso univoco e sempre uguale a se stesso, ha approcci diversi e si pone interrogativi che cambiano a seconda del punto di vista, delle passioni e degli interessi propri dello storico o della storica.
Infine, il viaggio è un momento di lavoro intenso per tutti: non solo studenti, studentesse e loro insegnanti sono coinvolti nella scoperta dei luoghi, ma anche in incontri serali che la Fondazione tiene a che siano organizzati in maniera laboratoriale perché la memoria non sia mai scambiata con l’ascolto passivo di lezioni elaborate da altri. Anche gli stessi membri della Fondazione, dalla direttrice al suo staff, sono al lavoro non solo per seguire concretamente i dettagli dell’organizzazione, ma anche perché durante il soggiorno nei luoghi sono previsti una serie di incontri con enti, istituti e istituzioni locali che rendono il viaggio un’occasione per intrecciare nuovi rapporti.
È così che l’esperienza del viaggio è diventata anno dopo anno occasione per esercitare pratiche di memoria attiva che la conoscenza storica tiene lontano dal rischio di ridursi a ripetizioni vuote di se stesse e che il rapporto con l’esperienza viva impedisce di far scadere in affermazioni retoriche su valori e doveri. La consapevolezza storica come radice di azione nel presente è una finalità del viaggio che si ribadisce non a parole, ma nei fatti. Se l’augurio è che ragazzi e ragazze imparino a scoprirlo nel fare degli adulti che li circondano, può capitare loro forse di pensarlo nel passaggio al castello di Hartheim: luogo dell’eliminazione delle vittime della politica eugenetica del nazismo, è oggi gestito da una comunità di disabili. È questo infatti forse il momento del viaggio dove più intensamente si coglie concretamente quanto la conoscenza del passato può diventare stimolo ad agire nel presente per costruire un’Europa che al concetto di purezza nazifascista preferisce la ricchezza che nasce dal dialogo con l’altro.
Bibliografia
- Bidussa D. 2015
Educare alla memoria in viaggio. Quale sfida per il futuro? in Bissaca E. e Maida B. (eds.) 2015, Noi non andiamo in massa, andiamo insieme. I treni della memoria nell’esperienza italiana 2000-2015, Milano: Mimesis - Saletti C. e Sessi F. 2011
Visitare Auschwitz. Guida all’ex campo di concentramento e al sito memoriale, Venezia: Marsilio - Gordon R.S.C. 2013
Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Torino: Bollati Boringhieri - Mantovani S. 2015
Il treno per Auschwitz della Fondazione Fossoli, in Bissaca E. e Maida B. (eds.) 2015, Noi non andiamo in massa, andiamo insieme. I treni della memoria nell’esperienza italiana 2000-2015, Milano: Mimesis - Maris G. 1980
in Mai più 1980, s.l: s.n. - Luppi M. 2016
presentazione del viaggio inviata alle scuole e pubblicata sul sito della Fondazione https://www.fondazionefossoli.org/it/progetti_view.php?id=31 - Pirazzoli E. 2010
A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del muro di Berlino, Reggio Emilia: Diabasis - Pisanty V. 2020
I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Milano: Bompiani
Risorse
- Fondazione Fossoli
https://www.fondazionefossoli.org/it/
Note
1. La luce del campo che entra dalle finestre dialoga coi colori usati da Pupino Samonà per le tele – il nero del fascismo, il rosso e il bianco della Resistenza, il giallo come richiamo al colore con cui i cittadini “ebrei” per legge furono discriminati –, mentre il suono stridente di Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz di Luigi Nono rimbomba sotto la passerella dove cammina il visitatore, accompagnato dalle parole di Primo Levi stampate nel dépliant offerto all’inizio della visita.
2. Dalle iniziali di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers. Belgiojoso e Banfi furono arrestati a Milano, tradotti a Fossoli, deportati a Mauthausen e poi Gusen. Solo Belgiojoso sopravvisse. Oltre al memoriale di Gusen lo studio BBPR realizzò, fra l’altro, il già citato memoriale italiano di Auschwitz e il Museo Monumento al deportato di Carpi.