1. Introduzione

Come è noto, la Terra è un pianeta d’acqua, l’unico del nostro sistema solare a possedere acqua allo stato liquido in superficie [1]. L’idrosfera terrestre contiene circa 1,4 miliardi di chilometri cubi d’acqua, di cui oltre il 97% è salata e si trova negli oceani. Il ciclo idrologico, alimentato dall’energia solare, movimenta ogni anno circa 500.000 km³ di acqua attraverso evaporazione, condensazione e precipitazione. Tuttavia, solo una minima parte di questo volume è effettivamente disponibile per l’uso umano. Il 69% dell’acqua dolce è, infatti, imprigionato nei ghiacci e nelle nevi permanenti, mentre quasi tutto il resto è custodito in falde profonde, spesso inaccessibili. Soltanto una frazione microscopica – circa un quarto dell’1% dell’acqua dolce mondiale – si trova nei laghi e nei fiumi, cioè dove è maggiormente accessibile per gli usi agricoli, civili e industriali. Una parte rilevante di quest’acqua è inoltre geograficamente concentrata: il solo lago Bajkal, in Siberia, contiene circa un quarto dell’acqua dolce superficiale mondiale. Minime quantità sono presenti anche nell’atmosfera, nel permafrost e negli organismi viventi. Il flusso globale annuale di acqua dolce rinnovabile è stimato in circa 14.000 km³, ma anche questa quantità è ridotta da perdite naturali come esondazioni o evaporazione non utilizzabile. La disponibilità pro capite media a livello mondiale si aggira intorno ai 2.000 m³ l’anno, ma in modo fortemente diseguale: l’America del Sud, per esempio, ha una disponibilità dieci volte superiore a quella dell’Asia e cinque volte superiore a quella dell’Africa. In numerosi Paesi africani e dell’Asia sud-occidentale si registra una scarsità d’acqua cronica [McNeill 2000, 150-152].

Nella storia del consumo idrico umano, alcune funzioni sono rimaste costanti, altre si sono modificate. Le antiche civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India e della Cina si svilupparono lungo grandi fiumi, sfruttandone le acque per l’irrigazione, il trasporto, la diluizione dei rifiuti e le pratiche religiose. L’acqua era al tempo stesso risorsa produttiva, via di comunicazione e simbolo di potere. Ma è solo con la modernità – e in particolare con il Novecento industriale – che si assiste a un salto di scala: l’acqua diventa ingrediente strutturale del sistema energetico, usata per alimentare centrali idroelettriche, raffreddare impianti, lavare infrastrutture, condurre reazioni chimiche o generare vapore [McNeill 2000, 150-152]. Nel corso del XX secolo, settori come la raffinazione del petrolio e la petrolchimica sono emersi come tra i maggiori consumatori di acqua dolce. Non solo in termini di quantità, ma anche per qualità richiesta: acque demineralizzate, stabili, continue, pulite, da trattare e riutilizzare in cicli sempre più sofisticati.

Tutto questo ci mostra che l’acqua non è soltanto una risorsa naturale invisibile, ma una vera e propria infrastruttura tecnica della civiltà industriale. La sua disponibilità, la sua qualità e il suo trattamento condizionano le scelte localizzative, la sostenibilità ambientale e perfino la competitività economica degli impianti. Comprendere la storia dell’industria moderna – e in particolare della grande industria chimica ed energetica – significa anche ripercorrere la storia dell’acqua: delle sue fonti, dei suoi usi, delle sue trasformazioni e dei conflitti che ne derivano. Ed è proprio in questa prospettiva che va letta la trasformazione del rapporto tra l’essere umano e l’acqua. L’acqua è una delle risorse più essenziali per la vita sulla Terra, tanto quanto l’atmosfera che respiriamo o i frutti dei campi che nutrono le nostre società. Da elemento naturale divenne componente strategica dell’apparato tecnico, oggetto di ingegnerizzazione, gestione, conflitto e pianificazione. Le società moderne, nel loro processo di sviluppo, hanno imparato non solo a usare l’acqua, ma a plasmarne i flussi, integrandola nel cuore stesso della macchina produttiva.

2. L’industria della raffinazione e la petrolchimica

Nel settore della raffinazione e della petrolchimica, l’acqua rappresenta una risorsa strategica, impiegata su larga scala in molteplici fasi del ciclo produttivo. È utilizzata per il raffreddamento degli impianti, l’alimentazione delle caldaie, la generazione di vapore, la pulizia delle apparecchiature e l’esecuzione di reazioni chimiche che richiedono condizioni controllate di temperatura e pressione. L’industria della raffinazione, in particolare, trasforma il greggio in carburanti, lubrificanti, bitumi e altri derivati mediante processi termici, catalitici (cioè reazioni accelerate da sostanze chiamate catalizzatori, che permettono di ottenere prodotti più rapidamente e con minore consumo di energia) e chimici, mentre la petrolchimica utilizza come materie prime sia i derivati leggeri della raffinazione (come etano, propano e nafta), sia il metano naturale, impiegato per la sintesi di ammoniaca e altri composti chimici di base.

Le raffinerie moderne adottano sistemi che, in base all’efficienza degli impianti, consumano mediamente tra 65 e 90 galloni d’acqua per ogni barile di greggio lavorato, equivalenti a circa 246-341 litri per barile. Tuttavia, i dati storici raccolti negli Stati Uniti mostrano una notevole variabilità nei consumi idrici. In particolare, un’indagine americana condotta su 104 raffinerie negli anni Sessanta ha rilevato un consumo medio pari a 470 galloni per barile (circa 1.780 litri), con una mediana di circa 95 galloni (360 litri) negli impianti dotati di sistemi di ricircolo. I valori massimi registrati raggiungevano anche i 3.250 galloni per barile (oltre 12.000 litri) negli impianti a ciclo aperto, privi di qualunque recupero delle acque [Otts 1966, 288-293]. Questi dati confermano che, tra gli anni Cinquanta e Settanta, i consumi idrici delle raffinerie erano decisamente più elevati rispetto agli standard attuali, proprio per l’assenza di tecnologie avanzate di trattamento e riutilizzo. L’acqua veniva generalmente impiegata in ciclo aperto, con un prelievo continuo da sorgenti naturali e uno scarico diretto a fine processo, senza sistemi di contenimento o riciclo.

Nel panorama produttivo italiano, l’intensità d’uso dell’acqua varia sensibilmente tra i diversi settori industriali. Un indicatore utile per confrontare la domanda idrica consiste nel calcolare quanti litri d’acqua vengono utilizzati per ogni euro di produzione venduta in un anno determinato. Poiché i dati si riferiscono tutti al medesimo anno, l’indicatore non risente degli effetti dell’inflazione: i valori monetari sono omogenei e consentono un confronto corretto tra i comparti. I dati del 2015 mostrano che il settore dell’estrazione di minerali è il più idro-esigente, con un consumo pari a 21,7 litri per euro. Subito dopo si colloca il comparto tessile, con 20,9 litri per euro prodotto, seguito da coke, prodotti petroliferi raffinati e prodotti chimici, che impiega in media 17,5 litri per euro. Quest’ultimo settore comprende sia le raffinerie sia le industrie chimiche e petrolchimiche, confermandone l’elevato fabbisogno idrico per le numerose fasi di processo: raffreddamento, lavaggio, reazioni chimiche, generazione di vapore e trattamento dei sottoprodotti. Anche comparti fortemente legati alla filiera della chimica, come la produzione di gomma e materie plastiche, si attestano su valori elevati, compresi fra dieci e 14 litri per euro, al pari della carta, della lavorazione di minerali non metalliferi e dei prodotti farmaceutici. Al contrario, settori manifatturieri come quello del mobile, delle automotive, della stampa e della manutenzione meccanica risultano decisamente meno idro-esigenti, con consumi inferiori a un litro per euro prodotto. Questi dati dimostrano come il settore chimico, nelle sue articolazioni, sia tra i più dipendenti dalla risorsa idrica, e giustificano la crescente attenzione verso pratiche di riduzione dei prelievi, riciclo interno e ottimizzazione dei processi idrici [Istat 2019, 67-70].

Nell’industria petrolchimica il consumo di acqua è molto elevato, ma varia a seconda dei diversi processi produttivi. Ad esempio, per produrre ammoniaca, una sostanza base per i fertilizzanti, si utilizza un tipo di reattore chiamato reformer, in cui il metano (principale componente del gas naturale) viene fatto reagire con vapore acqueo ad altissima temperatura per ottenere idrogeno, un passaggio indispensabile per la sintesi dell’ammoniaca. Questo processo richiede enormi quantità di acqua di raffreddamento per evitare il surriscaldamento degli impianti, e ulteriore acqua per lavare i gas prodotti, cioè per purificarli da impurità. Anche altri processi tipici della petrolchimica, come la sintesi di composti organici volatili (sostanze chimiche che evaporano facilmente e sono alla base di molti prodotti industriali) o la trasformazione della nafta (una frazione leggera del petrolio), prevedono reazioni esotermiche, ovvero che generano molto calore. In questi casi, è necessario una continua circolazione di acqua per raffreddare gli impianti e mantenere stabile la temperatura di esercizio. Oltre alla quantità, anche la qualità dell’acqua è un fattore fondamentale: quella impiegata nei processi produttivi dev’essere trattata prima dell’uso, per evitare problemi come la corrosione delle tubature, la formazione di depositi o la contaminazione dei prodotti. Spesso l’acqua deve essere demineralizzata, cioè, privata dei sali disciolti, oppure depurata da sostanze organiche o da metalli. I trattamenti dell’acqua avvengono in più fasi: si utilizzano coagulanti e flocculanti, sostanze chimiche che fanno aggregare le particelle inquinanti rendendole più facili da rimuovere; si impiegano filtri a sabbia e filtri a carbone attivo per trattenere impurità e sostanze organiche; si usano membrane per processi di osmosi inversa o ultrafiltrazione, che separano anche le particelle più piccole. Infine, l’acqua viene disinfettata per eliminare i microrganismi, attraverso trattamenti a base di cloro, ozono o raggi ultravioletti (Uv).

3. Quale acqua per l’industria?

Nel contesto industriale, e in particolare in ambiti ad alta intensità tecnologica come la chimica e la petrolchimica, l’acqua non è una risorsa indifferenziata: assume caratteristiche diverse a seconda della sua origine, composizione e grado di trattamento, e ogni tipologia corrisponde a usi specifici ben definiti. Parlare semplicemente di “acqua” sarebbe dunque una semplificazione fuorviante: gli impianti industriali operano con una classificazione rigorosa, sia per ragioni tecniche sia per ragioni economiche. L’acqua dolce, per cominciare, è quella che contiene bassi livelli di sali disciolti e che può derivare da sorgenti superficiali (fiumi o laghi) o da falde sotterranee. Viene utilizzata negli impianti soprattutto quando è richiesta una qualità elevata, ad esempio nella produzione di vapore per le turbine, nei processi di reazione sensibili alla contaminazione salina o nel caso in cui debba essere ulteriormente demineralizzata per impieghi specifici. È anche l’acqua destinata agli usi civili: consumo umano, igiene del personale, manutenzione degli ambienti. L’acqua grezza, invece, è prelevata direttamente da fonti naturali, ma non è sottoposta ad alcun trattamento preliminare. Può contenere materiali organici, fango, sedimenti, microrganismi, e spesso ha una salinità o torbidità elevata. Viene utilizzata solo in processi industriali dove non è richiesto uno standard qualitativo elevato, ad esempio per il lavaggio delle strutture, per irrigazione industriale o come acqua di raffreddamento in circuiti aperti, laddove la contaminazione non compromette il funzionamento degli impianti. Tuttavia, il suo impiego è subordinato alla disponibilità e ai rischi associati, come la corrosione o la formazione di incrostazioni. L’acqua industriale è una categoria intermedia: si tratta di acqua che ha subito un trattamento preliminare per essere compatibile con determinati processi produttivi, ma che non raggiunge i livelli di purezza richiesti, ad esempio, per l’acqua demineralizzata. Può derivare dal riutilizzo delle acque di scarico trattate, dal riciclo interno, o da acque grezze sottoposte a filtrazione, sedimentazione o disinfezione. È particolarmente impiegata per il raffreddamento in circuiti chiusi, per la pulizia di impianti, nei cicli ausiliari e talvolta per l’alimentazione di torri evaporative.

Infine, c’è l’acqua di mare, largamente disponibile nelle aree costiere e utilizzata soprattutto come fluido refrigerante. È impiegata in sistemi a ciclo aperto per assorbire il calore prodotto dagli impianti e disperderlo in ambiente. Tuttavia, la sua elevata salinità presenta problemi rilevanti: può provocare corrosione nei circuiti, incrostazioni saline, contaminazione incrociata con altri sistemi e danni agli scambiatori di calore. Per questo motivo, quando utilizzata, l’acqua di mare deve essere compatibile con materiali resistenti alla corrosione, o deve essere trattata (parzialmente dissalata o raffreddata) prima di entrare nel ciclo industriale. Inoltre, il rilascio di acqua calda e salmastra nel corpo idrico ricevente richiede un’attenta valutazione ambientale. Ogni tipologia di acqua presenta dunque vantaggi, limiti e costi differenti, e la loro selezione dipende da un equilibrio fra disponibilità locale, caratteristiche chimico-fisiche, esigenze del processo produttivo e impatto ambientale. Nell’industria petrolchimica – dove coesistono impianti ad alta temperatura, processi chimici sensibili, raffreddamenti intensivi e generazione di vapore – questa distinzione è fondamentale per garantire efficienza operativa, sicurezza e sostenibilità. L’acqua diventa così non solo una materia prima, ma un elemento ingegnerizzato, oggetto di una precisa gestione tecnico-economica, parte integrante dell’architettura produttiva dell’impianto [Eni Scuola 2022].

4. Il consumo dell’acqua nell’industria petrolchimica italiana

Un esempio emblematico di quanto fin qui argomentato è quello del polo petrolchimico di Porto Marghera, alle porte di Venezia, che nei primi anni Settanta raggiunse il suo massimo sviluppo storico e si configurò come uno dei più imponenti e articolati complessi industriali d’Europa. Nato nei decenni precedenti (Edison prima, Montedison poi), il polo si era progressivamente espanso fino a comprendere impianti per la chimica di base, per la trasformazione delle plastiche, la produzione di fertilizzanti, energia elettrica e numerose industrie connesse [Salani Favaro 2017]. Al centro di questo vasto sistema produttivo vi era l’acqua: risorsa essenziale, invisibile ma onnipresente, che sosteneva ogni fase della lavorazione, della sicurezza, della climatizzazione e del ciclo energetico.

In quegli anni, il consumo idrico annuale del polo assunse proporzioni straordinarie. Si attestava a 436 milioni di metri cubi di acqua industriale, impiegata prevalentemente per il raffreddamento degli impianti chimici e meccanici. Questa categoria di acqua, prelevata principalmente da canali locali o da bacini superficiali, non era destinata a usi civili né sottoposta a trattamenti approfonditi: veniva utilizzata in circuiti aperti o semi-chiusi, e talvolta anche restituita, dopo parziale trattamento, all’ambiente [Montedison 1975].

A questa si aggiungevano 233 milioni di metri cubi di acqua di mare, captata dalla laguna e dai canali marittimi adiacenti, utilizzata quasi esclusivamente come fluido refrigerante. L’impiego di acqua salmastra comportava però problematiche significative: la corrosione degli impianti, l’incrostazione delle tubazioni, la necessità di materiali resistenti come acciai speciali o rivestimenti anticorrosivi, e infine il rilascio di acque calde in ambiente, che sollevava crescenti preoccupazioni ambientali.

Un’altra componente fondamentale era rappresentata dagli otto milioni di metri cubi di acqua demineralizzata, una quantità più contenuta ma altamente strategica. Questa tipologia di acqua, sottoposta a trattamenti sofisticati per rimuovere sali e impurità (mediante scambio ionico, osmosi inversa o distillazione), veniva utilizzata nei processi più delicati: per la produzione di vapore in caldaie ad alta pressione, per reazioni chimiche sensibili o nei circuiti in cui la presenza anche di tracce di minerali poteva compromettere la qualità del prodotto o danneggiare le apparecchiature.

Infine, il polo consumava circa 540 mila metri cubi di acqua potabile all’anno. Questa era destinata esclusivamente a usi umani: mense aziendali, servizi igienici, uffici e abitazioni del personale tecnico. In rapporto al consumo totale, questa frazione appare minima – meno dello 0,1% – ma il suo approvvigionamento non era meno problematico, poiché dipendeva da un equilibrio già precario tra la domanda cittadina e quella industriale [Montedison 1975].

Fig. 1. Montecatini di Ferrara, impianto per la produzione di oleofine, 1962 ca [Montecatini, Moplen. Resina polipropilenica, Milano 1962, p. 5].
Fig. 1. Montecatini di Ferrara, impianto per la produzione di oleofine, 1962 ca [Montecatini, Moplen. Resina polipropilenica, Milano 1962, p. 5].

In totale, quindi, il petrolchimico di Porto Marghera assorbiva annualmente oltre 677 milioni di metri cubi d’acqua, una cifra enorme, equivalente a più di tre volte il consumo di acqua potabile annuo della città di Milano nel 2024 [Montedison 1975; MM 2024, 11]. Questo dato evidenzia chiaramente come la risorsa idrica, spesso trascurata nei racconti dello sviluppo industriale, fosse in realtà una colonna portante dell’intero sistema produttivo, da cui dipendevano la funzionalità tecnica degli impianti, la competitività economica e persino la sicurezza ambientale del territorio lagunare.

5. Acqua e industria nel secondo dopoguerra: il caso di Ferrara e Ravenna

Gli importanti stabilimenti del gruppo Montecatini, sorti tra il 1950 e il 1953 nella zona industriale di Ferrara, richiesero la realizzazione di un acquedotto industriale dedicato, capace di garantire una portata continua d’acqua pari, inizialmente, a 3 m³/s, prelevata direttamente dal Po, in sponda destra, presso Pontelagoscuro. Questi impianti si inserirono nel più ampio progetto di espansione della Montecatini nel secondo dopoguerra: la società, infatti, acquistò alla fine degli anni Quaranta l’ex stabilimento della Saigs (una società nata negli anni Trenta grazie alla Pirelli e all’Iri che produceva gomma sintetica) situato nelle immediate vicinanze del nuovo sito, ponendo così le basi per lo sviluppo del futuro complesso chimico ferrarese. Il polo industriale fu successivamente progettato e realizzato grazie anche ai finanziamenti del Piano Marshall e alla collaborazione tecnica con la Kellogg, con l’obiettivo di creare un moderno centro per il cracking termico e lo steam cracking delle frazioni petrolifere. Tra il 1951 e i primi anni Cinquanta vennero attivati due stabilimenti distinti: lo stabilimento Idrocarburi, dedicato alla produzione di derivati petrolchimici, e lo stabilimento per la produzione di fertilizzanti azotati, alimentato dal metano fornito dal gruppo Eni [2]. Negli anni successivi si aggiunsero ulteriori impianti, tra cui quelli destinati alla produzione di polietilene ad alta densità (Hdpe) ottenuto grazie alla licenza Ziegler e del polipropilene (Moplen) sviluppato da Giulio Natta, segnando una fase di forte innovazione tecnologica e di ampliamento delle linee produttive [Petri 1995; Salani Favaro 2020]. Il notevole fabbisogno idrico dell’intero complesso, necessario per il raffreddamento, il lavaggio, le reazioni chimiche, la generazione di vapore e il trattamento dei sottoprodotti, rese indispensabile la costruzione dell’acquedotto industriale, un’infrastruttura fondamentale per garantire continuità operativa e sostenere la crescita del polo chimico ferrarese. La distanza fra l’opera di presa e il centro dell’area industriale era di circa 3,5 km, e la prevalenza necessaria all’estremità dell’acquedotto, nel punto baricentrico di distribuzione, era di almeno 20 metri. Il progetto dell’impianto dovette affrontare diverse complessità ingegneristiche e vincoli ambientali. In primo luogo, le escursioni di livello del Po presso Pontelagoscuro potevano superare i 12 metri tra magra e piena, e imposero soluzioni capaci di funzionare in ogni condizione idraulica. Inoltre, le prescrizioni del Magistrato alle acque vietarono qualunque alterazione dell’argine maestro, che proteggeva l’intera provincia di Ferrara dalle piene. A monte dell’opera di presa, una vasta zona risultava già riservata al Comune di Ferrara per la captazione dell’acqua potabile cittadina, tramite una trentina di pozzi attivi già nel 1955.

La soluzione progettuale adottata si fondò su un complesso articolato in due stazioni di pompaggio, una serie di griglie filtranti rotanti, vasche dissabbiatrici, un sistema di decantazione, e un serbatoio sopraelevato di grande capacità. Il punto di presa venne localizzato all’interno di una darsena artificiale ricavata lungo l’ansa del canale Boicelli, che offrì una protezione naturale contro la forza della corrente e un facile accesso alle pompe anche in condizioni di piena. L’impianto risultò in grado di erogare fino a 3,5 m³/s, superando la portata inizialmente prevista, e garantì l’alimentazione continua agli stabilimenti a prescindere dalle variazioni del fiume. Il primo sollevamento dell’acqua avvenne mediante quattro gruppi pompe installati su una piattaforma sostenuta da diaframmi continui e pali trivellati lunghi 13 metri. Le pompe, del tipo assiale centrifugo, furono dotate di sistemi di autoadescamento e protette da griglie rotanti a tamburo con fori da 4 mm, progettate per trattenere i corpi solidi trasportati dal Po in regime di torbidità elevata. Le griglie si pulivano automaticamente quando il grado di ostruzione raggiungeva valori critici (15-20 cm), espellendo i detriti verso l’esterno [Galassini 1955, 497-502].

Le acque sollevate passarono poi in vasche dissabbiatrici, dispositivi idraulici progettati per rallentare drasticamente la velocità del flusso e favorire la decantazione delle particelle solide più pesanti, come sabbia e limo grossolano. In concreto, l’acqua scorreva orizzontalmente attraverso una vasca lunga 48 metri, larga 4 e alta 3,5, con fondo inclinato a 45° verso un canaletto di spurgo alla base. La bassa velocità del flusso (circa 25 cm/s) consentiva ai sedimenti di depositarsi sul fondo, dove venivano raccolti e smaltiti in continuo senza interrompere l’attività dell’impianto. Questo sistema, affiancato da più vasche parallele, consentì di trattare l’intero flusso d’acqua grezza richiesto dagli stabilimenti, evitando il ricorso a grandi bacini di decantazione o a trattamenti chimici più complessi. Il limo finissimo, invece, rimaneva in sospensione e veniva tollerato nel flusso idrico, salvo per la piccola aliquota destinata a impieghi particolari, che veniva ulteriormente filtrata presso gli stabilimenti. Il sistema di spurgo continuo garantì una manutenzione agevole e ridotti tempi di fermo. Il sistema proseguiva con una seconda stazione di pompaggio e un serbatoio cilindrico sopraelevato del diametro interno di 9,7 m e alto 30 m, collocato a una quota di 38 m, che fungeva da polmone idraulico e da stabilizzatore dei flussi. La tubazione di mandata, in acciaio e cemento armato, presentava diametri variabili da 700 a 1.265 mm e attraversava la campagna fino all’area industriale, dove si diramava verso i reparti chimici e produttivi. Tutta la struttura venne progettata con attenzione estrema al contesto ambientale e alle normative vigenti: nessun elemento dell’acquedotto intaccava l’argine maestro, e il tracciato della tubazione risultò attentamente studiato per evitare interferenze con i pozzi dell’acquedotto cittadino e con la stabilità idraulica del territorio [Galassini 1955, 502-404]. Nonostante l’entrata in funzione dell’acquedotto industriale, la Montecatini, nei primi anni Sessanta, non aveva ancora dismesso i pozzi preesistenti – 14 nei primissimi anni Cinquanta – ma ne aveva anzi aggiunti altri quattro, benché la portata dell’acquedotto industriale fosse nel frattempo aumentata dai 3,5 m³/s dell’inaugurazione a circa 4,6 m³/s [3].

A Ravenna, invece, l’iter fu più tortuoso. La decisione di localizzare uno stabilimento Anic nei pressi del porto prese forma nel 1952-1953, dopo un viaggio negli Stati Uniti del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, intenzionato a replicare un modello di produzione di gomma sintetica e fertilizzanti da metano. La città offriva vantaggi strategici: vicinanza ai giacimenti metaniferi, disponibilità di aree pianeggianti e un porto funzionale. Tuttavia, la disponibilità idrica si rivelò subito un nodo critico. Mattei chiese ufficialmente al Comune 2 m³/s d’acqua dolce – considerando anche l’apporto di acqua marina, la portata complessiva risultava pari a circa 4,7 m³/s, stando al preventivo del progetto [4] – 24 ore su 24, 365 giorni su 365. La risposta iniziale fu negativa, sia dal sindaco repubblicano Celso Cicognani, sia dal Consorzio di bonifica, che riteneva incompatibile tale prelievo con le esigenze agricole. Solo l’intervento di esponenti democristiani locali, come il parlamentare Benigno Zaccagnini e il presidente della Camera di commercio, Luciano Cavalcoli, riuscì a riaprire il dialogo [Cavalcoli 1962; Mesini 1963, 12-22; Cavalcoli 1976, 22-23].

Fig. 2. Anic di Ravenna, veduta parziale dello stabilimento in fase avanzata di costruzione. Sono visibili l’impianto di trattamento e depurazione dell’acqua, l’impianto di frazionamento dell’aria, la centrale termoelettrica e di produzione del vapore; sullo sfondo a destra l’impianto per il nitrato d’ammonio. Fine anni Cinquanta. [Anic, Benvenuti all’ANIC, s.d. ma 1959].
Fig. 2. Anic di Ravenna, veduta parziale dello stabilimento in fase avanzata di costruzione. Sono visibili l’impianto di trattamento e depurazione dell’acqua, l’impianto di frazionamento dell’aria, la centrale termoelettrica e di produzione del vapore; sullo sfondo a destra l’impianto per il nitrato d’ammonio. Fine anni Cinquanta. [Anic, Benvenuti all’ANIC, s.d. ma 1959].

Fu l’ingegnere Aldobrando Tiby, inviato dall’Anic, a effettuare le prime ispezioni tecniche, ricevendo inizialmente un rifiuto. Tuttavia, grazie a nuove interlocuzioni e all’intensificarsi dei rapporti con Roma, la Camera di commercio riuscì a ottenere una nuova valutazione. L’eventualità di uno spostamento dell’insediamento a Ferrara fu usata come leva negoziale. Dopo complesse trattative multilivello, che coinvolsero anche il Ministero dell’Agricoltura e l’Agip Mineraria, nel luglio 1954 fu raggiunto un accordo: il Consorzio ravennate si impegnò a fornire l’acqua richiesta, attraverso derivazioni dal Reno e un sistema di adduzione forzata con inversione di flusso su un tratto del canale. Fu previsto anche un bacino artificiale di accumulo. La delibera ufficiale arrivò il 27 agosto 1955 [Mesini 1963, 20].

Fu così che nacque il progetto idraulico per la costruzione di un sistema di approvvigionamento idrico destinato esclusivamente all’Anic, centrato sulla captazione delle acque del fiume Reno. In località Volta Scirocco venne progettata una traversa mobile, capace di regolare i flussi del fiume, creando un invaso in grado di stabilizzare le portate anche nei periodi di magra. A monte fu costruita una chiavica di presa – un’opera idraulica con paratoie per prelevare acqua da un fiume o canale – che consentiva la derivazione dell’acqua grezza verso una canaletta artificiale, lunga circa 15 km, progettata per portare l’acqua fino allo stabilimento attraverso un tracciato misto: in parte in pressione, in parte a cielo aperto. Il sistema fu pensato per affrontare le grandi escursioni stagionali della portata del Reno e per rispondere alla crescente pressione che il fabbisogno industriale avrebbe esercitato sull’ecosistema fluviale.

Tuttavia, ben presto si palesarono numerose difficoltà. Durante le piene, l’acqua trasportava grandi quantità di torbido e fango, complicando le operazioni di filtrazione e provocando la proliferazione di vegetazione acquatica nel canale, in particolare della specie Potamogeton lucens – una macro-alga – che in estate ostruiva il flusso e riduceva la portata disponibile. Nei mesi di siccità, invece, il problema era opposto: le portate del Reno calavano drasticamente, e l’acqua prelevata presentava elevati livelli di salinità e contaminazione organica, soprattutto a causa degli scarichi agricoli e industriali lungo il corso bolognese del fiume. Questi fenomeni riducevano l’efficacia del ciclo di produzione dell’acqua demineralizzata, aumentavano i costi di esercizio e imponevano un continuo monitoraggio dei parametri chimici e microbiologici, in particolare per quanto riguardava il contenuto di cloro e di solidi sospesi.

Per reagire a queste instabilità, fu adottata una strategia integrata e adattiva. Durante i mesi critici si provvide alla diluizione forzata dell’acqua del Reno mediante il pompaggio di acqua più pulita da altri bacini, in particolare attraverso derivazioni dal Po, grazie al Cavo napoleonico e al canale Emiliano-Romagnolo. Si ricorse anche al rallentamento o alla deviazione temporanea degli scarichi degli zuccherifici, le cui attività stagionali incidevano pesantemente sulla qualità dell’acqua [5]. Nel frattempo, furono potenziati gli impianti di trattamento: si introdusse la chiariflottazione – cioè prodotti chimici che separano le impurità facendole galleggiare – la filtrazione su sabbia e carbone attivo, e si sperimentarono nuove forme di clorazione controllata, per rendere potabile l’acqua o almeno compatibile con le esigenze degli impianti. In alcuni momenti particolarmente critici, la canaletta Anic fu utilizzata addirittura per fornire acqua potabile ai quartieri residenziali e alle maestranze dell’impianto, serviti da pozzi profondi fino a 100 metri e da impianti di potabilizzazione situati nella zona delle Bassette. Tuttavia, non mancarono controversie. Vi furono proteste, articoli di stampa e appelli di cittadini e tecnici che denunciavano il rischio di contaminazione, la torbidità dell’acqua, la sua eccessiva mineralizzazione o la presenza di sostanze nocive, come ammoniaca, ferro e cloruri. Alcune testimonianze riportano un senso diffuso di sfiducia verso la qualità dell’acqua che usciva dai rubinetti, tanto che si racconta di chi preferiva «bere schiuma» piuttosto che attingere dall’acquedotto [Taioli, Donà, Cortini 1997, 102].

Fig. 3. Anic di Ravenna, veduta parziale dello stabilimento dalla strada per Marina Romea, 1959. [Anic, Benvenuti all’ANIC, s.d. ma 1959].
Fig. 3. Anic di Ravenna, veduta parziale dello stabilimento dalla strada per Marina Romea, 1959. [Anic, Benvenuti all’ANIC, s.d. ma 1959].

Questi progetti ingegneristici non risolsero il problema della notevole richiesta di acqua per l’industria. Nel giro di pochi anni tutti e due i petrolchimici iniziarono a prelevare notevoli quantità di acqua dalle falde acquifere. L’acqua di falda offriva alcuni vantaggi tecnologici che l’acqua superficiale non era in grado di eguagliare. Il principale era la temperatura: l’acqua sotterranea, prelevata a grande profondità, manteneva una temperatura costante intorno ai 16-17 °C durante tutto l’anno, qualità preziosa per gli scambiatori di calore industriali, che operavano più efficientemente con temperature stabili. L’acqua dell’acquedotto, invece, presentava variazioni stagionali significative, da 7 a 27 °C, e ciò obbligò molte aziende a modificare o potenziare gli impianti. Tuttavia, la qualità chimica delle acque superficiali trattate risultava superiore sotto diversi aspetti: erano meno dure, contenevano meno ammoniaca e cloruri, e riducevano i rischi di corrosione delle tubazioni, in particolare nelle torri evaporative. Questo si tradusse in minori costi di manutenzione, maggiore durabilità degli impianti e una gestione più stabile nel lungo periodo [Giardini 1997, 180].

Fig. 3. Anic di Ravenna, veduta parziale dello stabilimento dalla strada per Marina Romea, 1959. [Anic, Benvenuti all’ANIC, s.d. ma 1959].
Fig. 3. Anic di Ravenna, veduta parziale dello stabilimento dalla strada per Marina Romea, 1959. [Anic, Benvenuti all’ANIC, s.d. ma 1959].

6. La subsidenza antropica a Ferrara e Ravenna

La subsidenza nella pianura emiliano-romagnola, in particolare lungo la fascia costiera e nelle aree industriali, è riconducibile a una combinazione di fattori naturali e attività umane. È soprattutto dalla seconda metà del Novecento, con l’espansione del settore industriale e l’intensificazione dei prelievi dal sottosuolo, che il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti, con impatti localizzati di rilievo. Tra il 1950 e il 1980 si sono registrati abbassamenti del suolo superiori ai 70 cm a Rimini e oltre 1 metro tra Cesenatico e il delta del Po, inclusa l’area ravennate. Nei 55 anni precedenti al 2007, la fascia costiera ha continuato a sprofondare, seppur con una progressiva attenuazione del fenomeno a partire dagli anni Novanta. Tra le principali cause vi è l’emungimento delle acque sotterranee a fini civili e industriali. L’entrata in funzione della diga di Ridracoli intorno al 1990 – che ha permesso di alimentare gli acquedotti di Ravenna e Cattolica con risorse superficiali – ha segnato un parziale rallentamento della subsidenza. Tuttavia, in aree come la fascia tra la Foce del Bevano e Lido Adriano, e in particolare a Lido di Dante, i tassi di abbassamento sono rimasti elevati, con valori che nel 2007 raggiungono ancora 1,9 cm/anno, indice della persistenza di pressioni locali, fra cui attività industriali e perforazioni. Un fattore specifico è rappresentato dalla coltivazione dei giacimenti di metano. Secondo il Piano Costa 1996 e successive conferme, l’estrazione di gas naturale può provocare abbassamenti annui compresi tra 6 e 8 mm nell’area corrispondente al giacimento, con effetti che si estendono in modo irregolare fino a 10 km di distanza. Su un periodo di trent’anni, la subsidenza cumulata può raggiungere i 24 cm.

A questi fattori antropici si aggiungono processi naturali, come la compattazione dei sedimenti nei terreni alluvionali e costieri, che in condizioni normali avviene lentamente, ma che possono accelerare sensibilmente in presenza di forti alterazioni idrogeologiche [Preti, Ruggeri 2007]. A Ravenna, le condizioni geologiche – caratterizzate da suoli torbosi e compressibili – sommate a un uso intensivo delle risorse idriche hanno prodotto effetti particolarmente marcati. L’insediamento del polo Anic richiedeva – come abbiamo visto – un fabbisogno costante di almeno 2 m³/s, soddisfatto attraverso prelievi misti da derivazioni superficiali (dal Reno e dai canali consortili) e, successivamente, da pozzi profondi. Questa pressione idrica ha compromesso l’equilibrio del sistema locale. Tra il 1953 e il 2005, l’area urbana ha subito un abbassamento del suolo di circa 93 cm, con velocità massime di 29,6 mm/anno nei periodi più critici. I valori più alti si concentrano lungo la fascia costiera sud-orientale, in particolare tra Lido Adriano e la foce dei Fiumi Uniti, dove si sono rilevate punte oltre i 15 mm/anno [Preti, Ruggeri 2007; Marcaccio, Zaccanti 2019]. Le conseguenze furono rilevanti: cedimenti negli edifici, inefficienza dei sistemi di drenaggio, intrusione salina nelle falde e nei canali, aggravata dalla perdita di pendenza verso il mare. Già negli anni Sessanta si dovette ricorrere a interventi strutturali d’urgenza, come l’innalzamento degli argini e la creazione di bacini artificiali per la regolazione idraulica.

A Ferrara, il fenomeno si manifestò con caratteristiche differenti, ma non meno gravi. L’acquedotto industriale realizzato dalla Montecatini nel 1953 per servire il polo chimico prelevava fino a 3 m³/s dal Po a Pontelagoscuro. Pur utilizzando acqua superficiale, l’impianto si affiancava a una rete già esistente di oltre trenta pozzi comunali a monte, a cui si aggiunsero nel tempo nuovi prelievi per usi industriali, agricoli e domestici [Minarelli 2022]. Questo sistema composito produsse un abbassamento piezometrico nella fascia settentrionale della città, rilevato già negli anni Sessanta. Secondo le stime più aggiornate, tra il 1955 e il 1990 Ferrara ha registrato una subsidenza media di 40-60 cm, con picchi localizzati in prossimità dell’area industriale e lungo i principali assi idrici [Bondesan 2023]. Il fenomeno, meno evidente a occhio nudo rispetto a Ravenna, interferì tuttavia con le opere di bonifica e richiese continui interventi di pompaggio, rialzi arginali e manutenzioni straordinarie. Le conseguenze furono numerose e gravi: cedimenti strutturali di edifici civili e industriali, inefficienza dei sistemi di scolo a gravità a causa del rallentamento del deflusso verso mare, intrusione salina nelle falde acquifere e nei canali di bonifica, e danneggiamenti agli impianti industriali e turistici lungo la costa. Il fenomeno minacciava non solo la stabilità fisica del territorio, ma anche il suo sviluppo economico e ambientale. A partire dalla prima metà degli anni Settanta, l’amministrazione comunale di Ravenna avviò un ambizioso programma di contenimento della subsidenza, con l’obiettivo di eliminare o ridurre l’uso delle falde profonde a favore del ricorso a fonti idriche superficiali. Fu in questo contesto che maturò la decisione di costruire un nuovo acquedotto industriale, realizzato tra il 1976 e il 1980, progettato per sostituire progressivamente il sistema di pozzi artesiani. Contestualmente, lo Stato intervenne con una normativa specifica: la legge n. 845 del 10 dicembre 1980, intitolata Protezione del territorio del Comune di Ravenna dal fenomeno della subsidenza, che riconosceva il problema come di preminente interesse nazionale. La legge stabiliva che l’estrazione e l’utilizzo delle acque sotterranee in un’ampia porzione del territorio ravennate (e anche in parte delle province di Bologna e Forlì-Cesena) fossero sottoposte a controllo pubblico, imponendo limitazioni progressive ai prelievi e incentivando l’uso di acque alternative.

La nuova rete di approvvigionamento idrico prevedeva il convogliamento dell’acqua dal fiume Reno e dal canale Candiano verso il polo industriale e gli altri principali utilizzatori. Il sistema fu completato con impianti di potabilizzazione e di spinta, in grado di servire anche le utenze civili. Grazie a queste opere, Ravenna poté avviare una politica idrica di diversificazione delle fonti e riduzione delle pressioni sulla falda, con effetti immediati sul rallentamento della subsidenza. A partire dagli anni Ottanta, i tassi di abbassamento del suolo iniziarono a diminuire in modo significativo, come confermato dai rilievi successivi condotti mediante livellazioni e, più tardi, con tecnologie satellitari. Sebbene i danni già provocati restassero in larga parte irreversibili, il caso ravennate è oggi considerato un esempio riuscito di intervento pubblico coordinato per la mitigazione di un processo geologico indotto da attività antropiche. [Giardini 1997, 179; Arpae 2023; Bondesan 2023].

7. Conclusioni

L’analisi dell’incorporazione delle risorse idriche nella petrolchimica italiana rivela come l’acqua sia divenuta una componente strutturale della modernità industriale, trasformandosi da semplice risorsa naturale in vera e propria infrastruttura produttiva. Nei poli di Ferrara e Ravenna, la disponibilità di grandi volumi d’acqua – inizialmente assicurata da derivazioni superficiali e poi da un intenso sfruttamento delle falde – ha sostenuto lo sviluppo del settore petrolchimico, ma al prezzo di profonde alterazioni ambientali. L’emungimento di falda e l’estrazione di metano hanno accelerato processi di subsidenza che hanno inciso sul paesaggio deltizio, sulle opere di bonifica e sulla sicurezza idraulica. Questi fenomeni confermano quanto l’industria incorpori le risorse naturali, condizionandone i meccanismi di riproduzione: ogni produzione industriale modifica gli ecosistemi, lasciando tracce durevoli, anche quando non immediatamente percepibili. I casi di Ferrara e Ravenna mostrano come la crescita industriale del secondo Novecento abbia innescato interazioni profonde e non reversibili tra sistemi produttivi e ambientali, rendendo evidente la necessità di politiche di mitigazione e di una gestione integrata delle risorse, che oggi costituisce la base di una riflessione storiografica più ampia sui rapporti tra industria, territorio e ambiente.

Bibliografia

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Note

1. Il presente contributo è una rielaborazione della relazione presentata al secondo convegno nazionale della Società italiana di storia ambientale – La storia ambientale italiana dall’età antica all’età contemporanea. Temi, fonti e metodi, Napoli, 26-28 settembre 2024 – dal titolo Per osmosi inversa. L ’incorporazione delle risorse idriche e l’industria petrolchimica italiana.

2. Archivio storico Eni, Snam, Attività operative, contratti industriali gas metano, b. 446, fascc. “fino al 1955” e 1955-1969.

3. Archivi storico Imi, serie mutui, pratica 4992 ERP, E. Papasogli, Relazione tecnica sulla società Montecatini. Stabilimento di Ferrara, settembre 1951, p. 7. Ivi, pratica 12293, E. Papasogli, Relazione tecnica sulla “Soc. Montecatini”. Sopraluoghi a Ferrara e Brindisi, dicembre 1962, p. 8.

4. Archivio storico Eni, Eni, Presidenza Enrico Mattei, b. 55, fasc. 708, Anic, Relazione n. 86. produzione di 30.000 t-a di CR-S di 350.000 t-a di nitrato ammonico, 1954, p. 17.

5. Archivio di Stato di Ravenna, Ufficio del medico provinciale, b. 19, fasc. Inquinamento acque pubbliche per scarichi industriali. Massime; ivi, b. 36, fasc. Inquinamento acque pubbliche per scarichi industriali, s.fasc. Disposizioni varie e massime, Amministrazione provinciale di Ravenna. Assessorato Agricoltura, Montagna Caccia e Pesca, Relazione sull’attività svolta per il controllo degli scarichi industriali nel periodo decorrente dal settembre 1966 al febbraio 1967, marzo 1967, p. 1.