1. Camicie nere nella guerra d’Etiopia

Il 2 ottobre 1935, Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia annunciò la guerra contro l’Etiopia: un conflitto preparato da mesi, esacerbato dai quarantennali propositi di vendetta seguiti alla disfatta di Adua, benedetto dalle mire ideologiche di un regime che individuava nella conquista di quel lembo di terra africano non una semplice impresa coloniale, ma un banco di prova per i propri progetti totalitari. Quella che si andava combattendo veniva infatti presentata come una vera e propria guerra nazionale, nella retorica e nei numeri: quasi mezzo milione di uomini attivamente coinvolti, mentre i suoi costi raggiunsero la faraonica cifra di 13 miliardi di lire [Labanca 2015, 15-42]. Era, soprattutto, una guerra del fascismo, che puntava da una parte a destabilizzare l’ordine mondiale tracciato a Versailles, dall’altra a celebrare e consolidare il consenso interno del regime [De Felice 1974; Rochat 1991; Labanca 2005, 47-48; Dominioni 2008, 5-6]. Sette mesi dopo l’aggressione, nel maggio del 1936, Mussolini poté annunciare l’ingresso delle truppe italiane ad Addis Abeba e la conquista dell’Etiopia, sebbene il territorio etiope, a quella data, fosse tutt’altro che pacificato, come dimostrarono le numerose operazioni di polizia coloniale, condotte incessantemente fino al 1940 dai reparti italiani, contro la resistenza locale [Pipitone 2008; Deplano, Pes 2024, 115-120].

L’alto valore politico e simbolico che il regime assegnò a questa guerra si tradusse non solo in termini propagandistici, ma anche nelle modalità di conduzione del conflitto. Un ruolo rilevante, in questo senso, ebbe il massiccio arruolamento di camicie nere provenienti dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn): d’altronde, cosa meglio della larga partecipazione di questi militi avrebbe potuto dimostrare che questa era innanzitutto una guerra del fascismo? Su 377.750 militari italiani impiegati in quei mesi in Africa orientale, 115.855 furono camicie nere (Ccnn), quasi un terzo del totale [1] [Gatti 2008, 188]. In teoria, per queste ultime, si trattava di una adesione volontaria, il che rendeva quei numeri ancora più significativi nella propaganda di regime in quanto rafforzavano quell’immagine di «guerra del popolo» avanzata a più riprese, in riferimento al conflitto etiopico, nei discorsi del Duce [2] [Mussolini 1936, 30]. Nella pratica, i volontari furono una minoranza, forse meno di un sesto: nella maggior parte dei casi, quando non proprio precettati, si trattava di uomini reclutati attraverso le subdole strategie di cooptazione tipiche della dittatura; per qualcuno invece era bastata la promessa di una paga e, chissà, la prospettiva di trasferirsi colà come colono a convincerlo della bontà della causa [Del Boca 1992, 336; Gatti 2008, 194-196]. Non mancava, ovviamente, una pletora di «duchi, gerarchi e corifei», volontari combattenti, espressione dell’apparato dirigente fascista e della borghesia nazionale, che in questa guerra intravedevano un mezzo di promozione sociale, uno strumento di legittimazione o, semplicemente, un’esaltante avventura in terra d’Africa [Del Boca 1992, 448-459]. Ad indossare la camicia nera sotto il sole etiopico, non a caso, troviamo i gerarchi di primo piano del Partito nazionale fascista (Pnf), ma anche uno stuolo di gregari e notabili locali, che di certo non volevano mancare all’appuntamento africano e alla possibile redistribuzione di incarichi e di benemerenze [Corner, Galimi 2014].

Che fossero partite perché precettate, ideologicamente convinte oppure spinte dall’opportunismo, le decine di migliaia di camicie nere arruolate per la conquista dell’Etiopia rappresentarono una potente arma di propaganda da parte del regime. L’enfasi posta dalla stampa e dai bollettini ufficiali sulle loro gesta e la scelta di assegnare ai battaglioni di Ccnn azioni altamente simboliche [3] ne furono un esempio [Bricchetto 2004, 141-144; Gatti 2008, 208-210]. Tutto ciò a scapito dell’esercito, che fu spesso privato di onori e riconoscimenti, messo in ombra per far brillare «l’aristocrazia guerriera del fascismo» – come la definì Mussolini – cosa che indispettì i militari e li rese generalmente ostili alle camicie nere, durante i sette mesi di guerra. La realtà, comunque, fu molto diversa. I reparti di Ccnn furono perlopiù impiegati come formazione operaia, destinati ai lavori di fatica necessari per la logistica. Nei combattimenti furono utilizzati frequentemente come massa di manovra, mai da soli, sempre affiancati a reparti dell’esercito. Una situazione che suscitò malcontento tra i militi, ravvisabile – sebbene in forme attutite – nelle fonti ufficiali e nella memorialistica [Labanca 2005, 112-114; Gatti 2008, 204-205]. Un’eccezione è rappresentata dalla battaglia di Passo Uarieu, combattuta tra il 21 e il 24 gennaio 1936, sostenuta interamente dalle camicie nere della Divisione 28 ottobre – assieme a reparti di ascari – e per questo ampiamente celebrata dal regime e dalla retorica fascista. Protagonista di questa battaglia fu la 180° legione Ccnn Alessandro Farnese, della quale questo saggio si propone di ricostruire la storia durante la guerra d’Etiopia [4]. Porre il focus su questa legione permetterà di analizzare il conflitto etiopico da una prospettiva privilegiata: quella di una piccola formazione di volontari, assurta nell’immaginario fascista come emblema dell’eroismo squadrista. Le vicende saranno narrate attingendo ai documenti militari, alla stampa, alla memorialistica e alle fonti private [5]. Il contributo farà inoltre ampio uso di immagini, provenienti da alcuni album fotografici recentemente acquisiti dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma [6].

2. Da Parma all’Etiopia, passando per Formia

La 180° legione Ccnn Farnese nasceva dalla fusione dell’80° legione Ccnn Farnese di Parma e della 74° legione Ccnn Taro di Fidenza, trasformate rispettivamente in 180° battaglione Ccnn Farnese e 174° battaglione Ccnn Taro. A completare questa nuova formazione – comandata dal console Alessandro Biscaccianti – si aggiungevano la 180° compagnia mitraglieri, composta da miliziani di Casalmaggiore (Cremona) e la 180° brigata someggiata che inquadrava invece camicie nere genovesi [Sicuri 2014, 282-283]. Si trattava dunque di un’unità dalla forte connotazione geografica, con prevalenza di uomini provenienti dal parmense: i reparti di camicie nere, infatti, a differenza dell’esercito, venivano costituiti attraverso un reclutamento territoriale. L’identità territoriale – a tratti campanilistica – rappresentava un fattore determinante sia nelle dinamiche interne della legione, che per gli scopi propagandistici. Nel primo caso, il vincolo comunitario avrebbe dovuto rinsaldare ancor di più lo spirito cameratesco dei militi; nel secondo, la partecipazione alla guerra di vere e proprie rappresentanze locali aveva maggiori ricadute in termini emotivi sulle comunità di riferimento. Questo secondo aspetto fu evidente nelle strategie comunicative operate dalla stampa locale, in relazione alla narrazione del conflitto. La guerra d’Etiopia – prendendo il caso del parmense – fu soprattutto raccontata attraverso le gesta della 180° legione Farnese, il che si sposava perfettamente con la volontà del regime di enfatizzare la dimensione fascista di questa impresa, esaltando la partecipazione delle camicie nere.

Figg. 1a-1b. Parma, 17 maggio 1935, partenza della 180° legione Ccnn per Formia [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].
Figg. 1a-1b. Parma, 17 maggio 1935, partenza della 180° legione Ccnn per Formia [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].

L’impiego di questi volontari nascondeva, però, diverse insidie. Il problema principale risiedeva nella loro preparazione. Alla Mvsn andarono le classi più anziane: l’esercito utilizzò soldati delle classi 1911-1914, mentre le camicie nere appartenevano per la maggior parte alle classi 1880-1910, con una fetta non trascurabile di ultraquarantenni [7] [Labanca 2005, 59-66; Gatti 2008, 196-197]. Le unità di Ccnn erano dunque anagraficamente eterogenee, affollate di militi sposati, lontani da anni dal mestiere delle armi. Vi era inoltre un certo numero di laureati, impiegati [8] e, in generale, uomini poco avvezzi al lavoro di fatica. Fu quindi necessario un rapido, e duro, addestramento.

Il 17 maggio 1935, circa 2.000 legionari assieparono il piazzale della stazione ferroviaria di Parma. Erano i militi della 180° legione Ccnn Farnese, in attesa di partire per il campo di addestramento di Formia, dove si sarebbero uniti alla 2° divisione Ccnn 28 ottobre, alla quale la legione era stata accorpata [9]. In stazione erano giunti al termine di un corteo che aveva attraversato le vie principali, lungo un percorso dal forte valore simbolico [10], accompagnati da una folla festante. Qui si erano radunati attorno al monumento dedicato a Vittorio Bottego, parmigiano, protagonista di una serie di esplorazioni in Etiopia, la cui memoria era stata in quei mesi esaltata dal fascismo proprio in funzione della guerra coloniale [Taddei, Vitale 2022; Bui, Taddei 2022]. Dinanzi alla figura bronzea del “pioniere del colonialismo” – uno degli appellativi rivolti all’esploratore parmigiano – intervennero le numerose autorità presenti, tra cui si segnalava anche il ministro dei Lavori Pubblici, Luigi Razza. Particolarmente vibranti furono le parole del vescovo di Parma, mons. Evasio Colli, che dopo la benedizione del labaro della legione, così si rivolse alle camicie nere:

Parma vi segue e vi accompagna verso la terra consacrata da un Principe Sabaudo, da Vittorio Bottego, dal sacrificio dei nostri missionari. Parma vi dice il suo saluto e il suo arrivederci e sia vicino il giorno in cui voi, con l’aiuto di Dio, ritornerete su questa piazza per cantare l’inno della gloria e della riconoscenza [11].

Tra i partenti, in prima fila, c’era tutto lo stato maggiore del fascismo parmense [12]. Al fianco di podestà, squadristi della prima ora e piccoli e grandi funzionari di partito, partirono personalità di rilievo, come Mario Camis, rettore dell’ateneo parmigiano, Bruno Trambusti, medico e presidente della sezione provinciale dell’Istituto fascista di cultura e Alberto Dalla Valle, presidente della Cassa di Risparmio. Lo stesso federale di Parma, Comingio Valdrè, fece domanda di arruolamento, giungendo in Africa solo verso la fine del marzo 1936, salutato da una cerimonia festosa [13], sebbene la partecipazione tardiva – ormai a guerra conclusa – gli attirò alcune critiche [Sicuri 2017, 286].

Pochi giorni dopo, i “Leoni” della Farnese – epiteto assegnato dal comandante della 180° legione ai propri legionari – giunsero a Formia e vi rimasero fino agli inizi di settembre. Di questi mesi abbiamo poche testimonianze e qualche fotografia. Dietro i resoconti entusiastici che raccontano il periodo di addestramento, si intravede l’ombra dei disagi che dovettero soffrire molte camicie nere in questa fase di preparazione. D’altronde, come aveva segnalato il generale Ettore Bastico, comandante della 1° divisione Ccnn 23 marzo: «tutto è da fare. Una buona percentuale di militi non ha fatto né il soldato né istruzioni di sorta. Molti non conoscono neppure il moschetto. […] I procedimenti tattici […] o sono rimasti al grado di conoscenza raggiunto alla fine della guerra o sono sconosciuti affatto» [14]. Una valutazione che poteva applicarsi a tutte le unità di camicie nere. L’indisciplina, inoltre, pare fosse uno dei problemi più gravi. Tracce di queste difficoltà si possono leggere tra le righe della memorialistica [Denti 1937, 12] ma anche in alcuni episodi appena accennati dalla stampa, come per il caso del primo caduto della legione, Renzo Del Monte, morto nel campo di addestramento a causa di una «disgrazia dovuta alla sua giovanile esuberanza» [15].

Fig. 2. Formia, estate 1935, militi della 180° legione Farnese (ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti).
Fig. 2. Formia, estate 1935, militi della 180° legione Farnese (ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti).

Due furono invece gli eventi più significativi vissuti dai legionari durante il soggiorno laziale. Il primo ebbe luogo il 18 agosto, nel campo di aviazione di Benevento, quando l’intera divisione 28 ottobre fu passata in rivista dal Duce [16]. Il secondo momento, particolarmente gradito dai militi, si legò alla visita della compagnia dialettale parmense La Risata dei fratelli Clerici, molto nota in provincia, che a Formia eseguì alcune recite all’aperto dinanzi ai propri concittadini legionari [Denti 1937, 15].
La sera del 7 settembre, la legione si imbarcò a Napoli sul piroscafo Liguria, per dirigersi in Africa, non prima però di aver arruolato, alcuni giorni prima, due giovanissimi balilla di 13 anni, i gemelli Antonio e Vincenzo La Grua, originari di Sessa Aurunca e fortemente intenzionati a prendere parte all’impresa coloniale [Denti 1937, 16]. Il loro reclutamento – di cui è lecito dubitare la verità storica – fu presentato come esempio della purezza della causa fascista, tale da esercitare fascino e consenso anche tra i bambini; nei fatti, era la riprova della scarsa selezione operata tra i volontari [17].

3. «Le bellezze orride delle ambe». L’impatto con la natura africana

Il 15 settembre, il piroscafo Liguria sbarcava a Massaua. Il lungo viaggio era stato intervallato da una sosta a Porto Said, dove i legionari erano stati accolti dagli inni patriottici cantati da Maria Uva, la famosa “sorella d’Italia”, che molti combattenti elessero a propria madrina, intrattenendo con essa fitte corrispondenze [18]. L’ultima parte del tragitto era stata particolarmente sofferta, a causa del sopraggiungere del «caldo africano [che] si faceva sempre più infernale» all’avvicinarsi del porto eritreo [Denti 1937, 30]. La divisione Ccnn 28 ottobre, che era stata assegnata alle dipendenze del 1° corpo d’armata, iniziò il 18 settembre una lunga marcia di circa 150 chilometri, che doveva condurre i militi nella zona tra Senafè e Barachit (a sud di Asmara), dove avrebbero sostato in attesa di partecipare all’offensiva contro l’Etiopia. Durante questa marcia, i legionari si imbatterono nel primo dei due nemici che avrebbe segnato la loro esperienza africana: la natura ostile. Il tema di una natura maligna, da domare, fu uno dei più ricorrenti nelle memorie e nei documenti della legione. Quasi che la conquista dello spazio coloniale, la sua “redenzione” e trasmutazione in terra italiana, passasse anche per uno scontro, e una vittoria, con un ambiente che si presentava misterioso e a volte inospitale e respingente. L’altro nemico era, ovviamente, l’“abissino”; ma di soldati etiopici per settimane non se ne ebbe traccia, o quasi. La natura altra di questo luogo, invece, aveva fin da subito, appena oltre l’imbocco del mar Rosso, presentato il proprio conto, esasperando i soldati con le temperature proibitive. In realtà, il rapporto tra soldato italiano e natura fu molto complesso. In taluni prevalse il fascino e la meraviglia verso lo spettacolo offerto dai panorami africani [Triulzi 1997; Labanca 2005, 229-234]; in altri, la delusione nei confronti di quell’immaginario esotico che la propaganda, la letteratura e il cinema avevano imposto agli occhi di tanti italiani [Mancosu 2022]; come registrò ironicamente Ennio Flaiano nel diario redatto durante la guerra d’Etiopia:

Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: «Porca miseria!». Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei films Paramount denominata Oriente […]. Invece, si trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva d’interesse. L’hanno preso in giro [Flaiano 2018, 289-290].

Nei resoconti pubblici e privati della 180° legione sono presenti tutti questi elementi, a volte intrecciati e sovrapposti – «le bellezze orride delle ambe» [Denti 1937, 51] – sebbene in maggior misura ritroviamo il topos della natura ostile. Assieme al caldo, l’altro disagio materiale fu quello della penuria di acqua: «s’imparò sin dal primo giorno un grande segreto pratico, che avrebbe potuto divenire decisivo […]: tesoreggiare l’acqua» [Denti 1937, 38]. Un problema che, qualche mese più tardi, sarebbe divenuto drammatico. Anche il racconto delle lunghe marce, praticate su terreni spesso inadatti al passaggio di un esercito moderno, primeggiò per quantità nelle corrispondenze e nelle fotografie: «iniziammo l’aspro cammino; gradini su gradini di roccia, cespugli spinosi, sassi, sassi, sassi. Sentiamo dietro di noi lo scalpitio dei pochi muli al seguito che non riescono a far presa sulla pietra viva» [19].

Fig. 3. Marcia di trasferimento Addi Zubbaha-Tigrai-Enda Mariam Quoram, dicembre 1935/gennaio 1936 [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].
Fig. 3. Marcia di trasferimento Addi Zubbaha-Tigrai-Enda Mariam Quoram, dicembre 1935/gennaio 1936 [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].

Il racconto degli impedimenti posti dalla natura africana celava molte volte riferimenti all’inadeguatezza dell’apparato logistico dell’esercito italiano che, nonostante la propaganda ufficiale ne esaltasse l’efficienza, mostrò a più riprese impreparazione e approssimazione [Labanca 2005, 146-147; Dominioni 2008, 38-42; Rochat 2008]. La mancanza di acqua, la carenza di rifornimenti e la scarsa conoscenza del territorio etiopico costrinsero i combattenti ad affidarsi all’arte di «arrangiarsi […] l’unico mezzo per mangiare, per bere, per dormire, per salvare la pellaccia dalle fiere e dagli uomini» [Barbèra 1937, 44]. In particolare, la deficienza di carte geografiche, imprecise e piene di errori [20], pesò grandemente sui movimenti delle truppe e, quindi, sulle già estenuanti lunghe marce.

L’incontro/scontro con la natura africana fu dunque uno dei fattori che definì i contorni di questa guerra coloniale; per i militi della 180° legione questo processo raggiunse la sua acme nel gennaio del 1936, alle porte della regione del Tembien:

Passo Abarò resterà uno dei più tremendi ricordi di guerra per i Legionari della “Farnese”. La fantasia di Dante nel figurarsi il suo inferno, si sarebbe sentita umiliata dinanzi a tanta orrida grandezza. Questa babelica catena montuosa, […] deve essere stata in tempi remotissimi centro di sconvolgimenti immani. […] Picchi a tronchi di piramide si avvicendano a picchi aguzzi come guglie gotiche; ambe spaziose, tappezzate sulla sommità di grigia vegetazione, dominano l’orrido paesaggio, disseminato di paurose spaccature il cui fondo è costituito da massi petrosi e di detriti vegetali: ampie distese di calcare ferrigno, tutto venato di screpolature, sembrano sterminate marmitte di bitume in ebollizione, sotto i raggi cocenti d’un sole equatoriale. Era l’ultima prova e i Legionari lo sapevano [Denti 1937, 85].

Uno scenario apocalittico [21] il cui attraversamento si configurava per i legionari come una fatica erculea, un rito di iniziazione, che nelle intenzioni avrebbe redento la terra e gli uomini che la calpestavano.

4. Dal Mareb a Passo Uarieu

All’alba del 3 ottobre 1935, senza che fosse stata fatta formale dichiarazione di guerra, le truppe italiane stanziate in Eritrea varcarono le acque del Mareb, avviando l’offensiva contro l’Etiopia. Si trattava di circa 110 mila uomini che in pochi giorni avanzarono di alcune decine di chilometri, attestandosi sulla linea Adua-Adigrat [Del Boca 1992, 395-410]. La 180° legione, inquadrata con la sua divisione nel 1° corpo d’armata, procedette nel settore destro dello schieramento, giungendo dopo soli due giorni – il 5 ottobre – a Adigrat mentre nelle ore successive alcuni reparti del 2° corpo d’armata facevano ingresso a Adua, issando la bandiera italiana sulla collina che dominava l’abitato, laddove 40 anni prima l’esercito italiano aveva subito una sconfitta storica. L’avanzata era stata intervallata da pochi scontri, le armate etiopiche infatti avevano ripiegato verso il Tembien, lasciando campo libero agli aggressori [22]. Questa prima fase della guerra, almeno fino al gennaio 1936, fu segnata per tutti i reparti di camicie nere da lavori manuali, piuttosto che da combattimenti [Gatti 2008, 201-203]. I “Leoni” della Farnese, occupata Adigrat, «si trasformarono in terrazzieri, scalpellini, muratori, manovali, brecciaiuoli perché occorrevano […] strade ben sistemate, per permettere di spingere l’occupazione sempre più a sud» [Denti 1937, 57]. A fine mese i legionari erano di nuovo in marcia, in direzione Macallè, dove giunsero alle prime ore dell’8 novembre: il 180° battaglione Ccnn ebbe l’incarico di rappresentare l’intera divisione nella parata di occupazione di una città pressoché deserta. Ancora una volta, da Addis Abeba si era deciso di ritirare le proprie forze e di lasciare il territorio al nemico; ai legionari restava invece «un senso di amara delusione» per aver dovuto rimandare nuovamente lo scontro con l’armata etiopica [Denti 1937, 67]. Le camicie nere dovettero quindi riporre il fucile e riprendere il piccone: alla divisione 28 ottobre era stata affidata la fortificazione del vasto tratto orientale della difesa, da Mai Dolò a Mai Danderà. L’epica del “cittadino-soldato” che ammantava l’impiego massiccio delle camicie nere nei lavori di fatica, a questo punto dovette iniziare a suscitare una certa insoddisfazione in quegli uomini che erano venuti in Africa per “menare le mani” e che, in due mesi di guerra, avevano visto ben pochi combattimenti. Nel frattempo, il 12 novembre 1935, Mussolini aveva sostituito, al comando delle operazioni del fronte nord, il quadrumviro Emilio De Bono con il generale Pietro Badoglio, confidando che quest’ultimo avrebbe condotto con maggior vigore l’offensiva italiana [Del Boca 1992, 431-447]. Speranza disattesa, in quanto si dovettero attendere ancora due mesi per vedere sferrata una decisa avanzata militare.

Fig. 4. Le direttrici della controffensiva etiopica [Del Boca 1992, 479].
Fig. 4. Le direttrici della controffensiva etiopica [Del Boca 1992, 479].

Il 2 dicembre, a Passo di Dogheà, la 180° legione ebbe i suoi primi caduti. In un bosco adiacente il villaggio di Debrj, quattro legionari furono trucidati da una cinquantina di guerriglieri etiopici, in quella che sembrò una vera e propria imboscata. Come rappresaglia, l’abitato di Debrj fu sottoposto a un serrato bombardamento da un gruppo di obici da 149/12. Il villaggio fu dato alle fiamme e gli abitanti sommariamente giustiziati [Denti 1937, 72]. Questo fatto di sangue sembrava presagire un cambio di rotta della guerra, che finalmente – per i legionari più impazienti – sembrava farsi guerreggiata. Si trattava delle prime avvisaglie della controffensiva etiopica, che si andava preparando proprio in quei giorni, lanciata il 14 dicembre con 60.000 uomini sotto il comando dei ras Mulughietà, Immirù, Cassa e Sejum, decisi ad invadere lo Scirè e il Tembien [Del Boca 1992, 472-487; Dominioni 2008, 21-22]. La strategia etiopica prevedeva una manovra a tenaglia, tesa a spezzare in due le forze italiane: le armate comandate dal ras Mulughietà avrebbero dovuto attaccare e isolare Macallè; gli uomini dei ras Sejum e Cassa dirigersi verso l’alto Tembien e occupare i valichi di Abarò e Passo Uarieu, tagliando così le retrovie italiane; in tal modo, ras Immirù avrebbe avuto mano libera per sfondare la linea Adua-Axum e dilagare in Eritrea. Era un piano ambizioso, che mise in grave difficoltà Badoglio, che invece si aspettava che il nemico concentrasse le sue forze per scagliare l’offensiva contro Macallè, dove le posizioni italiane erano ormai solide.

Al momento della controffensiva etiopica, a presidiare il Tembien vi erano solo quattro battaglioni di camicie nere comandate dal generale Filippo Diamanti (la cosiddetta “colonna Diamanti”); le armate dei ras Sejum e Cassa ebbero quindi gioco facile nel penetrare nella regione, appoggiate dalla popolazione locale insorta. A difesa di quella zona, Badoglio inviò la 2° divisione eritrea e la 2° divisione Ccnn 28 ottobre. Il 1° gennaio del 1936, i legionari della 180° legione, che in quel momento si trovavano dislocati nel piccolo villaggio desertico di Gherghember Abù, ebbero notizia del loro trasferimento [23]. I preparativi furono rapidi, l’eccitazione palpabile. Il 2 gennaio la legione – assieme all’intera divisione – si mise in movimento. Iniziava quella che le camicie nere battezzarono «marcia della sete» [Denti 1937, 79] attraverso una regione che, come abbiamo visto, verrà descritta nelle memorie con toni apocalittici. Leggiamo nel diario storico della legione:

Si deve discendere lungo una mulattiera scoscesa ed impervia […]. È indispensabile trattenere i muli nei punti più scabrosi. Il dislivello è fortissimo ed il caldo si fa più intenso con la perdita di quota e con l’inoltrarsi del giorno. Nell’ultimo tratto la mulattiera migliora ma l’arsura comincia a diventare insopportabile. L’improba fatica determina l’abbattimento di qualche milite, che viene immediatamente soccorso. Sono ormai 24 ore che pur continuando a marciare non si è potuto beneficiare del refrigerio di una goccia d’acqua. […] È uno dei momenti più critici della tormentosa giornata. […] Segni di esaurimento sono evidenti sul viso di ognuno [24].

Lungo la strada, in data 5 gennaio, si verificarono alcuni attacchi nemici, respinti dalle camicie nere che, dopo aver neutralizzato la guerriglia locale, incendiarono il villaggio da cui si credeva fosse partita l’azione nemica [25]. La sera del 6 gennaio la divisione 28 ottobre raggiunse la prima meta, Addi Zubbaha: gli uomini poterono sostare e riposare per un giorno, immersi in un «fetore nauseante», in un «luogo cosparso di escrementi umani e di carogne insepolte di quadrupedi» [26]. A questo punto, alle tre legioni che componevano la divisione furono assegnati compiti diversi. La 114° legione Garibaldina doveva rimanere a difesa di Addi Zubbaha; la 116° legione Alpina doveva unirsi alla 2° divisione eritrea nell’attacco alle truppe etiopiche stanziate nella piana del fiume Beles; la 180° legione Farnese doveva muovere verso Passo Uarieu con il compito di trattenere nella zona il maggior numero di avversari e di impedire loro di accorrere in aiuto alle armate impegnate nei pressi del Beles [Del Boca 1992, 522-523]. In questo modo, Badoglio aveva elaborato una manovra a tenaglia, con lo scopo di attaccare a sorpresa le armate dei ras Cassa e Sejum, isolandole da quelle del ras Mulughietà, che in quel momento stava puntando contro Macallè. Il piano però ebbe subito un imprevisto, nato da un errore di valutazione del comandante della divisione 28 ottobre, il generale Umberto Somma, che mise in grave pericolo il valico di Passo Uarieu e l’intero fronte italiano. Iniziava così la prima battaglia del Tembien, nonché il primo grande combattimento di questa guerra.

Fig. 5. Trasferimento Addi Zubbaha per Enda Mariam Quorar, dicembre 1935 (o febbraio 1936) [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].
Fig. 5. Trasferimento Addi Zubbaha per Enda Mariam Quorar, dicembre 1935 (o febbraio 1936) [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].

5. «Lo squadrismo acciaiato». La battaglia di Passo Uarieu

La 180° legione lasciò Addi Zubbaha il 12 gennaio [27], giungendo poche ore dopo a Passo Uarieu, dove erano già insediati il 12° battaglione eritreo e la colonna Diamanti, quest’ultima aggregata alla divisione 28 ottobre. Nei giorni seguenti, i soldati furono impegnati nella costruzione e nel rafforzamento delle fortificazioni a difesa del valico, circondati da un ambiente che la camicia nera parmense, Nino Denti, così descrisse: «tra i più aridi e inospitali. Cespugli spinosi vegetavano fra i sassi, mentre un vento insistente invadeva d’una polvere rossastra ogni cosa. Per i rifornimenti d’acqua si doveva scendere a Monte Pellegrino e le corvate dovevano essere sempre scortate da armati» [Denti 1937, 92]. Il 15 gennaio, si trasferì a Passo Uarieu lo Stato maggiore della divisione 28 ottobre, tra cui anche il comandante Umberto Somma [28]. Il 17 gennaio, la 180° legione fu divisa: i fidentini del 174° battaglione Ccnn Taro, assieme alla 180° compagnia mitraglieri, mossero verso monte Pellegrino, per unirsi alla colonna comandata dal colonnello Ugo Butta, destinati a supportare l’offensiva della 2° divisione eritrea nella piana del Belis [29]. Della legione, a difesa del valico, restavano i parmigiani del 180° battaglione Ccn Farnese e i genovesi della 180° batteria someggiata Ccnn.

Fig. 6. Battaglia di Passo Uarieu, gennaio 1936. Vista della Uork Amba dal fortino italiano. L’autore scrive nel retro: “La macchia di fumo bianco visibile nell’insenatura dell’amba a sinistra è un cannoncino abissino che spara sulla nostra posizione” [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].
Fig. 6. Battaglia di Passo Uarieu, gennaio 1936. Vista della Uork Amba dal fortino italiano. L’autore scrive nel retro: “La macchia di fumo bianco visibile nell’insenatura dell’amba a sinistra è un cannoncino abissino che spara sulla nostra posizione” [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].

Fig. 7. Battaglia di Passo Uarieu, gennaio 1936. Batteria eritrea in azione [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].
Fig. 7. Battaglia di Passo Uarieu, gennaio 1936. Batteria eritrea in azione [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].

All’interno della strategia dettata da Badoglio, Passo Uarieu doveva fungere da sbarramento alle truppe etiopiche contro le quali i reparti italiani dovevano limitarsi ad azioni di disturbo, coadiuvate dai serrati bombardamenti dell’aviazione. La mattina del 21 gennaio, la colonna Diamanti, composta da 48 ufficiali e 1.484 militi, partì dal ridotto di Passo Uarieu per tentare una di queste azioni dimostrative. Il comandante della divisione 28 ottobre, Umberto Somma, anziché limitare il compito ad una azione di disturbo, aveva contravvenuto alle disposizioni di Badoglio e aveva dato ordine alla colonna Diamanti di puntare verso Abbi Addi, dove erano stanziate le armate etiopiche agli ordini del ras Cassa. Era una manovra suicida: alle 14.00 la colonna si trovò assediata e bersagliata da forze dieci volte superiori [30] [Del Boca 1992, 524-525; Pedriali 2008, 16-17]. Dinanzi alla drammaticità della situazione, Somma dispose la ritirata, resa però difficile dalle truppe etiopiche che si misero all’inseguimento degli italiani. La colonna, incalzata da tre lati, si diede quindi ad una fuga disordinata, solo in parte coperta dall’artiglieria posizionata nelle retrovie. Ad evitare la carneficina fu fondamentale l’intervento degli ascari del 12° battaglione eritreo, usciti dalle fortificazioni di Passo Uarieu a difesa degli italiani in ripiegamento, azione che costò agli eritrei la vita di 4 ufficiali e 87 uomini di truppa [31] [Del Boca 1992, 525]. La colonna Diamanti ne uscì comunque devastata: furono uccisi 19 ufficiali e 245 camicie nere (quasi il 9% delle perdite italiane in tutta la guerra); del migliaio di uomini rientrati al ridotto, oltre 300 furono i feriti. In mano etiopica, inoltre, erano finiti importanti armamenti, lasciati per strada durante la fuga. Ma il peggio doveva ancora venire. Gli etiopici si erano infiltrati nelle fortificazioni, avevano occupato importanti presidi, spingendosi addirittura sulle strade di Adua e Hausièn. L’errore della colonna Diamanti rischiava di trasformarsi in una catastrofe: se lo sbarramento di Passo Uarieu avesse ceduto, il nemico avrebbe potuto isolare i reparti italiani stanziati a Macallè, tagliando loro l’unica via di comunicazione con l’Eritrea e stringendo d’assedio Badoglio e i suoi uomini [32].

Circa 20 mila etiopici circondarono, nel corso della giornata del 21 gennaio, le fortificazioni di Passo Uarieu, posizionandosi soprattutto sulle alte vette della Uork Amba, dello Scimarbò, dell’Amba Chernalè e delle Zebandàs, lasciate con troppa leggerezza sguarnite dagli italiani. Da qui, l’artiglieria etiopica poteva sottoporre il campo italiano a fuoco continuo.

Dall’altra parte, a difesa del valico erano rimasti circa 3-4 mila uomini, compresi i feriti. La sproporzione di forze era evidente. Soprattutto, scarseggiavano viveri e munizioni. La riserva d’acqua accumulata era a malapena di 1.200 litri, mentre le sorgenti più vicine distavano sei chilometri ed erano ormai sotto il controllo etiopico. S’impose dunque un durissimo razionamento: il primo giorno, il 22 gennaio, fu assegnato un litro a testa, il secondo e il terzo giorno, un quinto di litro a testa [33]. Ancora una volta, la sete divenne l’incubo dei legionari. L’alba del 22 gennaio si aprì con «un fuoco micidiale violento» [34], proseguito per tutta la giornata. Nei fortini di Passo Uarieu si resisteva, in condizioni sempre più difficili: i piccoli contingenti inviati in missione a prelevare l’acqua fallirono e almeno 28 uomini caddero nel tentativo [Pedriali 2008, 19]. «Il nemico – scrive Denti – stringeva sempre con maggiore pressione il cerchio micidiale. Si rendeva necessario organizzare continue sortite dal Fortino, per rintuzzare qualche nucleo avversario, che tentava di portarsi sotto le nostre posizioni, minacciando seriamente il presidio» [Denti 1937, 100]. Nel frattempo, Badoglio aveva inviato in difesa di Passo Uarieu il generale Achille Vaccarisi con la 2° divisione eritrea e alcuni battaglioni della 1° divisione eritrea [35]. Questa mossa non ebbe però i risultati sperati, in quanto le truppe comandate da Vaccarisi si mossero lentamente, raggiungendo la meta solo nella serata del 23 gennaio, quando l’assedio era ormai terminato [Del Boca 1992, 528]. Per 48 ore, tra il 22 e il 23 gennaio, il ras Cassa ordinò continui assalti contro le fortificazioni del valico ai quali le camicie nere e gli ascari risposero come poterono:

Si scavano camminamenti per evitare lo stillicidio mortale delle CC.NN. che hanno necessità di muoversi nel campo. La sete arde ogni fibra, viene distribuita una scarsa razione di acqua. Provvedimento indispensabile poiché da 48 ore siamo sotto il tormento dell’arsura [dovuta al] febbrile intenso lavoro difensivo. La stessa demolizione delle tende voluta dalla necessità di cose comporta la soppressione di ogni benché minimo tratto di ombra [36].

Fig. 8a. Militi della 180° legione al termine della battaglia di Passo Uarieu; fig. 8b. Sorgente nei pressi di Passo Uarieu [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].
Fig. 8a. Militi della 180° legione al termine della battaglia di Passo Uarieu; fig. 8b. Sorgente nei pressi di Passo Uarieu [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].

Fu però solo l’intervento dell’aviazione italiana ad evitare la caduta di Passo Uarieu, sebbene gli uomini a difesa delle fortificazioni ebbero il merito di guadagnare il tempo necessario all’arrivo dei rinforzi, sbarrando il passaggio agli etiopici. Nel pomeriggio del 23 le armate nemiche, dopo una serie di assalti falliti, cominciarono ad abbandonare le posizioni, sotto una pioggia di bombe. Il colpo finale per le truppe di ras Cassa fu assestato dall’impiego massiccio di gas iprite da parte degli aerei italiani, come lo stesso ras ha ricordato:

Il bombardamento era al colmo quando, all’improvviso, si videro alcuni uomini lasciar cadere le loro armi, portare urlando le loro mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a testa. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata. Tutto ciò che le bombe avevano lasciato in piedi, i gas abbatterono. In questa sola giornata un numero che non oso dire dei miei uomini perì. Duemila bestie si abbatterono nelle praterie contaminate. I muli, le vacche, i montoni, le bestie selvatiche fuggirono nelle forre e si gettarono all’impazzata nei precipizi. Gli aerei tornarono anche nei giorni successivi. E cosparsero di iprite ogni regione dove scoprivano qualche movimento [37].

In totale, a fine giornata del 23 gennaio, sugli etiopici erano stati lanciati 8.370 spezzoni da 2 kg, 2.877 kg di bombe dirompenti e 30 bombe C 500 T contenenti iprite [Pedriali 2008, 20]. Le ultime ore di assedio erano sembrate interminabili, per gli uomini posti a difesa delle fortificazioni. «La sete, la fame, il caldo e la polvere avevano sfigurato gli uomini, che sembravano fantasmi d’un mondo sconosciuto, tutti d’un colore grigio, terroso, come le Ambe del Tembien» [Denti 1937, 102]. Nel diario storico della 180° legione si legge: «il console Biscaccianti con le ultime borracce di acqua esistenti nel forte gira per il campo ed egli stesso versa nella gola di coloro il cui aspetto è di stremata resistenza per un sorso d’acqua rianimatore» [38]. Il 24 gennaio segnò la fine della battaglia, col sopraggiungere dei rinforzi e dei rifornimenti, mentre le ultime truppe etiopiche abbandonavano la zona. Sul terreno restavano da una parte 1.082 italiani e 417 eritrei caduti (un quarto circa delle vittime totali italiane), dall’altra circa 8.000 morti etiopici.

La battaglia di Passo Uarieu – o meglio, l’assedio – durata dal pomeriggio del 21 gennaio al mattino del 24 gennaio, divenne da quel momento l’episodio più celebrato di tutta la campagna d’Etiopia. Fu l’unico combattimento sostenuto interamente da camicie nere – assieme agli ascari –, la cui importanza per le sorti del conflitto apparve decisiva. La retorica di regime evitò accuratamente di specificare che la battaglia era stata l’esito di una serie di madornali errori commessi dai comandanti: la missione suicida della colonna Diamanti, le scarse risorse di acqua predisposte nei fortini, la mancata messa in sicurezza dell’area, i cui punti strategici – le alte vette della ambe – furono facilmente occupate dal nemico [Del Boca 1992, 529]. Non vi furono neanche riferimenti all’importanza assunta dall’uso delle armi chimiche nel piegare la resistenza etiopica. Passo Uarieu diventava quindi un manifesto del nuovo squadrismo, una parola d’ordine. A tal proposito, scrisse il corrispondente Mario Apellius:

Passo Uarieu! Lo squadrismo acciaiato, fatto muraglia. Muraglia di carne, più dura del bronzo, più sonante dell’acciaio. Di qua non si passa! Cannoni, mitragliatrici, fucili, pugnali, polsi, toraci, facce, occhi, cuori, un blocco unico contro il quale tutti i Ras e i Degiac dell’Etiopia si rompono le corna. Si combatte dall’alba al tramonto senza requie, senza sosta, senza un attimo di riposo. Il passo è una porta di bronzo. Chiusa. Sbarrata. Ogni molecola della porta è un Legionario. […] I soldati di Vittorio Veneto possono presentare le armi ai Militi della Rivoluzione! Passo Uarieu è degno delle più belle tradizioni del Carso [Appelius 1937, 206-207].

6. «L’avanzata dei cavalieri della civiltà». Gli ultimi combattimenti e la fine della guerra

Dopo la battaglia di Passo Uarieu, i reparti della 180° legione Farnese – assieme all’intera divisione 28 ottobre – si riunirono ad Addi Zubbaha. Qui restarono alcune settimane, impiegati in lavori di fortificazione e di sistemazione del campo: sul diario storico della legione si annotava: «uomini costantemente affaccendati a livellare, pulire, ramazzare» [39]. Negli stessi giorni, a pochi chilometri di distanza, si combatteva e si vinceva la battaglia dell’Endertà (o dell’Amba Aradam), altro decisivo tassello per la conquista italiana dell’Etiopia [Del Boca 1992, 546-564]. Le camicie nere della divisione 28 ottobre furono nuovamente mobilitate il 19 febbraio per la seconda battaglia del Tembien, che aveva come obbiettivo quello di occupare la regione e di neutralizzare la presenza dei circa 30 mila uomini agli ordini dei ras Cassa e Sejum, arroccati nella zona di Abbi Addi, già provati dagli esiti della battaglia di Passo Uarieu. Il piano elaborato da Badoglio prevedeva la solita manovra a tenaglia, atta ad accerchiare il nemico su più lati.

Fig. 9. La seconda battaglia del Tembien [Del Boca 1992, 567].
Fig. 9. La seconda battaglia del Tembien [Del Boca 1992, 567].

Fig.10. Villaggio in fiamme, marzo 1936 [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].
Fig.10. Villaggio in fiamme, marzo 1936 [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].

La divisione 28 ottobre, aggregata per questa battaglia al Corpo d’armata eritreo, venne ripartita dal comandante Somma in due colonne d’attacco: la colonna Ricciotti composta da reparti della 114° legione e della 116° legione; la colonna Buttà nella quale figuravano reparti della 180° legione. Nello specifico, per la legione Farnese, venivano mobilitati i fidentini del 174° battaglione Taro e la 180° compagnia mitraglieri, mentre il 180° battaglione Farnese veniva dislocato nelle retrovie, a difesa di Passo Uarieu, in quel fortino ribattezzato “dei Leoni” in onore della resistenza opposta dalle camicie nere all’assedio nemico un mese prima [40]. Le due colonne, che contavano anche reparti di alpini e di eritrei, dovevano muovere verso la Uork Amba, la cosiddetta “Montagna d’oro” – presidiata dagli etiopici – che con i suoi due torrioni dominava la piana del Belès e sbarrava l’accesso ad Abbi Addi. L’attaccò fu sferrato alle prime ore del 27 febbraio, da parte di un piccolo contingente di camicie nere ed alpini, comandato da Tito Polo, che in poche ore occupò una delle due cime dell’Amba. Le due colonne entrarono in scena poche ore dopo, alle 6 del mattino.

La battaglia ferve accanita. Anche le artiglierie sono tutte in azione e sostengono le colonne operanti. Sono CC.NN. e Alpini […]. Forse lo stesso avversario intuisce che abbandonando quella posizione formidabile, baluardo di difesa naturale, significherebbe disfatta completa per sé e conseguentemente indiscussa possibilità per noi di raggiungere in breve tutti gli obbiettivi. Perciò resiste ad oltranza con disperata audacia tentando anche contrattacchi. La mischia è terribile [41].

La Uork Amba fu conquistata prima della fine della giornata: nelle stesse ore il 3° corpo d’armata giungeva alle spalle di Abbi Addi, mettendo in fuga le armate etiopiche e gli stessi ras Cassa e Sejum. Nei giorni successivi i reparti italiani diedero luogo ad «una gigantesca battuta di caccia» [Del Boca 1992, 570], inseguendo il nemico, operando azioni di rastrellamento e sottoponendo la zona alla pesante azione dell’aviazione, condotta anche con l’uso degli aggressivi chimici. A conclusione della battaglia gli etiopici contarono circa 8 mila tra morti e feriti, mentre dall’altra parte cadevano 34 ufficiali, 359 nazionali e 188 eritrei [Del Boca 1992, 577].

Fig. 11. Particolare retro foto fig. 5 [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].
Fig. 11. Particolare retro foto fig. 5 [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti].

Il 29 febbraio i “Leoni” della 180° legione, assieme agli altri reparti vittoriosi, iniziarono la marcia verso Abbi Addi. Durante il tragitto, che nel diario storico della legione veniva descritto come «l’avanzata dei cavalieri della civiltà» [42], le camicie nere incontrano poca resistenza: attorno a loro il territorio mostrava i segni del terribile passaggio della guerra, laddove la «civiltà» era stata imposta dalle truppe e dagli aerei italiani a suon di bombe e di stragi. Risale probabilmente a questi giorni il ricordo di un legionario della 180° legione Farnese, Remo Stocchetti [43], raccontato nel dopoguerra al figlio, Mario.

Man mano che andavano avanti si sono trovati colline intere di popolazione gasificata. Mio padre mi raccontava che c’era un odore nauseabondo, con persone tutte coricate a malo modo. Si vedeva che avevano sofferto, con del liquido verdastro che colava dalla loro bocca e colava lungo questa collina. È stato un impatto molto cruento che gli è rimasto per sempre [44].

Figg. 12a-12b. Abbi Addi, marzo 1936. Sottomissione del degiac dell’Ambarà [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].
Figg. 12a-12b. Abbi Addi, marzo 1936. Sottomissione del degiac dell’Ambarà [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].

Riferimenti all’uso delle armi chimiche emergono anche in un’altra testimonianza di Remo Stocchetti: nel retro di una sua fotografia che immortalava il trasferimento della legione da Addi Zubbaha a Enda Mariam Quorar, Stocchetti ha annotato: «in questa località fu usato il gas yprite che fu considerata una vergognosa macchia in questa guerra» [45].

Sono tracce labili dei crimini di guerra italiani, sedimentatisi nella memoria privata dei soldati e a lungo occultati: appare indicativa l’esigenza di Stocchetti di denunciare l’uso del gas iprite – arma bandita nel 1925 dalle convenzioni di Ginevra [46] – nel retro di una foto che, in apparenza, parlava di altro, ovvero delle difficoltà logistiche connesse ai movimenti delle truppe in Etiopia.

Abbi Addi rappresentò, per la 180° legione Ccnn Farnese, la meta finale della guerra combattuta. Qui le camicie nere parmensi sostarono alcuni mesi, in attesa della conclusione del conflitto, impegnate in operazioni di ordine pubblico e nei soliti lavori di costruzione, intervallati ogni tanto dall’arrivo di nuclei armati etiopici, presentatisi agli italiani per arrendersi e fare atto di sottomissione.

La tendopoli della “Farnese” assunse un aspetto più confortevole. Dinanzi al Comando venne sistemata una piazza per le adunate dei Legionari. Fu pure eretta una chiesetta, che ebbe il suo piccolo campanile e tutto intorno vennero tracciate aiuole ben coltivate a fiori e ortaggi. Non mancò una nota di gaia spensieratezza in mezzo a tanto fervore di opere. La 180° legione concorse con altri reparti alla formazione di un corpo filodrammatico, il carro di Tespi del Tembien, che seppe svolgere interessanti programmi […] trascorrendo ore di sana allegria [Denti 1937, 168].

Dietro il quadretto idilliaco narrato da Nino Denti in realtà si celavano i primi segni di stanchezza per una vita che «si riduce[va] ormai ai quotidiani servizi, alla continuazione dei lavori di sistemazione dei muretti e ad una scrupolosa pulizia generale» [47]. All’accampamento di Abbi Addi giunsero le notizie delle ultime battaglie e dell’ingresso, il 5 maggio 1936, delle truppe italiane a Addis Abeba. Il 24 giugno, la legione lasciava il Tembien per l’Eritrea, in attesa del rimpatrio, avvenuto il 16 agosto, sempre sul piroscafo Liguria, quasi un anno dopo l’arrivo in Africa.

Fig. 13. Valle del Ghevà, marzo 1936. Giovanni Amighetti, milite della 180° legione [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].
Fig. 13. Valle del Ghevà, marzo 1936. Giovanni Amighetti, milite della 180° legione [ISRECPR, ARPRCOL, fondo Amighetti].

 

 

 

Il cinegiornale del 9 settembre 1936 “I cittadini di Parma salutano il ritorno della 180° legione Camicie nere reduce dall’Africa”.

7. Conclusione

Il 28 agosto 1936 le camicie nere della 180° legione furono accolte a Parma da una manifestazione imponente, proseguita – per il 174° battaglione Taro – a Fidenza [48].

Fig. 14a-14.b. Bardi (Parma), Targa in ricordo di Giovanni Caramella, milite della 180° legione, posizionata sotto una lapide in memoria di tre caduti di Adua.
Fig. 14a-14.b. Bardi (Parma), Targa in ricordo di Giovanni Caramella, milite della 180° legione, posizionata sotto una lapide in memoria di tre caduti di Adua.

La guerra coloniale era costata la vita a 38 legionari, mentre 59 erano i feriti. La costruzione del mito della legione – e della guerra d’Etiopia – era cominciata ancor prima del suo ritorno [Sicuri 2014, 318-321]. Il 27 giugno 1936, ad esempio, in città si era tenuta al teatro Regio una rievocazione della battaglia di Passo Uarieu alla presenza di un testimone: la camicia nera Giovanni Corradi, professore universitario e presidente della sezione parmense dell’Istituto coloniale [49]. Nel giro di pochi mesi furono scritte canzoni, pubblicati memorie, poesie e opuscoli commemorativi. Tra le iniziative più rilevanti si segnalò quella organizzata nel gennaio 1937, nel primo anniversario della battaglia di Passo Uarieu, quando presso la Casa dello studente si tenne una commemorazione con la partecipazione del comandante della divisione 28 ottobre, il generale Umberto Somma, il comandante della 180° legione, il console generale Biscaccianti e il poeta Tommaso Marinetti, che per l’occasione recitò alcuni versi del Poema Africano [50] [Marinetti 1937]. Targhe e lapidi furono posizionati in provincia in memoria dei legionari caduti (in qualche caso ancora oggi esistenti) [51]: erano i «martiri dell’impero», attorno al cui ricordo e alla cui commemorazione il fascismo avrebbe costruito articolate strategie propagandistiche e di consenso, attingendo ad una lunga tradizione martirologica, che iscriveva i caduti d’Africa all’elenco dei martiri che, dal Risorgimento alla presa dell’Etiopia, avevano sacrificato la vita per la grandezza dell’Italia (fascista) [Falcucci 2022; Ertola 2024].

Dopo la guerra d’Etiopia la 180° legione Ccnn Farnese fu sciolta, ma molti reduci partirono volontari per la guerra civile spagnola. Passo Uarieu – e i “Leoni” della Farnese – divennero parte integrante della memoria fascista, assurgendo a pietra miliare della storia squadrista. Ancora nel luglio del 1944, in un contesto ormai completamente mutato, sull’organo stampa dei volontari della Guardia nazionale repubblicana, si evidenziava l’eredità delle «glorie non dimenticate e non dimenticabili del passo Uarieu e di Bilbao e di Golico e del Don» [52]. Auspici destinati a non avverarsi: la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo trascinarono nell’oblio gli eventi del gennaio 1936, superati e obliterati dal nuovo corso dell’Italia repubblicana, che del ricordo di quella guerra coloniale – vittorie e sconfitte, crimini ed aspirazioni – non sapeva più che farsene.

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    Alessandro Triulzi, L’Africa come icona. Rappresentazioni dell’alterità nell’immaginario coloniale italiano, in Adua. Le ragioni di una sconfitta, a cura di Angelo Del Boca, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 255-281.

Note

1. Alcune fonti riportano il dato, meno attendibile, di 168.001 camicie nere. Per l’Africa orientale, la Mvsn mobilitò sette divisioni, 67 battaglioni di fucilieri, sei mitraglieri, dieci di complementi, una di militi forestali, 19 compagnie mitraglieri e 19 di accompagnamento [Gatti 2008, 190; Longo 2005, 87].

2. Come aveva infatti rilevato Mussolini in una lettera inviata nel marzo del 1935 al comandante delle operazioni militari in Etiopia, Emilio De Bono: «queste divisioni di camicie nere saranno la documentazione che l’impresa trova il consenso popolare» [Del Boca 1992, 265].

3. Come ad esempio, quando gli alti comandi lasciarono alle camicie nere il compito di issare la bandiera italiana sulla sommità della Amba Aradam, nonostante gli alpini fossero stati i primi ad arrivarvi e a combattervi [Gatti 2008, 209].

4. Si tratta dei primi risultati di una ricerca ancora in corso. In questa sede verranno ricostruite e analizzate sommariamente le vicende della legione, con particolare attenzione alla battaglia di Passo Uarieu.

5. Ringrazio Rocco Melegari per l’aiuto nel reperimento di importante documentazione d’archivio.

6. Questi album fanno parte dell’archivio Parma e il colonialismo italiano, conservato presso Isrec Parma [ISRECPR, ARPRCOL]. Per maggiori informazioni: https://colonialismoparma.it/.

7. Su un campione di 40.621 camicie nere mobilitate, la metà apparteneva alle classi 1906-1910, un quarto alle classi 1900-1905, mentre il 6% erano gli ultraquarantenni. I dati provengono da Gatti 2008, 196-197.

8. Per la provincia di Parma, un esempio è dato dal lungo elenco di volontari che avevano temporaneamente lasciato lauti impieghi d’ufficio, per arruolarsi nella 180° legione Farnese. Si veda: Lo spirito volontaristico delle Camicie Nere, in «Corriere emiliano», 23 giugno 1935.

9. La 2° divisione Ccnn 28 ottobre, comandata dal generale Umberto Somma, era composta dalla 114° legione Ccnn Garibaldina, dalla 116° legione Ccnn Alpina e della 180° legione Ccnn Alessandro Farnese. Completavano la divisione due battaglioni complementi Ccnn, un battaglione mitraglieri, un gruppo cannoni 65/17 del 30° reggimento artiglieria divisione Brescia, una compagnia speciale genio, una sezione di carabinieri, una sezione sanità, una sussistenza, un autoreparto misto e un reparto salmerie.

10. Il corteo fece tappa al monumento a Filippo Corridoni, a quello dedicato ai caduti fascisti e alla colonna-monumento che celebrava la vittoria della Grande guerra. Parma interventista e diciannovista offre alla Patria due battaglioni e il Labaro della 80° Legione, in «Corriere Emiliano», 18 maggio 1935.

11. Ibidem,

12. Come aveva comunicato il segretario federale, Comingio Valdrè, al segretario nazionale del Pnf, Achille Starace: «Direttorio federale, Ispettori di zona, Direttorio Fascio di Parma, Fiduciari dei Gruppi Rionali, Segretari fasci maggiori Provincia […] mi hanno consegnato loro domande arruolamento per l’Africa Orientale». Cfr. Telegramma inviato da Comingio Valdrè ad Achille Starace, riportato in: Arruolamenti per l’Africa Orientale, in «Corriere emiliano», 30 agosto 1935.

13. Un vibrante affettuoso saluto delle Camicie Nere e del popolo parmense al Federale partente volontario per l’Africa Orientale, in «Corriere emiliano», 17 marzo 1936.

14. La relazione è riportata in Gatti 2008, 199-200.

15. A passo di marcia colla 180° legione, in «Corriere emiliano», 29 giugno 1935. Nello stesso articolo, scritto dal legionario fidentino Nino Denti, si faceva inoltre riferimento a voci denigratorie circa la vita e il trattamento nel campo di Formia.

16. La fierissima consegna del Campo ai Legionari della “28 Ottobre”, in «Corriere emiliano», 22 agosto 1935. Si veda anche: Denti 1937, 16-17.

17. Non è chiaro se i due gemelli partirono effettivamente per l’Africa, le fonti parlano solo di arruolamento, previo consenso dei genitori. L’episodio è raccontato da diversi autori. Ne scrive anche Felice Bellotti, che però riporta il cognome La Gura: Bellotti 1937, 17. Si tratta di un racconto che attinge ad un immaginario molto diffuso all’epoca, forgiato e alimentato dalla propaganda fascista: quello del “bambino soldato”. A tal proposito, si rimanda a Gibelli 2005.

18. Si tratta della più nota delle circa 30 madrine che prestarono opera di propaganda e assistenza ai soldati a Porto Said, Ismailia e Suez. Su Maria Uva si veda: Del Boca 1992, 336-338.

19. Col 175 Battaglione CC. NN. Sulla Debra Amba e a Monte Latò, in «Corriere emiliano», 10 maggio 1936.

20. Un fatto noto a tutti, riportato anche nelle memorie di Emilio De Bono: «una deficienza molto sentita da tutti i Comandanti […] era quella delle carte geografiche. […] L’Ufficiale coloniale pratico non sente il bisogno della carta. Egli ha il sole di giorno, le stelle di notte, le impronte degli animali e lo stesso fiuto delle bestie» [De Bono 1937, 112].

21. Dello stesso tono sono le descrizioni del Tembien di Paolo Caccia Dominioni: «il suo andamento orografico è così follemente caotico e imprevedibile da far pensare che il suo creatore, anziché nostro Signore nella sua infinità bontà e sapienza, sia stato un demonio nella sua più tremenda sbornia» [Caccia Dominioni 1966, 315].

22. Felice Bellotti, milite della divisione 28 ottobre, aveva così descritto l’ingresso ad Adigrat: «il meraviglioso spettacolo strappa grida di ammirazione ai legionari che soltanto l’assenza del nemico in fuga amareggia profondamente». [Bellotti 1937, 73].

23. Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito (AUSSME), fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Allegato n. 1, 1° gennaio 1936.

24. Ivi, Relazione, 6 gennaio 1936.

25. Ivi, Relazione, 5 gennaio 1936. Si veda anche Denti 1937, 83-84.

26. AUSSME, fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Relazione, 7 gennaio 1936.

27. Con la 180° legione partiva un altro reparto della divisione 28 ottobre: il 2° gruppo cannoni 65/17 del 30° reggimento artiglieria divisionale Brescia.

28. AUSSME, fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Relazione, 15 gennaio 1936.

29. Ivi, Allegato n. 7, 16 gennaio 1936.

30. Diamanti e Somma, nel dopoguerra, si accusarono a vicenda circa le responsabilità di questo errore. I documenti dimostrano però che l’ordine fu impartito dal generale Umberto Somma [Pedriali 2008, 17].

31. Tra i caduti, particolare eco ebbe la morte di padre Reginaldo Giuliani, cappellano della divisione 28 ottobre che divenne una icona per i clerico-fascisti [Franzinelli 2008, 261-262].

32. Il giornalista Paolo Monelli, corrispondente al fronte, così descrive Badoglio in quelle ore difficili: «[Badoglio] rimase tutta la notte nella tenda del comando accanto al telefono. Seduto su uno sgabello, il cappotto indosso, la mantellina sulle ginocchia come una coperta. Ascoltava muto le rare comunicazioni, il viso impietrito […] Ogni tanto dettava un ordine. Tutta la notte non si mosse, non disse una parola che non fossero quei brevi ordini, quelle domande al telefono» [Del Boca 1992, 531-532].

33. AUSSME, fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Relazione, 22-23-24 gennaio 1936.

34. Ivi, Relazione, 22 gennaio 1936.

35. L’ordine giunse anche alla colonna Butta e, quindi, ai reparti al 174° battaglione Ccnn Taro e alla 180° compagnia mitraglieri, distaccatisi alcuni giorni prima dalla 180° legione per partecipare all’offensiva nella piana del Beles. Questi reparti, dopo un primo, difficile, successo ottenuto con l’occupazione dell’Amba Cassà, avevano dovuto ripiegare verso Passo Abarò per giungere in soccorso agli uomini assediati a Passo Uarieu [Del Boca 1992, 524-526].

36. AUSSME, fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Relazione, 23 gennaio 1936.

37. La testimonianza è riportata in Del Boca 1992, 532.

38. AUSSME, fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Relazione, 24 gennaio 1936. Anche Nino Denti riporta l’episodio, caricandolo di pathos letterario: «Il Console Generale Biscaccianti s’aggirava fra i Legionari con una borraccia d’acqua, ultimo residuo della riserva destinata ai feriti distribuendo con le sue mani un sorso a tutti quelli che maggiormente risentivano le conseguenze della sete» [Denti 1937, 107].

39. Ivi, Relazione, 8 febbraio 1936.

40. Ivi, Relazione, 26 febbraio 1936.

41. Ivi, Relazione, 27 febbraio 1936.

42. Ivi, Relazione, 28 febbraio 1936.

43. Remo Stocchetti, nato a Busseto, partito volontario con la 180° legione Farnese, finita la guerra tornò in Etiopia come colono. Qui ebbe un figlio, Mario, da una donna etiope. Di Remo Stocchetti conserviamo un prezioso fondo fotografico, costituito da 26 fotografie, consultabile qui: https://colonialismoparma.it/fondi/fondo-stocchetti/.

44. Testimonianza di Mario Stocchetti, raccolta dall’autore in data 25 ottobre 2017.

45. Non è chiara la datazione dell’annotazione. È possibile che il commento fosse stato inserito molti anni dopo la guerra. Un indizio potrebbe essere rappresentato da quel “fu considerata” che fa riferimento ad una trattazione ormai pubblica del tema delle armi chimiche, più che ad una personale presa di coscienza (interessante l’uso del soggetto impersonale). Il che induce a supporre che Stocchetti abbia trascritto questa considerazione solo negli anni più recenti. ISRECPR, ARPRCOL, fondo Stocchetti, foto n. 009. Nel retro della foto è riportato “dicembre 1935” ma probabilmente lo scatto risale al febbraio 1936, durante la marcia della legione verso la zona di Abbi Addi.

46. Sull’uso italiano delle armi chimiche in Etiopia si veda Del Boca 2007.

47. AUSSME, fondo D-6, vol. 617, Diario storico della 180° legione Ccnn “Alessandro Farnese”, Relazione, 21 marzo 1936.

48. Glorie africane dei Legionari della XXVII Ottobre, in «Corriere emiliano», 28 agosto 1936; Il delirante abbraccio di Parma ai gloriosi Legionari di Passo Uarieu, ivi, 29 agosto 1936; L’entusiastico, vibrante e commosso saluto di Fidenza ai reduci del 174 Batt., ivi.

49. I legionari parmensi al Passo Uarieu nella rievocazione del centurione Corradi al Regio, ivi, 28 giugno 1936. La rievocazione sarà poi adattata in pubblicazione [Corradi 1936].

50. La celebrazione del primo anniversario di passo Uarieu, in «Corriere emiliano», 26 gennaio 1937.

51. Sopravvive ancora oggi, a Bardi (Parma), una targa in memoria di Giovanni Caramella, camicia nera della 180° legione, morto il 27 febbraio 1936 durante la seconda battaglia del Tembien, sulla Uork Amba. La targa è stata inserita in una lapide precedentemente posizionata, in memoria di tre caduti della battaglia di Adua (Pietro Cella, Francesco Rabbajotti e Lazzaro Resteghini), a tracciare una continuità tra l’impresa coloniale di fine Ottocento e quella fascista. Si veda: https://colonialismoparma.it/luoghi/lapide-in-memoria-ai-caduti-di-adua-bardi/.

52. Senza tremare, in «Camicia nera. Foglio dei volontari della Guardia», 24 luglio 1944.